Riformabilità o irriformabilità del capitalismo?

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Riformabilità o irriformabilità del capitalismo?
RIFORMABILITA’ O IRRIFORMABILITA’ DEL CAPITALISMO? UN CONFRONTO TRA COlIN CROUCH
(Making Capitalism Fit For Society, Polity Press, Cambridge, 2013) e WOLFGANG STREECK (Tempo
guadagnato La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano, 2013)
(Laura Pennacchi, marzo 2014, per il numero 1/2014 de “La Rivista delle Politiche Sociali”)
Sia il libro di Colin Crouch (Making Capitalism fit for Society) – di cui in questo numero di RPS
presentiamo in anteprima un capitolo tradotto – sia quello di Wolfgang Streeck (Tempo
guadagnato La crisi rinviata del capitalismo democratico) hanno al loro cuore la cruciale idea che
la crisi globale che da sette anni ormai affligge il mondo coinvolge interamente tanto la sfera
dell’economia quanto quella della politica. L’operare dell’ intreccio fra le due sfere solleva grandi
preoccupazioni per le sorti della democrazia, soprattutto in conseguenza del ruolo nefasto assai
pervasivo che vi giocano le grandi corporation (tema quest’ultimo al quale Crouch aveva dedicato
due suoi precedenti lavori, comparsi in italiano da Laterza con i titoli Postdemocrazia e Il potere dei
giganti, peraltro fonti rilevanti proprio della riflessione odierna di Streeck). I due libri che in
questa sede presentiamo approdano, però, a conclusioni molto diverse, perfino divergenti – in
particolare in merito al futuro dell’Europa e dell’Euro –, conclusioni che è bene anticipare.
Per Crouch è fondamentale evitare il ritorno ai nazionalismi e al protezionismo economico
(trappole pericolose che inducono un declino degli scambi internazionali, un arretramento della
competizione interna, un degrado della qualità dei beni e dei servizi, senza menzionare il pericolo
addirittura delle guerre commerciali). Nella costruzione di network globali alternativi - che è la
strada da percorrere - a quelli basati sul signoraggio del dollaro e sul potere delle grandi
corporation, l’Europa è il “miglior candidato” per muovere verso una globalizzazione “equa” e per
orientare “strutture sovranazionali capaci di rappresentare interessi al di là delle forze di mercato
e della competizione globale” e la moneta unica è stato, e rimane, un passaggio importante per
andare in questa direzione. L’Europa, infatti, se negli ultimi anni ha visto prevalere le componenti
politiche di centro-destra che la vogliono configurare come aggressiva “forza di mercatizzazione”,
ha però sempre coltivato nel suo seno una pluralità di ispirazioni e anche componenti animate
dall’identificare un “distinto ruolo” per politiche sociali di profonda correzione delle tendenze
distruttive intrinseche ai mercati, il che ha portato a realizzazioni “impressionanti” (impressive)
per esempio all’epoca delle presidenze Delors e Prodi e con la Carta dei diritti. L’Europa unita,
dunque, per Crouch rimane un orizzonte fondamentale perché possa essere riproposto a livello
internazionale un governo adeguato dei tormentati processi economici contemporanei e il
neoliberismo – fin qui sconfitto, con la crisi scoppiata nel 2007/2008, sul piano culturale, ma
tutt’altro che vinto sul piano pratico – sia profondamente combattuto e piegato. L’alternativa a
questo percorso non sarebbe un’impossibile ritorno all’autonomia degli stati nazionali, ma la
subordinazione al potere delle corporation globali, degli stock markets, delle agenzie di rating. La
sinistra – specie quella socialdemocratica, in congiunzione con il sindacato che ha bisogno di
cambiamenti nelle strategie e nei modelli organizzativi ma rimane un’istituzione estremamente
vitale – ha un compito decisivo da svolgere, a patto di uscire dall’assetto odierno,
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prevalentemente “difensivo”, assumendo un orientamento e un carattere nettamente “assertivo”
(assertive), e di allearsi con le istanze ambientaliste, con i movimenti femministi, con altri
movimenti che animano il variegato scenario della società civile.
