ML - UPDATE N.46

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ML - UPDATE N.46
MUSICLETTER
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La prima non-rivista che sceglie il meglio della musica in circolazione - www.musicletter.it - Anno III - Update N. 46
MUSICA
Folco Orselli, Negazione, Air, Gorilla, Iggy and the Stooges,
Pikes in Panic, Perturbazione, Ulan Bator, Pipettes.
ALTRI PERCORSI: LIBRI
Pamela Des Barres
© ML 2007 - FREE
Verdena, Nick Cave, Ponys, Lyrics Born, Wilco, Cat Power,
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chi siamo
Luca D’Ambrosio
Domenico De Gasperis
Nicola Guerra
Jori Cherubini
Massimo Bernardi
Marco Archilletti
Manuel Fiorelli
Pier Angelo Cantù
Pasquale Boffoli
Hey, non capisci? La musica non è altro
che provare emozioni e divertirsi!
Gianluca Lamberti
Luigi Farina
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Franco Dimauro
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copertina update n. 46 / 2007-05-24
Silvia M. - Francesca L. - Irene S.
Marta S. (foto di Marcello Iannotta)
Location: Shout’s Studio (Morolo, Fr)
ML 2
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update n. 46
sommario
Recensioni
4
WILCO Sky Blue Sky (2007) by Domenico De Gasperis
5
AIR Pocket Symphony (2007) by Jori Cherubini
6
FOLCO ORSELLI MilanoBabilonia (2007) by Franco Dimauro
7
VERDENA Requiem (2007) by Nicola Guerra
8
NICK CAVE The Abattoir Blues Tour (2007) by Pasquale Boffoli
10 PERTURBAZIONE Pianissimo Fortissimo (2007) by Jori Cherubini
11 ULAN BATOR Ulaanbataar (2007) by Pasquale Boffoli
12 GORILLA Rock Our Souls (2007) by Nicola Guerra
13 THE PONYS Turn The Lights On (2007) by Nicola Guerra
14 PIKES IN PANIC Right Or Wrong, They‘re Still The Captains (2007) by Franco Dimauro
15 LYRICS BORN Later That Day… (2003) by Luca D’Ambrosio
16 NEGAZIONE 100% (1990) by Manuel Fiorelli
17 IGGY AND THE STOOGES Raw Power (1973) by Marco Archilletti
Live Review
18 THE PIPETTES Firenze, Viper Theater (28.04.2007) by Luca D’Ambrosio
19 CAT POWER Roma, Piper Club (08.05.2007) by Marco Archilletti
Altri Percorsi / Libri
20 PAMELA DES BARRES Sto con la band (2007) by Nicola Guerra
© ML 2005-2007
BY L UCA D’AMBROSIO
ML non ha scopi di lucro, il suo unico obiettivo è la diffusione della buona musica
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ML 3
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update n. 46
recensioni
ARTIST: WILCO
TITLE:
Sky Blue Sky
LABEL:
Nonesuch
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.wilcoworld.net
MLVOTE: 8/10
Da diversi anni i Wilco sono il mio gruppo preferito, e nonostante questo non ero assolutamente
informato circa l’imminente uscita del loro ultimo disco. L’ascolto improvviso di Sky Blue Sky ha
rappresentato per il sottoscritto una sorpresa e allo stesso tempo un regalo meraviglioso, così
come accade tra due persone che si amano: una delle due inaspettatamente dona qualcosa
all’altra che a sua volta ne rimane prima stupita e poi estasiata, giacché quello ricevuto era
proprio il regalo che sognava da qualche tempo. Non ero assolutamente stanco dei suoni
elettronici e disturbati presenti in Yankee Hotel Foxtrot e A Ghost Is Born, due indiscutibili
capolavori che avevano rinnovato ma non azzerato il country-rock della band, ma ultimamente, e
sempre più spesso, tornavo a riascoltare dischi come Being There e Summerteeth se non
addirittura i vecchi lavori degli Uncle Tupelo. Questo inaspettato ritorno a casa provocherà, tra i
fan e addetti al settore tout-court ampi dibattiti, ognuno con la sua chiave di lettura: ci sarà chi
griderà ad un’involuzione e chi affermerà che sono finalmente tornati a fare vera musica,
abbandonando il falso modernismo dei due precedenti dischi. Per quanto mi riguarda Sky Blue
Sky è un’opera piena di canzoni ispirate che crescono sempre di più ad ogni ascolto, quando
arrivo alla fine della dodicesima traccia premo di nuovo play sul lettore, fino ad un minimo di tre
ascolti giornalieri, proprio come una medicina indispensabile. Apre le danze Ether Way con una
melodia irresistibile e attacchina seguita da You Are My Face che parte lenta per poi crescere di
ritmo con delle improvvise svisate chitarristiche. Per descrivere Impossibile Germany basta una
sola parola: capolavoro. La title track ci trasporta in quelle atmosfere country che ti fanno
sognare ad occhi aperti laddove con Side With the Seeds credi nell’immortalità di John Lennon.
Mi fermo qui nel commento delle tracce, diversamente avrei dovuto scomodare gran parte dei
grandi nomi del rock classico e sarei dovuto andare a caccia d’aggettivi che francamente
avrebbero stancato il sottoscritto e chi legge. Basta ripetere che l’ultima fatica dei Wilco è una
imperdibile raccolta di canzoni che riporta alla mente Robbie Robertson, Bob Dylan e
soprattutto l’album bianco dei Beatles, colorata da una chitarra jazz al servizio della più grande
rock band del pianeta. Attenzione! Un uso prolungato potrebbe provocare una forte dipendenza.
