Traduzione Early Buddhism di T W RHYS DAVIDS
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Traduzione Early Buddhism di T W RHYS DAVIDS
Buddismo delle origini CAPITOLO 1 Il Clan dei Sakiya - Il fondatore del Buddismo nacque all’incirca nel 560 a.C. a Kapilavastu, la città principale del territorio del clan dei Sakiya, situata circa 100 miglia a nord di Benares. A quel tempo i coloni ariani1, lungo le basse pendici della catena dell'Himalaya, e giù per la valle del Gange, avevano raggiunto un’evoluzione politica e sociale molto simile a quella raggiunta, più o meno contemporaneamente, in Grecia. Il paese era politicamente suddiviso in piccole comunità, governate da istituzioni repubblicane, alcune di carattere più aristocratico, altre più democratico. Quattro o cinque di questi tiranni repubblicani erano riusciti a far valere il loro potere sui conterranei e una tendenza inarrestabile stava conducendo tutte le piccole repubbliche verso l’assorbimento nei più grandi regni vicini. Anche il clan dei Sakiya si ritrovò sotto la sovranità del vicino regno di Kosala. Kosala - I confini esatti di Kosala, a quel tempo, non sono noti, ma devono avere incluso quasi tutte le attuali Province Unite2, insieme ad una vasta parte del Nepal. La capitale del Kosala, Savatthi, si trovava in montagna, in quello che è oggi il Nepal. Anche Benares, precedentemente stato indipendente, fu incorporata sotto il nascente potere di questo importante regno, che deve aver misurato 300 miglia di lunghezza, da nord a sud, e più o meno lo stesso in ampiezza, da ovest a est, quasi il doppio della grandezza dell’Inghilterra. La supremazia di questo bellicoso clan di uomini di montagna, e la pace conservata attraverso tutta la vasta estensione del loro dominio, furono i principali fattori politici del tempo. La questione della lotta, allora già in corso, tra Kosala e Magadha, suo vicino a sud-est, stava per decidere il destino del grande continente indiano per i secoli a venire. Linguaggio di Kosala - Due punti sono particolarmente degni di nota, a questo proposito. In primo luogo, il linguaggio di Kosala, dovuto all'influenza della corte, dell'esercito, e degli ufficiali, di stanza in tutto il suo territorio, tendeva a soppiantare i dialetti locali. Questi stanno nella stessa relazione, con la lingua vedica, che l’italiano ha con il latino e saranno stati diversi tra loro più o meno quanto i diversi dialetti delle diverse regioni d’ Inghilterra. Erano senza dubbio intelligibili da entrambi. Ma la particolare varietà di linguaggio in uso nella corte e nel circolo degli ufficiali divenne sempre di più di uso quotidiano tra persone di cultura, o di ricchezza o di buona nascita, di tutto il Kosala, una sorta di lingua franca, 1 Appartenenti all'antico popolo stanziato in India. N.d.A. Le Province unite di Agra e Oudh più comunemente Province Unite, furono una provincia dell'India britannica, che è esistita dal 1856 al 1947. Corrisponde approssimativamente agli attuali stati dell'Uttar Pradesh e dell'Uttarakhand. N.d.A. 2 1 l'Hindustani del VI secolo a. C. Il Buddha, come nativo di Kosala, parlava il linguaggio di Kosala. Possiamo dedurre la prova della condizione che il linguaggio aveva allora raggiunto nella sua forma ufficiale dagli editti di Asoka e altre antiche iscrizioni, e, nella sua forma letteraria dal Pali, che è il Canone, dei libri sacri3. I Brahmini - In secondo luogo, il clan dominante di Kosala era sistemato ad est e a nord della parte dell'India più soggetta all’influenza dei bramini. I bramini non avevano ancora, nei distretti dove nacque il buddismo, acquisito quella suprema autorità, nelle questioni sociali e religiose, che hanno attualmente nell’India moderna e che essi, secondo Manu e l’epica, hanno acquisita quando quei libri furono composti. Il clan degli Kshatriya, senza dubbio, stimava molto i bramini, ma essi stimavano se stessi ancora di più. Menzionavano se stessi per primi e designavano i bramini come “di bassa nascita” rispetto agli Kshatriya. La posizione non era proprio la stessa, ma può essere meglio compresa da un confronto con lo stato delle cose in Europa durante un lungo periodo della sua storia, e anche ora. Il clero riconosciuto era, ed è, molto rispettato. Ma nella stima sociale esso si classifica non sopra, ma sotto i nobili. In materia di astrologia, interpretazione dei sogni e dei presagi, il compimento di alcune cerimonie beneauguranti, la conoscenza del rituale, la gente ricorreva ai bramini. In materia di etica, religione e filosofia preferivano piuttosto far ricorso agli Erranti. Gli erranti - Questi erano maestri nomadi, celibi ma non necessariamente asceti, che ricordano, per molti aspetti, i Sofisti greci. Come loro, differivano molto in intelligenza, serietà e onestà. Alcuni sono descritti come “cavillosi”. E questo non senza ragione, come si può giudicare correttamente da alcuni esempi delle loro discussioni, riportate dai loro avversari. Ma ce ne devono essere stati alcuni di un carattere assai diverso perché, altrimenti, difficilmente sarebbe stata mantenuta l’alta reputazione di cui godevano presso tutte le classi di persone. Non tenevano alcun incontro formale e non facevano discorsi, ma erano soliti chiamare a raccolta le persone colte nei luoghi che visitavano e accoglievano con favore, nei luoghi dove alloggiavano, chiunque fosse desideroso di parlare di argomenti elevati. Così grande era il numero di queste persone che le comunità cittadine, i clan e i rajas gareggiavano gli uni con gli altri per fornire gli Erranti di padiglioni, sale riunioni e luoghi di riposo dove tali conversazioni potessero avere luogo. Alcuni di questi Erranti erano donne, alcuni erano bramini per nascita (non, ovviamente, per professione), ma la maggior parte erano membri dei clan4. Per i tre mesi della stagione delle piogge, essi rimanevano nello stesso luogo. Il resto dell’ anno vagavano per i paesi, vivendo di elemosine, tenendo i loro incontri ovunque 3 Questa questione del linguaggio è ampiamente discussa dallo scrittore presente in Buddhist India e in Pali und Sanskrit del professor Otto Franke. 4 Il clan era la struttura portante della società indiana. N.d.A. 2 andassero. E proprio come gli Studenti Camminanti dei tempi della pre – Riforma, in tutta l'Europa centrale, furono un segno del cambiamento a venire, così le condizioni che resero possibile, per gli Erranti, nell’India del nord, il loro stile di vita, furono i segni di un generale movimento nel pensiero religioso e filosofico, la prefigurazione di quella grande insurrezione che noi oggi chiamiamo buddismo. Gli eremiti - Meno numerosi rispetto agli Erranti ma pur sempre un segno importante dei tempi, erano gli eremiti. Molto più antico, il costume di adottare questo stile di vita ha radici profonde nella natura umana. È già menzionato nell’ultimo dei poemi vedici e ha mantenuto il suo potere da quel momento ad oggi. In uno dei primi documenti buddisti abbiamo una descrizione completa del livello che la vita eremitica aveva raggiunto ai tempi di Buddha, come esposto da un asceta nudo in uno dei Dialoghi5. Dimorando per la maggior parte nelle foreste, ma anche nelle grotte sulle montagne, gli Eremiti si dedicavano alla rinuncia e all’ automortificazione, vivendo di radici e frutti. Il “professore di auto-tortura” di cui sopra elenca ventidue metodi di mortificare il corpo attraverso il cibo, tredici attraverso gli abiti, e cinque rispetto alla postura. Come è noto, tali idee non sono confinate all’ India. Tennyson6, nel suo monologo di S. Simeone Stilita7, ci ha dato una potente analisi dei sentimenti che stanno alla radice di simili pratiche tra i cristiani. Ma il modo indiano di trattare l'intera concezione è più simile al modo in cui Diogene pensava quando visse, come un animale, nella sua botte. Non vi è alcuna questione di penitenza per il peccato o di un appello alla misericordia di una qualche divinità offesa. E' il vanto della superiorità avanzata da un uomo in grado, con la forza di volontà, di dominare il suo corpo, e non solo di disprezzare ogni conforto, ma di accogliere il dolore. Sia in Occidente che in Oriente tali crediti erano spesso volentieri ammessi. Sentiamo in India della venerazione tributata all'uomo che (per citare le parole di un poeta buddista) Accaldato, congelato, solo in boschi paurosi Nudo, senza fuoco, fiamme all'interno, Lotta, nel terribile silenzio, verso la meta8 Simeone, con il plauso del popolo, divenne un santo, anche prima di morire. Diogene, e il omologo indiano, Mahavira9, fondò scuole importanti che lasciarono il 5 Riferimento ai Sutra contenuti nel Canone Pali, la più antica collezione di testi canonici buddhisti pervenutaci integralmente 6 Alfred Tennyson, (1809 – 1892), fu uno dei più famosi poeti inglesi. N.d.A. 7 Simeone Stilita (390 – 459) N.d.A. 8 Majjhima, i. 79 ; citato in Jataka, 1. 390. 9 Mahavira (599 a.C. – 527 a.C) N.d.A. 3 segno nella storia. Ma l'esperienza dimostrò ben presto l'altra faccia della questione. In Grecia erano stati i sofisti e i filosofi, piuttosto che gli asceti, ad essere riconosciuti quale intellighenzia intellettuale. In India, fu il più nuovo sistema degli Erranti che ricevette, e principalmente, come vedremo, attraverso l'influenza dell’insegnamento buddista, il riconoscimento più alto. Libertà di Pensiero - Una notevole circostanza fu che la libertà più perfetta, sia di pensiero che di espressione, fu consentita non solo agli Eremiti e agli Erranti, ma ad ognuno. Non c’era, probabilmente, mai stato prima, c’è stato, certamente, raramente da allora, un qualsiasi momento e luogo in cui tale libertà assoluta di pensiero abbia prevalso. Questo dimostra un notevole grado di cultura, l'abitudine alla cortesia e alla gentilezza, tra le persone, una tolleranza tanto più degna di nota se si consideri lo zelo e la serietà di una così grande parte della comunità per quanto riguarda la religione. È, infatti, un grandissimo errore concludere, sulla base delle prove dei libri di diritto sacerdotali (che vengono secoli più tardi), che in questo periodo anche gli indiani fossero più superstiziosi di altri popoli, più sottomessi al sacerdozio sacrificale. Ogni evidenza indica il contrario. C'era, viceversa, a dispetto di molte ingenue speculazioni e vani sofismi, una vera e propria indipendenza da qualsiasi catena autoritaria, un ben marcato sentimento laico e un amore per l’umorismo e l’ironia che erano una potente difesa. Condizioni economiche – Una ragione della grande attenzione dedicata alle questioni etiche e filosofiche fu senza dubbio lo stato delle condizioni economiche del periodo. Nessuna delle difficoltà sorte nei tempi moderni era allora molto sentita. La popolazione che doveva essere sostenuta era probabilmente appena un decimo del numero che ora occupa lo stesso territorio. La stragrande maggioranza delle persone erano contadini proprietari, che vivevano in comunità di villaggio sulla propria terra, sotto la supervisione di funzionari del villaggio eletti da loro stessi, con potere limitato da consuetudini immemorabili. C'era una decima pagabile in natura al governo, sia che questo fosse una repubblica locale, o un lontano re. I re talvolta facevano ciò che era chiamata la concessione di un villaggio a qualche nobile, o funzionario, o sacerdote. Ma questa era una concessione soltanto delle quote di governo, e la terra continuava ad appartenere ai contadini, o alla comunità contadina. Ci furono un paio di casi isolati di proprietari tra i quali un uomo ricco aveva, con lavoranti salariati, fatto una radura nel bosco. Ma il numero dei lavoranti salariati era piccolo. Era considerata una vergogna, per un uomo libero, lavorare come salariato e anche se era difficile per un lavoratore indipendente inserirsi in un’esistente comunità di villaggio, c'era molta terra che non faceva parte di alcun insediamento esistente ed era quindi disponibile per gli eventuali occupanti abusivi. L’assai esteso commercio tra stati permetteva ulteriori aperture, e le corporazioni di artigiani, organizzate sotto i propri Anziani, fornivano occupazione per coloro che 4 avessero potuto essere ammessi tra le loro fila. Nonostante, dunque, ci fosse assai poca vera miseria, il numero di coloro che potrebbero essere considerati ricchi, dal punto di vista di quei giorni (e ancor più dei nostri) era tuttavia molto limitato. Abbiamo notizia di circa una ventina di rajas o maharaja, i cui proventi consistevano, principalmente, nell'imposta fondiaria integrata da alcune quote e diritti accessori, di un considerevole numero di ricchi nobili, di alcuni abbienti sacerdoti e di circa una ventina di commercianti milionari nelle poche grandi città. Non c'erano grandi produttori né potenti proprietari. I bisogni della gente erano pochi. La grande massa erano contadini o artigiani benestanti, per lo più con proprio terreno, e non turbati né da povertà né da ricchezza. Caste - Non c'erano caste in India, in quei giorni, nel senso in cui questa parola è ora utilizzata. C'erano classi sociali, tecnicamente chiamate Colori, le linee di confine delle quali non erano sempre rigorosamente osservate. C’erano restrizioni per i matrimoni misti, così come per il fatto di mangiare insieme, esattamente come c’erano ovunque in tutto il mondo tra i popoli, in un simile stadio di cultura. Certi mestieri, soprattutto tra le occupazioni più disprezzate (come spazzini, lavoratori di pelle e macellai), tendevano a diventare, alcune di esse lo erano già diventate, ereditarie. C’era un forte sentimento, da parte degli Ariani, della superiorità della loro razza. Ma questo sentimento non aveva impedito, e non lo impedì da allora, un assai considerevole numero di matrimoni misti. Tanto, infatti, fu questo il caso, che sebbene vi fosse un numero considerevole di membri maschili di clan, soprattutto degli Kshatriyas e dei Bramini, che reclamavano una pura discendenza ariana da entrambi i rami della famiglia, da sette generazioni, il numero di coloro i cui vanti erano giustificati era probabilmente non molto grande. Mescolata con questa questione della razza c'era una buona dose di orgoglio di nascita, non meno di quanto si osservi oggi in Occidente. Tutti questi fattori erano presenti nello stesso periodo tra gli Ariani in Europa. Erano i fattori sui quali l'attuale sistema delle caste indiane fu innalzato molto tempo dopo, dopo il decadimento del Buddismo. Ma allora non era ancora stato costruito. Abbiamo numerosi casi nei libri che mostrano che le linee non erano allora del tutto rigorosamente disegnate. Gli elementi, le fondamenta del sistema delle caste erano lì, ma il sistema in sé ancora non esistevaCAPITOLO II CONDIZIONI DELLA RELIGIONE IN INDIA AL MOMENTO DELLA NASCITA DEL BUDDISMO Sarà necessario, per spiegare le idee proposte dal Buddha, dare una sintesi dei pensieri precedentemente correnti tra le comunità nei cui territori egli ha insegnato. 