Al contrario, secondo Streeck, entrato su tutto ciò in polemica con Habermas, di fronte agli esiti
recessivi e stagnazionistici devastanti generati in tutti i paesi europei dalle politiche di “austerità”
e dai tentativi di salvare l’Euro (che minacciava di saltare) – imposti dalla Germania della Merkel
quando nel 2010 l’epicentro della crisi globale si è spostato dagli Stati Uniti al nostro continente –,
è arrivato il momento di riconoscere che il processo dell’Europa unita, basato sulla cessione di
sovranità da parte degli stati nazionali, è stato segnato fin dall’inizio dalla volontà di trasformare
l’Unione in un “catalizzatore della liberalizzazione del capitalismo”, volontà a cui hanno finito con
l’aderire anche personaggi come Delors e Prodi i quali, anzi, hanno il demerito di essersi eretti a
paladini della necessità che l’Europa riconquistasse primariamente competitività nei confronti
degli USA. Così si è dato vita a una struttura istituzionale malata, “progettata per garantire che gli
stati nazionali un tempo sovrani si conformino alle richieste del mercato”, il che si è tradotto in
scelte “per vincolare gli stati a un regime sovranazionale non democratico, una sorta di superstato
internazionale ed estraneo alla democrazia chiamato a governarli dall'alto”. L’Euro è stato un
tassello decisivo di questo processo, uno strumento al servizio di quella che Streeck – riprendendo
la famosa negazione di Hayek di ogni possibilità di “giustizia sociale” – chiama “giustizia del
mercato”, componente centrale, in questa visione, dell’applicazione all’Europa del progetto
neoliberista. È tutto ciò che torna a dare grande valore alla questione della sovranità nazionale:
sarebbe esiziale procedere con “fughe in avanti” verso l’Europa unificata anche sul piano politico e
invece bisogna ripristinare le sovranità nazionali – poiché non può darsi “democrazia sociale” in
loro assenza -, consentendo a ogni paese di coltivare la propria diversità, senza inseguire feroci
convergenze. Per Streeck un Piano Marshall per l’Europa – che è proprio la richiesta della DGB
tedesca e di altri sindacati europei, tra cui la Cgil che avanza anche la proposta di un Piano del
lavoro interno – oggi “sarebbe impensabile”. Se l’Euro “obbliga i paesi a usare lo strumento
neoliberista della svalutazione interna” (con pressioni al ribasso sui salari, sui mercati del lavoro,
sui sistemi di protezione sociale), esso va sostituito con “un regime monetario flessibile” che
restituisca ai paesi “il diritto alla svalutazione”, considerato come “espressione istituzionale del
rispetto dovuto alle nazioni”.
La diversità delle conclusioni a cui giungono Crouch e Streeck è eclatante e attira tutta
l’attenzione. Ma non meno interessante è scavare sulle differenze nei passaggi intermedi che
sostanziano le conclusioni ultime, perché qui emergono nodi analitici il cui scandaglio può essere
più fecondo della semplice osservazione di esiti talmente contrapposti da risultare quasi
indiscutibili. Uno snodo intermedio cruciale è la questione della “riformabilità” o “irriformabilità”
del capitalismo e della validità o meno dell’approccio ricostruttivo della “variety of capitalism”, con
la connessa possibilità o impossibilità di riferirsi a una pluralità di “tipi di capitalismo”, da cui la
mente è subito spinta verso espressioni divenute famose, come “capitalismo intelligente” di
Federico Caffè o “capitalismi possibili” di Hyman Minsky (e relative overhaul, “svolte”, necessarie a
implementarli) o unleashed capitalism (capitalismo scatenato) di Andrew Glyn. Streeck pensa che
sia in atto un processo travolgente e inarrestabile di “convergenza” delle economie di tutto il
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mondo – ma in particolare di quelle sviluppate – verso un modello unico, quello neoliberistico
anglosassone, il che toglie validità all’approccio della variety of capitalism e, soprattutto, rende
difficile al limite dell’impossibile ogni opzione di riformabilità del capitalismo. Crouch, invece,
crede nella riformabilità del capitalismo e nella persistente pluralità dei “tipi di capitalismo”, tanto
più complessa se si considera l’articolazione che tale varietà assume nei paesi al di fuori dell’area
occidentale dove si affermano anche inquietanti forme di modernità illiberale e una molteplicità di
nazionalismi (quello russo, quello cinese, quello indiano, quello brasiliano, quello arabo). Su questa
base rilancia alla grande – pur senza usare espressamente questo linguaggio – l’obiettivo
ambizioso della “riforma del capitalismo”, con accenti che richiamano (anche se non è citato
esplicitamente) il Keynes che negli anni ’30 individua al centro del nuovo liberalismo, con cui
sostituire il vecchio, le azioni umane non determinate dal profitto e dunque il lavoro fonte di un
nuovo umanesimo.
I modi differenti con cui questo snodo è assunto dai nostri due autori hanno profonde implicazioni
sulla svolgimento delle loro analisi, per quanto riguarda e punti di contatto e linee di frattura.
