Stanziano_San Diego_incipit

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Stanziano_San Diego_incipit
I fatti sono la cosa più testarda del mondo.
M. Bulgakov
1. Ahmed
Erano quindici ore che Ahmed era lì.
Sotto un telo mimetico, tenuto sollevato da terra di
una trentina di centimetri grazie ad una serie di paletti
sapientemente disposti. Il telo finiva a meno di un metro
da una piccola cresta di rocce e sassi rossastri, sopra una
collina trenta chilometri all’interno dei Territori
Occupati da Israele.
Attraverso gli interstizi tra le rocce Ahmed guardava
la cima della collina di fronte.
Venti metri più in basso. Duecento metri più ad
est.
C’era un kibbutz su quella collina. Nuovissimo, non
ancora finito. Un mese prima non c’era nulla. Solo le
rocce rosse e brulle del deserto. Ora c’era un nuovo
Insediamento. Nei Territori occupati. Ed a Washington il
Primo ministro Israeliano stava negoziando con il suo
collega, Primo Ministro palestinese.
Primo ministro?
Palestinese?
Ahmed sorrise.
Negoziare?
Lì, sulle alture del Golan, si capiva chiaramente cosa
significasse, in Palestina, negoziare.
E chi era veramente titolato a farlo.
Ahmed non si muoveva. Era giorno. E, di giorno,
non poteva muoversi.
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Achille Elio Stanziano
Sapeva che le sentinelle israeliane erano di due tipi:
quelli che sorvegliavano punti fissi e quelli addestrati a
far scorrere, incessantemente e lentamente, lo sguardo
sul panorama. Piano, senza fretta, guardavano tutto
senza fissare nulla. Era necessario un po’ di esercizio, si
correva il rischio di addormentarsi.
Distrarsi, invece, era considerato un vantaggio.
L’occhio umano è attratto istintivamente dal movimento. Quando si muove liberamente su un panorama fisso,
al primo movimento che inquadra, si blocca e mette a
fuoco. Con un deserto di roccia e di niente come quello, il primo, anche piccolo, movimento attirava l’attenzione.
Di giorno si stava fermi. Cinque minuti ogni ora, di
stretching per i muscoli: senza cambiare posizione.
Contrarre, rilasciare, contrarre.
Prima una gamba poi l’altra. Poi le braccia, il collo,
la schiena.
Lentamente, senza movimenti bruschi.
Di notte era meglio. Ci si poteva muovere di più.
Defecare, perfino. Andando dietro una roccia, sempre
molto piano. E seppellendo il prodotto sotto la sabbia,
scavando con le mani. Spesso, in quei kibbutz, c’erano
stazioni sismografiche molto sensibili. Un passo pesante, con gli scarponi militari, veniva registrato. Uno zaino
abbandonato in terra bruscamente, pure.
La paura dei terremoti non era la principale fonte di
angosce, per la sopravvivenza, nei territori.
I Coloni erano vigili e ben armati. Come tutti i
Coloni, dopo tutto.
Rifletteva Ahmed.
I Greci nell’Italia meridionale, trecento anni prima di
Cristo. Novecento prima di Maometto.
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Obiettivo San Diego
Gli Spagnoli ed i Portoghesi nell’America centrale e
meridionale, nel cinquecento.
Gli Inglesi nell’America del Nord ed in Australia.
Nel settecento e nell’ottocento.
Tutti quei Coloni avevano fatto piazza pulita di quelli che avevano trovato. Nelle terre colonizzate.
Ahmed era stato, in quella che a lui, ormai, sembrava una vita precedente, su un altro pianeta, professore
incaricato di Storia europea, alla Sorbona.
Il più giovane professore Incaricato nella prestigiosa
Università parigina. Erano passati solo otto anni. A lui
sembravano due eternità.
I bordi laterali del telo mimetico erano coperti di sabbia, per integrarlo meglio con il deserto. Era aperto solo
dietro, dalla parte opposta all’osservatorio di Ahmed. Lì
c’era solo un velo beige, che si poteva sollevare facilmente. Era, quella dietro, “l’uscita di servizio”, come la
chiamavano in addestramento.