5 Credenze Vediche - E in primo luogo, i punti di vista allora correnti non erano quelli che troviamo enunciati o sottintesi nei mille e più inni Vedici10. Poiché, attraverso i secoli, gli ariani si erano spinti all’interno del paese, il loro linguaggio, attraverso le leggi inevitabili della crescita, e della decadenza, di una lingua viva, si era così alterato che essi stessi non comprendevano più gli Inni. Gli inni erano ancora conosciuti solo nelle scuole dei sacerdoti sacrificali, e furono lì suddivisi in testi per essere utilizzati come formule (mantra) nel sacrificio. Al di là dei circoli delle scuole, essi erano ignorati e sconosciuti. Quando furono originariamente composti, nel Panjab, gli inni avevano incluso solo una parte delle credenze del popolo, e con ogni generazione, con ogni cambio di domicilio, il divario tra le credenze attuali e quelle registrate negli inni cresceva sempre più ampio. Morte degli Dei - Tale processo è altrettanto inevitabile quanto il cambiamento in una lingua viva, o in una struttura vivente. Non dovremmo mai dimenticare in quale grado tutti questi loro dei fossero reali. Essi non avevano un'esistenza oggettiva, ma erano reali abbastanza, come idee nelle menti degli uomini. In qualsiasi momento gli dèi di una nazione sembrano allo spettatore eterni, immutabili. Come dato di fatto essi sono sempre il lento, inarrestabile cambiamento. Non esistono due uomini, anche se cresciuti nello stesso ambiente, che pensino nello stesso giorno allo stesso dio, che ne abbiano la stessa immagine mentale. Né può l'importanza proporzionale dell'immagine essere la stessa per ciascuno di essi, perché questo potrebbe essere il caso soltanto se anche tutte le loro altre idee fossero esattamente le stesse, il che, naturalmente, non avviene mai. Proprio come la forma visibile di un uomo, anche se nessun cambiamento è in alcun momento percepibile, non è mai realmente la stessa per due momenti consecutivi, ma è, invece, il risultato di continue, minime variazioni, che diventano visibili solo dopo un certo lasso di tempo, così le idee, riassunte dal nome di Dio, vengono modificate dal progressivo accrescimento di minime variazioni. Questa modifica, dopo un intervallo di tempo (può essere generazioni, può essere secoli), diventa così chiara che un nuovo nome di Dio si impone, e gradualmente, molto gradualmente, spodesta il più vecchio. Allora, il dio più vecchio è morto. Come dice il poeta buddista: I fiori delle ghirlande che indossava sono appassiti, le sue vesti maestose sono divenute vecchie e sbiadite, cade dalla sua elevata dimora, ed è rinato a nuova vita. Vive di nuovo, come si potrebbe dire, proprio nel risultato della sua vita precedente, nel nuovo dio, cioè, che, sotto il nuovo nome, regna nel cuore degli uomini. Gli dei al tempo di Buddha - Siamo in grado di valutare quanto questo fosse vero, nel tempo di Buddha, per gli dèi vedici dalle dichiarazioni in due poemi molto 10 I Veda sono un'antichissima raccolta in sanscrito vedico di testi sacri dei popoli ariani, opere di primaria importanza presso quel differenziato insieme di dottrine e credenze religiose che va sotto il nome di Induismo. N.d.A. 6 interessanti, inclusi da un fortunato caso nel canone buddista11. Questi danno elenchi di dei supposti essere amichevoli verso il nuovo insegnamento. Notevoli come opere d'arte, queste liste sono di grande valore come prova di ciò che erano gli dei di quell’epoca i cui adoratori desideravano si conciliassero con il nuovo insegnamento. E' molto improbabile che gli sconosciuti poeti abbiano omesso qualsiasi divinità che avesse un seguito importante o influente. Prima vengono gli spiriti della Madre Terra e delle Grandi Montagne. Poi i Quattro Grandi Re, i signori di spiriti che si presume dimorino in tutti i quattro quarti del mondo, nord e sud, est e ovest. Questi sono, nell’est, i Gandharva, musicisti celesti, ritenuti presidiare il parto, e essere utili in molti modi ai mortali. Nel sud vi sono i fantasmi affamati, che si suppone siano pieni di terribili influenze, ma pronti a essere placati attraverso i corretti mezzi. L'ovest è la speciale dimora dei Naga, le sirene-serpenti, il cui culto ha giocato tanta parte del folklore del popolo, e che sono così spesso rappresentati sui monumenti. I cobra, nella forma ordinaria, erano ritenuti vivere, come tritoni e sirene, sotto la superficie dell’acqua, in gran lusso, con gran sfarzo di gemme, o di tormentare gli alberi giganti della foresta. Potevano a volontà, e spesso lo fecero, adottare forma umana; e sebbene terribili, se fatti arrabbiare, erano dolci e gentili di natura. Il nord, nelle misteriose altezze dell'Himalaya, era assegnato agli Yaksha, sotto il loro re, Kuvera Vessavana, il dio della ricchezza e prosperità. Dopo questi viene, in entrambe le liste, una compagnia miscellanea - le anime o spiriti ritenuti animare la luna e il sole (la luna è sempre menzionata per prima), i venti, le nubi, la calura estiva; poi segue poi un curioso assortimento di personificazioni di varie qualità mentali e, infine, gli dèi che abitano nel più alto dei cieli (che sono, cioè, il risultato della più alta speculazione), come Brahma stesso, e Paramatta, e Sanang Kumara. Senza entrare in un'analisi dettagliata, è sufficiente affermare che ci troviamo qui, in questa descrizione della religione dei popoli tra i quali il buddismo è sorto, faccia a faccia con una concezione del tutto diversa da quella registrata nei Veda, e neppure derivata da essa. Del centinaio e più di divinità enumerate, appena una mezza dozzina sono vediche. Animismo.-Quelli sopra sono gli dèi superiori venerati dal popolo al momento che stiamo considerando. Le forme inferiori dell’illusione animistica, popolari tra esso, sono elencate in un altro documento molto antico intitolato Sulla condotta12. E’ un elenco di pratiche disapprovate dai primi Buddisti. Nel mezzo di questo trattato si afferma che alcune persone sono imbroglione, recitatori di parole sante per denaro, indovini, esorcisti, o che si guadagnano da vivere con arti basse, e lì segue poi un elenco di tali arti basse. Ci viene detto di divinazione chiromantica di vario genere, 11 Sono nel Digha Nikaya, e sono stati tradotti da Gogerly. Una nuova edizione delle opere di Gogerly è ora in corso di pubblicazione a Ceylon. 12 In Pali, I Silas, un trattato tradotto nel mio Dialoghi del Buddha, vol. i. pp 3-25. 7 presagi ricavati dalle eclissi, pronostici a base ai sogni, predizioni tratte da segni sulla stoffa rosicchiata dai topi, sacrifici al dio del fuoco, oblazioni di vario genere agli dèi, per determinare i luoghi fortunati, scacciare i fantasmi, effettuare incantesimi su serpenti o bestie o uccelli, astrologia, segni di interpretazione sui corpi dei bambini, il consultare gli dèi per mezzo di uno specchio o attraverso una ragazza posseduta, e così via. Alcune di queste indubbiamente si riferiscono a pratiche imposte nei libri sacerdotali. Altre non possono essere rintracciate lì. E l’intera lista è la prova, se ve ne fosse bisogno, che poi, nella valle del Gange, come altrove, tutti i tipi di animismo che avevano preceduto il libro della religione erano anche sopravvissuti in grado sufficiente per continuare a permettere, a coloro che si fossero abbassati a trarre vantaggio da ciò, opportunità di guadagno. La teoria dell’anima – Oltre a ciò la prova, io credo, non ci convince. È una questione di livello. C'era, si sarebbe inclinati a pensare, una quasi universale e indiscussa credenza nell'esistenza, tutto intorno, di un numero infinito di esseri non umani. Questi venivano considerati dalle persone come una cosa naturale, proprio come consideravano naturale l'esistenza delle anime dentro i loro propri corpi. Fu da queste anime, all’interno e al di fuori di loro stessi, che essi si spiegavano i misteri della morte, della trance, dei sogni, del movimento e della vita. Tramandata da un’ immemorabile antichità, quest’ipotesi, o teoria delle anime, era corrente a quel tempo in India, così come è stata corrente prima, e da allora, tra popolazioni civilizzate o non civilizzate di tutto il mondo. Senza fine erano le applicazioni di questa teoria, i metodi di spiegazione per cui era utilizzata. Enumerarle e spiegarle tutte riempirebbe volumi. Un uomo sviene poi si riprende. E' chiaro che è la sua anima che se n’è andata via per un po’ per poi ritornare da lui. Il maestoso sole che percorre il suo quotidiano sentiero, attraverso il firmamento, così splendente, centro di vita e calore e movimento, deve essere vivo. È animato, come lo sono gli uomini, di un'anima, solo che la sua anima è più gloriosa, più potente della loro. Il monarca gigante della foresta, che estende le sue strane braccia al tramonto, contiene un'anima, un Naga, un albero-fata, il cui pensiero e azione spiega tutti i misteri dell'albero. E così via, attraverso il lungo elenco di quegli oggetti che sembravano, ai sensi dell'uomo, temibili, generosi, misteriosi, e che incutevano timore. Le forme di adorazione -Tutte queste anime si credeva avessero passioni umane, natura umana e anche forma umana. Erano suscettibili, come gli esseri umani, alle lusinghe e ai regali, e potevano essere spinte, dalle formule magiche, a fare, o astenersi dal fare, quello che, chi recitava la formula, desiderava. I sacrifici vedici, come interpretati dai bramini in questo periodo, erano quasi esclusivamente di carattere magico. Per questi non c'erano templi. Una delle principali fonti di emolumento dei sacerdoti era la costruzione, accompagnata dall'uso di molte 8 formule magiche, di un nuovo altare per ciascun sacrificio. L'altare veniva innalzato su terreno privato, e il sacrificio era una cerimonia, anch’essa privata, progettata per garantire vantaggi personali alla persona a spese della quale il sacrificio era effettuato. Non c'erano immagini degli dèi. Questi sacrifici, essendo lunghi e molto costosi, erano quindi anche rari, e potevano essere effettuati solo dai ricchi. Questo fu, forse, un ulteriore motivo per cui la massa del popolo, nel periodo e nei luoghi che stiamo considerando, seguiva altri dèi. Dei loro culti, purtroppo, sappiamo molto poco, e quel poco solo da accidentali riferimenti nei libri buddisti. Ci è tramandato di chetiyas, o santuari, e sono noti i loro nomi a alcune vaghe circostanze. Alcuni si suppone siano stati tumuli, ed altri alberi sacri. Ma non sappiamo ancora quasi nulla di ciò che veniva fatto lì. Nessun santuario pre-buddhista in India è finora stato scavato, e il riferimento incidentale ad essi nei libri non è ancora stato raccolto e studiato. Così sappiamo dei Samajjas, un clan che si riunisce su alture sacre, con balli sacri e profani , e altri accompagnamenti di ciò che nei tempi moderni ci si potrebbe aspettare di trovare in una fiera. Ma i riferimenti a questi incontri presuppongono nei lettori una conoscenza di tutto quello che ne seguiva e di ciò che davvero significava. E questo è precisamente ciò che ci piacerebbe conoscere. Speculazione - D'altra parte abbiamo resoconti abbastanza dettagliati e comprensibili di ciò che, rispetto ai culti locali, può essere chiamata la più alta speculazione. Nei documenti più antichi di quelli buddisti vediamo il misticismo monistico, che ha raggiunto la sua massima espressione nella poesia teosofica delle Upanishad, prendendo a poco a poco forma. E nei primi libri buddisti non solo abbiamo i nomi delle varie sette, o gruppi, sia di Erranti che di Eremiti, ma classificazioni elaborate di un gran numero di teorie in loro possesso. I nomi sono suggestivi: i Liberati, i seguaci dei Chierici, gli Uomini dai capelli intrecciati (questi sono bramini eremiti), i Portatori del tridente, gli Amici, gli Adoratori del dio (non ci è detto quale) gli Uomini di pura sussistenza e così via. Le teorie sono indicate, nel primo dei Dialoghi, in una lista che è troppo lunga per riprodurla qui. Ci sono trentasei vedute differenti riguardo allo stato dell’anima, dopo la morte del corpo che essa abitava, e una teoria che l'anima muore quando il corpo muore. Abbastanza curiosamente la teoria della trasmigrazione delle anime non è riportata e la teoria dell'assorbimento