Domenico De Gasperis
ML 4
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recensioni
ARTIST: AIR
TITLE:
Pocket Symphony
LABEL:
Emi / Virgin
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.pocket-symphony.com
MLVOTE: 7/10
Un disco destinato a dividere. Il duo-dico transalpino con Pocket Symphony ha deciso di battere
nuove strade e intraprendere un percorso già, in piccola parte, anticipato con il precedente album
(Talkie Walkie del 2004). Si tratta di un lavoro - consentitemi il termine “marcopoliano” che
mescola con maestria ricette sonore che “odorano” di vecchio continente e fragranti euritmie
d’oriente. Ma non preoccupatevi perché il lavoro non (s)cade nel pacchiano neanche per un
istante. Tutt’altro. Le melodie qui presenti producono un “mosaico sonoro” dalle tinte sobrie,
luminose e ammalianti. Più strumenti e meno gingilli digitali rispetto al passato. L’inseparabile
coppia si muove con estrema disinvoltura tra pop e brevi rimandi “jazz” senza mai dimenticare
l’ambrosia elettronica. Jb Dunckel e Nicolas Godin (titolari del prestigioso marchio Air) - ben
consapevoli che un album-capolavoro come Moon Safari si fabbrica una sola volta nella vita –
imprimono in questa occasione uno stile differente ma non distante da quel fascino. Tra gli ospiti
d’onore impossibile non citare Neil Hammon dei Divine Comedy o, l’ex Pulp, Jarvis Cocker
(splendidi i passaggi vocali in One Hell Of A Party) che - in aggiunta alla produzione “remidiana”
dell’onnipresente Nigel Goldrich - danno man forte al fine di imbastire un’opera che, ne siamo
certi, non resterà orfana. Le canzoni: Somewhere Between Waking and Sleeping sembra
benedetta da Robert Wyatt; Redhead Girl riporta la mente in territori metafisici cari ai Cocteau
Twins di Victorialand; Once Upon A Time, per conto di una marcetta limpida e vibrante
d’archetti, sprigiona un romanticismo sgranato ed essenziale; Mer Du Japon incalza invece trame
armoniche con piroette che sguazzano nelle acque del Sol Levante, mentre Napalm Love abbonda
di incantevoli dettagli. A voler essere intellettualmente onesti, e finanche un po’ pignoli, è
necessario ammettere che non tutte le dodici “sinfonie tascabili” spiccano per genialità (Lost
Message e Left Bank). Quisquilie che non intaccano la bellezza di Pocket Symphony.
Jori Cherubini
ML 5
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recensioni
ARTIST: FOLCO ORSELLI
TITLE:
MilanoBabilonia
LABEL:
LifeGate
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.folcoorselli.it
MLVOTE: 7,5/10
MilanoBabilonia è il disco che segna la maturità artistica di Folco Orselli, l’etilico bohemien
milanese che gli avventori dei club del Nord Italia già ben conoscono da qualche anno. Un disco
enorme, vorace, straboccante. L’ Apocalisse secondo Folco. Ma qui il tono profetico lascia il posto
a quello non meno inquietante della cronaca metropolitana. Il primo sigillo è rappresentato da La
Fine Del Mondo ed ecco la prima Bestia liberarsi da ogni catena e azzannarci direttamente al
volto, scura e rapace, pronta a divorare tutto. C’ è una visione babelica e bastarda che esce,
grassa, da tutto il disco: blues, rock, musica sudamericana e tanta merda funky. Suoni gonfi e
carnosi, frutto della crescita musicale di Folco ma anche delle esperienze maturate dai musicisti
della sua band. Il debito verso “certa” scuola cantautorale rimane (mi riferisco a gente come
Capossela, Villotti o Marra, NdLYS), ma ora si percepisce chiaro come si tratti più di un’affinità
elettiva, di un “comune sentire”, di una sensibilità paritetica e omogenea che non di una
emulazione di formule o di una elaborazione di stereotipi. MilanoBabilonia è l’ accesso al mondo
adulto e adulterato. E c’è questa presa di coscienza, questo abbandono alla deriva verso cui il
nostro mondo-Babilonia ci sta naufragando, che rende il tutto ancora più madido di rabbia e
cinico disincanto. Il mondo finisce. Troia brucia. Il Numero della Bestia è stato rivelato. L’
Himalaya si scioglie e presto lo berremo imbottigliato da qualche multinazionale dell’Est. E in tutto
questo schianto di umanità travolta, le facce scorrono ancora cariche di sorrisi di circostanza, frasi
fatte, unghie laccate. È una pioggia glitter che si mischia a quella acida, l’orchestra del Titanic che
suona fino alla fine. Ed è un’idea che MilanoBabilonia rende con una perfezione che solo pochi
dischi hanno finora conosciuto.