Vediamo più da vicino gli uni e le altre. Un punto di contatto notevole riguarda la ricostruzione
complessiva del compromesso keynesiano e dei “trenta gloriosi” successivi alla fine della seconda
guerra mondiale, caratterizzati da garanzie di crescita economica, stato interventista in grado di
disciplinare il mercato, di pianificare e di redistribuire, piena occupazione, compensazione sociale,
riduzione delle diseguaglianze, stabilità e progressivo assestamento su tassi di interesse e margini
di profitto sempre più esigui. La comunanza prosegue nell’analisi dell’avvento – alla fine degli anni
’70 del Novecento con la Thatcher e Reagan – e del dispiegarsi del neoliberismo, visto in quanto
marchiato dalla volontà del grande ‘capitale’ di restaurare il suo potere di classe, profondamente
incrinato dal compromesso keynesiano, riconquistando in primo luogo spazi per l’incremento dei
profitti e per l’accaparramento dei guadagni di produttività. La lunga fase del neoliberismo è letta
come “processo di dissoluzione del regime del capitalismo democratico del dopoguerra”, mosso
dalla pulsione a rivitalizzare la dinamica dell’accumulazione attraverso “la deregolamentazione, la
privatizzazione, l’espansione di mercati di ogni sorta” (Streek). Il passaggio da “un sistema di
istituzioni politiche ed economiche di orientamento keynesiano” a quello che Streeck definisce “un
regime economico neohayekiano” ha operato largamente come “politica di privatizzazione dei
compiti statali”. Il regime neohaykiano nega la possibilità stessa che possa esistere la “giustizia
sociale” e contempla solo la “giustizia di mercato”, la quale si fonda sul fatto che “il diritto al
profitto vantato dal ‘capitale’ vale come condizione empirica necessaria per il funzionamento
dell’intero sistema”, mentre le corrispondenti rivendicazioni del ‘lavoro’ costituiscono solo
intralcio e disturbo. In sostanza, la strategia neoliberista punta al contenimento della capacità di
intervento dello stato – rappresentante degli interessi sociali collettivi – e “alla restituzione al
mercato del meccanismo primario di allocazione economica”.
Ne sono seguiti l’erosione dello stato sociale e l’affidamento a mercati privati di quote crescenti
della protezione sociale, in particolar modo per quel che riguarda previdenza e istruzione, la
riduzione dei diritti dei lavoratori nella tutela dai licenziamenti, l’apertura dei mercati del lavoro
grazie all’avanzare della globalizzazione, la promozione di occupazione precaria e a bassi salari, un
alto tasso di disoccupazione strutturale, il decentramento e le delocalizzazioni produttive, la
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desindacalizzazione della contrattazione salariale, l’esplosione delle diseguaglianze, la
deregolamentazione dei mercati dei beni, dei servizi, dei capitali, la trasformazione del mercato
dei capitali in mercati per il controllo dell’impresa dando priorità assoluta all’approccio della
sharer holder maximization. Questo decorso ha potuto svolgersi grazie all’affermazione del
dominio delle grandi corporation e all’avanzare di una estesissima finanziarizzazione, svoltesi sotto
l’egida della teoria dei “mercati perfettamente razionali” e dell’inutilità della regolazione pubblica,
posto che si presuppone che tutti i partecipanti al mercato posseggano le informazioni necessarie
ad evitare il verificarsi di squilibri sistemici. Ma il “keynesismo privatizzato” – definizione di Crouch
ripresa da Streeck – indotto dalla finanziarizzazione sostituisce all’indebitamento statale
l’indebitamento privato, sostanzialmente consistente in una anticipazione del potere d’acquisto
degli individui, in tutti i casi facendo aumentare troppo massicciamente l’indebitamento
complessivo (somma del debito pubblico e di quello privato). Il monetarismo, iniziato con
l’ambizione di ripristinare il controllo sulla moneta a fini antinflazionistici, con il neoliberismo
dispiegato sfocia nella creazione di moneta “endogena” e nell’offerta irresponsabile di moneta
“privata”.
Così la commodification, la liberalizzazione, la denormativizzazione, la finanziarizzazione giungono
a un punto molto critico con l’esplosione del collasso del 2007/2008, interpretato concordemente
da Crouch e da Streeck come il culmine di un processo più ampio, iniziato molto tempo prima.
Ognuno dei metodi adottati nel corso del tempo dalle forze dominanti per creare grazie al denaro
l’illusione della crescita – l’inflazione negli anni ’70, l’indebitamento pubblico negli anni ’80,
l’indebitamento privato negli anni ’90 e primi 2000 – ha contribuito ad inceppare il processo di
accumulazione piuttosto che a sostenerlo. Nel 2008/2009 gli stati e le politiche pubbliche – spinti
all’”arretramento” nel trentennio precedente – sono costretti a rientrare in gioco salvando il
mondo dal collasso con enormi salvataggi bancari e finanziari, ma la crisi da finanziaria si trasforma
rapidamente in crisi dell’economia reale, con recessione grave e esplosione della disoccupazione.