Ahmed bevve un sorso d’acqua, calda e dal sapore
metallico, da un tubicino che era fissato al colletto della
camicia, con una apposita asola. Il tubo finiva nella borraccia di plastica che aveva in vita. Sei ore prima dell’alba Ahmed ci versava l’acqua da una tanica che aveva
portato con sé. Doveva bastargli fino a due ore dopo il
tramonto, quando poteva ricominciare a muoversi.
Nessuno aveva trovato nulla da ridire, che fossero
stati spazzati via tutti, dai coloni: all’epoca dei Greci era
prassi accettata in tutto il mondo allora conosciuto, quella di sterminare i nemici vinti e ridurre in schiavitù i
superstiti. Senza schiavi, niente agricoltura e navi troppo piccole per un solido commercio.
La chiesa Spagnola aveva provvidenzialmente bollato come Pagani gli Indios, i Maya, gli Incas e gli
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Achille Elio Stanziano
Aztechi. Così, diventava preciso dovere dei buoni cristiani eliminare quel pericoloso cancro dal corpo sano
della Chiesa di Cristo.
Gli Indiani d’America erano stati, fino ai western
“revisionisti” degli anni ’80, i selvaggi crudeli e torturatori dei buoni coloni inglesi, tutti Bibbia, cavalli, e, per
loro fortuna, winchester. Degli Aborigeni australiani
non ci si era nemmeno presa la briga di addurre giustificazioni: li avevano sterminati e basta. Forse perché i
coloni di quelle terre erano, in origine, galeotti deportati. Gente pratica ed adusa ad una sana, terapeutica, selettiva violenza.
Ahmed scriveva saggi. Mentre aspettava. Nella sua
mente. Non li avrebbe, ormai, mai più messi sulla carta.
Ma ci lavorava, su quella brulla collina, un rigo dopo
l’altro. Così le ore passavano.
Un filo di fumo cominciò ad uscire dal camino dell’edificio principale del kibbutz. Arrosto di agnello.
Ahmed aveva scelto bene la postazione. Il vento veniva
a lui dal kibbutz e non viceversa.
Aveva fame. L’ultima barretta energetica, al malto,
l’aveva mangiata sei ore prima.
Lentamente, prese una gomma da masticare dalla
tasca della tuta mimetica.
Si fermò un attimo prima che la sua mano uscisse
dal rifugio del telo: la gomma era avvolta in luccicante carta stagnola. La scartocciò con la sola mano
destra, posò la gomma, nuda, su di un sasso, appallottolò la stagnola e se la rimise in tasca, sempre lentamente. Poi portò la gomma alla bocca e cominciò a
masticare. Sputò qualche granello di sabbia rimasto
attaccato.
La gomma era fresca: sapeva di menta.
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Obiettivo San Diego
D’improvviso il sapore della gomma divenne amaro:
anche a Giselle, piacevano le gomme alla menta.
Quando Ahmed la baciava, la sera, tornando nella sua
piccola casa a rue de Liege, a Parigi, spesso Giselle
sapeva di menta.
Ad Ahmed piacevano le lunghe gambe magre di
Giselle, ed i suoi zigomi alti. I suoi occhi grandi, all’insù, da cerbiatta.
Era nata vicino a Lione, in una fattoria. Aveva il
corpo snello e solido di chi lavora non solo con la mente.
A Parigi studiava Economia.
Il ventre di Giselle era piatto. Ed abbronzato. Si
copriva di un velo di sudore quando facevano l’amore, e
lui la spogliava, quasi strappandole i vestiti, e lei lo
afferrava per le spalle, e gli faceva scorrere le piccole
desiderose, avide mani sui fianchi e sulla schiena
Lui la penetrava con la forza e la dolcezza della passione e dell’amore.
“Vien, vien… oh oui, vien mon ange…” la voce
dolce ed intensa di Giselle gli risuonò per la milionesima, inutile, volta nelle orecchie.
