Il consumerismo alla sfida del commercio occulto

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Il consumerismo alla sfida del commercio occulto
Università degli Studi di Milano
Giornata di studio su
Cittadini e consumatori
Milano, 12 aprile 2007
Il consumerismo alla sfida del commercio occulto
Giorgio Osti, Università di Trieste
draft 2.4.2007, non citabile
Per commercio occulto si intende le quantità di energia e materia necessarie per produrre,
trasportare, consumare e scartare un bene o un servizio che, generalmente, non vengono
riconosciute nei prezzi, nelle etichette e nella percezione degli attori [Bagliani e Bravo 2003].
Riguarda quella parte del valore ambientale di un prodotto messo in commercio che non viene
esplicitamente conteggiata.
Fra gli elementi che connotano il consumo critico vi è senza dubbio il commercio occulto.
Coloro che praticano forme alternative di consumo utilizzano fra i propri criteri di orientamento
la riduzione dell’impatto sull’ambiente dei prodotti e servizi di cui fruiscono. Il testo mira a
mettere in luce i caratteri ambientali del consumo critico, cercando di coglierne le diverse
componenti. L’articolazione del lavoro è la seguente: breve analisi di tre corpi di letteratura al
fine di ricavarne concetti e prospettive di analisi; stilizzazione degli approcci in un modello da
cui ricavare ipotesi di ricerca; breve descrizione di due casi per un primo vaglio del modello.
Tre filoni di letteratura
La letteratura sul consumo critico si stacca dalla più ampia analisi dei consumi orientata da un
lato al marketing (capire le esigenze del consumatore per offrirgli il prodotto adeguato) e,
dall’altro, allo studio delle valenze sociali del consumatore di volta in volta vittima di mode,
desideroso di distinguersi, capace di organizzarsi in gruppo di pressione. Il primo filone è stato
in genere appannaggio di economisti e psicologi, il secondo di antropologi e sociologi.
Schematicamente, il primo risponde di più alle esigenze dell’offerta, il secondo a quelle della
domanda [Goldblatt 2005].
I due filoni ci servono per capire da dove parte il consumo critico. Esso si forma a partire
dall’ampliamento degli oggetti e delle modalità di consumo per i quali esigere il rispetto di
diritti. Il consumo viene politicizzato; diventa un’occasione per valutare lo stato di benessere di
intere categorie sociali. Il consumo critico di ispirazione ambientalista procede ad un ulteriore
allargamento dell’ambito di applicazione dei diritti, comprendendo non solo quelli dei propri
contemporanei, ma anche quelli delle generazioni future (sviluppo sostenibile), quelli di altri
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esseri viventi non umani e, non ultimi, quelli di entità terze definibili come habitat, paesaggi,
ecosistemi, ecosfera.
La precisazione non è inutile perché permette di mettere in luce sia l’orizzonte su cui si
muovono i consumatori critici sia eventuali incongruenze fra gli elementi che compongono tale
orizzonte. La polemica fra il giornale Liberazione e Coop Italia sulla commercializzazione dei
fagiolini del Burkina Faso ne sono un semplice ma illuminante esempio [Corriere della sera, 25
marzo 2007; AGICES 31 marzo 2007].
La letteratura sul consumo sostenibile (useremo questa etichetta per definire il consumerismo di
ispirazione ambientalista) si sviluppa a partire da alcuni concetti chiave1. Un primo concetto
chiave è dato dall’enfasi sulle pratiche. Ciò deve intendersi non solo come una particolare
attenzione alle azioni quotidiane degli attori ma anche come un cambiamento di direzione a
livello teorico. Come è noto, anche nella sociologia dei consumi si tende a riprodurre il classico
dualismo attore-sistema. Consumo come atto volitivo, libero del singolo che persegue uno scopo
autogratificante (consumatore sovrano) oppure consumo indotto da forze esterne di natura
economica e politica che impongono gusti, scelte, stili (consumatore eterodiretto).
L’idea delle pratiche come coagulo di norme e stili dotati di una propria autonomia dai soggetti,
ma allo stesso tempo utilizzabili strumentalmente e situazionalmente, è presente in diversi autori
[Warde 2004], partendo dal concetto di habitus di Bourdieu o da quello di strutturazione di
Giddens [Goldblatt 2005]. La terminologia cambia; c’è chi preferisce il concetto di stile di vita,
che richiama ad una maggiore stabilità, e chi preferisce appunto le pratiche la cui estemporaneità
è maggiore sia per quanto riguarda la composizione degli atti previsti sia per quanto riguarda il
momento e la giustapposizione con altre. E’ una sociologia che ha abbandonato l’idea di
struttura sociale uniforme e stabile e che guarda con maggior favore ad un pluralismo di coaguli
temporanei di micro-blocchi di regole. La traduzione di questa evoluzione dell’analisi dei
consumi porta a cercare insiemi di pratiche che si ripetono più di frequente, che sono dotate di
significato e che tendono a dominare altre. Non si esclude infatti che, nonostante la
frammentazione e il pluralismo delle forme sociali, si riproducano ordini cognitivi e normativi
molto verticalizzati.
E’ forse per tale ragione che si risale dalle pratiche di consumo ai più stabili tipi di consumatori,
utilizzando ancora molto lo schema di Mary Douglas [Pellizzoni e Osti 2003]. Il consumatore
sostenibile viene allora individuato nel tipo ‘collettivista’ ossia colui che non è sottoposto ad una
rigida normazione sociale ma nello stesso tempo svolge un’intensa vita di gruppo [Seyfang
2004]. Per lui la natura è molto fragile e quindi bisognosa di un’intensa protezione. Le
traduzioni empiriche di questa impostazione sembrano avallare la collocazione di consumatori
impegnati proprio in tale casella. Tuttavia, la tipologia può essere utilizzata anche in altro modo,
congegnando il consumatore sostenibile come un soggetto socialmente marginale [Osti 2006a]
oppure, come fa la stessa Douglas [1982; trad. it. 1985, 352], collocandolo al centro del suo
schema nella posizione di eremita: colui che non sente né l’influenza delle norme sociali né del
gruppo di appartenenza [ancora Seyfang 2004].