Franco Dimauro
ML 6
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recensioni
ARTIST: VERDENA
TITLE:
Requiem
LABEL:
Black Out / Universal
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.verdena.com
MLVOTE: 8/10
Correva l’anno 1999 e mi trovavo in un locale della bergamasca a sorseggiare mojito (i tempi
passano ma i vizi restano) e di fronte a me avevo Luca e Alberto Ferrari, rispettivamente
batteria e voce/chitarra del terzetto chiamato Verdena. Erano i tempi del fortunato esordio, con
Valvonauta, singolo in heavy rotation su MTV, che imperversava ovunque. Anche nel locale, il
D.J., accortosi della presenza dei fratelli sulla bocca di tutti, fece partire proprio Valvonauta, e la
faccia di Luca cambiò espressione, un disagio prese il sopravvento e minacciò, in modo
sconsolato, di “prendere a schiaffi” il disc jockey. Sorrisi a Luca e capii che il loro successo non
aveva seguito nessuna logica commerciale, e che da lì a pochi anni si sarebbero potuti perdere
oppure avrebbero potuto diventare grandi. La maledizione di Luca, in quel modo che solo noi
timidi riusciamo a interpretare, mi fece capire che sarei tornato a parlare di loro. Uscì Solo Un
Grande Sasso (2001) e le influenze si fecero più varie, con innesti di pianoforte e visioni
oniriche, un magma fluido che ancora oggi, riascoltando, mi provoca piacere. Il Suicidio Dei
Samurai (2004) si staccò dal passato per assecondare la vena creativa dei ragazzi, con brani tra
i più belli della loro breve carriera (quante volte avrò ascoltato Luna, non ve lo saprei dire) e con
l’innesto delle tastiere che dal vivo rendevano il suono ancora più pieno e denso. Dopo tre anni da
quello che poteva essere considerato un punto altissimo della loro discografia, arriva nei negozi
Requiem, quarto lavoro prodotto da loro e Mauro Pagani purtroppo non anticipato da quei
deliziosi EP che ci avevano abituato bene, fra cover e brani improvvisati, ma tant’è; possiamo di
certo gongolarci con queste nuove quindici composizioni che denotano quanto il suono della band
attinga da diverse fonti ma rimanga comunque personale e dotato di spunti creativi difficilmente
rintracciabili in chi gode di una visibilità cosi esposta. Se ne sbattono, con la consapevolezza dei
forti e l’innocenza dei folli e aprono il disco con l’intro Hendrixano Marty In The Sky per poi
tuffarsi a capofitto nella ferocia di Don Callisto e nel crescendo emotivo della bizzarra (non solo
per titolo e testo) Non Prendere L’Acme, Eugenio. Ma la sorpresa arriva quando l’attacco sghembo
di Angie ci raggela per poesia e dolcezza, una ballata acustica che chiama Beatles e risponde
Verdena nel modo non lineare di trattare i testi. Lo stoner che poi stoner non è degli attuali
Q.O.T.S.A. con Isacco Nucleare e Canos, due brani di impronta internazionale che hanno il pregio
di non scimmiottare nessuno e le immersioni lisergiche in un hard rock anni ‘70 di Il Gulliver, con
i suoi 11 minuti abbondanti fra linee melodiche e totale abbandono al semplice piacere di
suonare. C’è ancora spazio per il rock’n’roll stile Led Zeppelin di Muori Delay, la ballata acustica
Harvestiana di Trovami Un Modo Semplice Per Uscirne e brani che alternano melodia e riff
granitici come la classica (in stile Verdena, diciamo) Il Caos Strisciante. Chiude la lunghissima
suite di Sotto La Prescrizione Del Dott. Huxley, e ci si ritrova come se avessimo abbandonato il
mondo. In questo immaginifico luogo di attualissimo rock i tre ragazzacci stanno gettando un
segnale forte: non vogliamo apparire ma essere. E così la mia provincia, quella di Bergamo, così
dimenticata, ha una sua scena che vede in vetta questi splendidi e timidi ragazzi e sotto di loro
musicisti che vivono per il rock’n’roll come i Fiub, El Thule, Lana, Hogwash, Hodge, Thee
Jones Bones, tORQUEMADA e tanti altri ancora.
Nicola Guerra
ML 7
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update n. 46
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ARTIST: NICK CAVE
TITLE:
The Abattoir Blues Tour
LABEL:
Mute
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.nickcaveandthebadseeds.com
MLVOTE: 8/10
Il doppio album Abattoir Blues/The Lyre Of Orpheus ha rappresentato un ennesimo fulgido
tassello dell’iter artistico dell’australiano Nick Cave, abilissimo nel rinnovare ed alternare la
tempra espressiva, gli arrangiamenti dei suoi fidi Bad Seeds attraverso i quali le sue liriche
sempre intense e vissute prendono corpo ed afflato emotivo. Il tutto rimanendo sempre fedele a
se stesso. In tal senso le composizioni ed il mood di Abattoir Blues (Nature Boy, Hiding All Away,
There She Goes My Beautiful World etc..) risultavano decisamente più adrenaliniche ed
accattivanti delle opere che l’hanno preceduto, The Boatman’s Call, No More Shall We Part ed
in parte Nocturama, votati ad abbandoni classicheggianti lirici ed introversi, non esattamente
radio-friendly. La virata era vigorosa, in virtù di enfatici e vitali umori e cori gospel ed un
songwriting fluido ed eclettico, potente nei suoi frequenti strappi ma anche secco e maculato di
onirici momenti radio-friendly (Baby You Turn Me On, Breathless). Il cofanetto, The Abattoir
Blues Tour, comprendente nella versione deluxe due cd e due dvd fotografa nitidamente questo
ennesimo momento di grazia di Cave & The Bad Seeds! I brani si rivelano compatibilissimi alla
dimensione live che ce ne restituisce amplificati ed enfatizzati drammaticità ed eclettismo
originari. La macchina Bad Seeds poi, già messa a punto mirabilmente da tempo, ha acquisito
negli ultimi anni ulteriore pathos e potenza d’ensemble grazie al visionario archetto di Warren
Ellis ed alle tastiere cromatiche di James Johnston (organ) e Conway Savage (piano). I due
cd live del cofanetto , registrati in varie locations europee nel corso del 2004 sono una vera full
immersion nelle infuocate performances del materiale di Abattoir Blues, corroborate da caldi
cori che danno intensi connotati gospel e spiritual a brani come There She
Goes My Beautiful
World, Carry Me, Easy Money, Hiding All Away, Let The Bells Ring e la delicata O Children. Ugual
trattamento è riservato a brani storici come Red Right Hand, Deanna, God’s In A House, Lay Me
Low. Stagger Lee (murder ballad per eccellenza!) vive una tensione spasmodica di pieni e di vuoti
con picchi sublimi e drammatici. I due dvd sono l’esatta trasposizione visiva di quanto trapela
dall’ascolto dei due cd; l’eccitazione trasmessa dal consistente ensemble Bad Seeds e da membri
della London Community Gospel Choir nel primo dvd registrato alla Brixton Academy di Londra
nel novembre 2004 è davvero stupefacente e Cave appare carismatico come sempre mentre
dirige discretamente ma nervosamente il tutto.
I suoi movimenti sul palco non sono più
scomposti e schizoidi come nella scellerata giovinezza dei turbolenti gigs dei Birthday Party. Ora
sono più eleganti e controllati ma l’ascendente della sua debordante personalità sull’audience
rimane enorme. Quattordici brani, tra cui le impetuose Supernaturally e Get Ready For Love, la
commovente Easy Money (una roba da farti il cuore a fettine!) la tesa e nevrotica Hiding All
Away, il blues mistico Messiah Ward, il gospel lamentoso A Lyre Of Orpheus, oltre tutti i brani
sunnominati.