La mano di Ahmed si contrasse sul calcio del kalashnikov.
Non sentiva più la fame. Lo bruciava un odio selvaggio. Non avrebbe voluto essere a Dachau e premere il bottone che liberava il gas, e nemmeno a Varsavia, con la
mitragliatrice MG puntata sulle strade affollate del ghetto.
Quelli erano Ebrei: questi erano Israeliani. Lui, palestinese, si sentiva vicino a quegli Ebrei dei campi di sterminio.
Appartenevano tutti alla grande fratellanza degli oppressi.
Suo padre era stato un medico. Un buon medico.
Nato in Palestina, laureato a Parigi. Avevano una grande casa ai confini con il Libano.
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Nella zona il padre di Ahmed era una specie di istituzione. Aveva lasciato Parigi e la carriera nella Sanità
francese per stare tra i suoi, nella sua terra.
Generazioni di agiati commercianti e, prima, di abili
mercanti, avevano fatto sì che in casa di Ahmed non ci
si dovesse preoccupare di chiedere onorari: pagava chi
poteva.
Ahmed si girò lentamente su un fianco. Senza scosse. Doveva pisciare. Aveva atteso l’ultimo secondo utile.
La vescica gli doleva. Ma così si sarebbe svuotato totalmente e avrebbe avuto di nuovo bisogno solo quando le
tenebre lo avrebbero avvolto.
Aprì lentamente il velcro dei pantaloni, senza rumore (le loro tute non avevano bottoni che, cadendo, potessero contribuire ad identificarli: è incredibile la chiarezza con la quale restano le impronte digitali sui bottoni,
per non parlare del rischio di lasciarci sopra anche tracce di DNA). Svuotò la vescica in un canaletto che aveva
scavato nella sabbia sotto di lui: ormai puzzava, ma non
si vedevano liquidi uscire dal telo.
Erano arrivati i miliziani filo-israeliani provenienti
dal vicino Libano. Una sera, a casa di Ahmed: il padre
aveva curato due feriti, il giorno prima.
Come sempre, non aveva fatto domande.
Lo portarono via. Al loro quartier generale.
Tante, tantissime domande. E tanti elettrodi. Dappertutto.
Non gli importava nulla delle risposte. Con una iniezione di pentothal potevano avere tutte le risposte che
volevano. Volevano punirlo. Volevano dare un messaggio forte alla popolazione. A questo serve la tortura: a
fiaccare la volontà ed a distruggere la voglia di resistenza della gente.
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Il giorno dopo lo scaricarono davanti alla porta di
casa. Sulle scottature lasciategli sul volto dalla corrente
avevano aggiunto dei colpi sapienti: era una maschera di
sangue.
Avevano portato via un uomo. Dopo una notte, dopo
una notte sola, riportarono a casa un relitto. Il medico
tremava, balbettava frasi incoerenti, trasaliva ed urlava
se si avvicinavano a lui troppo bruscamente. Un filo di
bava continuava a colargli dalla bocca.
Ahmed era tornato da Parigi per stargli vicino.
Giselle era venuta con lui: non era araba, non era mussulmana, ma lui l’amava e, ne era sicuro, l’avrebbero
amata anche i suoi. Allah era “clemente e misericordioso” diceva sempre il padre di Ahmed, citando la prima
sura del Corano. Ed aveva tutto il tempo dell’eternità
per farsi amare anche da quelli che ancora non lo conoscevano.
I miliziani tornarono. Ahmed era andato all’aeroporto a recuperare il bagaglio di Giselle, arrivato in ritardo.
Quando tornò, la grande casa era deserta. E devastata.
Lo portarono via di lì appena in tempo. Compagni di
quelli che il padre aveva curato.
Per sei mesi soggiornò in un campo di addestramento in Libia: gli impedirono di pensare ammazzandolo di
esercitazioni e di fatica.
Armi, arti marziali, resistenza fisica ed astuzia.