La letteratura sul consumo sostenibile si è sviluppata secondo alcuni poli territoriali: inglese [Shove e Warde
2002]; olandese: Spaargaren [2003]; scandinavo: [Andersen e Tukker 2006; Micheletti 2003], austro-germanico:
[Michaelis e Lorek 2004; Scherhorn 2005]; negli Stati Uniti si va diffondendo [Cohen 2005]; in Italia è codificato
sotto la più ampia etichetta di consumo responsabile [Casati e Sali 2005; Osti 2006b; Lori e Volpi 2007].
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La variabilità delle collocazioni nella tipologia risente della difficoltà di trovare cornici
sufficientemente generali e robuste dove collocare i tipi di consumatore sostenibile. In altri
termini, vi sono visioni diverse dell’ambientalismo e della sostenibilità. Spaargaren [1999] ad
esempio cerca una via di mezzo nella cosiddetta modernizzazione ecologica. Si tratta di una
visione del problema ecologico che rifugge dagli estremismi tipici dei neomarxisti (= il
problema risiede nella distribuzione del capitale e nella ricerca del profitto) o degli
antimodernisti (=rifiuto della tecnica e dell’organizzazione sociale moderna). Per gli uni il
consumo sostenibile è un’illusione o un palliativo, mentre per gli altri trova senso solo in un
drastico cambiamento dello stile di vita. La modernizzazione ecologica guarda fiduciosamente
alla conoscenza tecnica e alla mobilitazione della società civile come luoghi dove trovare molte
soluzioni alla crisi ambientale. I consumatori, coalizzati nella società civile e messi in grado di
apprendere nuove conoscenze, possono esercitare un ruolo di stimolo nei confronti delle
istituzioni e delle imprese, i due interlocutori con cui formare reti.
Lo spunto sull’inquadramento della crisi ambientale ci introduce al secondo filone di letteratura
che può apportare utili conoscenze sul consumatore sostenibile. Esso è incentrato sull’emergere
di una nuova generazione di indicatori di sostenibilità ambientale. Classicamente, la questione
ambientale è stata codificata come ‘inquinamento’ e ‘perdita di biodiversità’. Talune sostanze di
sintesi immesse nell’aria, nell’acqua e nel suolo sono tossiche e provocano danni alla salute
dell’uomo e dell’ecosistema; l’avanzare delle attività umane fa sparire o comprime gli spazi
naturali in modo provocare l’estinzione di talune specie o di interi ecosistemi. Da notare qui la
sovrapposizione con un filone estetico dell’ambientalismo, tradizionalmente vivace in Italia, nel
quale si denuncia anche la scomparsa di paesaggi tipici.
Questo modo di intendere la questione ambientale ha provocato intense reazioni sociali fin dagli
anni ’70 producendo in taluni casi anche risultati rilevanti come leggi antinquinamento, parchi
naturali, agenzie di controllo. A questa emergenza si è aggiunta successivamente una
preoccupazione più vasta inerente la stessa tenuta dell’intera ecosfera. Tale preoccupazione in
verità era già stata espressa dal rapporto del Club di Roma nel 1972; ma il mancato avverarsi
(per fortuna) delle catastrofiche previsioni in esso contenute aveva lasciato intendere che tutta
l’impostazione fosse priva di fondamento. Solo con gli studi sull’impronta ecologica e sullo
spazio ambientale promossi rispettivamente da Wackernagel e Rees [1996] e dall’Istituto
Wuppertal negli anni ‘90 hanno permesso di riaffermare che il ritmo d’uso delle risorse era
largamente insostenibile.
In altri termini, nuovi calcoli sugli ettari di terreno fertile necessari per le funzioni umane e
ecologiche, nuovi calcoli sulla dissipazione dell’energia, nuovi calcoli sul fabbisogno di spazi
liberi per assorbire gli scarti delle attività umane hanno messo in luce la drammatica prospettiva
di una catastrofe ambientale planetaria. Le previsioni basate sui ritmi d’uso stabiliscono
l’assoluta insostenibilità degli attuali modi di produrre e consumare. Questi indicatori hanno
avuto un riconoscimento pubblico attraverso la diffusa convinzione che i cambiamenti climatici
osservati recentemente siano indotti dall’effetto serra. Tale fenomeno è una buona
esemplificazione della forza e plausibilità della nuova generazione di indicatori. L’anidride
carbonica, il cui accumulo è considerato la causa del riscaldamento del pianeta, non è un gas
tossico; è il frutto della normale attività degli esseri viventi e della combustione. Il problema non
è il gas in sé ma la sua abnorme quantità in atmosfera; è la sua concentrazione che provoca
effetti a catena su scala globale non più controllabili.
La questione ambientale diventa quindi non solo un problema delle qualità nocive delle sostanze
introdotte dall’uomo nell’ambiente ma anche un problema di quantità di sostanze banali che gli
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ecosistemi non riescono più a riassorbire. Come corollario si acutizza la questione della
distribuzione spaziale dei prelievi di risorse e dei loro scarti. Le attività estrattive e i rifiuti
industriali e urbani vengono dislocati nelle aree marginali. Le aree forti non sono più disposte ad
un prelievo e smaltimento in loco di risorse naturali e spingono perché ciò avvenga altrove. In
altri termini, i nuovi indicatori di sostenibilità oltre a predire scenari inquietanti, mettono in luce
la drammatica sperequazione nell’uso e smaltimento di risorse fra aree del pianeta. I lucenti
diamanti comprati da facoltosi consumatori europei sono estratti in condizioni lavorative
pessime con costi ambientali altissimi che ricadono sulle aree di estrazione stesse.
L’impronta ecologica permette in maniera bruciante di misurare la distanza fra gli Stati Uniti
d’America e un paese del Sahel. Non solo; è possibile fare calcoli simili per singoli beni o per
singole unità domestiche. Il life cycle assement permette di valutare l’impatto complessivo di un
bene dalla sua nascita al suo smaltimento; mentre risulta abbastanza agevole calcolare quanto
un’abitazione con certe caratteristiche fisico-architettoniche e con certe pratiche d’uso può
consumare. Le conseguenze per i consumatori sono presto dette: agevole valutazione
dell’impatto ambientale personale, familiare, locale e degli stati. Ciò significa la possibilità di
entrare cognitivamente nella contabilità ambientale delle economie e nella distribuzione delle
risorse. Da ciò ci si può attendere una maggiore consapevolezza delle sperequazioni ma anche
una più stringente valutazione delle proprie personali responsabilità. Vi sono tutti gli ingredienti
per la mobilitazione. Il consumo diventa critico per ragioni nuove: non solo perché gli oligopoli
mantengono alto il prezzo di un bene, ma anche perché c’è consapevolezza che un bene
quotidianamente utilizzato incrementa più di un altro i prelievi e gli scarti di materia ed energia
che vanno ad impattare in maniera forte in remote aree del globo.