ML 8
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Il secondo dvd, registrato all’Hammersmith Apollo di Londra nel giugno 2003 contiene sette brani
antecedenti ad Abattoir Blues, a cominciare da Wonderful Life, lenta e pianistica, performance
commovente, e l’epica Bring It On, un accattivante duetto con il connazionale Chris Bailey
(Saints…) amico di bagordi dalla gioventù, entrambi tratti da Nocturama; e poi a ritroso una
stupenda scaletta di ballate affascinanti e senza tempo, alcune raramente presenti nei loro shows.
Nobody’s Baby Now (da Let Love In), Christina The Astonishing (Henry’s Dream) e Watching
Alice (Tender Pray), due brani dalle melodie oniriche e sottilmente psichedeliche eseguite con
concentrazione quasi mistica, il pubblico con il fiato sospeso. Conclude la performance Wild World,
risalente addirittura all’ep Bad Seeds; parte dolente e raccolta, per straripare nel finale: Cave si
alza dal pianoforte ed esplode in uno dei sui tipici impagabili attacchi isterici che mandano il
pubblico in delirio come ai tempi dei Birthday Party. Completano il secondo dvd cinque video
promozionali molto diversi tra loro. Del tutto schizzato quello del lungo e disturbato Baby I’m On
Fire, divertente e delicato il cartoon di Breathless sino a quello “Trash-issimo” di Bring It On,
stracolmo di sculettamenti e pose equivoche di ballerine di colore, di cui ci viene regalato anche il
complesso e sofferto making of. Infine un documentario sulla realizzazione in studio a Parigi di
Abattoir Blues, con interviste a Nick Launay (il produttore) e Nick Cave, che ribadisce il suo
amore per le songs registrate in un clima di estrema creatività, la diversità tra l’incisività del
materiale di Abattoir Blues e la maggiore persuasione di The Lyre Of Orpheus ed infine la
sostanza “pop” (conscio che non potrà piacere a tutti) delle nuove songs del doppio lavoro che,
dice “…stanno lì, come in fondo ad un autobus ad osservare complici e compiaciute quelle
vecchie! “
Pasquale Boffoli
ML 9
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recensioni
ARTIST: PERTURBAZIONE
TITLE:
Pianissimo Fortissimo
LABEL:
Emi
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.perturbazione.com
MLVOTE: 7/10
Il cambio di etichetta, dalla Mescal alla Emi, ha conseguito al gruppo piemontese un differente,
ma non troppo, biglietto da visita. I suoni caratterizzanti gli ultimi due lavori (In Circolo del 2002
e Canzoni Allo Specchio del 2005), che in alcuni tratti potevano sembrare naif, qui appaiono
levigati ed essenziali. Un perimetro più ristretto intorno alle melodie, e al tempo stesso un
maggiore equilibrio tra gli elementi, induce a ritenere Pianissimo Fortissimo l’album più
“quadrato” dei nostri. I testi - bollati, da alcuni velocipedi dell’era mp3, come “adolescenziali” incarnano uno spessore sentimentale che magari non trasporta al troppo ottimismo, come si
evince, ad esempio, da Brautigam (Giorni Che Finiscono): “E se dico buongiorno ma rimango nel
letto. E se cerco un vestito ma un vestito non c’è. E se penso al mattino cosa fare la sera. E se
sono da solo vorrei compagnia, e se sono fra tanti vorrei compagnia…”, ma raccontano storie di
rara poesia, capaci di stupire in maniera quasi catartica. Se esiste un pericolo, per Tommaso
Cerasuolo e compagni, è quello di cedere alle moine di chi, per lucrosi scopi, li vorrebbe più
affini ai non-gusti musicali delle masse. Ma la caduta nel banale, in questo caso, è stata
abilmente allontanata. Da parte nostra - felici di avere tra le mani un album in grado di legarti
allo stereo per interi pomeriggi - non possiamo che consigliare, a tutti gli amanti del (buon) pop,
l’ascolto di questo gioiello di malinconia. Lieve, elegante e assolutamente piacevole.
Jori Cherubini
ML 10
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ARTIST: ULAN BATOR
TITLE:
Ulaanbataar
LABEL:
Jestrai / RuminanCe
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.ulanbator-archive.com
MLVOTE: 7/10
Ricordo che quando nel 2003 uscì il pop-oriented Nouvel Air prodotto da Robin Guthrie suonò
per i fans della prima ora del trio francese guidato da Amaury Cambuzat quasi un’abiura di
quelle sonorità post-rock urticanti che li avevano caratterizzati sin dai loro esordi e che avevano
trovato potente sublimazione in quell’Ego-Echo magistralmente prodotto da Michael Gira,
d’inizio millennio (2000) che ancor oggi, posto nella parte centrale della loro carriera, si pone
come apice della loro maturità-creatività artistica. Rodeo Massacre nel 2005 rimetterà in
discussione le sonorità oniriche e rarefatte di Nouvel Air, detto tra noi per nulla disprezzabili, una
svolta in cui Cambuzat credeva molto, come dichiarava in un’intervista che mi concesse allora.