Dal 2010 il baricentro della crisi si sposta in Europa, dove il prevalere delle politiche di austerità
volute dalla Germania della Merkel crea le condizioni per l’avvitamento deflazionistico
debito/rigore/recessione/maggior debito/ancora rigore/ancora recessione, avvitamento che
mette in stallo tutti i paesi europei.
Per Crouch e per Streeck la crisi globale rivela la fallacia della teoria dei mercati perfettamente
razionali, la dipendenza del capitalismo dallo stato per rilanciarsi dalle sue contraddizioni a spese
dei contribuenti, la spinta all’incremento delle diseguaglianze generata dall’appropriazione della
ricchezza da parte di una minoranza della popolazione e di élites sempre più aggressive. In
particolare la loro attenzione si concentra sul ruolo e sui risultati che in tutti questi processi la
privatizzazione ha avuto e ha, oggi che siamo di fronte, specie in Europa, a una sua terza ondata
(dopo la prima della fine degli anni’80/inizi anni ’90 e la successiva della seconda metà degli anni
’90). Secondo Crouch il potenziamento della pretesa maggiore “libertà di scelta” non c’è stato, né
è vero che le esternalizzazioni e l’outsourcing dal pubblico al privato abbiano rafforzato la
competizione o abbassato i costi per i cittadini (trattati non unitariamente ma fittiziamente distinti
in consumatori e utenti). In tutte le ondate di privatizzazioni di servizi e di pubbliche facilities la
stato è rimasto il principale pagatore e si verificato solo un passaggio di mani da quella pubbliche a
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quelle di piccole oligarchie o di grandi corporation, passaggio talmente “stupefacente” nella sua
natura simple minded, dogmatica e corrotta, che ancora non ci si capacita che abbia ricevuto così
poca attenzione critica (criticism). In verità – in un rapporto di causa-effetto con
deregolamentazione, ispirazione ai principi (ambigui) della governance piuttosto che del
government, abbassamento delle tasse sui ricchi (trasformati negli unici beneficiari degli
incrementi della produttività), restrizione degli stati sociali – la privatizzazione dà corpo a un
“patto sociale” faustiano il cui prezzo è l’anima dei servizi pubblici e del welfare, terribilmente
intaccati per consentire il taglio delle tasse e maggiore spesa privata. Si impongono in modo errato
modelli privatistici di comportamento – che ben poco hanno a che fare con l’auspicabile maggiore
incremento dell’efficienza e della qualità – su scuole, università, ospedali e il pensiero del
contracting out diventa dominante al punto che la Commissione europea giunge a rifiutare di
parlare di servizi pubblici e insiste su “servizi di interesse generale”.
In questo contesto occorre soffermarsi più approfonditamente sul significato che assume la terza
ondata di privatizzazioni, in particolare in Europa, a partire dalla martoriata Grecia a cui viene
imposto di girare ai privati in brevissimo tempo beni pubblici per un valore pari a 50 miliardi di
Euro. Il punto è che il neoliberismo non è affatto in resa, in ritirata. Corposi interessi si riorientano
e si riorganizzano: quell’elemento storicamente saliente del neoliberismo che è la
finanziarizzazione ha costituito, in fondo, la ricerca e la conquista di nuove occasioni di
profittabilità – affidate alla droga delle “bolle” finanziarie e immobiliari e dunque all’esplosione
dell’indebitamento privato (assai più che di quello pubblico) – da parte di un capitalismo che dal
compromesso keynesiano e dai “trenta gloriosi” prevalsi alla fine della seconda guerra mondiale
aveva visto ridimensionate le proprie aspettative di profitto. Questa conquista di nuove occasioni
di profittabilità, nella misura in cui è riuscita – come testimoniano la spostamento di ben dieci
punti di quote del valore aggiunto dal lavoro al capitale e l’esplosione delle diseguaglianze con il
balzo della “opulenza” dell’1% dei più ricchi verificatisi nel trentennio neoliberista –, è anche, però,
deflagrata nella crisi globale. Oggi il capitalismo è nuovamente alla caccia di inesplorati ambiti di
profittabilità e li cerca nelle aree in cui fin qui è prevalsa la protezione della responsabilità
collettiva e in quelle “demercatizzate” e “demercificate”, sottratte al dominio del mercato e della
mercificazione e quindi a prevalenza di servizi pubblici. Queste sono proprio le aree dei beni
pubblici, dei beni comuni, dei beni sociali, del welfare state.