Ma gli indicatori di sostenibilità ambientale pongono un nuovo inquietante interrogativo alla
sociologia dei consumi: l’eventualità della decrescita o dell’astensione dal consumo. Tutte le
discipline del consumo si sono organizzate per spiegare l’atto positivo, la dinamica della scelta,
l’incremento dei valori, semmai l’elasticità della domanda. Raramente si sono occupate di chi
volontariamente riduce in maniera sensibile la propria spesa per ragioni ideali. Di certo,
fenomeni di riduzione come l’anoressia o la dieta vegetariana hanno attratto l’attenzione di molti
studiosi; ma si tratta di comportamenti fortemente individualizzati che poco hanno a che fare
con la protesta collettiva. Il consumo sostenibile è un fenomeno in larga parte collettivo,
comunitario, socializzante.
Quest’ultimo aspetto ci introduce al terzo corpo di letteratura: la mobilitazione del consumatore
sostenibile può essere interpretata alla luce di teorie che enfatizzano il ruolo delle relazioni. Tale
approccio, a dir il vero, non è una scoperta recentissima; già negli anni ’80 si studiavano le
mobilitazioni contro le discriminazioni dei neri negli Stati uniti come il frutto di intense
relazioni affettive [McAdam 1988]. Più di recente Diani, sulla scia della rivalutazione degli
aspetti identitari piuttosto che meramente politici dei movimenti, ha enfatizzato il ruolo delle reti
sociali [2000]. Ma la riflessione sulla relazionalità può andare oltre introducendo ulteriori
specificazioni della qualità delle relazioni. Ciò si inscrive nella riscoperta del concetto di
reciprocità intesa come scambio di doni. Essa viene vista come archetipo della convivenza
umana secondo una tradizione antropologica inaugurata da Mauss e ripresa da studiosi
francofoni come Godbout [1992] e Caillé [1998]; viene vista come principio base del terzo
settore [Donati 1996], come elemento delle transazioni economiche [Bruni 2006]; ed infine
anche rilevante nei processi relativi al consumo [Sassatelli 2004; Osti 2006a].
Il consumo critico si alimenta di relazioni nuove fra consumatori e fra questi e i produttori. La
critica sociale prima ancora che ambientale riguarda il fatto che le relazioni commerciali siano
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anonime, spersonalizzate, al limite, disumane. Un giudizio così pesante non deriva dalla
nostalgia per il negozio sotto casa nel quale la propria famiglia si è servita per decenni; l’assenza
di relazione rimanda ancora una volta ad un problema di giustizia. La reciprocità implica infatti
una tendenziale simmetria fra le parti in gioco, un equilibrio fra dare ed avere che rispetta dei
canoni di giustizia o perlomeno di equilibrio. Non è il caso di scavare nei molti significati di
reciprocità per scoprire un’idea di equità fra le parti, interpretata da Boltanski [1990] o Bruni
[2006] con il termine philia. Basti qui rimarcare la differenza con forme di reciprocità come il
clientelismo o l’associazione mafiosa, basate su relazioni forti ma strutturalmente asimmetriche.
Vi è poi da precisare la distanza della reciprocità rispetto allo scambio puro di mercato, nel
quale i contraenti possono addirittura non conoscersi. Ciò non avviene solo ora con le
transazioni in tempo reale per via telematica; succedeva – racconta Godbout [1994] – già al
tempo dei Fenici, quando questi mettevano la merce sulla spiaggia e si ritiravano sulle proprie
navi, aspettando che il potenziale acquirente locale valutasse ed eventualmente ponesse sullo
stesso posto un corrispettivo. Non c’era bisogno di legami sociali, l’importante era che ci fosse
una fiducia minimale sulla bontà del proprio prodotto rispetto alle esigenze del potenziale
compratore. Sappiamo che il mercato anonimo ha una sua efficacia allocativa che per certi beni
è altissima e forse anche eticamente superiore.
Ciò nonostante l’approccio relazionale posto in continuità e non in contrapposizione con i più
classici approcci della scelta razionale fornisce ulteriori elementi di analisi del consumo critico
ispirato all’ambientalismo. Abbiamo appena citato l’aspetto di simmetria, che rimanda al topos
della giustizia; potremmo aggiungere quello della soddisfazione derivante dal fare cose assieme.
Come nel gioco o nella danza, la soddisfazione personale è inestricabilmente legata al fatto di
fare assieme ad altri. In un mondo del marketing dove si esaltano gli aspetti simbolici e rituali l’involucro della merce piuttosto che la merce stessa - la relazionalità sembra aprire una
prospettiva di ricerca innovativa sulle modalità con cui avviene il consumo.
Criteri di analisi dei consumi sostenibili
I tre spunti tratti dalla letteratura ci permettono di pensare un’ipotesi di lavoro sul consumo
sostenibile. Essa può essere formulata così: il consumo sostenibile è una pratica intesa nel
triplice senso di riferimento ad un nuovo frame culturale (contabilità ambientale), di relazioni
con altri soggetti fondate sulla reciprocità, di gesti quotidiani di risparmio e di selezione dei
prodotti. La pratica della reciprocità però non permette di valutare fino in fondo gli aspetti
politico-distributivi del commercio occulto di materia ed energia insiti in ogni atto di consumo.
Tale valutazione è possibile grazie ad una nuova generazione di indicatori d’uso delle risorse e
ad una mediazione istituzionalizzata dei valori ambientali fatta di principi, norme e attori
universalizzanti.
Il punto relativo alla mediazione ha bisogno di una precisazione: l’ambiente ha una costituzione
così dilatata nel tempo e nello spazio, sovente così astratta rispetto alla percezione e ai bisogni
dei soggetti, che la pura relazionalità o reciprocità del consumo non basta a coglierle le
opportunità e le minacce. Serve una mediazione ideologica che ponga l’ambiente come bene
comune e che informi le relazioni di consumo.