Rodeo Massacre riaprirà i battenti di un sound dalla forte carica implosiva, resa incondizionata
ad un “quotidiano” internazionale ormai sconvolgente ed autodistruttivo. Così mi affabulava
Amaury in una seconda intervista rilasciatami nel 2005. Questa recentissima uscita dell’italiana
Jestrai/Ruminance, Ulaanbaatar/The French Red Warriors, Ulan Bator Archive Volume 1
(si spera di una nutrita serie!) 1993-1998, A Selection Of Unreleased Works, farà quindi
sicuramente la gioia dei fans della prima ora di cui sopra, perché è stata prodotta e diretta da
Amaury Cambuzat e dallo straordinario storico bassista Olivier Manchion, andando a
selezionare dagli archivi della band quasi settanta minuti di demo, studio live, remix e live
risalenti al loro periodo più sperimentale e spigoloso, tra il ’93 ed il ’98, quando lo studio degli
Ulan Bator era “La Guillotine”, all’interno di una grotta di tufo nei pressi di Parigi: prime
carismatiche e noise versioni e remix di brani come Ursula Minor (con il sax free di Quentin
Rollet), Céphalopode, D-Press T.V, Automne, Apt 18-A, Catatonia poi confluiti nei loro primi
lavori registrati a La Guillotine, Ulan Bator, 2 Degrees, Ursula Minor, Végétale, o live
conturbanti come Bleu Èlectrique, Brille (Cosenza), Lumière Blanche/Scheestum (al Bloom
di Mezzago, Mi), Melodicart (Olympic, Nantes), sino al primissimo demo Tengri del 1993,
documento dal sapore industrial, quando Amaury e Olivier erano Khan Duo. Con Franck
Lantignac alla batteria un anno dopo sarebbero diventati la formazione storica degli Ulan Bator
che ascoltiamo nei 20 brani di Ulaanbaatar, uno straordinario campionario-archivio di tracce
cupe e corrosive, crudeli e sferraglianti, affascinante esistenzialistica rivisitazione francese del
krautrock più intransigente, alchemicamente alterata da metalliche innovative istanze post-rock
ed industrial! Una forte componente onirico-introspettiva farà parlare della loro musica la stampa
specializzata internazionale come “colonne sonore per film che non esistono”. La loro propensione
europeistica li porta a collaborare dal ’96 in poi con uno dei più emblematici gruppi tedeschi di
krautrock sperimentale, Faust (sono con loro in tour anche mentre scrivo), a far da supporto agli
italiani C.S.I. nel 1997, a pubblicare in Italia grazie al Consorzio Produttori Indipendenti i loro
primi tre album, a collaborare con musicisti italiani come Matteo Danese, Massimo Gattel,
Manuel Fabbro. In pratica da tempo sono ormai una band italo-francese. Sino a cadere
attualmente tra le braccia accoglienti di una delle più attive e prestigiose etichette indie italiane,
la bergamasca Jestrai. Ulaanbaatar è imperdibile documento dell’inquietante-primordialeavanguardistica verginità sonica di una delle band europee più influenti degli ultimi 15 anni.
Pasquale Boffoli
ML 11
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update n. 46
recensioni
ARTIST: GORILLA
TITLE:
Rock Our Souls
LABEL:
Go Down
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.gorilla-world.co.uk
MLVOTE: 7/10
Johnny “Gorilla” è un personaggio strano e dannatamente malato di rock’n’roll; lo capisci subito
quando sul palco inizia a roteare il braccio sulla chitarra elettrica emulando spudoratamente Pete
Townsend e poi si abbandona in lancinanti riff sdraiato sul pavimento. Dai tamburi lo guarda
divertito Billy “Gorilla”, batterista dalla faccia/smorfia simile a Dave Grohl che non disdegna di
pestare duro sulle pelli. Chiude questo inusuale terzetto inglese un angelo biondo chiamato Sarah
Jane, che accarezza il basso in maniera eccitante. Questo è quello che ho visto nella
presentazione del nuovo disco dei Gorilla, ma quello che ho sentito è ancora più esaltante. Rock
Our Souls, terzo lavoro e primo per la Go Down Records, è una incendiaria miscela di hard rock
anni ‘70, con influenze Black Sabbath (Sand è un pezzo doom lento che ti trascina in un finale
esplosivo), cavalcate selvagge alla Motorhead (Bludd Sucker è urlata, urlata e ancora urlata,
gioia dei timpani) e favoloso rock’n’roll in odore di Plant/Page/Bonham/Jones. “Nick, rock ‘n’
fucking roll motherfucker” è ciò che mi ha allegramente scarabocchiato sul mio cd Billy “faccia di
gomma” Gorilla; io ho alzato pollice, indice e mignolo e ho annuito brindando al rock che sa tanto
di strade polverose. Strade, per nostra fortuna, ancora tutte da percorrere.
Nicola Guerra
ML 12
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update n. 46
recensioni
ARTIST: THE PONYS
TITLE:
Turn The Lights Out
LABEL:
Matador
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.theponys.com
MLVOTE: 7/10
Di questi tempi essere inseriti nel filone dei gruppi che riesumano con stile una certa new wave
potrebbe essere una buona strada per ottenere visibilità. E invece, dopo il successo del
precedente Celebration Castle datato 2005, dove le influenze anni ‘80 non mancavano di certo,
gli americani Ponys sterzano il loro percorso e ci consegnano un terzo bellissimo disco che saluta
appunto gli anni Ottanta, accarezzando i Novanta e soffrendo della nevrosi dei nostri Duemila.
Detta così suona forse un po’ irriverente e poco classificabile, ma Turn The Lights Out è proprio
un disco che miscela stili e generi senza cadere nel banale e senza per forza assecondare una
scena contemporanea. Il gruppo di Chicago abbandona Steve Albini e l’etichetta In the Red
(ditemi se non è prova di carattere questa) affidando la produzione a John Agnello e partorendo
brani di una profondità intrinseca e seducente. I giri di basso dell’iniziale Double Vision, la
dolcezza visionaria e psichedelica, eppure lineare, di Small Talk, il pop griffato New York di 1209
Seminary oppure le scariche di gioventù sonica della irrequieta ed elettrica Poser Psychotic sono
solo alcune delle perle che ci regala la voce post punk di Jered Gummere, sensibile interprete
dei Television che furono. E alla fatidica domanda “Si esce vivi dagli anni 80?” la nostra risposta,
dopo avere ascoltato questo disco, è sicuramente affermativa. Sempre che il passato sia trattato,
come da questi ragazzi, con i guanti di velluto.