Qui emerge la sovrapposizione tra le problematiche della “privatizzazione” – che è passaggio dallo
stato al mercato, dal pubblico al privato – e quelle della mercatizzazione (che è estensione dei
mercati e delle aree di azione dei soggetti privati). E qui si chiariscono le ragioni profonde dei
comuni insistiti richiami a Polanyi, lo studioso de “La grande trasformazione”, maggiormente
utilizzato come autointerrogazione sul presente da Crouch che non da Streeck. Anche la
privatizzazione odierna deve servire a dilatare gli spazi della mercatizzazione, ma questa volta
coinvolgendo, oltre ad antiche pratiche feudali residuali, lo stesso welfare state, l’idea stessa di
diritti e di cittadinanza e altre caratteristiche basilari del compromesso sociale e della “statualità”
moderna, perché il mercato, alla ricerca di nuove occasioni di profitto, pretende di invadere aree
che gli erano state fin qui precluse, almeno parzialmente, come la salute e l’educazione. Eppure –
argomenta Crouch – è la retorica della mercatizzazione che ci ha portato nel “cul de sac di un
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inquadramento puramente individualizzato di ogni questione” e alle drammatiche
sottoproduzione di beni pubblici e dissipazione di beni comuni indotte dal modello di sviluppo
neoliberista deflagrato con la crisi globale. Le società moderne hanno straordinarie
interdipendenze e bisogni collettivi, in esse molti scopi individuali possono essere raggiunti solo
insieme ad altri e in maniera cooperativa, anche se gli scopi in se stessi mantengono il loro
carattere individuale. Dunque, si deve prendere atto del funzionamento potenzialmente
pernicioso di alcuni aspetti del capitalismo e apprestarsi a vivere al meglio la fase presente,
restituendo ai cittadini speranza e fiducia nel futuro.
Su questo terreno – della costruzione propositiva e della prospettazione verso il futuro – si
stagliano chiaramente le differenze più significative tra l’approccio di Crouch e quello di Streeck.
Tali differenze si palesano già nella ricostruzione del lungo decorso storico che ha portato alla fase
attuale e del ruolo che vi hanno giocato le forze politiche e sociali. Per Streeck il neoliberismo è
consistito in un sostanziale fenomeno di “convergenza” delle economie sviluppate verso il
capitalismo anglosassone impostosi come modello unico, il che ha portato “i paralleli e le
intersezioni reciproche tra paesi capitalistici” a prevalere “sulle differenze istituzionali ed
economiche”, al punto che perfino per paesi come la Svezia e gli Stati Uniti – solitamente agli
antipodi nelle comparazioni – si può ritenere che “la dinamica soggiacente è la stessa”. E la
dinamica è quella che dà il titolo al libro di Streeck: “guadagnare tempo”, comperandolo con
l’aiuto del denaro che ha fornito illusioni di crescita, prima con l’inflazione, poi con
l’indebitamento pubblico e privato, infine con l’acquisto dei debiti degli stati e della banche da
parte delle Banche centrali. Inoltre, in tutto questo processo Streeck non vede differenze
significative tra forze politiche, tra destra e sinistra: la controrivoluzione ai danni del capitalismo
sociale del dopoguerra, in cui si sono tradotti il neoliberismo e la globalizzazione – attraverso la cui
maggiore mobilità il capitale industriale e finanziario aumentava il suo “profitto di riserva” –, è
stata veicolata dalla politica, “sia quella conservatrice sia quella socialdemocratica”, senza
apprezzabili distinzioni. Così il capitalismo ha assunto un volto omogeneo e compatto che lo rende
impenetrabile, di conseguenza “irriformabile”. L’irriformabilità deriva dal fatto che non esistono
più gli spazi del compromesso e delle contropartite: “non sembra esserci più nulla che la grande
maggioranza della popolazione potrebbe offrire o ricevere dal capitale a proprio vantaggio o a
vantaggio dello stesso capitale”. Quando “tutto ciò che il capitale vuole è la restituzione al
mercato dei diritti sociali”, si può soltanto “buttare sabbia” nei suoi ingranaggi e persino
considerare più responsabile ”la strada di un comportamento irresponsabile”.