Evidentemente, ci può essere una mobilitazione dei consumatori per l’ambiente a partire dai
bisogni degli stessi e dalle loro reciproche relazioni socializzanti; tuttavia, queste non bastano
quando il bene da difendere è lontano nel tempo (futuro), nello spazio (Amazzonia, Borneo) e
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nella cognizione (minacce invisibili o difficilmente valutabili). Questa capacità di informare le
relazioni con una prospettiva così ampia deriva dalla presenza di una ideologia universalizzante,
intendendo con ciò che contempli la solidarietà di tutto il genere umano e oltre. La presenza di
una simile ideologia comporta quasi inevitabilmente il formarsi di mediatori, di interpreti della
sostenibilità siano essi ambientalisti, scienziati, futurologi (od anche operatori commerciali
etici).
Un’altra conseguenza della presenza di mediatori nel campo ambientale è il fatto che questi
quasi sempre devono essere delle figure istituzionali nel senso di persone o enti che incarnino
valori largamente condivisi. Per il consumo sostenibile abbiamo dunque i seguenti attori in
interazione:
consumatori
associati
mediatori
autorità
imprese
Resta da chiarire come specificare le relazioni fra gli attori dello schema oltre la preminente
categoria della reciprocità. Torna comodo catalogarle secondo la tipologia di Hirschman - exit,
voice e loyalty – assumendo che l’ultima modalità sia riconducibile in senso lato alla reciprocità
dei modelli triadici [Uphoff 1993]. La lealtà deriva dalla fedeltà: è un attaccamento stabile nel
tempo ad una persona/istituzione nonostante oscillazioni, tentennamenti o addirittura
degenerazioni di quest’ultima.
La lealtà è una categoria diversa dalla reciprocità per il fatto che non implica necessariamente la
bidirezionalità; si può essere leali verso un ente impersonale che non retroagisce praticamente
mai. Tuttavia, questo aspetto ci torna utile proprio per quell’adesione a principi/istituzioni
astratte che difendono un bene senza volto come l’ambiente. Anche gli studiosi della reciprocità
hanno contemplato questo aspetto quando parlano di dono anonimo o di fiducia generalizzata
[Bearman 1997]. In tal caso la ‘restituzione’ è mediata da un gruppo, da un ente pubblico, da
una chiesa.
Se proviamo a connettere questi elementi possiamo avere una lista dei potenziali tipi di relazioni
fra attori coinvolti nelle pratiche di consumo sostenibile (fig. 1).
Fig. 1 – Potenziali tipi di relazioni fra consumatori e altri attori
voice
Consumatori exit
loyalty
autorità
produttori
mediatori altri consumatori
sì
sì
sì
-
-
sì
sì
-
sì
sì
sì
sì
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La voice è l’area della critica pubblica verso produttori che non rispettano le regole della
trasparenza, della concorrenza e dell’onestà. Qui vanno collocate le nuove forme di protesta
collettiva come i boicottaggi verso i prodotti di certe imprese. Ovviamente la protesta può essere
rivolta anche alle autorità che non tutelano sufficientemente i consumatori con norme e sanzioni
adeguate. Questo è il terreno classico di intervento delle associazioni dei consumatori. Più
difficile è pensare un’azione simile nei confronti dei mediatori, anche se la grande distribuzione
è stata in qualche caso contestata da gruppi di consumatori, ad esempio nelle campagne contro
l’uso eccessivo di imballaggi. Invece appare anche in linea teorica difficile che si possa
concepire una protesta pubblica e mirata verso altri consumatori. Non è il caso di includere in
questo tipo la critica dei duri e puri verso l’insensibilità e l’incoerenza di gran parte dei
consumatori.
L’exit è la strategia di mercato; se un bene non soddisfa lo si abbandona o si cambia fornitore. Il
consumatore sovrano dovrebbe essere in questa posizione. Quello ecologicamente orientato
sceglierà prodotti e fornitori che garantiscono certi standard relativi a salubrità del prodotto e
basso impatto del ciclo di produzione. Egli potrà essere associato ad altri in questa opera di
selezione, formando così dei gruppi di acquisto. Alle capacità selettive unirà delle capacità
negoziali per contrattare al meglio la minaccia dell’exit o l’opportunità dell’entry. L’uscita dalla
relazione con l’autorità teoricamente non esiste perché quest’ultima ha una competenza
esclusiva su tutto il territorio (in realtà varrebbe quando si cercano paradisi fiscali!). Quella
verso i mediatori è possibile alla stessa stregua dei produttori; mentre tale strategia verso altri
consumatori risulta problematica: non è che un consumatore virtuoso scarti altri consumatori;
semmai nei gruppi di acquisto, vi è una selezione implicita e involontaria in base a interessi,
gusti e simpatie. In questo frangente storico i gruppi di acquisto hanno il problema contrario di
aggregare nuovi consumatori. Non è escluso che in futuro si presenti il problema di uscire da
gruppi di acquisto troppo compromessi.
Loyalty è una categoria facile da immaginare per il consumatore isolato, il quale mostra un certo
grado di condiscendenza verso il brand e verso il quale si attuano strategie di fidelizzazione. Ma
è consueta anche per i gruppi organizzati che appunto stabiliscono patti di lunga durata con
produttori e mediatori. Anche le relazioni con altri consumatori possono essere all’insegna della
lealtà. Anzi proprio qui sta il carattere peculiare di molta parte del consumerismo: la solidarietà
verso attori del mercato è garantita da consumatori che sono fra loro solidali. Si pensa che un
forte legame fra consumatori e fra questi e i produttori-mediatori sia una garanzia della bontà del
metodo di scambio e dei beni scambiati. Se poi il legame è sancito da una vicinanza fisica si
crea anche la nota filiera corta.
Rispetto ad uno scenario tipico-ideale vi possono essere molti scostamenti nella reale vita dei
consumatori sostenibili. Molte questioni vengono sollevate a proposito dell’intermediazione. Vi
sono mediatori che incarnano fortemente valori ambientali e quindi sopperiscono al limitato
orizzonte spazio-temporale (universalità) che troviamo nelle relazioni di reciprocità? Oppure i
mediatori del mercato degli eco-prodotti finiscono per porsi come lobby di potere che sfruttano
la lealtà degli eco-consumatori? L’essere associati fra consumatori sostenibili può indurre un
controllo o una limitazione alla formazione di interessi particolaristici fra produttori o fra
mediatori? Ancora, possono essere i produttori a esercitare un ruolo più prominente nella
formazione e controllo dei mediatori? A queste domande si cercherà una risposta analizzando
due casi di interazione fra produttori e consumatori nei quali il livello di organizzazione degli
uni e degli altri è molto variabile. I due casi – giova ripeterlo - hanno valore esemplificativo;
servono quindi a chiarire concetti e dimensioni piuttosto che verificare ipotesi.