dell’anima individuale nell'anima suprema non è menzionata. Ci sono un certo numero di vedute divergenti sul fatto se tutti gli dèi, o solo alcuni, o solo uno dovessero essere considerati eterni, e fino a che punto le anime del mondo e individuali siano eterne. E ci sono discussioni per quanto riguarda l'etica, e per i vari mezzi di salvezza in questa vita. Riepilogo delle credenze - Abbiamo, poi, in India, nella valle del Gange, nel momento in cui sorse il Buddismo, una moltitudine di idee interconnesse che 9 possono essere divise, per chiarezza di esposizione, sotto i seguenti punti. In primo luogo, il gruppo, molto ampio e vario, di idee riguardanti le anime che si suppone abitino nei corpi di uomini e animali, e animino oggetti che si muovono, in natura (alberi e piante, fiumi, pianeti e così via). Queste possono essere riassunte sotto il comodo termine moderno di animismo. In secondo luogo, abbiamo idee, più tarde e avanzate, circa le anime che, si suppone, animino la maggior parte dei fenomeni della natura. Queste possono essere riassunte sotto il comodo termine moderno di politeismo. In terzo luogo, abbiamo l'idea, ancora più tarda, di una unità retrostante tutti questi fenomeni, sia della prima che della seconda classe, l'ipotesi di una prima causa da cui tutto l'universo, nelle sue varie forme, dipende, in cui esso vive e si muove, e che è l'unica realtà. Questa può essere riassunta nel comodo termine moderno di monismo. In quarto luogo, abbiamo la tesi opposta. In questa la prima causa o non è stata raggiunta nel pensiero, o è stata considerata e deliberatamente respinta: ma per il resto l’intera teoria sull’anima è stata mantenuta e amplificata, e l'ipotesi dell'eternità della materia vi è, allo stesso tempo, contenuta. Questa può essere riassunta sotto il conveniente nome moderno di dualismo. Questi termini occidentali moderni, anche se utili per la classificazione, non restituiscono mai esattamente l'antico pensiero orientale. E non dobbiamo mai dimenticare che le distinzioni nette, che noi ora usiamo, erano allora percepibili solo ad una piccola minoranza di pensatori più acuti. La maggior parte delle persone aveva uno strano miscuglio di molte delle nozioni correnti intorno a loro. La suddivisione qui fatta è solo tesa a dimostrare che, quando il Buddismo sorse, il paese ribolliva, in maniera molto simile al mondo occidentale, a com’era il mondo occidentale nello stesso periodo, con una moltitudine di teorie più o meno opposte su tutti i tipi di questioni, etiche, filosofiche e religiose C'era molta superstizione, senza dubbio, e non pochi sofismi. Ma a causa, in parte, delle facili condizioni economiche di quei tempi, in parte anche della reciproca cortesia e spigliatezza intellettuale del popolo, c'era una gran parte di persone che erano seriamente occupate in tentativi, più o meno riusciti, di risolvere i problemi più alti del pensiero e dell’esistenza. CAPITOLO III VITA DEL BUDDHA Poesia Edificante - Se un dotto orientalista desiderasse accertare i fatti riguardanti la vita di Cristo, non farebbe ricorso a opere quali Il Messia di Klopstock o Il Paradiso riconquistato di Milton. Queste opere, tuttavia, non pretendono di essere storiche. Il valore che esse hanno è dovuto all’abilità letteraria con cui esse rifondono una storia derivata da documenti precedenti, e forse anche alla parte che esse giocano come Tendenzschriften, sostenendo una qual certa opinione. Il vero ricercatore storico si dirigerebbe verso i documenti originali, ignorando la più tarda poesia. E' 10 purtroppo proprio questi ultimi libri di poesia edificante che sono stati la fonte delle moderne conoscenze popolari sulla vita del Buddha. Il noto poema di Sir Edwin Arnold, The Light of Asia, La Luce dell’Asia, è un'espressione eloquente in versi inglesi (basato sul Lalita Vistara) di credo buddista del tempo in cui, secoli dopo il Buddha, il poema sanscrito venne composto. Chiunque desideri conoscere la verità, per quanto essa possa ora essere accertata, sugli eventi reali della vita del Buddha, ignorerà, ovviamente, queste opere, comunque edificanti, di immaginazione letteraria. Egli si rivolgerà direttamente ai documenti più antichi. Nessun Vangelo buddista - La prima scoperta che egli farebbe è che non vi è alcun libro nel Canone Buddista esattamente corrispondente ad un Vangelo. L'approccio più vicino ad esso è il Mahâparinibbâna-Suttanta, il Libro del Grande Decesso, che descrive l'ultimo viaggio del Buddha, e la sua morte13. Oltre a questo abbiamo due notevoli episodi: uno che descrive il tempo prima della sua illuminazione, sotto l’Albero della Sapienza, del Nirvana, e l'altro che descrive gli eventi che seguirono immediatamente14. Oltre a queste narrazioni consecutive, ci sono racconti, più o meno circostanziati, in molti dei Dialoghi, di diversi episodi della vita del Buddha. Alcuni dei poemi antichi riferiscono anch’essi tali episodi, e ci sono altri riferimenti incidentali altrove in letteratura. Il Buddha non è figlio di Re - Da queste notizie, scarse quali esse sono, è del tutto possibile formarsi un’idea molto chiara dei principali eventi della vita del fondatore del Buddismo. Suo padre è, in un passaggio15, chiamato râja. Ma raja è un titolo di cortesia usato per qualsiasi membro del clan riconosciuto; ed i testi, sempre puntigliosi nell’ uso dei titoli, non usano mai questa parola per un re, che è sempre invariabilmente definito mahārāja. La famiglia è lodata, in una mezza dozzina di passaggi, come ben collegata, e di grande reputazione, ma non una volta come reale. Possiamo essere certi, dal contesto, che se il futuro padre del Buddha fosse stato davvero un re, il fatto sarebbe stato, in tale contesto, chiaramente riportato. Riferito ai membri maschili di un clan, il titolo râja, anche se in realtà di non molta più importanza del nostro termine moderno “Egregio” era più gentile, poiché la parola connotava una posizione di importanza ereditaria nel clan, e forse anche una carica ufficiale temporanea, di carattere onorario, come ad esempio console o magistrato. In ogni caso questa fu la semplice base sulla quale furono costruite le posteriori leggende della regalità. La famiglia e il Clan – Il nome del padre di Buddha, Suddhodana, Riso Puro, è indicativo riguardo all'occupazione svolta dal clan. Esso occupava un piccolo 13 Tradotto nei miei dialoghi del Buddha, vol. ii. Majjhima, i. 163-175, e Vinaya, i. 1-44. 15 Digha, ii. 7. Confronta Buddhavangsa, xxvi. 13 14 11 territorio, non superiore a circa 900 miglia quadrate, situato in parte sulle più basse pendici della catena dell'Himalaya, in parte sulle pianure sottostanti. Lì, i membri maschili del clan avevano i loro campi di riso irrigati dagli inesauribili ruscelli alimentati dalle montagne retrostanti. Per tutto l'anno potevano vedere le gloriose cime innevate delle grandi montagne, e le brezze da nord portavano nella pianura il respiro dei ghiacciai. Quando mi sono trovato nella parte più bassa del territorio dei Sakiya, appena oltre la frontiera del Nepal, nel gennaio del 1900, il clima era fresco e piacevole. Non c'è dubbio che in estate fosse desiderabile fuggire verso le colline. E ci viene detto16 che, in gioventù, il futuro Buddha aveva tre case, una per l’inverno, una per l’estate e una per la stagione delle piogge, e che era vestito, non in panno ruvido, ma in fine mussola di Benares. Il Giardino di Lumbini - Il ragazzo fu chiamato Siddhartha, che significa “desiderio compiuto” e il significato del nome può aver dato luogo alla storia, che si trova solo nelle leggende posteriori, che egli era nato dopo che la speranza di un figlio era quasi svanita. Il nome di famiglia era Gotama. Con quello egli venne di solito chiamato, in seguito, dai non buddisti, ed è il nome che useremo in questo breve ritratto. La casa di suo padre era a Kapilavastu, nelle pianure, la città capitale del clan. Ma lui era nato, come ci racconta una ballata molto antica, a Lumbini. Questa era comodamente a metà strada tra Kapilavastu e il capoluogo dei Koliyans, vicini di casa e parenti dei Sàkiya. La spiegazione più tarda, che sua madre si trovava per strada, poiché su stava dirigendo, per partorire, verso la sua casa materna, sembra molto probabile. Il punto esatto assegnato dalla tradizione per la nascita di Buddha è stato ultimamente riscoperto. Una colonna, eretta sul luogo da Asoka, a metà del III secolo a.C, afferma che “Qui il Sublime è nato”. La ballata a cui ci si riferisce, il Nalaka Sutta17 è assai interessante. Il poema descrive come un vecchio uomo saggio, di nome Asita, vedendo gli angeli gioire, chiede loro perché sono contenti. Loro dicono: Il Bambino Sapiente, quel gioiello così prezioso, Che non può essere eguagliato, È nato a Lumbini, nella terra dei Sakiya, Per il bene e per la gioia nel mondo degli uomini. Così il vecchio saggio va e vede il bambino, e profetizza: L'altezza più elevata di comprensione raggiungerà, questo bambino, egli vedrà ciò che è sommamente puro, e stabilirà la messa in moto della ruota del carro della giustizia, egli che è pieno di compassione per la moltitudine. Lontano si diffonderà la sua religione. 16 17 Anguttara, i. 45. Confronta Digha, ii. 21 Tradotta dal professor Fausboll in Sacred Books of the East, vol. X. p. 124. 12 L’ uscita da casa - Gotama era sposato: e aveva un figlio il cui nome era Rahula. Quando egli fu di 29 anni di età, lasciò la sua casa e divenne un religioso in cerca di ciò che era giusto18. Ritroviamo sottolineata così presto, nella carriera del futuro insegnante, la tendenza etica e di azione della sua mente. Molti scrittori in Oriente e in Occidente hanno suggerito le ragioni di questo passaggio epocale, e alcune cose plausibili, alcune belle, sono state dette. I nostri testi autorevoli non hanno che due brevi espressioni su questo punto, entrambe pronunciate da Buddha stesso. La prima è come segue19: Un normale, illetterato uomo, anche se lui stesso soggetto alla vecchiaia, non sfuggito al di là del suo potere, quando vede un altro uomo vecchio, è ferito, prova disagio, ne è disgustato, riguardando, nel contempo, la sua propria condizione. Pensando che sarebbe stata inadatta a me l'infatuazione di un giovane nella sua gioventù me ne partì assolutamente da me. Parole identiche vengono usate riguardo alla salute e alla vita. L’altro testo dice: Prima dei giorni della mia illuminazione, quando ero ancora soltanto un Bodhisatva, sebbene io stesso soggetto alla rinascita, alla vecchiaia, alla malattia e alla morte, al dolore e al male, ho ricercato cose soggette anch’esse a loro. Poi ho pensato: Perché dovrei agire così? Lasciami, quando sono soggetto a queste cose, vedere il pericolo in esse, cercando piuttosto ciò che non è soggetto a ciò, anche la beatitudine suprema e la sicurezza del Nirvana20 . L'essenza di tutta la poesia più tarda si trova in queste semplici ma pregnanti parole, e il più antico poema che abbiamo si mantiene molto vicino allo spirito di questi altrettanto antichi testi. È il seguente poema che, poiché è breve, può essere qui citato. Anche in una scarna versione in prosa darà un saggio dello spirito di quei giorni lontani. L’USCITA DA CASA 1. Io loderò, uscendo da casa come fece il Lungimirante, la vita dell’Errante, come quando aveva riflettuto bene sulla questione che deliberatamente scelse 2. Piena di ostacoli è questa vita di famiglia, covo di passione. Libero come l'aria è lo stato errante. Così egli considerò, e uscì da casa. 3. Quando fu uscito da casa abbandonò il compiere azioni sbagliate e si lasciò dietro il parlare cattivo; puro egli rese il suo modo di vivere. 18 Digha, ii. 151 Anguttara, i. 140. 20 Majjhima, i. 163. 19 13 4. Alla città del re il Buddha21 giunse, a Giribbaja, nel Magadha. Pieno di segni esteriori di valore, egli raccoglieva elemosine per cibo. 5. Lo vide Bimbisara, in piedi sul terrazzo superiore del suo palazzo. Vedendo che aveva quei segni, così egli parlò: 6. Prestate attenzione a quest'uomo, Signori, bello è lui, grande e puro, accorto nella condotta, egli non guarda oltre la lunghezza di un braccio davanti a sé 7. Con gli occhi bassi e padrone di sé è lui, sicuramente di nessun significato la nascita. Lasciate che i messaggeri del re si affrettino a scoprire: Dove sta andando il mendicante? 8. Così inviati, i messaggeri affrettarono alla sua ricerca, e si chiedevano: 'Dove sta andando il monaco, dove intende stare? 9. Compiendo il suo giro per le elemosine regolarmente da casa in casa, circospetto della porta (dei suoi sensi), riservato, rapidamente ha riempito la sua ciotola, egli calmo e padrone di sé. 10. Il suo giro per le elemosine compiuto, il Saggio è uscito dalla città. Ha raggiunto la montagna Pandava. E’ lì che intende stare. 11. Non appena lo avevano visto fermarsi, i messaggeri avevano interrotto la loro ricerca. Un messaggero ritornò da solo e al re fece discorso: 12. Sul versante orientale del Monte Pandava, quel monaco, o re, ha preso il suo posto, come una tigre-re, come un leone nella sua caverna di montagna. 13. Quando sentì la parola del suo servo il guerriero, in tutta fretta, uscì fuori sul suo carro regale diretto alla montagna Pandava. 14. Dove finiva la strada, lì scendendo dal suo carro, a piedi, il principe continuò finché giunse vicino, e poi prese posto. 15. Nel sedersi, il Re, con cortesi parole, scambiò con lui i saluti di un amico. Poi parlò così: 16. Giovane sei tu e in tenera età, un ragazzo nella sua prima giovinezza, raffinato è il tuo colorito, come uno di nobili natali. 