E fatica, fino a desiderare solo di fermarsi, di riposare per sopravvivere.
E deserto e sassi e sabbia dappertutto.
Sulla collina di fronte qualcosa si mosse. Ahmed
vide il portone del kibbutz aprirsi lentamente. Un piccolo binocolo antiriflesso francese gli consentì di mettere
a fuoco una jeep con quattro uomini a bordo. Un autista,
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due gorilla con M16 e giubbotto antiproiettile, un uomo
anziano, con le treccine che uscivano di sotto un cappello rigido nero ed una lunga barba. Aveva occhiali
neri, ma Ahmed lo riconobbe lo stesso: il capo del kibbutz. Finalmente!
Sempre lentamente arretrò fino a sparire sotto il telo
mimetico. Ne uscì da dietro, avendo spostato il velo
color sabbia con i piedi. Era ora due metri sotto la cima
della cresta dalla quale aveva spiato il kibbutz per sedici ore, ormai. Non potevano più vederlo. Nemmeno lui
vedeva loro. Ma sentiva distintamente il motore della
jeep che si avvicinava. Tirò fuori da una tasca una scatoletta nera di plastica. Premette un tastino e un led
rosso cominciò a brillare: la mina era attivata. Un sensore di prossimità avrebbe sentito la massa del veicolo e
avrebbe innescato l’esplosione. Lui non doveva fare più
nulla. La mina era nell’unica curva a gomito della strada. Lì la jeep avrebbe dovuto rallentare fin quasi a fermarsi. C’era tutto il tempo per attivare gli inneschi. La
mina era di vetroresina. Il circuito elettronico di silicio e
carbonio. I cavi erano una guaina di gomma riempita di
polvere di carbone: ottimo conduttore, nessun segnale ai
rilevatori di metalli. Gli israeliani avevano passato un
MD 125 Mod.B della Collins (il meglio del meglio, nel
settore) per due volte, sulla strada in quelle ultime sedici ore. Non avevano trovato nulla.
Ahmed aveva le Nike Air ai piedi, non gli scarponi
militari (a volte si tagliavano, con i sassi aguzzi, ma producevano molto meno vibrazioni, sul tracciato del
sismografo): comunque, per abbandonare la cresta, attese l’esplosione.
Non vedeva la curva dalla sua posizione, ma vide, da
sopra le rocce, per un attimo, la jeep fare una capriola in
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aria e ricadere. Prese fuoco subito. La macchina era
appena uscita dal kibbutz ed aveva il serbatoio pieno, la
mina era zeppa di pezzi di quel polimero simile al prespan che serve a dar fuoco ai barbecue.
Ahmed correva ora, verso le caverne sul costone roccioso sopra la strada. Una di quelle gallerie arrivava fino
al villaggio palestinese dietro l’orizzonte. Il sismografo,
se c’era, era stato neutralizzato dall’esplosione. Ci
sarebbero volute ore per rimetterlo in condizioni di funzionare. La strada aveva una voragine dove prima c’era
una curva. Ed una jeep bruciava, in quel buco. Il puzzo
di carne bruciata cominciò ad essere trascinato dal
vento.
Ahmed si portò la mano destra chiusa a pugno sul
cuore. Questa volta volutamente pensò con intensità a
due tombe in un piccolo cimitero vicino a Beirut: ad un
vecchio custode che, due anni dopo i fatti, lo aveva riconosciuto e gli aveva parlato di un camion che aveva scaricato molti cadaveri, davanti a quel cimitero, alcuni
giorni dopo la scomparsa dei suoi. Gli aveva detto anche
che, nella tomba di sua madre ora c’erano due cadaveri:
una era una ragazza bianca che era abbracciata così
stretta alla anziana signora, che non le aveva potute
separare. Erano morte insieme, gli aveva detto un miliziano. Ed insieme lui le aveva sepolte.
Il custode non gli aveva detto come erano morte. Ed
Ahmed gliene era stato grato.
Ahmed alzò il suo pugno al cielo ed entrò, urlando,
nelle caverne.
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