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Il caso dei Godo (Gruppi organizzati di domanda e offerta)
I gruppi organizzati di domanda e offerta vengono presentati dai loro proponenti nel seguente
modo:
L’Aiab (Associazione Italiana per l’Agricoltura Biologica) e Greenpeace, in collaborazione
con la rete dei Gruppi di Acquisto Solidali (GAS), promuovono la Campagna GODO Gruppi Organizzati di Domanda e Offerta. La Campagna GODO nasce dalla
consapevolezza dei produttori biologici e dei consumatori responsabili di avere obiettivi
comuni e di poter trovare nuove forme di incontro, scambio e collaborazione.
Fonte: http://www.aiab.it/nuovosito/primopiano/godo/index.shtml (28.3.07)
La descrizione dell’iniziativa che viene fatta nel sito web è chiara e si basa su alcune linee
portanti: avvicinare produttori e consumatori, sollecitare la reciproca organizzazione, creare una
filiera corta, esaltare i caratteri della genuinità dei prodotti, proporre un modello di sviluppo
locale, tenere bassi i prezzi dei prodotti, eliminare gli intermediari. Ci sono tutti gli aspetti ideali
del consumo sostenibile o responsabile. Inoltre si esaltano due aspetti riportati nella precedente
letteratura: la relazionalità e una sorta di mediazione organizzativa fra produttori e consumatori.
E’ un modello agli antipodi del mercato almeno nei suoi tratti idealtipici: un luogo dove molti
attori indipendenti, nessuno in posizione dominante, si scambiano liberamente dei beni per la
reciproca soddisfazione. L’elemento costitutivo dei Godo sono le rispettive organizzazioni dei
produttori e dei consumatori. Inoltre, vi è un’associazione ambientalista quasi a sancire
quell’elemento universalizzante, quella ‘terzietà’ spesso trascurata nelle relazioni, che è
l’ambiente.
I partner di questa iniziativa sono Aiab, Greenpeace e i Gruppi di Acquisto Solidali. Emerge da
una rapida analisi della collocazione nei rispettivi siti web che l’iniziativa non è in primo piano
in nessuno dei casi; addirittura nel sito www.retegas.org non viene nemmeno menzionata. Si
capisce anche che Greenpeace ha un ruolo marginale, di appoggio esterno alla campagna,
mentre l’organizzazione veramente coinvolta è Aiab. Questo già permette di precisare alcuni
termini della reciprocità fra produttori e consumatori. L’iniziativa è sentita soprattutto
dall’associazione che raccoglie una cospicua parte degli agricoltori biologici. La simmetria con i
consumatori è bassa.
Ciò è testimoniato dal caso del Friuli-Venezia Giulia, dove a fronte di 4 aziende biologiche che
organizzano le cassette bio e le consegnano a domicilio vi sono 800 consumatori non organizzati
in un gruppo di acquisto [comunicazione diretta di Cristina Micheloni]. Anzi nella rivista del
locale ente di sviluppo agricolo [Notiziario Ersa n. 1, 2006] si sostiene che la stragrande
maggioranza dei consumatori serviti ora con le cassette bio erano estranei al circuito del
biologico e dei gas. La campagna Godo, almeno in FVG, si è concretizzata nell’avvicinare i
classici consumatori indipendenti oppure legati da quei legami deboli che sono il passaparola in
ufficio o al bar. Ciò è un grosso risultato per i produttori biologici; infatti la cassetta bio ossia
una cassetta di frutta e verdura di stagione fornita settimanalmente con una composizione e peso
stabiliti preventivamente garantisce agli agricoltori biologici entrate certe e rapide e una
programmazione annuale delle colture.
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I consumatori non sono altrettanto organizzati e, potremo aggiungere, non è così importante che
lo siano2. In fondo, è importante che si diffonda il metodo di coltivazione biologico e che i
consumatori mangino sano e siano soddisfatti. I numeri dell’iniziativa in FVG fanno capire che
si tratta di un successo: cresce, si diffonde fuori dei circuiti, alimenta delle economie locali e
cosa non secondaria per chi ha a cuore le disparità territoriali, contribuisce ad avvicinare città e
campagna; anche le subregioni Friuli e Venezia Giulia vengono avvicinate per il fatto che le
aziende sono nella prima e molti clienti sono a Trieste, area sottolinea Cristina Micheloni, che si
dimostra più consapevole e sensibile ai temi del biologico.
La dimensione organizzativa conta anche per altri aspetti: Aiab è un’organizzazione di
agricoltori; Godo è promosso da questa e non da un gruppo informale di agricoltori; essa si pone
come mediatrice fra questi e il mercato. I vantaggi di avere un’organizzazione sono noti e
valgono per tutta l’economia: garantisce un effetto soglia e permette una specializzazione dei
ruoli. Ciò la rende una forma di produzione conveniente e efficace. Tuttavia, proprio dal
versante dell’economia ecologica si levano voci contro le tecnostrutture, intese come organismi
autoreferenziali, il cui mantenimento ha un forte costo ambientale [Bonaiuti 2004-5]. Non si
tratta probabilmente di scartare dall’orizzonte del consumo sostenibile l’aggregazione fra
produttori quanto di valutare la qualità dei rapporti e i costi ambientali di specifiche forme
organizzative. In questo senso sarebbe interessante valutare la produzione, distribuzione e
consumo dei beni agricoli secondo gli indicatori di impatto ambientale complessivo.
Per altri versi le organizzazioni coinvolte in Godo sono anche delle istituzioni nel senso
attribuito da Selznick [1976] a queste due entità. Le istituzioni cioè coprono rilevanti aspetti
della vita collettiva, incarnano valori comuni. In questo caso è facile immaginare quali: salute
dei consumatori, rispetto dell’ambiente, garanzia di partecipazione e coinvolgimento dei
cittadini. Aiab e Greenpeace si pongono su questa falsariga; meno retegas per il fatto che è
un’entità molto informale, così come lo sono i molti gruppi che vi aderiscono. Le prime due
organizzazioni invece rappresentano quel carisma d’ufficio di cui parlava Weber, un carisma
che si è incarnato in una entità astratta, sovraindividuale.