17. Come la gloria dell'avanguardia dell'esercito, a capo di una banda di eroi, vorrei darti ricchezza. Accetta, ti prego, ciò e dimmi la tua discendenza, ora che te la chiedo. 18. Vicino alle pendici dell'Himalaya, o Re, vi è una terra di ricchezza e potere, gli abitanti di quel luogo sono i Kosalas 19. Discendenti del Sole per razza, Sàkiya essi sono per nascita. Da quel clan sono uscito, non desiderando più piaceri sensuali. 20. Vedendo il pericolo in loro, cercando di uscire di casa quale beatitudine, andrò avanti nella lotta, poiché in ciò la mia mente trova delizia 21 Questa espressione è suggestiva. Nel nostro senso della parola, Gotama, non era ancora un Buddha. Per la mente del poeta Buddha significò semplicemente risvegliato (il suo significato letterale). La corrispondente parola, nell’uso tecnico cristiano sarebbe convertito. E la mente di un uomo convertito è risvegliata ma a differenti concezioni. E’ molto dubbio se nei vecchi testi la parola Buddha abbia mai significato qualcosa di più di risvegliato. 14 I suoi maestri - Gotama era ormai diventato un Errante. Non sappiamo se prima o dopo il suo incontro con il re di Magadha, egli si unì come discepolo prima a Alara Kalama, e poi a Uddaka figlio di Rama. Secoli dopo alcuni scrittori pretendono di conoscere le loro dottrine. Nei vecchi testi ci viene solo raccontato che ognuno di questi insegnanti teneva stretto, come un ideale, una particolare fase di estasi mistica (se solo mentale, o il risultato di un ipnotismo auto-indotto o in parte una, in parte l'altra cosa, non è indicato)22. E due espressioni mistiche di Uddaka sono anche state conservate23. Oltre a questo non sappiamo nulla di ciò, o anche quando, essi insegnassero. Qualunque cosa fosse, Gotama divenne così rapidamente padrone di esso che ciascuno di loro gli chiese di diventare co-maestro del suo gruppo di discepoli. Ma egli rifiutò queste offerte, così come aveva fatto con quella di Bimbisara, e se ne andò nella foresta intorno a Gaya per lottare da solo verso la luce. La lotta — Possediamo diversi racconti di questa lotta resi con parole identiche24. Nessun tentativo è fatto per dare un rapporto consecutivo o cronologico di quanto accaduto nei sei anni durante i quali è durata. Le varie gravi penitenze che Gotama inflisse a se stesso sono descritte a lungo, e vengono elencati i vari pensieri che gli sorsero, gli argomenti che egli discusse con se stesso. Alla fine delle penitenze, quando era ridotto a uno scheletro, e davvero sul punto di morire, egli decide che questa non è la strada giusta verso l'illuminazione, e ricomincia di nuovo a nutrirsi. Subito dopo ci viene detto25: Allora quei cinque mendicanti [di cui non era stata fatta alcuna precedente menzione] lo abbandonarono, e se ne andarono via, poiché egli aveva rinunciato alla lotta, e tornato ad una vita di abbondanza. Qui dobbiamo probabilmente riferire della ballata26, in cui Mara, il Maligno, è rappresentato mentre lo tenta affinché egli interrompa la sua ricerca. Il Nirvana.-Poi arriva la reazione, la vittoria. Questa è uniformemente descritta come uno stato mentale di esaltazione, gioia, comprensione, altruismo. I diversi Sutta sottolineano diverse fasi, diversi aspetti, per così dire, di questa condizione. Ma la considerano come uno stesso sconvolgimento di tutta la natura mentale e morale, volontà, emozione e l'intelletto essendovi ugualmente interessati. Così un Sutta (il Maha-saccaka) pone l'accento sulle Quattro Beatitudini e le tre forme di Conoscenza; un altro (il Dvedha-vitakka) sulla certezza, l'assenza di dubbio, un altro (il Bhayabherava) sulla conquista sulla paura e agitazione, un altro (il Ariyapariyesana) sulla felicità e la sicurezza del Nirvana che egli poi ha raggiunto. Nel primo di questi Sutta il testo conclude: 22 Majjhima, i. 163-166 Samyutta, iv. 83, e il Pasudika Suttanta in Digha. 24 Majjhima, i. 17-24; 114-118; 167; 240-250. 25 Majjhima, i. 247. 26 Tradotta da Fausboll in Sacred Books of the East, Voi. x. pp 69-71. 23 15 Quando questa conoscenza, questa comprensione, fu sorta dentro di me, il mio cuore fu liberato dall’ intossicazione delle passioni, liberato dall’ intossicazione del divenire, liberato dall’ intossicazione dell’ ignoranza. In me, così emancipato, sorse la certezza di tale emancipazione. E giunsi a sapere: Questa è la mia ultima rinascita. La vita superiore è stata soddisfatta. Quello che doveva essere fatto è stato fatto. Dopo questa vita presente non ce ne sarà un’altra. Quest'ultima intuizione ho raggiungo nell’ultima veglia della notte. L'ignoranza è stata sconfitta, la comprensione è sorta, l'oscurità è stata distrutta, la luce è venuta, poiché ero lì faticoso, ardente, padrone di me stesso. Non c'è nulla di miracoloso in tutto questo, nulla di soprannaturale. Indubbiamente tutto ciò è sopranormale. Ma recenti ricerche di psicologia, così come vengono riassunte, per esempio, in Varietà dell’Esperienza Religiosa di James, dimostrano che fenomeni di tipo analogo, anche se non proprio identici, sono ben convalidati nella vita di uomini di profonda esperienza religiosa. E nessuna delle esperienze descritte in questi racconti è, nei libri canonici, confinata al solo Buddha. Ciascuna di esse è riferita, in altri passaggi, di uno o dell'altro degli uomini e delle donne che successivamente adottarono il nuovo insegnamento e caddero sotto la sua influenza. Queste condizioni sono parti costitutive dello stato mentale chiamato Arahatship. Tutte si ripetono, nella descrizione standard, ripetuta in così tanti Dialoghi, della maniera in cui lo stato di Arahat è stato raggiunto27. E la somma di esse è, a questo proposito, chiamata Nirvana28 uno dei molti nomi dello stato di Arahat29. A giudizio dei primi buddisti il loro Buddha era un Arahat; ma nel suo caso non c'era limite alla profondità e all'intensità della sua intuizione, o alla grazia e alla perfezione di quei poteri e di quelle caratteristiche che egli divideva con altri Arahats. La distinzione tra Arahat e Buddha divenne il principale fattore nella successiva storia della comunità30. Nei primi passaggi qui riportati come descrittivi di questa crisi, non si fa menzione né di Buddha né di buddità. Dopo che Gotama ebbe così raggiunto il Nirvana (se si usa l'espressione del testo), o raggiunto la buddità (se usiamo l'espressione che ben presto divenne di uso corrente nella comunità), egli rimase per quattro volte sette giorni a “godersi la beatitudine dell’emancipazione”31. I testi riportano vari episodi che rivelano i pensieri che passarono attraverso la sua mente in quel tempo. Egli ripete i dodici Nidàna, i collegamenti nella catena dell'origine dipendente, e poi dà espressione a tre strofe, nel senso che quando un Arahat, nei momenti di intensa intuizione, vede nella vera natura delle cose, come tutte esse abbiano una causa e come le cause tendano a 27 Tradotto per esteso nei miei Dialoghi del Buddha, vol. i. pp 79-93. Majjhima, i. 167. 29 Ibid. 173. 30 Si veda Tardo Buddismo, pubblicato in questa serie di piccoli manuali, e la mia nota sulla Sambodhi nei Dialoghi del Buddha, vol. i. p. 190. 31 Vinaya, i. 1-4. 28 16 passare, allora i suoi dubbi svaniscono, e lui rimane fermo, mettendosi a sbaragliare gli eserciti del Maligno, così come il sole riempie gli spazi scuri del cielo con la luce32. La frase in questo ultimo versetto è probabilmente l'origine della leggenda in un'altra autorità33 che il Maligno allora andò da lui e lo tentò, ora che aveva ottenuto la vittoria, di passare oltre immediatamente. Ma egli si rifiuta di farlo “fino a che la mirabile verità sia stata diffusa lontano e ben proclamata fra gli uomini”. Allora un bramino altezzoso, che contava, per la salvezza, sull’ espressione della mistica sillaba Om, arriva e chiede a Gotama che cosa renda un uomo bramino. Gli è risposto che è l’abbandono del male, il vivere una vita di purezza, la conquista della superbia e dell’avidità. Il prossimo episodio ci dà una strofa che spiega le basi della beatitudine che egli dice di avere sentito: Felice la solitudine di chi è pieno di gioia, di chi ha imparato la Verità, di chi ha visto la Verità. Felice colui che in questo mondo non ha ostilità, contenuto verso tutti gli esseri che hanno vita. Felice è la libertà dai desideri, la fuga da essi, La beatitudine più alta è la libertà dalla fierezza del pensiero "lo sono” L’esitazione - Al termine di questo periodo di beatitudine segue un periodo di esitazione, in cui Gotama dubita se, dopo tutto, sarà di alcuna utilità annunciare ad un mondo sprofondato nelle tenebre una dottrina non solo così difficile da capire, ma così detestabile per una mente ordinaria. Possiamo stimare l'importanza attribuita dalla prima Chiesa a questa materia dal fatto che Brahmâ stesso, il più alto degli dèi, viene introdotto mentre entra nella scena per sollecitare che ci sarà ancora qualcuno che avrà occhi per vedere. Allora il Buddha, “per compassione verso gli esseri senzienti” si decide a predicare la parola. Un'esperienza simile è riportata in termini identici34 da altri primi maestri indiani, i Buddha precedenti. E questo senso opprimente di separatezza assoluta, distacco, è un'esperienza che accade prima o poi alla maggioranza di tutti i grandi maestri del pensiero. Il primo discorso - Quando questa volontà di predicare la parola fu divenuta chiara nella mente di Buddha, si dice si sia recato a Benares, a circa 100 miglia a nordovest, per raccontare ai suoi ex compagni, che si trovavano in un bosco nei pressi di quella città, della scoperta che aveva fatto. Lo fece in un discorso dal titolo, la “Fondazione del Regno di giustizia”, in cui le sue nuove visioni di vita furono 32 Vinaya, i. 2, tradotto da Oldenberg in Vinaya Texts, i. 78. Digha, 'ii. 112, tradotto da chi scrive in Dialoghi del Buddha, vol. ii. 34 Digha, ii. 37. 33 17 riassunte in un modo che essi avrebbero capito. Questa sintesi ci è stata conservata in due posti nel Canone, e verrà tradotta e spiegata nel prossimo capitolo. I poeti buddisti sono stati ispirati dalle descrizioni della scena, descrizioni notevoli per la loro sottile bellezza. I sovrani buddisti hanno riccamente decorato con architettura e scultura il luogo memorabile per quello che essi consideravano un evento così straordinario. Fosse passato un Greco in quel momento, si sarebbe appena chinato a notare i pochi barbari seduti sotto gli alberi, mentre parlavano tranquillamente con tono giudizioso, e non avrebbe forse capito che uno di essi stava dando espressione a idee che avrebbero mosso il mondo. Il Buddha non ha avuto compito facile nel cercare di convincere i cinque a rinunciare al loro credo nella penitenza. Solo uno di loro, un Kondanna di nascita, fu in un primo momento convinto – per essere conosciuto per il resto della sua vita come 'il Kondanna che ha capito'. Ma nel giro di pochi giorni tutti cedettero e divennero discepoli. Gotama poi fece un ulteriore passo avanti, e fece loro un discorso sull'assenza di qualsiasi segno di anima negli elementi costitutivi di un essere umano. Uno schema di questo discorso è stato anche conservato in varie parti delle Scritture35: e quando furono convinti di ciò, il documento dichiara 'Allora ci furono sei Arahats nel mondo. Dall'essere semplicemente discepoli, seguaci, essi erano diventati Arahats. L’invio dei discepoli – Allora seguì ciò che ha molti punti di analogia con una rinascita moderna, ma deve essere stato di un tipo stranamente dignitoso e intellettuale. I residenti delle città vicine vennero ad ascoltare il nuovo maestro. Il numero di aderenti, laici e laiche, Bhikshu e Arahats, aumentarono fino a che il testo riporta 'allora ci furono sessantuno Arahats nel mondo '. A quel tempo, Gotama disse loro che lui e loro 'Erano liberi da lacci, sia umani che divini. Lasciateli, quindi, mettersi in viaggio come Erranti per il bene di molti, per compassione del mondo, per il bene e il guadagno degli dèi e degli uomini. Non vi dovevano essere due Erranti che dovevano andare insieme. Dovevano fare conoscere l'insegnamento, bello nella sua origine, incantevole nel suo progresso, adorabile nel suo compimento, sia nello spirito che nella lettera, per spiegare la vita più alta in tutta la sua pienezza e in tutta la sua purezza36. Lui stesso stava tornando a Uruvela con tale scopo in testa. Secondo le nostre autorità, il successo di questa prima missione fu molto grande. E' naturale supporre che esso si stagliava un po’ più grande agli occhi dei primi buddisti di quanto i fatti effettivamente giustifichino. Ma è stato dimostrato sopra quanto assai favorevoli fossero le condizioni per un nuovo movimento di questo genere e, né allora né subito dopo, sappiamo che il nuovo insegnamento divenne di grande importanza nel paese. Da questo momento in poi 35 36 Samyutta, iii. 66, e iv. 34 ; Majjhima, i. 135 e 300 ; Vinaya, i. 14. Samyutta, i. 105, riprodotto in Vinaya, i. 21. 