Nicola Guerra
ML 13
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update n. 46
recensioni
ARTIST: PIKES IN PANIC
TITLE:
Right Or Wrong, They‘re Still The Captains
LABEL:
Gravedigger’s
RELEASE: 2007
WEBSITE:
www.pikesinpanic.com
MLVOTE: 8/10
Ricordo ancora l’ attesa per l’album di debutto dei senesi Pikes in Panic. Era il 1987 e la febbre
neogarage era altissima. L‘attesa intorno ad ogni nuovo disco della “scena” era stremante,
spasmodica. Si aspettavano conferme mentre ci si interrogava su chi avrebbe “tradito” le
aspettative spostando il proprio tiro verso altri bersagli. Per i Pikes non fu da meno. Avevano
messo fuori un 45 strepitoso, uno dei più belli di quella stagione e ora li si attendeva al varco. I
bollettini che giungevano da Siena a noi cavemen ragusani che allora col combo di Via Perfetti
avevamo un canale “privilegiato” (un paio di amici che condividevano con loro passioni
quotidiane, uno dei quali divenuto un po’ il loro fotoreporter ufficiale) ci aggiornavano sui
progressi del disco. Suoni che si stavano “indurendo”, spostandosi verso certe derive punk o
elaborando altre influenze. Ce n’era abbastanza da voler tastare con mano, il prima possibile.
Quando finalmente Keep It Cool And Dry arrivò fu una delusione. Attenzione, parlo di epoche
primitive che voi non avete conosciuto, oh gente che naviga la Rete con costanza e fiuto da lupi di
mare…. Ere in cui il primo ascolto lo facevi col disco ancora in mano, immergendoti nella
copertina e assaporando il momento in cui avresti estratto quell’anello di vinile e avresti sentito i
suoi scoppiettii brillare sotto la tua puntina Shure. La cover di quell’album era terribile. Nessun
riferimento estetico ai sixties. L’unico appiglio che ti restava era quell’ampli Vox in bella mostra
sul retro. Forse rimaneva qualche speranza. Il disco invece, era una bomba. Non era un disco di
garage punk canonico, ma i Pikes non erano mai stati una band di garage punk in classico ’66style. I Pikes erano spiritati figli del punk e del beat. E Keep It Cool And Dry era una roccia.
Nessun cedimento, nessuna crepa. 12 brani di beat moderno, dinamico anello di congiunzione tra
il suono chicano dei Mysterians di Question Mark e quello veloce e bianchissimo dei Ramones.
L’unica cosa che i Pikes avevano del tutto perduto era invece quella evanescenza psichedelica
sognante e acida che sull’ EP aveva generato la ninnananna allucinogena di Mathilda Mother: un
campo che i nostri, spostando poi ulteriormente il loro interesse verso il R ‘n B, avrebbero del
tutto lasciato incolto e che solo anni dopo Luca Losi avrebbe rielaborato egregiamente con i suoi
Ghostrider su pezzi come Cops & Robbers o Spin (un inedito dei Love, a tutti gli effetti, NdLYS).
Cosa che ancora oggi non riesco a perdonar loro. Questo doppio assemblato dalla Gravedigger’s
ristampa per la prima volta in digitale tutto il materiale della band toscana: album, EP e inedito su
Eighties Colours #2 oltre ad un disco di luridissime, strepitanti registrazioni live dove a fianco ai
loro classici fanno bella mostra una lunga serie di covers (Tamrons, Downliners Sect, Tree,
Sonics, Count Five…) e di inediti che è davvero un peccato non abbiano avuto la gloria della
pubblicazione. Un suono bastardissimo, feroce e spietato, che azzannava il garage punk e se lo
trascinava in lungo e in largo fino a ridurlo a brandelli. Tributate loro il rispetto che merita(va)no.
Franco Dimauro
ML 14
musicletter.it
update n. 46
recensioni
ARTIST: LYRICS BORN
TITLE:
Later That Day…
LABEL:
Quannum Projects
RELEASE: 2003
WEBSITE:
www.lyricsborn.com
MLVOTE: 7/10
Tom Shimura - alias Lyrics Born - ha partecipato a numerosi progetti riconducibili all'hip hop
indipendente della Bay Area di San Francisco. Nel 1992 forma i Latyrx con un certo Lateef
Daumont e, in seguito, entra a far parte del collettivo SoleSides, un'encomiabile crew dalle
evidenti propensioni sperimentali composta da produttori, b-boy, writers, rapper e dj tra cui Dj
Shadow, Chief Xcel, Gift of Gab e Jurassic Five. Trascorsi sette anni, dopo aver cambiato
nome in Quannum e creato una nuova etichetta discografica (Quannum Projects), la gang
californiana dà alle stampe Spectrum (1999), un lavoro che prosegue nella ricerca di nuove
forme stilistiche e dal quale Shimura (giapponese trapiantato in California) attinge linfa e
sostentamento per la realizzazione della sua prima fatica da solista intitolata Later That Day…
Un debutto che affonda le proprie radici nell'Old School Rap di Grandmaster Flash, Sugarhill
Gang e Kurtis Blow e che, in alcuni passaggi, sembra conservare i tepori vocali di Joe Tex e
Bill Withers. Una mistura di funk e soul in salsa elettronica che ti accarezza fin dalle prime
battute di Rise And Shine, brano dalle fattezze reggae e dub sospinto dalla calda e sensuale voce
di Joyo Velarde. Altri frammenti dai tessuti giamaicani sono The Last Trumpet, nenia ricoperta
da brevi rimandi spirituals, e One Session, incalzante e fonda cantilena dalle inclinazioni
raggamuffin dove il basso di Tom Guerrero si cinge di incursioni digitali. Uno stillicidio d'interludi
(Dream Sequence, U Ass Bank, Interlude e Nightro), di ritmiche penetranti (Before And After) e di
aperture funkydeliche (Callin' Out, Stop Complaining, Do That There) che in alcuni passaggi
diventano sempre più trascinanti; è il caso di Hott Bizness capace di racchiudere un inebriante
refrain da club dance fine anni '70. Piacevole e svagante quanto basta, Later That Day… è un
disco che si presta per una scorribanda estiva lungo le coste di una qualsiasi località di mare.