Aiab e, in minor misura, Greenpeace si pongono come garanti che i prodotti distribuiti siano
corrispondenti ai dettami dell’ecologia: prodotti senza elementi di sintesi, con un impatto
sull’ambiente minimo per quanto riguarda l’uso di materia ed energia, sani e nutrienti, con costi
contenuti. Esse sostituiscono l’ente pubblico in questa funzione: sono cioè organismi di terzo
settore che riscuotono una fiducia tale nel pubblico e nelle autorità da porsi come certificatori3.
Ciò ha un vantaggio per i consumatori che vedono semplificato il loro compito di acculturazione
e verifica dei prodotti che acquistano. Difficile dire se una presenza più organizzata dei gruppi
di acquisto (come è previsto nei Godo) potrebbe garantire una migliore educazione e un
controllo più penetrante sulle qualità etiche dei prodotti.
A rigore né l’associazione dei produttori biologici né quella dei consumatori dà tutte le garanzie
che i prodotti siano ambientalmente sostenibili. Nel caso delle cassette bio si dice espressamente
che in certi periodi esse verranno integrate con prodotti provenienti da altre aree, segnatamente
con arance dalla Sicilia. Ciò arricchirà la gamma, permetterà di sopperire a carenze di prodotto
locale, soprattutto d’inverno, e permetterà di stabilire buone relazioni di collaborazione con i
2
La condizione che l’Aiab pone per la consegna a domicilio delle cassette bio è che vi siano almeno cinque clienti
in uno stesso posto. E’ una timida forma di organizzazione imposta ai clienti.
3
La certificazione, che per il biologico in Italia è affidata ad organismi espressione delle aziende stesse, è svolta dal
2000 dall’Icea (Istituto per la Certificazione Etica e Ambientale), un ente emanato dalla stessa Aiab, che così ha
voluto distinguere le azioni promozionali da quelle di controllo e certificazione.
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produttori siciliani. Il discorso è ineccepibile e, con tutta probabilità, va incontro alle esigenze
dei consumatori, organizzati o meno.
Resta il problema dell’impatto ambientale del trasporto. Sappiamo che questo è un nodo delicato
della sostenibilità, uno dei fattori meno internalizzati da aziende e consumatori4. Se appare
antistorico bloccare il commercio mondiale dei beni, dall’altro ci si può chiedere chi controlli
l’impatto dei trasporti. Aiab francamente non appare attrezzata; la logica della reciprocità fra
siciliani e friulani – siano essi produttori e/o consumatori - non aiuta molto dato che i costi
ambientali del trasporto sono straordinariamente diffusi nello spazio e nel tempo. Potrebbe farlo
nel caso specifico Greenpeace che però si è già detto appare defilata nel progetto.
Esiste forse un’istituzione pubblica che può incaricarsi di questo? Molte speranze sono riposte
nell’autocoscienza dei consumatori. Qui riemerge quel carattere universalizzante che deve
informare l’azione dei consumatori sostenibili che per ora appare anche nei Godo tutto da
verificare e capire. E’ però un punto cruciale per calcolare l’esatta portata dei processi
produttivi, dei consumi e puranche delle relazioni che li legano, dato che anche queste hanno un
costo ambientale.
Consumatori e fornitori di energia
Passiamo al secondo caso. Esso riguarda il mercato dell’energia elettrica. Non è un esempio così
strutturato come quello precedente, anzi è quasi tutto virtuale. Esso si presta ad una valutazione
di prospettiva. In Italia a partire presumibilmente da metà del 2007 sarà possibile per le utenze
private acquistare energia elettrica scegliendo il fornitore. Come è successo per i servizi
telefonici, la rete resterà in capo all’operatore dominante (Enel) e una pluralità di operatori potrà
proporsi di vendere alle famiglie energia elettrica a costi diversificati. Oltre a ciò, potranno
variare le modalità contrattuali e le garanzie sulle fonti.
Già da ora infatti alcuni operatori si stanno proponendo sul mercato per vendere energia elettrica
da fonti rinnovabili5; ciò significa che essi immetteranno nella rete Enel un quantitativo di
energia da fonti rinnovabili corrispondente a quello richiesto dai propri clienti privati.
Ovviamente quella certa dose di energia consumata dal singolo utente ecologista non sarà quella
verde ma comunque ne è garantita l’immissione in rete.
Un’altra strada è che un operatore compri la rete di distribuzione di un’area, sia in grado di
alimentarla esclusivamente con fonti rinnovabili e quindi garantisca a coloro che sono residenti
in quell’area un esclusivo consumo di energia elettrica verde. Anche per chi acquistasse pezzi di
rete si pone però la questione della liberalizzazione ossia della facoltà per l’utente domestico di
scegliere il fornitore. Si tenga conto che Enel ha venduto a partire dal 2000 pezzi di rete per un
totale di un milione e 900 utenti [Autorità per l’Energia Elettrica e il Gas 2006, p. 46]. Chi ha
acquistato – in genere utilities locali a capitale municipale – potrebbe teoricamente rifornirsi a
sua volta da fonti rinnovabili.
4
L’opportunità di importare prodotti agricoli da lunghe distanze dovrebbe essere vagliata alla luce dei seguenti
criteri: “(1) the degree of harm is quantified and put into the context of other food choices, (2) the degree of harm is
put into context of Africa’s current use of ‘ecological space’, and (3) the degree of development gain is quantified,
to demonstrate whether this trade really benefits those living in poverty” [MacGregor e Vorley 2006].