18 Gotama, che dall'essere un Errante era diventato un eremita, ridivenne di nuovo un Errante. Quelli dei suoi seguaci che 'uscirono' divennero membri dell'Ordine da lui fondato, e furono anch’essi Erranti, cioè, rifiutarono ogni penitenza e automortificazione (a meno che il loro voto di celibato non sia considerato tale). Sia lui che essi trascorrevano nove mesi di ogni anno a vagare di villaggio in villaggio, facendo conoscere la nuova dottrina, mentre andavano, a tutti coloro che desideravano ascoltarla. Essi non tenevano incontri pubblici, non facevano discorsi impostati: la propaganda era solo a titolo di conversazione. La vita quotidiana di Gotama – La maniera in cui Gotama trascorreva ogni giorno è più o meno la seguente. Si alzava molto presto, intorno alle 5. Se doveva rimanere nel posto in cui aveva dormito, rimaneva da solo fino all'ora di andare a fare il suo giro di elemosine nel villaggio vicino. Se doveva muoversi da un luogo ad un altro, una passeggiata dalle otto alle dieci miglia avrebbe occupato quel tempo. Era spesso invitato per il pasto del mattino, il pasto principale della giornata, in qualche casa. Altrimenti, prendeva la sua ciotola, e se ne andava di casa in casa, raccogliendo abbastanza per il pasto, che era sempre prima di mezzogiorno. Quando era invitato da qualcuno, egli avrebbe, dopo il pasto, “reso grazie”, come veniva detto, sotto forma di un discorso sui punti fondamentali della religione. Quando portava il suo pasto di nuovo al suo alloggio, questo ringraziamento avrebbe assunto la forma di un’esortazione o di dialogo con i discepoli su qualcuna delle questioni più profonde della fede. La calura del giorno veniva superata con il riposo o la meditazione. Come il pomeriggio avanzava, sia il viaggio verso la tappa successiva fosse stato ripreso, sia che il soggiorno nello stesso luogo dovesse essere prolungato, si svolgeva un ricevimento informale sotto gli alberi. Sarebbe venuta gente dai villaggi vicini, portando regali di fiori, e uno dei visitatori, fosse un laico o un eremita di qualche altro Ordine, avrebbe fatto domande o iniziato una discussione, il resto in ascolto mentre erano seduti in circolo sull'erba sotto gli alberi. Con il tramonto l’assemblea si sarebbe sciolta. Poi Gotama, se se ne fosse sentito incline, era solito prendere il bagno dopo di che avrebbe parlato con i discepoli, forse fino a tarda notte. Gli attuali metodi di pubblicazione - In un clima così regolare e caldo, la vita all'aria aperta non solo era possibile, ma gradevole, e in assenza di libri, biblioteche, o giornali, un tale metodo di istruzione e di propaganda era probabilmente il migliore. Chiunque avesse qualcosa da dire, non poteva sedersi nel suo studio, scrivere un libro, e pubblicarlo. Doveva raccogliere intorno a sé un numero di aderenti, seguaci, discepoli (chiamateli come desiderate), convincerli a capire, e imparare di cuore, le sue dottrine, e quindi inviarli nel mondo. Essi erano i suoi libri. La sua influenza personale su di loro, la loro adattabilità, serietà e intelligenza furono fattori altrettanto importante per il suo successo dell’ intrinseco valore e idoneità, per quei tempi, del suo stesso insegnamento. Era un metodo di pubblicazione che era stato 19 usato prima, e fu utilizzato, al tempo di Gotama, da altri oltre a lui. La necessità di adottare questo metodo fu anche una delle principali ragioni pratiche per l'istituzione di un Ordine. Senza l'Ordine il nuovo insegnamento non avrebbe potuto né essere propagato tra la gente, né essere stato conservato per le generazioni future. Per 45 anni dopo il conseguimento del Nirvana, Gotama andò su e giù attraverso le pianure dell'India settentrionale e dei vicini altopiani del Nepal. Durante questo periodo ebbe tutto il tempo sia di elaborare il suo sistema in maniera completa, sia di istruire i discepoli nei dettagli. Essi sono davvero molto pochi e semplici. Alcune difficoltà che vi ritrovano gli studiosi europei sono collegate con la traduzione, in una lingua occidentale, di alcuni dei termini tecnici che venivano utilizzati. Non c'è niente dell’ elaborata minuzia caratteristica dei libri sacerdotali dell'esegesi rituale. La maggior parte dei primi termini tecnici buddhisti devono essere stati scelti e definiti durante la vita del maestro, ed è molto probabile che le parole reali dei brevi paragrafi in cui la maggior parte dei punti essenziali – i Tre Segni, le Quattro Verità, i cinque impedimenti, l'ottuplice Sentiero, i costituenti dello stato di Arahat, e così via, siano anche stati fissati da lui. Gotama morì assai anziano e tenuto in grande stima da parte dei membri del clan, quando aveva ottanta anni, a Kusinara, un luogo non ancora identificato, ma probabilmente in Nepal. Dopo la cremazione, effettuata dal clan dei Malias, nel cui territorio si trova la città, si dice che le ceneri siano state suddivise in otto porzioni. Di queste, sei furono date ai sei clan dei dintorni, dei quali uno era il clan dei Sakiya, una fu data al re di Magadha, e una a un bramino vicino a Yethadipa. Si dice Stupa o tumuli siano stati messi su tutti e otto, ma solo uno di questi è stato ritrovato. Questo è quello costruito dai Sàkiya nella nuova Kapilavastu, ricostruita dopo la distruzione della città vecchia qualche anno prima della morte del Buddha, da Vidudubha, re di Kosala. Capitolo IV IL SENTIERO ARYA Le caratteristiche principali di questo sistema di credenze che si dice Gotama abbia in precedenza trasmesso, stando alle fonti più recenti, ai suoi cinque compagni a Benares, ci rivelano ciò che tali fonti ritengono più importante nel suo insegnamento. Potremmo anzi spingerci un po’oltre. Non è molto probabile, dopo la lunga e minuziosa formazione che costoro ricevettero da lui, che i primi discepoli lo abbiano frainteso su una questione così essenziale. Vi sono chiare tracce, nei nostri recenti documenti, che attestano uno sviluppo delle concezioni dei discepoli per quanto riguarda la personalità del maestro, all’interno della loro buddhologia. Tracce simili non sono finora riscontrabili in ciò che concerne lo sviluppo della dottrina originaria. La bilancia delle probabilità pende quindi a favore della 20 tradizione che ha preservato il punto di vista di Gotama stesso; e quasi certamente le espressioni da lui usate. Ma anche se adottiamo l’ipotesi più difficile, e supponiamo che la tradizione incorpori i punti di vista dei discepoli della prima ora, e che essi abbiano elaborato delle allocuzioni proponendole come il primo discorso del loro maestro, pur tuttavia in queste parole abbiamo la più antica e autorevole esposizione della dottrina buddista in nostro possesso. La parola arya - Nel testo, conservato in due passi separati del Canone37, il sentiero mostratovi viene chiamato “il sentiero Arya”, le verità che vi vengono enumerate “le verità Arya”. La parola “arya” è ambigua. Già nei Veda essa significa sia “di razza arya” che “ben nato, nobile, gentile”. Alcuni etimologisti propongono origini differenti della parola secondo i vari significati. È più probabile che il secondo significato sia derivato dal primo, visto che la nostra parola gentile significa originariamente di nascita nobile. Con il diffondersi del buddhismo il secondo significato si è così impresso nella connotazione della parola, da sottrarre tutto ciò che concerneva l’appartenenza alla razza arya. In alcuni passi la denotazione ricade sull’aspetto razziale, in altri sull’aspetto etico, in altri ancora su quello estetico. Ma tutti e tre sono presenti alle menti degli oratori così come a quelle degli ascoltatori. Nel testo di cui stiamo discutendo sono applicabili tutti e tre i significati, e probabilmente essi erano intesi come impliciti. Ho reso la parola con “nobile”; e la traduzione può essere facilmente difesa. Sono tuttavia incline a pensare che, perlomeno, l’uso di questo epiteto alluda al fatto che il nuovo sistema allora promulgato fosse considerato degno, adatto per gli uomini di un gruppo libero, per gli uomini di razza arya. I commentatori buddhisti, scrivendone molto dopo, quando la parola aveva quasi completamente perso la sua connotazione razziale, la interpretano con il significato di “degno di, adatto per gli Arahat”. E ci sono molti passaggi nei testi antichi in cui Arya e Arahat sono usati come sinonimi38. Questo è solo uno dei molti esempi di un nuovo, e come lo pensavano gli oratori, migliore, più profondo significato insufflato nelle parole antiche, e può, altresì, essere stato inteso in questo modo da Gotama. Un altro appunto è necessario a mo’ d’introduzione. Le parole che abbiamo sono un sommario condensato di un discorso protrattosi per alcuni giorni. Chiunque abbia scelto le parole, esse sono state selezionate con cura. Tradurle senza usare parole dalle sfumature cristianeggianti o intrise di idee moderne non è semplice, cosicché molte eccellenti parole inglesi debbono essere accantonate. Ogni singola parola è importante, ed è un gran peccato che nelle opere divulgative sul buddhismo le espressioni siano state di solito ulteriormente condensate (cosa che non posso tollerare) o così alterate da stravolgerne il significato. 37 38 Samyutta, v. 420 e Vinaya, i. 10. Per esempio Majjhima, i.280 e la nota di mia moglie al Duka Patthana,i.366 21 Il testo completo è il seguente: Ci sono due estremi che colui che è andato oltre39 non deve seguire- su una mano l’ abituale devozione verso le passioni, i piaceri degli oggetti sensuali, una via triviale e pagana (di ricerca della soddisfazione) ignobile, senza profitto, adatta solamente per le menti mondane; e sull’altra mano la devozione per l’automortificazione, che è dolorosa, ignobile, senza profitto. Vi è un altro sentiero, scoperto dal Tathagata40, un sentiero che apre gli occhi, che concede comprensione, che conduce alla pace, alla conoscenza interiore, alla più alta saggezza, al Nirvana. In verità! Questo è l’ottuplice sentiero arya; esso dice: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto mezzo di sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione. E ora questa è la Nobile Verità sulla sofferenza. La nascita avviene con sofferenza, la decadenza è sofferenza, la morte è sofferenza. L’unione con ciò che è spiacevole è sofferenza, la sofferenza è la separazione dal piacere; e ogni desiderio insoddisfatto, anche questo, è sofferenza. In breve, i cinque aggregati delle inclinazioni (cioè le condizioni dell’individualità) sono sofferenza. E ora questa è la Nobile Verità sull’origine della sofferenza. In verità! È la sete del desiderio che causa il rinnovarsi del divenire, che è accompagnato dalle delizie dei sensi, e ricerca soddisfazione, ora qui ora là, questo bisogna dire, il desiderio per la gratificazione dei sensi, o il desiderio per una vita futura, o il desiderio di prosperità. E ora questa è la Nobile Verità sul superamento della sofferenza. In verità! Il superamento, così che nessuna passione rimanga, il cessare, il liberarsi, l'emancipazione, il non più alimentare questa sete del desiderio. E ora questa è la nobile verità sulla via che conduce alla liberazione dalla sofferenza. In verità, é questo ottuplice sentiero arya: retta visione, retta intenzione, retta parola, retta azione, retto mezzo di sostentamento, retto sforzo, retta presenza mentale, retta concentrazione. Seguono alcune parole sul triplice modo in cui l'oratore sostiene di aver afferrato ciascuna di queste Quattro Verità. È tutto. Non c'è una parola su Dio o sull'anima , non una parola su Buddha o il buddhismo. Sembra semplice, quasi mediocre; così scarno e povero che ci si meraviglia di come ciò abbia potuto costituire il fondamento per un sistema dalla portata storica enorme. Ma le parole semplici sono pregne di significato. Le implicazioni erano abbastanza chiare per gli ascoltatori cui erano indirizzate. Non erano concepite tuttavia per lo studente europeo del ventesimo secolo e sono passibili di fraintendimento. Fortunatamente ciascuna parola, ogni proposizione, ogni idea nel discorso è ripetuta, ad nauseam, nelle Sutta41. Un breve commento alla luce di queste spiegazioni, sebbene possa essere 39 Vedi nota pag. 31 Secondo l’Arahat; la denominazione che il Buddha usa per riferirsi a se stesso; egli non si definisce mai Buddha, e nemmeno i suoi discepoli lo chiamano in tal modo. 41 Si veda, ad esempio, Diglia, ii. 305 fino a 307, and 311 fino a 313; Majjhima, iii. 231 ; Samyutta, v. 8 ; Patisambhida, i. 37-42. 40 22 solo una ripetizione di quanto ho spesso detto in precedenza, è necessario al fine di estrinsecare il significato propriamente inteso. La fine del dolore - Il superamento del dolore o della sofferenza è detto dipendere da un’emancipazione. E il Buddha altrove viene fatto dichiarare: “proprio come il grande oceano ha un solo sapore, il sapore del sale, allo stesso modo questa dottrina e disciplina ha solo un sapore, il sapore dell'emancipazione”. E ancora: “ Quando un fratello, da sé, ha conosciuto e realizzato, e continua a rimanere, qui in questo mondo visibile, in questa emancipazione della mente, in questa emancipazione del cuore, che è lo stato proprio dell’Arahat, che è una condizione di estremo silenzio, e di dolcissimo silenzio, per la ricerca della quale i fratelli hanno condotto la vita spirituale sotto la mia guida“.42 L'emancipazione è trovata in un' attitudine mentale, nell'essere libero da una precisa forma di desiderio, che è detta essere l'origine di certe specifiche forme di dolore. In certi libri europei, questo aspetto viene completamente alterato dall'essere rappresentato come se la dottrina affermasse che l'esistenza è miseria, e che il desiderio deve essere soppresso. Niente del genere è affermato nel testo. La descrizione della sofferenza o del dolore è, di fatto, una nota assiomatica, assolutamente chiara e incontestabile fino all'ultima frase. Questa frase afferma che le cinque Upadana Skandas i cinque gruppi di qualità corporee e mentali che ci rendono individui, implicano sofferenza. Sofferenza e individualità - In un linguaggio più moderno, ciò si potrebbe esprimere dicendo che le condizioni che fanno l’individuo sono precisamente quelle che danno origine alla sofferenza. Non appena un individuo si distingue come tale, diviene separato, e malattia e decadenza iniziano ad agire su di esso. L'individualità implica limitazione, la limitazione implica ignoranza, l'ignoranza finisce nella tristezza. Tutte le specie e fonti di sofferenza qui specificate - nascita, decadenza, unione con il piacere, separazione dal piacere, brame insoddisfatte - sono ciascuna semplicemente il risultato dell'individualità. C’è una generalizzazione più profonda di questa che afferma: “Un uomo nasce per causare sofferenza così come le scintille sono fatte per volare in alto”. Ma ciò è presentato come un mero dato di fatto. E la precedente storia del credo religioso in India tenderebbe a mostrare che l'enfasi è posta sul fatto, non come spiegazione delle origini del male, ma piuttosto come protesta contro la comune idea pessimistica che la salvezza non può essere raggiunta sulla terra, e deve essere cercata in una rinascita in cielo. Perciò, accettata l'argomentazione, ne conseguirebbe che anche in cielo l'individuo avrebbe continuato a essere soggetto alla tristezza; e ammettendo questo, i cinque asceti, cui le parole erano indirizzate, avrebbero ammesso anche quanto ne conseguiva. 