Al contrario, Crouch insiste nel segnalare le notevoli differenze tra modelli economici, talmente
persistenti (anche se ridimensionate dall’operare di tendenze inevitabilmente generali
dell’evoluzione economica) che a tutt’oggi la totalità degli indicatori – per maggiore spesa
pubblica, più elevata tassazione, più estesa protezione sociale, minore diseguaglianza, minore
mortalità infantile, maggiore speranza di vita, ecc. – colloca ad un polo i paesi europei e
specialmente quelli scandinavi, al polo opposto gli Stati Uniti. Questi risultati sono il frutto di una
lunga storia, in cui il ruolo fondamentale è stato svolto dalle forze di sinistra, i movimenti socialisti,
i sindacati, la socialdemocrazia, a cui Crouch riconosce il merito di aver sempre accettato la
proprietà privata e il mercato – ma con l’ambizione di contenerlo, regolarlo, indirizzarlo – e di aver
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puntato a costruire società giuste in grado al tempo stesso di produrre ottime performances
economiche. In particolare nei paesi scandinavi “è stato realizzato un ragionevole compromesso
tra stato, capitale, lavoro, dal quale tutti hanno guadagnato e in cui il potere corporate è stato
rafforzato ma non a danno dei cittadini e della democrazia” e anche oggi questi paesi delineano il
percorso del social investment welfare state che si sta rivelando di grande interesse e fecondità. Le
timidezze, le reticenze le vere e proprie subalternità che le sinistre hanno avuto nei confronti del
neoliberismo sono indubbie, soprattutto nella Terza Via di Tony Blair a cui Crouch imputa l’enfasi
nociva sulla teoria della shareholder value maximisation e le convinzioni secondo cui i ceti medi
fossero corposamente entrati nella categoria dei detentori di asset, i rischi del mercato del lavoro
non esistessero più, non ci fosse più bisogno del welfare state. Ma è sbagliato non vedere le
differenze che ci sono state e ci sono tra destra e sinistra. La socialdemocrazia – che Crouch,
istituendo non una continuità ma una cesura tra “liberalismo” e “neoliberismo” 1, considera la vera
interprete di quanto di valido rimane del liberalismo – ha costituto storicamente e costituisce
tuttora la “maggiore sorgente di alternative all’interno della società capitalistica”, alternative che
rischiano di essere marginalizzate se il neoliberismo procede stritolando ogni cosa lungo il suo
cammino. È lo scontro tra istanze del liberalismo e istanze della socialdemocrazia che genera gli
incentivi a cercare nuovi compromessi creativi. L’alto grado di creatività politica praticato nel
passato dalla socialdemocrazia scandinava va rigenerato per il presente. A tal fine ci serve una
sorta di socialdemocrazia “radicalizzata, che esca dalla “difensività” (resistenza su un vecchio
ordine ormai tramontato) ed entri nella “assertività” (esplorazione di un nuovo ordine da
immaginare) e si allei con i movimenti delle donne, le forze ambientaliste, la molteplicità di forme
variegate che vogliono partecipare in modi nuovi alla vita delle democrazie contemporanee.
Come, in quali campi, con quali finalità può dispiegarsi la nuova creatività politica in cui deve
tradursi la rinnovata “riformabilità” del capitalismo, già dimostrata dalla storia, ma bisognosa per
l’oggi di una non piccola attualizzazione e reinvenzione? Innanzitutto, nella ricerca dei sentieri di
tale riformabilità aiutano la molteplicità e la diversità di forme del capitalismo che, oltre il
capitalismo della massimizzazione del valore per gli azionisti, si riproducono nel tempo e nello
spazio: varie forme di mutualità, cooperative, piccole imprese, banche locali ecc., forme la cui
preziosità abbiamo potuto apprezzare con il crollo finanziario del 2007/2008 e oggi sotto attacco
da parte delle lobbies neoliberiste, uniformate e uniformanti. Di più, la protezione delle diversità e
delle pluralità, economiche e sociali – contrastando la pretesa all’uniformità e al livellamento – va
assunta come uno dei compiti fondamentali di una nuova riformabilità del capitalismo, di un
nuovo progetto riformatore che includa anche le questioni della governance d’impresa. Contro le
tendenze all’affermazione del dominio di interessi puramente monetari e alla monetizzazione di
ogni valore, diversità e pluralità vanno protette anche a livello istituzionale, tutelando molte
istituzioni autonome (per esempio giudici non eletti) che ereditiamo dal principio liberale
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Crouch, per la verità, usa una terminologia leggermente diversa e distingue tra tre tipi di neoliberalism: 1) un tipo
“puro”, che sono i costrutti teorici (mercati perfetti, estesa competizione tra una pluralità di operatori, stato minimo)
ecc.) a cui si pensa quando in italiano diciamo “neoliberismo”, però spesso solo supposto e nei fatti non realmente
esistente; 2) un secondo tipo coincidente con il liberalismo politico e di cui la socialdemocrazia è la vera erede; 3) un
terzo tipo, il più delle volte l’unico effettivamente esistente, costituito dall’amalgama delle corporation che si
appropriano anche dei meccanismi statali in modo “predone”.
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dell’equilibrio dei poteri e sollecitando la vitalità di una gamma ampia di istituzioni pubbliche
democratiche.