5
Si tratta di La220 Spa con l’appoggio di Adoc-Associazione per la Difesa e l'Orientamento dei Consumatori e
Legambiente e LifeGate Energy - LifeGate spa di Marco Roveda
11
Il quadro è complicato ma apre orizzonti nuovi per l’azione dei consumatori sostenibili. Ad
esempio, in Inghilterra il gruppo
Ecotricity is an electricity company with a difference - we're dedicated to changing the
way electricity is made. We take the money our customers spend on electricity and
invest it in clean forms of power like wind energy. What's more, we're the only green
electricity company actually building these new renewable energy sources. This year
alone we're investing £25 million in wind energy. We've been building wind turbines and
selling electricity across the country since 1996. We supply people like the Body Shop
and Co-operative Bank and are proud to be recommended by the Soil Association and
WWF. The other thing that not many people realise is that we can now all choose who
supplies our electricity, and therefore how it's made, so wherever you live in the country
you can actually choose to have your home or business supplied by clean energy. The
funny thing is switching takes about five minutes but it's the biggest single step you can
take to reduce your emissions and protect the environment.
fonte: http://www.ecotricity.co.uk/about/about.html (28.3.07)
I consumatori possono dunque scegliere un proprio fornitore verde [vedasi anche Graham 2006].
Ma non è la sola azione che essi possono compiere. Abbiamo un ventaglio di forme di impegno:
-
autoproduzione di energia
coproduzione con la rete (coprovision)
acquisti di energia da imprese elettriche verdi
acquisto diretto o attraverso fondi di investimento di quote di imprese elettriche verdi
partecipazione civica al municipio che possiede le utilities
partecipazione in forum come agenda 21 locale
L’autoproduzione di energia è un fenomeno che ha ripreso vigore in questi anni di ventilata crisi
energetica: si sono acquistate un numero elevatissimo di stufe a legna, sfruttando anche le
detrazioni fiscali previste per le misure di risparmio nelle abitazioni. E un certo sviluppo è atteso
per i pannelli scaldacqua. Ma anche l’energia elettrica può essere autoprodotta attraverso i
pannelli fotovoltaici. La storia almeno in Italia di questa pratica, anch’essa indotta da incentivi
(conto energia), è brevissima ma già ricca di insegnamenti data la rapidità con cui è andato
esaurito il fondo incentivante.
Coloro che installano pannelli fotovoltaici si pongono infatti come consumatori sostenibili per
eccellenza, un’avanguardia particolarmente motivata. Sul loro livello di associazionismo
sappiamo poco o nulla; appare comunque molto basso e informale6. Come nel caso precedente,
sono le imprese ad essersi organizzate per prime; non tanto quelle che producono pannelli
quanto quelle che forniscono servizi all’installazione, che vanno dall’elettricista alla banca,
dall’architetto all’assicurazione.
Curioso il fatto che alcuni consumatori si siano voluti trasformare in imprenditori; infatti il
conto energia promette di essere molto conveniente sul lungo periodo, per cui molti hanno
pensato non tanto a costruirsi un impianto tarato sul proprio fabbisogno domestico ma un
impianto che permetta di vendere energia all’operatore di rete. Vi sono stati anche episodi
incresciosi ossia tentativi di accaparrarsi le quote sovvenzionate di energia da fotovoltaico con
l’intenzione di rivenderle ad altri ad un certo prezzo quando il conto energia si fosse esaurito.
6
Si segnala un interessante caso a Noale in provincia di Venezia, il gruppo la Fucina neppure formalizzato in
associazione.
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Le diverse reazioni dei consumatori in fatto di energia si possono cogliere anche vedendo come
si integrano con entità esterne. La microgenerazione domestica di energia può essere un sistema
chiuso e autosufficiente che non richiede e non dà nulla all’esterno. Si pensi a certe case isolate
in campagna o in montagna. Oppure può essere un sistema misto in cui vi è un travaso di
energia dalla casa alla rete e viceversa a seconda dei momenti e dei bisogni. E’ questo il caso del
fotovoltaico in Italia prima citato. Questo modo di operare è stato definito co-provision [Watson
2004]. Esso si articola in almeno tre modelli: il privato compra l’impianto; il privato accoglie
nella propria casa l’impianto di proprietà della utility, il privato affitta l’impianto. Oltre ai
regimi di proprietà possono cambiare i modelli di gestione e i calcoli della remunerazione dei
fattori.
In ogni caso, il consumatore si trova in una posizione diversa rispetto alla tradizionale e d
esclusiva fornitura attraverso la rete: è più responsabilizzato, deve farsi una cultura tecnicoprofessionale, modifica il proprio atteggiamento verso l’impresa fornitrice. Il risultato è che non
è più il passivo fruitore di un servizio di cui sa poco o nulla, eccetto i costi riportati in maniera
più o meno dettagliata in bolletta. Inizia un dialogo e una cooperazione con l’utility che
potrebbe modificare di molto il panorama attuale, nel quale le principali imprese del settore
sembrano preoccupate unicamente dell’efficienza produttiva e dei rendimenti in Borsa.
Per l’Italia non è dato sapere come potrà organizzarsi questo consumatore co-produttore di
energia. Se nasceranno o meno associazioni a difesa del produttore domestico. Per le imprese vi
è già una fioritura di gruppi di interesse organizzati. Non ultime le già citate imprese che
propongono alle utenze private di prenotare energia elettrica verde in vista della liberalizzazione
del mercato. Di sicuro interesse è l’iniziativa della regione Friuli-Venezia Giulia che ha varato
una legge per sostenere cooperative di utenti formate da almeno 10.000 soci che intendano
comprare energia elettrica e gas7. Lo scopo non è primariamente ambientale ma economico
(risparmio sul costo dell’approvvigionamento). Tuttavia, è sicuramente uno stimolo alla
formazione di gruppi di acquisto energetici potenzialmente sensibili alla riduzione del consumo.
Per quanto riguarda invece le forme più immateriali di partecipazione alla produzione e
consumo di energia vi sono esperienze consolidate. Fondi di investimento verdi, società di rating
specializzate sulla sostenibilità, fondi pensione ecosensibili che individuano le imprese delle
quali è possibile acquistare quote azionarie. Il ruolo del risparmiatore in termini di voice o exit
avviene generalmente attraverso la mediazione di società eticamente connotate e tende a diluirsi
molto rispetto ai più robusti e motivati orientamenti di dette società. Certamente, nel campo
dell’energia la sproporzione fra le imprese produttrici e i consumatori, per quanto associati e
intermediati, è enorme.