Luca D’Ambrosio
ML 15
musicletter.it
update n. 46
recensioni
ARTIST: NEGAZIONE
TITLE:
100%
LABEL:
We Bite
RELEASE: 1990
WEBSITE:
www.negazione.com
MLVOTE: 7,5/10
Nel corso degli anni mi sono imbattuto in un numero indefinito di recensioni e/o biografie che
contenevano il tipico passaggio “è ingiusto che questa band/artista abbia raccolto solo una piccola
parte rispetto a quanto seminato”, spesso è capitato di scriverlo anche a me ma stavolta
risparmierò il lettore e non mi dilungherò su questo aspetto perché i Negazione, a distanza di
quindici anni dal loro scioglimento ufficiale, hanno una storia alle spalle che continua a parlare per
loro! Quella torinese nata nel 1983 è stata la band di Guido “Zazzo” Sassola, Roberto “Tax”
Farano, Marco Mathieu e di una decina di batteristi che si sono avvicendati al drumkit in
altrettanti anni di attività (anche se va specificato che il primo di questi, Orlando Furioso, è
stato fondatore della band insieme a Tax). Negazione è un concetto che va ben al di là dello
stilema hardcore punk; è spirito ed attitudine orgogliosamente professati con furore agonistico,
con la medesima intensità sia che si trattasse del palco del glorioso CBGB’s di New York che delle
travi del vecchio Leoncavallo o di un qualsiasi altro locale o centro sociale d’Europa, un discorso
coerentemente anticommerciale che è valso meritato rispetto e stima ben oltre i patri confini.
Registrato all’indomani di un tour americano di oltre quaranta date in compagnia degli storici
D.O.A., 100% è stato il canto del cigno (discograficamente parlando) della band almeno fino alla
pubblicazione (nel 2002) della splendida raccolta Tutti Pazzi. La furia hardcore degli esordi,
seppur discretamente arginata da una certa ricerca melodica, sferza in lungo e largo i solchi
dell’album e schegge come l’opener Back To My Friends, Fall Apart (An’ Tear It Down) e It’s Hard
non fanno altro che rinnovare il messaggio diretto e senza fronzoli della band. I mid tempo di
Welcome (To My World) e Get Away sfiorano aspetti quasi tipicamente metal e la loro presenza
nel bill del Monsters of Rock del 1991 (di supporto agli headliner AC/DC) davanti ad oltre 40.000
persone può essere piuttosto significativa in questo senso. Il buon Jeff Pellino si da un gran
daffare dietro le pelli, tanto nelle parti veloci quanto in quelle più marcate e sorprende non poco il
fatto che a oltre di dieci anni da 100% tutta l’Italia radiodipendente si sarebbe trovata a
canticchiare il suo tormentone Io e La Mia Signorina ma questa è davvero un’altra storia. A
recitare la parte del leone svettano a mio parere i due brani cantati in lingua madre, vale a dire la
sostenuta Parole e soprattutto l’entusiasmante e incendiaria Brucia Di Vita a pieno titolo inno e
manifesto degli ultimi Negazione e del loro 100%, ultimo capitolo di una storia comunque
immortale, alla faccia dei dati di vendita e del music business!
Manuel Fiorelli
ML 16
musicletter.it
update n. 46
recensioni
ARTIST: IGGY AND THE STOOGES
TITLE:
Raw Power
LABEL:
Columbia
RELEASE: 1973
WEBSITE:
www.iggypop.com
MLVOTE: 7,5/10
Fu un punto di non ritorno più che uno spartiacque, Raw Power. In quel momento, da quel
momento, gli Stooges smisero di rappresentare l'avanguardia, da allora in poi Iggy sarebbe
rimasto semplicemente, seppure in modo grandioso, un dio del rock'n'roll. Fu il canto del cigno,
l'ultimo tassello di un'epopea senza alleati chiamata proto punk. Ogni scena che si rispetti
contiene nel proprio calderone svariati gruppi e artisti affini per mentalità e per stile. Gli Stooges
invece smisero di brillare quando la scena punk non era ancora nata. Erano avanti a tutti,
erano distorti, disturbanti, selvaggi, malsani. Se i Rolling Stones erano (e sono) magnifiche
puttane, i ragazzi provenienti dal Michigan erano dei veri e propri sovversivi. Raw Power, se tre
indizi fanno una prova, è la degna conclusione di una trilogia del rumore che è pura leggenda.
Sembra squadrato, devastato, sbagliato, in realtà è un disco che fa della malattia una virtù, del
desiderio una regola. Inizia e finisce con la chitarra che non vuole saperne di sembrare stabile e
coerente; in mezzo, un manifesto ineguagliato di anarchia e di strafottente illuminazione. In una
parola, punk.
Marco Archilletti
ML 17
musicletter.it
update n. 46
live review
ARTIST: THE PIPETTES
LOCATION: Firenze, Viper Theater
DATE: 28-04-2007
WEBSITE:
www.pipettes.uk.com
Divertono ed entusiasmano le Pipettes sul palco del confortevole Viper Theater di Firenze
attraverso una buona oretta di concerto in cui sciorinano tutte le composizioni del loro
gradevolissimo album d’esordio. Come da copione le tre ragazze di Brighton ancheggiano,
sorridono e salutano mentre cantano piacevoli canzoncine d’estrazione soul pop accompagnate da
una formazione completamente al maschile. Nonostante i tacchi alti e i vestitini attillati, le
fanciulle improvvisano agili e ammiccanti balletti, scambiandosi continuamente di posto e
trasportando il pubblico, numeroso e sostanzialmente di giovane età, sulle melodie retrò e in stile
Motown di Why Did You Stay, Judy, Tell Me What You Want, Why e Because It's Not Love (But
it's Still a Feeling). Insomma, gli spettatori partecipano compiaciuti alla performance di Becki,
Gwenno e Rosay che con i loro abiti a pois sembrano uscite direttamente dalla serie televisiva
“Happy Days” o dal nostalgico “American Graffiti”. Pull Shapes, I Love You, ABC, One Night
Stand, It Hurts To See You Dance So Well e Sex, tanto per citarne alcuni, sono brani che non
perdono d’impatto grazie anche alla complicità di un locale dall’acustica eccellente. Per alcuni
frequentatori del giro indie qualcosa il sound proposto dalla formazione inglese non è altro che
l’ennesimo fenomeno revivalistico e di cassetta, ma a noi le Pipettes piacciono tantissimo, non
solo per l’inequivocabile grazia che le contraddistingue, soprattutto per quella inconsueta carica
espressiva che anche dal vivo riescono a trasmettere. Non sbagliano un colpo. Cantano bene e
senza strafare, e a vedere quelle giovani donne così demodé abbiamo quasi l’impressione di aver
fatto un salto nel passato, anche se poi saranno le note conclusive di We Are The Pipettes (brano
dagli effetti garage) a destarci da questo breve sogno fatto di coretti sixties e attacchi
rythm’n’soul. Terminato il concerto abbiamo giusto il tempo di salutare e scambiare due
chiacchiere con la simpatica Becki. Il suo splendido sorriso ci accompagnerà per tutto il viaggio di
ritorno.