42 Mahali Suttanta ; tradotto in Rhys Davids, Dialogues of the Buddha vol. i. p. 201. Si confronti con p. 204 23 Desiderio - La triplice divisione del desiderio alla fine della seconda verità può essere resa così: il desiderio carnale, il desiderio di vita e l'amore del mondo presente. Le ultime due sono dette altrove essere rivolte contro due sette di pensatori, chiamati Eternalisti e Annichilisti, che tengono rispettivamente per l’eresia della vita eterna e per quella del lasciateci-mangiare-e-bere-domani-moriremo43. In ogni caso però la divisione del desiderio sarebbe stata accolta dai cinque ascoltatori come corretta. Impermanenza - I dettagli del Sentiero includono diversi termini il cui significato e arco di implicazioni può non essere compreso al primo sguardo. Retta visione, ad esempio, significa principalmente osservanza delle Quattro Verità e dei tre Segni. Degli ultimi uno è identico, o perlomeno simile, alle Quattro Verità. Le altre sono Impermanenza e non-anima (l'assenza di anima), entrambi ritenuti segni di ciascuna forma d’individualità, sia divinità, animale, o uomo. Di queste due inoltre, l’Impermanenza è divenuta un’idea indiana piuttosto che buddhista; e con essa abbiamo abbastanza familiarità anche in Occidente. Non c’è Essere, ma solo un Divenire. La condizione di ogni individuo è instabile, temporanea, certa di cessare. Lo stesso nelle cose che troviamo, in ogni realtà individuale. Forma e altre qualità della materia. Ne risulta che negli organismi viventi vi è così una serie continuamente ascendente di qualità mentali. Ogni persona, o cosa, o divinità, è perciò un tenere assieme, una composizione. E in ciascun individuo, senza eccezione, la relazione fra i componenti è in perpetuo cambiamento, non è mai la stessa in due momenti consecutivi. Ne consegue che una volta che è iniziata la separazione, l’individualità, allora iniziano dissoluzione e disintegrazione. Non può esserci individualità senza un tenere assieme: non ci può essere un tenere assieme senza un divenire: non ci può essere un divenire senza divenire altro: e non ci può essere un divenire altro senza dissoluzione, senza un cessare, che prima o poi giungerà a compimento. Eraclito, che era di una generazione o due dopo Buddha, aveva idee molto simili;44 idee simili si riscontrano in opere indiane del periodo postbuddhista.45 Ma in nessuno di questi casi sono elaborate in maniera tanto radicale. Sia nel contesto europeo, che nel pensiero indiano non buddhista, le anime e gli dei fatti ad imitazione delle anime, sono considerati eccezioni. A questi spiriti è attribuito un Essere senza divenire, un'individualità senza cambiamento, un inizio senza una fine. Conformemente alla dottrina del Nobile Sentiero (o Arya) mantenere questo tipo di visione sarebbe erroneo, e l’errore ostacolerebbe la via di accesso al Sentiero. Così importante risulta questo punto, da essere messo in prima posizione nelle spiegazioni buddhiste del buddhismo. Nei testi è stabilito che il Buddha stesso ha dedicato a ciò il primissimo discorso che indirizzò ai primi convertiti. Il primo nella serie dei dialoghi di Gotama, discute e rigetta completamente, sistematicamente e 43 Si veda Iti-vuttaka, p. 44 ; Samyutta, iii, 57. Burnet, Early Greek Philosophy p. 149. 45 Katha Up., 2.10; Bhag. Gita2.14; 9.33. 44 24 categoricamente, tutte le teorie in circolazione sulle “anime”. I libri successivi seguono questo precedente. Così il Katha Vatthu, l' ultimo libro incluso nel Canone, discute alcuni punti di disaccordo sorti in seno alla comunità. Vi trova posto la questione dell’anima in testa a tutti i punti trattati, e dedica alla questione uno spazio tale da mettere in ombra tutto il resto. Allo stesso modo nei primi testi successivi al Canone - l’interessantissima e suggestiva serie di dialoghi fra il re greco Menandro e il maestro buddhista Nagasena. È precisamente la questione dell'anima che lo sconosciuto autore pone per prima, descrivendo come Nagasena convinca il re che non esiste qualcosa come l’anima, nel senso comunemente inteso. E ritorna sul soggetto ancora e ancora46. Retti desideri - Dopo Retta Visione viene Retta Intenzione. Sono i desideri malvagi, gli ideali infimi, i desideri senza utilità, le eccitazioni frivole, che devono essere soppresse dalla coltivazione dei loro opposti - retti desideri, aspirazioni elevate. In uno dei Dialoghi47 vengono forniti degli esempi – desiderio di emancipazione dalla sensualità, aspirazione del raggiungimento dell' amore verso gli altri, il desiderio di non offendere nessuna forma vivente, il desiderio di sradicamento dell' errore, e per la promozione di ciò che è giusto, le inclinazioni interne al proprio cuore; e via dicendo. Questa parte del Sentiero è in verità assolutamente semplice; e non richiede nessun commento, tranne che per il grossolano errore, costantemente ripetuto, che il buddhismo insegni la soppressione di ogni desiderio. Retto Sforzo - Delle rimanenti tappe del sentiero è necessario menzionarne solo due. Una è il Retto Sforzo, che necessita una costante vigilanza intellettuale. Non solo vi si insiste altrove in innumerevoli pagine, ma dei tre peccati mortali principali nel Buddhismo (raga, dosa, moha) l' ultimo e il peggiore è la stupidità o la lentezza mentale, gli altri sono sensualità e cattiva volontà. Il retto sforzo è strettamente connesso con la settima tappa, la Retta Presenza Mentale. Due dei dialoghi sono dedicati a questo soggetto, e altrove vi si fa costante riferimento. Il discepolo, qualsiasi cosa stia facendo, sia che stia avanzando che retrocedendo, fermo o in cammino, mentre parla o tace, mentre mangia o beve, deve tener presente in modo chiaro ciò che tutto questo significa, il carattere temporaneo dell'atto, e soprattutto, che dietro l' atto non c'è un agente (chi va, vede, mangia, parla) e che si tratta di un' unità eternamente persistente. Il precetto buddhista è analogo a quello cristiano: “Perciò sia che mangiate o beviate, o qualsiasi cosa facciate, fate tutto per la gloria di Dio”. 46 Questions of King Milinda, tradotto da ' Rhys Davids (Oxford, 1890-1894), vol. i. pp. 40, 41, 85-87 ; vol. ii. pp. 2125, 86-89. 47 Majjhima, iii. 251. Si confronti con Samyutta, v. 8. 25 Amore - Dopo il capofila Retta Azione, i due punti più importanti sono Amore e Gioia. In lingua pali amore è Metta e il Metta Sutta - (senza dubbio in riferimento alla Retta Presenza Mentale appena descritta ) dice: “Come una madre, anche a rischio della propria vita, protegge suo figlio, il suo unico figlio, così lasciatelo nutrire amore sconfinato verso tutte le creature. Lasciatelo nutrire verso il mondo intero - al di sopra, al di sotto, intorno - un cuore di amore illimitato, non confuso con interessi vari o contrastanti. Lasciate che un uomo mantenga questa pienezza mentre è sveglio, fermo, in cammino, seduto o a giacere. Questo stato del cuore è il migliore del mondo”. Spesso altrove quattro di questi stati, i Brahma Vihara, o Condizioni Sublimi, sono descritti. Essi sono Amore, Dispiacere, Dispiacere degli altri, Gioia e gioie degli altri, ed Equanimità per quanto riguarda le proprie gioie e dispiaceri.48 Ciascuno di questi sentimenti veniva deliberatamente praticato, iniziando con un singolo oggetto, e aumentando gradatamente fino a quando il mondo intero non fosse soffuso dal sentimento. “La nostra mente non deve vacillare. Non profferiremo parole malvagie. Rimarremo teneri e compassionevoli, con l’amore nel cuore, interiormente privi di malizia. E sempre diffonderemo una simile cosa con i raggi del nostro sentimento d'amore. E con questo sentimento come base permeeremo il mondo intero con l' intenzione d' amore che si spinge lontano, si accresce, oltre ogni misura, privo di risentimento o di volontà malvagia. La relativa importanza dell'amore, comparata ad altri costumi, è così descritta: Tutti i mezzi che può usare come base per agire in modo retto non sono che la sedicesima parte dell’emancipazione del cuore attraverso l’Amore. Ciò raccoglie tutto dentro di sé e lo irradia in splendore e gloria. Allo stesso modo per quante stelle ci siano, il loro splendore non raggiunge la sedicesima parte dello splendore della luna. Ciò raccoglie tutto dentro di sé e lo irradia in splendore e gloria, così come nell’ultimo mese delle piogge, al tempo della raccolta, il sole, salendo su in alto nel cielo chiaro e senza nuvole sopraffà tutte le tenebre nel reame dello spazio e prosegue a rifulgere in splendore e gloria - allo stesso modo di notte quando spunta l’aurora, la Stella del Mattino inizia a rifulgere in splendore e gloria- così tutti i mezzi che può usare come aiuto volto ad agire in modo retto, non sono che la sedicesima parte dell’emancipazione del cuore attraverso l’Amore.49 48 49 Digha, ii. 186, 187. Majjhima, i. 129. - Itivuttaka, pp. 19-21. 26 Gioia - L’intensa benedizione che pervade l’intero essere, in seguito alla certezza della salvazione vince, indipendentemente dai dogmi o dalle credenze di chi ha perso il disincanto, é passato attraverso la lotta, e consegue appunto la vittoria. Abbiamo indubbi ed estremamente interessanti esempi fra gli aderenti alle correnti cristiane più antagoniste. E i sufi musulmani e gli aharat buddisti hanno avuto la stessa esperienza. Ci sono nel canone due collezioni di canti dei più antichi, attribuiti rispettivamente a centosette uomini e a settantatré donne che divennero arahat durante la vita del Buddha. Si tratta, tranne rare eccezioni, di peana di gioia e di vittoria. Sfortunatamente, finora non sono stati tradotti in inglese; ma lo spirito che li anima é mostrato nel passo in prosa seguente: dopo aver puntualizzato che gli ostacoli (Nivarana) sensualitá, cattiva volontá, torpore della mente o del corpo, tormento, indecisione – affliggono l’uomo come i debiti, la malattia, l’incarceramento, la schiavitù e l’ansia- prosegue: Quando questi cinque impedimenti sono stati tolti fuori da lui, esso si osserva dall’alto come liberato dal debito, affrancato dalla malattia, fuori dalla prigione, un uomo libero e sicuro. E mentre realizza ciò, zampilla da lui contentezza, e la gioia che lo assale lo rende così contento, che la sua intera struttura sperimenta il benessere, ed essendo così a suo agio é pervaso da un senso di pace, e in questa pace permane il suo cuore. C’é una serie di versi nel Dhammapada su questo stato di grazia, la Retta Concentrazione, l’ultimo grado del Sentiero. Quello che segue é uno di essi: É nella vera grazia che dimoriamo, noi che non odiamo coloro che ci odiano; in mezzo ad uomini pieni di odio, proseguiamo privi di odio. É nella vera grazia che dimoriamo, in salute in mezzo ai sofferenti. In mezzo a uomini stanchi e ammalati, procediamo in buona salute. É nella vera grazia che dimoriamo, liberi dalla preoccupazione in mezzo a coloro Che dalla preoccupazione sono sfiniti; in mezzo a uomini pieni di tormenti, procediamo calmi. É nella vera grazia che dimoriamo, non abbiamo ostacoli; Ci abbevereremo alla gioia, come dèi nel loro luminoso splendore.50 Un altro verso nella stessa antologia dice: Quando il saggio ha scacciato con vigore lontano da sé, La vanità, dalle alture terrazzate della saggezza su cui si arrampica, 50 Dhammapada, versi 197-200. 27 e scevro da preoccupazioni guarda in basso verso il vano mondo, la folla oppressa dai tormenti, come chi, salito sulla sommità della montagna osserva coloro che faticano nella piana.51 Capitolo V I leoni sul sentiero Sebbene i testi siano pieni di rassicurazioni sulla possibilità di felicità qui, in questo mondo, senza aspettarne uno migliore, essi non sono ciechi sull’altro aspetto della questione, e riconoscono, francamente e completamente, gli ostacoli e i pericoli. Come di consueto, in assenza di libri, sono ordinati, per favorire la memoria, in classi. I più pericolosi sono i cinque ostacoli (vedi sopra pagina 63), i dieci legami e le quattro intossicazioni. I legami sono: 1) Delusioni riguardo l’anima (Sakkaya-ditthi). 2) Dubbio (Vicikiccha). 3) Dipendenza dalle opere (Silabbata-paramasa). 4) Sensualitá (Kama). 5) Cattiva volontá ( Pathiga). 6) Desiderio di rinascita sulla terra (Rupa-raga). 7) Desiderio di rinascita in cielo (Arupa-raga). 8) Orgoglio (Muno). 