Per avanzare verso tutto ciò, bisogna dotarsi di forti principi orientatori e su ciò Crouch dà un
contributo importante alla riflessione, con riferimenti a Polanyi ancora più incalzanti di quelli che
opera nella ricostruzione storica e nell’analisi teorica. Risalta, infatti, la significatività di rileggere
Polanyi ora che siamo nel mezzo di una ulteriore ondata di mercatizzazione e di privatizzazioni,
spinta dalla convinzione dell’economia main stream che dovremmo porre un prezzo su ogni cosa
per cui questo è possibile e su ogni relazione che coltiviamo come esseri viventi, escludendo di
applicare alcun altro criterio al di fuori di questo quadro. Ma questo dispensa interamente dal
bisogno di moralità o di etica nei comportamenti, porta alla presupposizione che il mercato sia
moralmente neutro, distrugge la fiducia tra le persone: alla fine più la mercatizzazione avanza più
si rivelano le gravi “inadeguatezze” del mercato.
Qui c’è un passaggio rilevante perché Crouch riprende la tradizione “regolativa” socialdemocratica
ma considera insufficiente basarsi solo sulla nozione di “fallimenti del mercato”. Tale nozione,
infatti, si fonda sull’idea che, quando si tratti di mercati perfettamente concorrenziali, questi
bastino a se stessi. Invece ci sono molte situazioni in cui semplicemente i mercati non possono
soccorrerci e per questo è preferibile la nozione di “inadeguatezza” (inadeguacy), la quale include
quella di “fallimenti” ma va oltre. E ciò è ancora più vero quando – come nei tempi presenti – la
strutturalità della crisi fa avanzare l’esigenza di un’analoga strutturalità nel ridisegno della
composizione della produzione e del modello di sviluppo, quando cioè le economie vanno
rimodellate dalle fondamenta: “il mercato non può domandare prodotti – ricorda Crouch – che
nessuno sa siano possibili” e, d’altro canto, non si può assistere immobili al manifestarsi delle
implicazioni distruttive della crescita dell’economia postindustriale, analoghe a quelle che
classicamente Polanyi descrisse per l’avvento dell’economia urbana industriale.
Tra le “inadeguatezze” che Crouch prende in esame ci sono la competizione imperfetta e
l’informazione asimmetrica, ma quelle che considera più fecondo trattare sono i beni pubblici (per
cui valgono i requisiti di “non rivalità” e di “non escludibilità”) e le esternalità (sottoprodotti
dell’attività di mercato che non entrano a far parte dei costi di tale attività). Per gli uni e per le
altre il mercato non ha buone soluzioni e, quando ne trova, è spesso troppo tardi: si pensi ai
salvataggi pubblici avvenuti durante la crisi finanziaria del 2007/2008 o ai costi difficilmente
sanabili delle città congestionate, per le quali la sola soluzione che il mercato conosce è
l’abbassamento dei salari per attrarre nuovi investimenti. Proprio questo è il punto: il neoliberismo
– strutturato sul primato del mercato – è sfociato in una terribile sottoproduzione di beni pubblici
da un lato, in una grave generazione di esternalità negative dall’altro, con correlata dissipazione di
beni comuni. Di fronte a tali “inadeguatezze” del mercato le forze neoliberiste o le considerano
triviali o tentano di far funzionare meglio il mercato stesso piuttosto che ricorrere a qualche forma
veramente risolutiva di intervento pubblico, le forze socialiste, socialdemocratiche, ambientaliste
preferiscono, invece, approcci che “trascendono” il mercato anziché tentare sterilmente di
migliorarlo e questo specialmente negli ambiti dell’educazione, della salute, dell’educazione, della
previdenza, dei labour standards, ecc. I neoliberisti trattano il problema dei beni pubblici cercando
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di trasformare tali beni in beni “privati” (per esempio, si oppongono al riciclaggio dei rifiuti con
l’argomento che il costo del riciclaggio è superiore a quello dei materiali riciclati), ignorando
totalmente le esternalità connesse. I socialdemocratici considerano un’esternalità negativa anche
l’insicurezza sul lavoro, esprimono una preferenza per i beni collettivi su quelli individuali, sono
scettici sull’abilità del mercato di perseguire interessi comuni in relazione soprattutto alla sua
incapacità di portare a soluzione il problema dei beni pubblici.