Per molti aspetti sembrerebbe più incisiva la via di influire sulle scelte energetiche attraverso le
imprese di pubblica utilità a capitale municipale dato che molte di queste sono entrate nel settore
della produzione e distribuzione dell’energia. La partecipazione può avvenire attraverso la
sollecitazione dei propri rappresentanti nel consiglio comunale; attraverso organismi di
partecipazione previsti dalle stesse utility per dialogare con la cittadinanza; attraverso i comitati
spontanei che si formano in vista della costruzione di impianti. Non si cita il canale dei partiti,
che appare in questo periodo storico afasico rispetto ai problemi della sostenibilità. La tendenza
delle utility è stata quella di allontanarsi dai cittadini con la motivazione che le esigenze tecniche
e finanziarie portano ad una gestione sempre più aziendale e di larga scala. Infatti, non è difficile
7
Legge regionale 15 dicembre 2006, n. 29 – Bollettino Ufficiale della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia n.
51 del 2006.
13
leggere nelle presentazioni al pubblico delle utility uno stile vagamente aziendalista: garantire la
soddisfazione del cliente, essere trasparenti nelle procedure di pagamento, spingere sulla qualità
del servizio. Non vi sono accenni alle relazioni e per imprese molto grandi con migliaia di utenti
diventa francamente difficile coltivarle.
La tendenza prevalente fa leva sul mercato: evitare l’exit al cliente e favorire l’entry. La loyalty
è strumentale ed è ottenuta tipicamente con l’erogazione di fringe benefits (es. cumulo delle
bollette). L’aspetto ambientale è citato, ma in maniera generica sia perché è molto complesso sia
perché queste stesse aziende sono dentro meccanismi di lock-in tecnologico che non lasciano
loro molti elementi su cui negoziare con i propri utenti. Insomma il consumatore ha margini di
azione estremamente ridotti con le imprese energetiche, pubbliche o private che siano. In tale
situazione molte speranze sono affidate alla mediazione extratecnica dei sindaci, soprattutto di
quelli dei centri maggiori, i quali possono esercitare una certa pressione sulle utility pubbliche in
forza del proprio carisma.
Ancora più aleatoria è la partecipazione dei consumatori negli organismi tipicamente riassunti in
agenda 21 locale. Essi sembrano più efficaci sul versante del risparmio energetico. E infatti
alcune delle esperienze più significative in Italia sono nate nell’alveo di AL21 (es. Cambieresti?
di Venezia). In quel caso si mettono in moto nuove mediazioni, quelle dei professionisti
dell’abitare. Ingegneri, architetti, idraulici, elettricisti, muratori si stanno riqualificando per
fornire abitazioni a minor consumo di energia. I consumatori, come si è visto spesso, finiscono
per essere pilotati da altri gruppi anche sul versante del risparmio energetico. Altre entità, gli
ordini professionali, le stesse associazioni ambientaliste, le cooperative edilizie si sono
attrezzate prima e meglio dei consumatori, ponendo sempre la stessa asimmetria fra produttori
discretamente ben aggregati o rappresentati e consumatori in ordine sparso.
Tuttavia, il progetto Cambieresti? del comune di Venezia, rappresenta un punto di rottura con il
panorama precedente; è il primo caso in cui un’ente locale si pone in maniera organica come
mediatore dei consumi dei cittadini. Esso che proprio nella sua seconda fase si occupa molto di
energia, punta a farsi garante del rapporto fra fornitori e consumatori attraverso diversi strumenti
di credito e di rateizzazione di interventi di miglioramento ambientale delle abitazioni.
Qualche conclusione
Il mondo del consumo sostenibile è piccolo e popolato di microgruppi di acquisto, a volte molto
radicali, riuniti in rete, ma di fatto completamente autonomi l’uno dall’altro. I più virtuosi
insistono molto sul valore dell’autoproduzione e dello scambio non monetario. Relativamente
più ampio e strutturato appare il mondo dei eco-fornitori.
Il settore con maggiore esperienza e storia è quello dell’agricoltura biologica; un’apripista del
consumo critico la cui sostenibilità complessiva e integrazione con altri segmenti
dell’ecoproduzione è da valutare con attenzione. Il nodo dell’impatto ambientale dei trasporti e
del rapporto fra autosufficienza locale e solidarietà con aree economiche svantaggiate restano
poco tematizzati. C’è il rischio che ci si concentri molto su alcune aree (es. cibo) relativamente
poco impattanti e se ne trascurino altre, che lo sono molto di più (es. trasporti privati e
riscaldamento).
La relazione fra eco-produttori e eco-consumatori è asimmetrica, sbilanciata verso i primi. Ciò è
amplificato dal fatto che i produttori organizzati in alcuni casi si pongono anche nel ruolo di
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mediatori. I produttori di ecobeni e di ecoservizi si organizzano rapidamente in sindacati che poi
esercitano azioni di lobby presso le istituzioni pubbliche. Le tradizionali associazioni dei
consumatori appaiono sul versante della sensibilità ambientale ancora molto tiepide. Vi è un
impegno crescente dei comuni nel ruolo di mediatori con iniziative nel campo del risparmio.
La prospettiva di una completa integrazione del tassello del consumo nell’economia circolare e
dematerializzata è lontana. Certamente la teoria sta aiutando a capire meglio il consumatore
sostenibile: né oggetto in balia degli eventi – infatti esiste, si aggrega e fa sentire la sua voce –
né soggetto autoderminato e autosufficiente. Infatti molte scelte ecocompatibili semplicemente
non può farle perché il condizionamento che deriva dalla produzione tradizionale è fortissimo.
Le sue capacità organizzative sono molto deboli, confinate per ora al ruolo della testimonianza.
La prospettiva relazionale appare molto utile e solo la sordità delle imprese e delle autorità
pubbliche potrebbe impedirne uno sviluppo. La diffusione di una maggiore reciprocità in tutti
gli ambiti dalla ricerca scientifica alla vendita al dettaglio fino alla certificazione renderà più
complesse ma anche più sostenibili le pratiche di consumo. Manca ancora, anche nei
consumatori più riflessivi, la consapevolezza dell’esatta portata ambientale del gesto del
consumo. Per ora solo uno sparuto gruppo di calcolatori maniacali del fardello ecologico di ogni
bene e servizio ha adottato strategie che contemplano la protesta (voice), la scelta mirata (exit) e
la fedeltà ai principi (loyalty). La sensibilità per l’ambiente è aumentata enormemente; difetta
ancora di coerenza fra le parti ossia di una visione ecologica delle cose.
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