9) Auto-giudizio (Uddhacca) 10) Ignoranza (Avijja) Queste parole sono perfettamente semplici, eccetto sei o sette, che sono spiegate in seguito. La cosa curiosa é che queste cattive inclinazioni vengono supposte di essere vinte in ordine- così, per esempio, vincere le delusioni riguardo l’anima é il vero ingresso sul sentiero, e vincere l’ignoranza (il pauroso avversario, il peggior nemico della razza umana) é possibile solo al termine di esso. Non posso dire che non ci sia qualche ragione in questo, specialmente se consideriamo i frequenti esempi, nei testi, di individui che, in momenti di esaltazione spirituale e di discernimento, si sono emancipati da tre, quattro o cinque legami in un balzo solo. Aver dissolto i primi tre é quello che noi potremmo chiamare conversione e che loro definiscono “l’ingresso nella corrente”. E poiché la Promessa Finale fa parte del buddhismo delle 51 Dhammapada, verso 28 28 origini, non può esservi una permanente ricaduta. Prima o poi, in questa o in un’altra nascita, la salvezza finale é assicurata. Le intossicazioni- Le intossicazioni originariamente sono tre- l’infatuazione mentale che sorge rispettivamente, dai piaceri sensuali, dall’orgoglio della vita, e dall’ignoranza. Poi ne fu aggiunta una quarta. Quest’ aggiunta deve essere stata fatta molto presto, nell’avanzare del movimento; ed é di notevole interesse dal punto di vista della storia del pensiero umano. Era l’infatuazione derivante dalla speculazione: intesa come speculazione sulle incerte, ultime cause, questioni di nessun rilievo per la condotta pratica della vita. Lo stigma assegnato a questa sorta di speculazione, era il più formidabile attacco che fosse stato fatto, nella storia del mondo, alla teologia e alla metafisica. Le teorie rivali pretendono di spiegare le origini e la fine di tutte le cose, di essere capaci di stabilire in maniera esatta finitezza o infinitezza del mondo, eternità dell’anima e di quelle anime più grandi, gli dèi. Il buddhismo dichiara che ogni cosa ha una causa, la causa (o le cause) incluse: che non c’é niente di permanente; e questo non é solo un metodo sufficiente, ma anche l’unico vero, di dedurre da una causa quella precedente, e così via, senza alcuna speranza, e nemmeno desiderio, di spiegare la causa ultima di tutte le cose. Il più famoso di tutti i passi buddhisti, trovato scolpito su diecimila doni votivi nei santuari in India, messo in bocca, nel Canone, al quinto degli Arahat, e ritenuto autorevole nelle opere di tutte le scuole di pensiero buddhista, eccetto le ultimissime, ci dice: “Di tutti i fenomeni sorti da una causa il Buddha ha detto la causa, Ed egli ha anche detto come ciascuno di essi avrà la sua fine, solo questa é la parola del Saggio”52 Gli indeterminati- Questa posizione sembrò essere a molti contemporanei di Gautama un’ammissione di fallimento. Ed era un fallimento, dal punto di vista di coloro che esattamente a queste questioni attribuivano la maggiore importanza. Ma Gautama era irremovibile. Non solo rifiutava di rispondere, ma anche di discutere certi punti. Essi ovviamente riemergevano con costanza. La sua risposta era una lista di indeterminati, domande vietate. 1,2 Se il mondo é eterno o meno 3,4 Se il mondo é infinito o meno 5,6 Se l’anima é la stessa cosa del corpo, o differente da esso 7-10 Se un uomo esiste in qualche modo dopo la morte.53 52 Vinaya, i. 40. Si confronti Isa Upanishad, 14. E. Hardy in Netti, p. xxiii. 53 Al riguardo si veda la mia discussione sugli Indeterminati in: 29 Ve ne erano altre, ma queste erano quelle maggiormente menzionate. Su tali punti insistono i brahmini e le persone chiuse di testa, disputandosi su di essi, discutendo violentemente. Misera gente! Non vedono che un lato della medaglia. Espressioni simili alle seguenti si trovano diverse volte nei Dialoghi: La giungla, il deserto, il teatro dei burattini, il dibattersi, il groviglio di queste speculazioni é accompagnato da tristezza, dispute, risentimento, paura dell’eccitamento. Ciò non conduce né al distacco del cuore, né alla libertà dai desideri, né alla tranquillità, né alla pace, né alla saggezza, né al discernimento dei gradi più alti del sentiero, né al Nirvana.54 Troviamo qui due affermazioni: Non fateci discutere di cose che non abbiano per noi una chiara evidenza. Non fateci discutere di cose che per noi non hanno utilità, che non apportano bene, ma il contrario. Se giuste o meno, entrambe le affermazioni mi sembrano abbastanza intellegibili. Sottili argomentazioni tuttavia vengono apportate per dimostrare che, dietro al deliberato silenzio di Gautama, risiede, dopo tutto, una credenza nascosta ed esoterica, non trasmessa ai suoi discepoli, in una vita futura e in altri punti del credo dei suoi oppositori. Ciò, per me, non é comprensibile. Come fosse possibile la posizione di Gautama si può arguire dalla descrizione di Frederich Harrison di un intento tenuto al momento in Europa: “Quando uomini di alto livello morale e intellettuale ci assicurano di aver trovato pace, unità, e giovamento in concezioni inerenti loro stessi, la loro propria natura, il mondo esterno, la sua origine, costruzione e il suo sussistere, il futuro stato di ciò che essi concepiscono essere come una parte, o l’essenza di se stessi, lungi da noi il contestare valore e realtà di questa conoscenza...se non le adottiamo, non é perché crediamo che siano false, ma perché mancano per noi di interesse. Da esse non possiamo trarre nessun bene pratico”.55 O comparare questo, di una scuola molto differente: Il Professor James dice: Dialogues of the Buddha, vol. i. p. 186 fol. 54 Majjhima, i. 431, 485 55 Philosophy of Common Sense (London, 1907), p. 40. 30 “ Il mondo é unico o molteplice? Regolato dal destino o libero? Materiale o spirituale? Qui ci sono delle nozioni del mondo ciascuna delle quali può o non può essere ritenuta buona; e le dispute su nozioni simili sono infinite. Il metodo pragmatico in tali casi consiste nell’interpretare ciascuna nozione trattandone le rispettive conseguenze pratiche”.56 Il Buddha non era né comtista né pragmatista. Ma questi estratti possono mostrarci quanto non sia necessario cercare di leggere fra le righe di passaggi al contrario, in modo da trovare in essi le chicche metafisiche care a così tanti cuori. In ogni caso, risulta chiaro che per il Buddhismo delle origini la speculazione teosofica era senza dubbio il meno pericoloso dei leoni sul Sentiero. Aver realizzato le verità e attraversato il Sentiero, aver spezzato i Legami, messo fine alle Intossicazioni, essersi liberati dagli Ostacoli, padroneggiare il desiderio di speculazione metafisica, significava aver raggiunto l’ideale, il Frutto, come viene chiamato, dell’Arahat. Si potrebbero riempire colonne con le lodi, molte delle quali rappresentano i più bei passaggi della poesia e della prosa pali, prodigate a questa condizione della mente, lo stato dell’uomo reso perfetto secondo il credo buddhista. Molti sono i nomi di animali, gli epiteti poetici, dedicati a ciò, ciascuno dei quali- per loro non sono sinonimi- é atto ad enfatizzare una o l’altra fase di questa concezione tanto variegata- l’albero del rifugio, la fresca grotta, l’isola in mezzo alle correnti, il luogo della beatitudine, dell’emancipazione, della liberazione, della salvezza, il supremo, il trascendentale, l’increato, il quieto, la dimora della tranquillità, la calma, la fine della sofferenza, la medicina per ogni male, il luogo senza scosse, l’ambrosia, l’immateriale, l’imperituro, l’immutabile, la riva più lontana, l’infinito, la beatitudine dello sforzo, la gioia suprema, l’ineffabile, il distacco, la città sacra, e molti altri. Forse il più frequente nei testi buddhisti é Arahat “lo stato di colui che é meritevole”; e l’unico esclusivamente usato in Europa é Nirvana, l’estinzione, l’estinzione nel cuore del fuoco crudele dei tre peccati mortali- sensualitá, cattiva volontá, e stupidità.57 La scelta di questo termine da parte degli scrittori europei, una scelta compiuta molto prima che alcuno dei testi buddhisti canonici fosse pubblicato o tradotto, ha ottenuto un effetto particolarmente sfortunato. Questi scrittori non condividono, né ci si può aspettare che lo facciano, l’esuberante ottimismo dei primi buddhisti. Loro stessi tralasciano questo mondo in quanto senza speranza, e cercando salvezza nell’altro, ovviamente pensano che i buddhisti facciano lo stesso; e in assenza di qualsivoglia scritto autentico per correggere l’errore, interpretano il Nirvana secondo i canoni del loro credo, come una condizione da raggiungere dopo la morte. Così hanno supposto che “estinzione” significasse l’estinzione di un’anima; e senza fine erano le discussioni se ciò significasse un’estasi eterna o completo 56 57 Pragmatism (London, 1907), p. 45. Samyutta, iv. 251, 261. 31 annichilimento dell’anima. Sono passati ora trent’anni da quando per la prima volta proposi la corretta interpretazione.58 Ma oltre i ranghi degli studiosi di lingua pali il vecchio errore continua ad essere ripetuto spesso. Si potrebbe aggiungere che la credenza nella salvezza in questo mondo, in questa vita, sebbene mai chiaramente o apertamente espressa, era realmente implicita nel pensiero pre-buddhista. E questa si é appellata in maniera così forte alle simpatie indiane che, dal tempo dell’ascesa del Buddhismo fino ad oggi, é stata adottata come parte del credo generale indiano, e Jivanmukti, la salvezza in questa vita, é diventata una parola corrente nel linguaggio religioso indiano. CAPITOLO VI LE DOTTRINE ADOTTATE- KARMA Trasmigrazione- Quelle esposte sopra sono le dottrine essenziali del Buddhismo originario. Sono allo stesso tempo le dottrine distintive, ovvero le dottrine che lo distinguono dagli insegnamenti che lo hanno preceduto in India, ma il Buddha, sebbene rifiutando i sacrifici e l’aspetto magico - rituale delle scuole brahminiche, le superstizioni animistiche del popolo, e le speculazioni panteistiche dei poeti delle Upanishad pre - buddhiste, continuò a mantenere il credo nella trasmigrazione. Questa credenza, la trasmigrazione dell’anima, dopo la morte del corpo, in altri corpi, sia di esseri umani, sia di animali, o dèi- é parte del credo animistico, e così largamente riscontrabile in tutto il mondo, da essere stato probabilmente universale. In India, già prima dell’ascesa del Buddhismo, era già stato innalzato a concezione etica dalla dottrina del karma associatavi, secondo la quale, la posizione sociale di un uomo e i suoi vantaggi fisici, oppure il contrario, erano il risultato delle sue azioni in una nascita precedente. La dottrina offre così una spiegazione, abbastanza esaustiva, a coloro disposti a credervi, delle apparenti anomalie ed errori nella distribuzione della felicità o del dolore su questa terra. Un uomo, per esempio, é cieco. Ciò é dovuto alla lascivia dell’occhio in una nascita precedente.59 Ha anche dei poteri d’ascolto inusuali. Questo perché ha amato, in una precedente nascita, ascoltare la predicazione della legge. La spiegazione sarebbe potuta essere sempre esatta, poiché ad essere spiegato era raramente qualcosa di più dell’asserzione. E calza i fatti, in quanto deriva da essi. E non può essere contestata, poiché riposa in una sfera che é oltre la portata dell’indagine umana. 58 Nella prima edizione del mio manuale Buddhism, pubblicata dalla Society for Promoting Christian Knowledge nel 1877. 59 Si confonti S’at Br., tradotto da 'Eggeling, i. 267, with Ghdndog Up., 5-10, Brihad Ar. Up., vi. 2-15, e Kaushitaki Up. , pag 116 (ed. Cowcll). 32 Il Ponte- Quindi é poiché provvede ad una causa morale che venne mantenuta nel Buddhismo. Ma dal momento che il Buddha non riconosce l’anima, il legame tra una vita e la prossima deve essere trovato altrove. Il Buddha lo trovò (così come Platone)60 nell’influenza esercitata su una vita da un desiderio mancato di una precedente. Allorché due pensatori così eminenti (probabilmente i due più grandi pensatori etici dell’antichità) sono arrivati indipendentemente a questa strana conclusione, e si trovano d’accordo nell’ascrivere ai desideri mancati in questa vita un’importanza tale, e per tanto inconcepibile, un potere sulla vita futura, potremmo esitare prima di condannare l’idea come intrinsecamente assurda. E potremmo prendere nota di questo importante fatto che, date condizioni simili, passi simili nel progresso del credo religioso, il pensiero umano, a dispetto dell’incontestabile originalità individuale, tende, benché non possa mai produrre esattamente lo stesso risultato, a lavorare in modo similare, per quanto estraneo. Modalità del karma - In India, prima del Buddhismo, visioni conflittuali e contraddittorie emergono come il modo esatto di azione del karma, e troviamo questa confusione riflessa nella teoria buddhista. I punti di vista prevalenti sono stati inchiodati, per così dire, alle dottrine essenziali del buddhismo, senza essere completamente assimilati o incorporati in maniera logica ad esse. Così nella storia del buon Citta, un laico, é un’aspirazione espressa sul letto di morte61, in un dialogo sul soggetto é un pensiero che indugia sulla continuità della vita, nelle numerose pietre nel Peta e Ymana Yatthu é usualmente qualche atto isolato; nelle discussioni nel Dhamma Sangani é una qualche disposizione mentale ad essere il Karma (il fare od agire) nel corso di una vita, a determinare la posizione dell’individuo nella prossima. Si tratta di posizioni realmente conflittuali. Sono simili solo nel fatto che in ciascun caso è fornita una causa morale per la posizione in cui l’individuo si trova sul momento, e la causa morale é la sua azione peculiare. Il nuovo corpo- Nella credenza popolare, seguita anche nella teologia brahminica, il ponte fra le due vite era una minuta e sottile entità, chiamata anima, che abbandona il corpo alla morte (generalmente attraverso un foro sulla sommità del capo) ed entra nel nuovo corpo. Il nuovo corpo é lì, pronto, senza che in lui vi sia anima. L’anima non forma il corpo. Nell’adattamento buddhista di questa teoria, né anima, né coscienza, né memoria, passano da un corpo all’altro. Sono la cupidigia, il desiderio, ancora esistenti alla morte di un corpo, a causare il nuovo assetto di skandha, a far sorgere il nuovo corpo con le sue inclinazioni mentali e capacità. Come ciò avvenga non é spiegato in alcun luogo. 