Accettare molti dei benefici della mercatizzazione ma ideare azioni per compensare i suoi danni e
perseguire finalità che il mercato azzera: è questo, per Crouch, il significato di un nuovo modello di
sviluppo che tratti le esternalità e produca beni pubblici, nella consapevolezza che tali beni sono
fragili e hanno bisogno di istituzioni che se ne prendano cura. Ed è questo il significato del modello
del social investment welfare state perseguito oggi nei paesi scandinavi. Crouch nella trattazione
analitica dei suoi propositori – tra cui Hemerijck ed Esping Andersen – individua limiti (per
esempio la condivisione con la teoria dei “nuovi rischi sociali” di una categorizzazione priva di
classi o l’ignoranza del problema del potere delle corporation), ma vede anche molti meriti, primo
fra tutti una visualizzazione del welfare state come istituzione che protegge dall’incertezza e
dall’insicurezza e al tempo stesso spinge i lavoratori alla partecipazione, all’innovazione, al
cambiamento. Il che porta a modellare il welfare state come area che include molte politiche
pubbliche, comprese il training e la formazione, la predisposizione di infrastrutture idonee a
sostenere lo sviluppo di economie avanzate e sofistificate, i progetti di ricerca scientifica di base il
cui sviluppo ha bisogno della spinta dello stato (mentre è deplorevole che l’Unione Europea,
perseguendo i value for money results e ansiosa di compiacere le corporation, alla ricerca pura
neghi oggi il riconoscimento che storicamente le ha sempre dato). Il social investment welfare
state può includere perfino la costruzione di strade, ponti, reti – come era nel Piano Delors –
perché costituisce parte dell’ entrepreneurial state (e qui Crouch si rifà a Mariana Mazzucato), uno
stato più avventuroso e disponibile ad assumere rischi della stessa iniziativa privata, certamente
nella ricerca ma anche nei campi strategici del riassetto dei territori o della riqualificazione urbana.
Dunque, la problematica della “riforma del capitalismo” torna ad echeggiare nei termini in cui fu
proposta negli anni ’30 – in radicale opposizione ai totalitarismi – dal New Deal di Roosvelt, le
teorie e le politiche di Keynes, le iniziative dei socialdemocratici svedesi guidati da Myrdal, gli
impulsi di Beveridge e dei laboristi inglesi. Le finalità riformatrici si estrinsecano sia nella lotta alle
diseguaglianze sia nella sottrazione del lavoro alla condizione di “merce”, uno degli impulsi
fondamentali in cui si esprime il “contromovimento” in autodifesa della società di cui parlava
Polanyi. Nella prospettiva offerta da Crouch si ripropone come cruciale qualcosa che appartiene
profondamente alla storia dei movimenti socialisti e laboristi e cioè l’idea che l’attribuzione della
cittadinanza e l’affermazione politica delle classi subalterne si acquisiscono non sulla base della
concessione e tanto meno della carità, ma sulla base del riconoscimento della dignità del lavoro e
della dipendenza da esso dell’intera società. Crouch crede che nel presente e nel futuro della
democrazia la centralità del lavoro rimanga fondamentale e che in ogni prospettiva
autenticamente riformatrice i cittadini adulti debbano essere visti primariamente come lavoratori.
Crouch è ben consapevole delle critiche che vengono avanzate a questa impostazione, per
esempio di quella di Guy Standing, il quale sostiene che la globalizzazione ne falsifica gli assunti e
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che ci dobbiamo rassegnare ormai a jobless society, “società senza lavoro” da compensare e da
risarcire monetariamente2. Ma Crouch obbietta che fondare i diritti di cittadinanza non sulla
“mutua dipendenza” e sulla dipendenza dell’intera società dal lavoro dei lavoratori, ma su un
astratto dover essere, li rende molto più vulnerabili, esposti ai contraccolpi del variare dei venti di
consenso.
D’altro canto, se è ovvio che la spesa sociale può esser alimentata soltanto dell’estensione della
base produttiva e lavoratrice, è anche vero che più grande è la forza lavoro impiegata, maggiore è
il lavoro che viene creato e questo deve spingere a guardare con favore al lavoro delle donne, ma
anche a politiche “amiche” delle famiglie che ne neutralizzino l’impatto sulla cura dei componenti
famigliari e sulla stessa vita delle donne. Lavoro pagato crea lavoro pagato e, con esso, più base
fiscale e più risorse per la spesa pubblica, la quale a sua volta crea ulteriore lavoro. Il circuito
virtuoso investimento produttivo nei beni pubblici/lavoro/base fiscale/estensione dei beni sociali e
comuni è quello da attivare e su cui insistere. Così, conclude Crouch, ancora una volta si configura
come tema chiave “proprio il ruolo di forti politiche pubbliche nel mediare tra i mercati e i bisogni
di protezione dei cittadini” dagli impulsi distruttivi sempre incubati nelle spinte alla
mercatizzazione.
2
Va sottolineato che nel suo ultimo lavoro (A Precariat Charter. From Denizens to Citizens), in uscita nell’aprile 2014
da Bloomsbury, Standing sembra attutire la sua avversione alla riproposizione della problematica del lavoro, con la
proposta di spostare l’accento dal labour (lavoro per il valore di scambio) al work (opera che ha un valore d’uso), il
primo penoso, faticoso, condizionato dal mercato, il secondo comprensivo di tutte le attività non riconducibili al
labour, dal lavoro di cura a quello comunitario, alla riproduzione delle nostre abilità.
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