Luca D’Ambrosio
ML 18
musicletter.it
update n. 46
live review
ARTIST: CAT POWER
LOCATION: Roma, Piper Club
DATE: 08-05-2007
WEBSITE:
www.catpowerthegreatest.com
Dopo circa trenta minuti di concerto, capisco tutto: parte un rito voodoo, Judah Bauer dipinge la
musica
del
diavolo
e
i
fantasmi (finalmente
esorcizzati)
smettono
di
torturare Chan
Marshall, oggi sorridente e brillante. Urbino è lontana, vedere una band poderosa (con Jim White
dei Dirty Three alla batteria) colmare i vuoti e le paure della cantante è la promessa di un grande
spettacolo. La più grande cantante soul del mondo, così viene presentata a un certo punto, ha
tutti gli occhi addosso ma l'incanto collettivo che colpisce il Piper non può che confermare la
promessa. Canta lontano dal microfono, si muove in modo buffo e delizioso, ogni tanto si defila, si
accomoda ai bordi del palco tanto c'è la band che si prende la scena. È un concerto di antico
blues suonato da giovani bianchi, ma è soprattutto la rinascita di una clamorosa fabbrica di
emozioni, l'unica che può reggere una competizione con Jeff Tweedy quanto a brividi procurati a
noi comuni mortali. Mai così bella, mai così illuminata: sembra sempre sul punto di smarrirsi,
sembra che stia inventando sul momento, invece è pienamente dentro il suono, impeccabile (a
parte un paio di canzoni chiuse a casaccio) nei tempi e nei toni. Se ne va con un mazzo di fiori,
circondata dal rumore assordante di un'autentica ovazione. In quel momento non vorrei essere in
nessun altro posto del mondo...
Marco Archilletti
ML 19
musicletter.it
update n. 46
altri percorsi: libri
PAMELA DES BARRES
Sto con la band
Confessioni di una groupie
Castelvecchi, 2007
di Nicola Guerra
Sto con la band è la testimonianza diretta del modo intenso di vivere il rock & roll alla fine degli
anni ‘60 e ‘70, quando la musica veniva consumata in maniera totale e appassionata. L’amore per
la musica rock e per le rock star hanno fatto dell’autrice Pamela Des Barres una delle groupie
più famose di quel ricchissimo periodo culturale e musicale, che in questo libro autobiografico si
racconta senza inibizioni e ci svela aneddoti divertenti riguardanti la vita on the road di tutti i
musicisti che ancora oggi prendiamo ad esempio quando rimembriamo quei favolosi anni di Sex
Drugs And Rock & Roll. Pamela Ann Miller, poi divenuta Des Barres in seguito al matrimonio
con Micheal Des Barres, leader dei Silverhead, è inizialmente una adolescente che arde
d’amore per le fotografie appese nella sua cameretta, icone raffiguranti i Beatles e quel Paul
McCartney che accese i suoi sensi in giovane età, e di lì a poco diventerà una donna che negli
anni d’oro dell’amore libero, si dedicò anima e corpo (qualcuno potrebbe sottolineare corpo, ma
leggendo il libro si capisce quanta passione avesse questa donna per la musica) ai musicisti che
invasero i locali della città degli angeli e della costa californiana. Le iniziali amicizie con Frank
Zappa e Captain Beefheart sfociarono nella creazione delle GTO’s, band al femminile che
realizzò un album alla corte di Zappa e si concluse per Pamela in partecipazioni cinematografiche
minori ma significative (200 Motels dello stesso Zappa). In mezzo a questa folle vita ancora da
sperimentare, passarono illustri personaggi che poggiarono i loro corpi e le loro labbra su quel
grazioso ed esile corpo desiderosi di nutrirsi di sesso e ispirazione; una musa dedita alla musica
che ebbe l’onore di intrattenersi con il Re Lucertola Jim Morrison nei primi back stage dei
Doors, si concesse a Noel Redding, bassista della Jimi Hendrix Experience ed ebbe una
travolgente storia d’amore con Mr. Jimmy Page dei Led Zeppelin, che in mezzo alle loro notti di
sesso la illuminava con brani inediti che da li a poco avrebbero rivoluzionato il modo di suonare la
chitarra nel rock. Le storie raccontate parlano di amore, sesso e amicizia; la camicia ricamata a
mano regalata all’amico dall’animo triste, l’angelo country Gram Parsons, gli eccitanti incontri
con un giovane e selvaggio Mick Jagger, il prendersi cura dei figli del maestro Frank, la piccola
Moon e l’adorabile Dweezil Zappa, il rifiuto all’invito del Re Elvis Presley fino alla folle storia
d’amore e droga con il matto Keith Moon (sempre sia lodato). Tutto finì quando le morti di
Hendrix, Morrison e Janis Joplin colpirono quel mondo incantato obbligando i protagonisti al
risveglio immediato. A noi rimane uno spaccato di vita che ci fa comprendere quanto sia stato
importante tutto il contorno socio-culturale che ha favorito lo sviluppo di musica ancora oggi
fantastica. Un libro da leggere “a tutto volume”. Grazie Pamela.
ML 20
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