60 61 Fedone, pag 69 e seg. L’idea é qui articolata in riferimento alla credenza nella trasmigrazione. Samyutta, iv. 302. 2 Majjhima, iii. 99 e seguenti 33 Est e Ovest- La teoria indiana del Karma é stata elaborata con molti spunti di grande bellezza e di valore etico. E l’adattamento buddhista di questa, evitando alcune delle difficoltà comuni a essa ed alle corrispettive teorie europee del fato, della provvidenza e della predestinazione, tenta di spiegare il peso dell’universo nella sua azione sull’individuale; non possiamo scappare alla mano pesante di un passato incommensurabile, la stretta connessione tra tutte le forme di vita, e i misteri del carattere ereditario. Le teorie europee pongono l’accento sul futuro, quelle indiane sul passato. Una persona che crede nell’anima, mentre soffre può dire: “Ciò era prestabilito, devo sottomettermi”, e può cercare di rettificare la bilancia della giustizia, assumendo un rimedio, di cui non ha prove, in un mondo più soddisfacente oltre la tomba. Se crede nel Karma penserà: “É colpa mia”.E può cercare di rettificare la bilancia della giustizia, assumendo un'identità, per cui non ha prove, tra se stesso e qualcun altro nel passato. Le teorie indiane pongono l’accento su una legge, quelle europee sull’azione di una volontà superiore. Ed é estremamente suggestivo che l’errore nella visione platonica e in quella buddhista sia precisamente molto simile all’errore contro cui il Buddhismo, nel caso della teoria dell’anima, intraprese una protesta tanto forte. Il Buddhismo delle origini riconosce tutte le qualità, i sentimenti ecc...inclusi nel termine “anima”; ma dice che l’errore risiede nel postulare un’eterna unità invece di una pluralità in continuo cambiamento. Nel caso del Karma, era il Buddhismo stesso a porre un’unità dove doveva esservi pluralità; esso rappresenta l’azione delle vite passate su quelle presenti- il che é una grande verità- come l’azione di una vita passata sulla presente, in una maniera non supportata dai fatti dell’esperienza. Come può essere spiegata questa differenza di metodo? Non é perché nel Karma i buddhisti trovano, contemporaneamente, una causa morale, un regno di giustizia e una scappatoia dalle onde infinite dell’oscuro oceano della trasmigrazione? E il dato su cui riposa la teoria indiana del karma è riconosciuto essere molto reale. La storia di un individuo non inizia con la sua nascita. Il suo farsi si dispiega nell’arco di innumeri eoni. Esso non può staccarsi dal suo passato; no, neppure per un istante. Il piccolo bucaneve abbassa il suo magico capo quel tanto, e non di più, perché ciò è regolato dall’universo. É un bucaneve e non una quercia, perché questa è la conseguenza del karma di una serie infinita di esistenze passate; e poiché non inizia ad essere quando il fiore si apre, o quando la pianta madre per la prima volta spunta attraverso il terreno, o la prima volta che incontra l' abbraccio del sole, o in qualsiasi punto del tempo che tu o io possiamo stabilire. Un grande scrittore americano dice: era un tentativo poetico sollevare questa montagna del Fato, riconciliare con la libertà questo dispotismo di Razza, che spinse gli Indù a dire “ Il Fato non è nient’altro che le azioni compiute in uno stato di esistenza precedente”. Trovo una coincidenza fra gli estremi della speculazione occidentale e orientale nella coraggiosa affermazione del filosofo tedesco Schelling: “C' è in ciascun uomo una certa sensazione di essere stato ciò che è da tutta l' 34 eternità.” Possiamo aggiungere un nuovo e più profondo significato alle parole del poeta: “Le nostre azioni ci seguono da lontano, e cosa siamo stati ci rende ciò che siamo”.62 CAPITOLO VII DOTTRINE ADOTTATE ( continuazione) : COSMOGONIA. RUOTA DELLA VITA I Kalpa e i Sistemi – mondo - Un' altra idea indiana ha avuto una grande influenza nella visione della vita del Buddha. Proprio come la dottrina del Karma pose ogni pensatore indiano faccia a faccia con periodi di tempo incommensurabili, specialmente nel passato, ma anche nel futuro; così la visione del mondo lo pose faccia a faccia con gli incommensurabili reami nello spazio. Nei più antichi testi buddhisti è dato per scontato che esistono diecimila sistemi-mondo, laddove la formula diecimila intende propriamente un numero incalcolabile. Questi sono organizzati nello spazio in gruppi di tre; e sono soggetti ad un continuo processo di disintegrazione ed evoluzione. Il tempo occupato da un simile processo, compreso fra l’inizio della dissoluzione e la restaurazione completa, era chiamato Grande Eone o Mâha Kalpa. E ogni Grande Eone era diviso in quattro Incalcolabili, Asankheyyas. Nei libri più tardi i dettagli sono elaborati con dovizia di numeri nell'ordine di milioni. Nei testi più antichi troviamo solo lo schema generale, ancora abbastanza vago,nella sua immensità. Lo schema non è stato tracciato negli scritti pre - buddhisti; ma, per ragioni troppo lunghe da specificare qui, non ho dubbio che fosse, nei suoi punti essenziali, più antico rispetto all'ascesa del Buddhismo. Oserei pensare che queste idee d’immensità di tempo e spazio, dell'insignificanza, a paragone con l’universo, del nostro sistema-mondo; dell'essenziale unità tra l'essere umano e tutti gli animali (e anche le piante); degli immensi periodi di disintegrazione e ricostruzione di ciascun sistema-mondo; del fatto che tutte le cose, l' intero universo, si trovano in un processo di divenire, deve aver contribuito in larga parte alle conclusioni dispiegatesi a fronte dell' immenso pericolo e danno della trasmigrazione, alla totale assenza di speranze nella ricerca di una qualsivoglia salvezza in qualsivoglia aldilà, di fronte alla necessità di un sistema di disciplina mentale e morale, padronanza di se stessi, di condotta, che potesse garantire sicurezza e felicità qui e ora. Questa conclusione sarà probabilmente considerata inevitabile da coloro che rammentano quale largo gioco avessero le allora correnti idee di cosmogonia nella teologia scolastica dell'Europa; e quanto grande fosse in generale il cambiamento apportato 62 Nessuno finora ha portato a termine una storia del diffondersi in India delle varie teorie sul karma.Il professor Hopkins ha scritto su ció un articolo suggestivo per il Journal of the Royal Asiatic Society del 1906. Per quanto concerne il buddhismo il lettore puó consultare Rhys David Buddhism (S.P.C.K.), 21st ed., pp. 93106, e del Dahlke Aufsaetze zum Verstaendis des Buddhismus (Berlin, 1903), i. 92-106, and ii. 1-11 35 dalle nuove idee, quali la posizione del nostro mondo, e l'evoluzione dell'uomo. I dettagli dello schema buddhista, secondo la rielaborazione dei commentatori negli ultimi tempi, sono quasi tutti errati. Lo schema generale stesso, come era considerato ai tempi del Buddha, non è accurato. Ma era molto più vicino alla verità attuale delle teorie propugnate ovunque nel mondo nel sesto secolo a.c., e sicuramente ci farebbe commettere un errore storico omettere di attribuire ciò una grande importanza nella nostra stima delle probabili ragioni della crescita del buddhismo delle origini. La Ruota della Vita- Si trova in molti passi del Canone la seguente formula : 1. In seguito all' Ignoranza, i Sankhara 2. In seguito ai Sankhara, Coscienza 3. In seguito alla Coscienza, Nome e Forma 4. In seguito a Nome e Forma, le sei Province (dei sei sensi) 5. In seguito alle sei Province, Contatto 6. In seguito al Contatto, Sensazione 7. In seguito alla Sensazione, Desiderio 8. In seguito al Desiderio, Attaccamento 9. In seguito all' Attaccamento, Divenire 10.In seguito al Divenire, Nascita 11,12. In seguito alla Nascita, vecchiaia e morte, angoscia, lamentazione, sofferenza, scoraggiamento e disperazione. Questa formula, chiamata Paticca Samuppada (origine attraverso la dipendenza), è ripetuta, e sono date precise spiegazioni di certi termini usati. Ma da nessuna parte si trova una qualche spiegazione, intellegibile alle idee moderne, sul perché ciascun vincolo nella sequenza causi il successivo, o sull' esatto significato delle parole. Ne consegue che neanche due discepoli concordano con questa interpretazione. Ho discusso tale aspetto nelle Lezioni Americane, ma non sono particolarmente affezionato alla mia interpretazione. Mi sembra essere un tentativo (va da sè, sbagliato nell' intenzione) di descrivere la modalità in cui il Karma in una vita crea un individuo nella successiva. Se è così, le clausole 1 e 2 si riferiscono alla nascita precedente, le clausole 3-9 alla presente, e le clausole 10 e 12 alla nascita futura. Ora, il Professor Jacobi ha mostrato come negli scritti Yoga e Sankhya, alcuni secoli dopo il Buddha, si trovino espressioni in qualche modo simili a queste, sebbene non organizzate in sequenza, e che si riferiscono alle successioni di esperienza psicologica in una singola nascita. I termini tecnici usati in verità non sono gli stessi, e ciò a volte richiede non poca sottigliezza per armonizzarli. Ma c’è abbastanza somiglianza per mostrare che idee simili, come la successione di stati psicologici, erano correnti nelle scuole di pensiero non-buddhiste, al tempo in cui questi scritti 36 vennero composti. La formula buddhista resta al di fuori dei dogmi principali del sistema, come vischio appeso ad una quercia, e può essere esclusa senza modificare in modo considerevole il sistema. La teoria dell’azione del karma nella creazione di un nuovo individuo era sicuramente presa a prestito. Sembrerebbe molto probabile che questa concatenazione, designata per spiegare il processo, sia, o stata presa a prestito, o adattata, da qualche concatenazione precedente. Estasi – Un altro punto dell’insegnamento buddhista adottato da un credo antecedente era la pratica della meditazione estatica. Nei tempi più lontani del più remoto animismo, troviamo la credenza che una persona, persa la cognizione del mondo circostante, posseduta da uno spirito, acquisisse da questo stato una condizione di santità, e fosse supposta avere un grado di discernimento, negato ai comuni mortali. In India, dal delirio del soma negli Yeda, attraverso le fantasticherie mistiche delle Upanishad, e le trance ipnotiche dello yoga antico, credenze e pratiche congiunte non hanno mai perso la loro importanza e il loro fascino. Risulta chiaro dai Dialoghi e dalle più antiche inscrizioni buddiste, che la credenza era in pieno vigore quando il Buddhismo si diffuse, e che la pratica era seguita dai maestri di Buddha. Era praticamente impossibile per lui ignorare la questione; e la pratica era ammessa come parte dell’istruzione del buddista Bhikshu. Tuttavia questa non era la parte più importante e poteva essere del tutto omessa. Gli stati estatici erano chiamati Condizioni di Felicità, e sono visti come utili per perseguire la rimozione degli ostacoli mentali per il raggiungimento della condizione di Arahat.63 Delle trentasette parti che costituiscono l’insegnamento di Buddha queste entrano in un gruppo di quattro. Ricercare la condizione di Arahat solamente nella pratica dell’estasi viene considerato un’eresia mortale.64 Così queste pratiche sono entrambe buone, e utili ciascuna in vista del fine proposto. Ma esse non sono il fine, e il fine può essere raggiunto senza esse. La forma più antica che questi esercizi presero é conservata nei paragrafi spesso ricorrenti tradotti nei miei Dialoghi del Buddha (i. 84-92). Forme più moderne e molto più elaborate vengono fornite nel Yogdvacara's Manual of Indian Mysticism as Practised by Buddhists, edito da me per un’edizione della Pali Text Society nel 1896. Nell’introduzione a quest’ultimo lavoro le varie fasi della questione sono discusse a lungo. Ci sono altri punti sui quali il pensiero originario e la pratica hanno preparato la via per il buddhismo. E nella misura in cui approssimativamente conosciamo sia le date di attività del Buddha, sia quella dei primissimi testi buddhisti, tali punti di rassomiglianza saranno di enorme valore, quando si verrà a scrivere una storia della filosofia in India. Ma quelli qui menzionati sono forse quelli di maggior importanza. E potremmo concludere con le 63 64 Per esempio, Majjhima, i. 163-166. Anguttara, iii. 119, Digha, i. 38. 37 parole del Professor Huxley, alla fine di questa esposizione del Buddismo delle origini65: Un sistema che non conosce Dio nel senso Occidentale, che nega un’anima all’uomo; che ritiene il credere nell’immortalità un errore, e la speranza in essa un peccato; che nega ogni efficacia a preghiere e sacrifici; che invita gli uomini a non perseguire nient’altro che i propri sforzi per la salvezza; che nella sua purezza originaria niente sa di voti di obbedienza e mai cercò l’aiuto del braccio secolare; non di meno si é diffuso per una considerevole metà del vecchio mondo, ed é ancora, con qualsivoglia miscela di vili superstizioni estranee, la fede dominante di una larga parte dell’umanitá. 65 Romanes Lecture, London, 1893, p. 21. 38