friedrich nietzsche

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friedrich nietzsche
FRIEDRICH NIETZSCHE
Man muß noch Chaos in sich haben, um einen tanzenden stern zu gebären.
Bisogna avere ancora Caos dentro di sé per partorire una stella danzante
(Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra)
Leggere Nietzsche è un problema: pensare i suoi stessi pensieri aporetici non ci lascia immutati, in un certo senso
rischiamo di perdere noi stessi, di raggiungerlo nella sua follia. Non diciamo malattia, perché questa è un'opinione
esterna, medica, che non tenta di entrare nel labirinto dei suoi pensieri, e che non ha mai visto il Minotauro nel labirinto.
Cercare di pensare Nietzsche, di scrutare il dionisiaco, significa allora forse diventare folli, scoprire, dopo aver
scrutato nell'abisso, che l'abisso ha degli occhi che ci stanno guardando.
Quando Friedrich Nietzsche muore, il 15 agosto del 1900, ha alle spalle dodici anni di silenzio (era nato nel 1844).
Si trattava di follia? Sospendiamo il giudizio, e proviamo a chiederci se il pensiero non sia, per il senso comune,
vera e propria follia.
Vogliamo meditare sul problema "Nietzsche". Ma che cosa significa "meditare"? Prendersi cura di sé. Ma la cura
di sé può venire intesa come esercizio (aiskesis, da cui «ascesi») etico di trasformazione del sé. La meditazione di
Nietzsche è una metamorfosi dell'umano. Cercheremo allora di percorrere il cammino verso l'oltreumano
(Übermensch): una danza dionisiaca.
Gli antisemiti li metterei tutti al muro
(F. Nietzsche, Lettere).
Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di
enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della
coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che sinora è stato creduto, preteso,
consacrato. Io non sono un uomo. Sono dinamite
Ich kenne mein Loos. Es wird sich einmal an meinen Namen die Erinnerung an etwas
ungeheures anknüpfen, - an eine Krisis, wie es keine auf Erden gab, an die tiefste
Gewissens-Collision, an eine Entscheidung, heraufbeschworen gegen Alles, was bis
dahin geglaubt, gefordert, geheiligt worden war. Ich bin kein Mensch, ich bin
Dynamit.
(F. Nietzsche, Ecce homo, p. 365).
Chiarimento preliminare
Ma un chiarimento preliminare è d'uopo. Nietzsche è stato usato dai nazisti; la metamorfosi oltreumana ridotta
alla selezione razziale dell'ariano; la critica niciana allo Stato costretta ad essere una giustificazione dello Stato
totalitario nazionalsocialista. È stato passato sotto silenzio il fatto che Nietzsche avesse insultato gli antisemiti (ma
non per questo risparmiato l'ebraismo-cristianesimo) proprio mentre, al contrario, diversi suoi scritti venivano
manipolati dalla sorella e dai suoi amici antisemiti. Quest'ultima questione è particolarmente importante, se
pensiamo al modo in cui si esprimeva nei confronti degli antisemiti: "non voglio aver nulla a che fare con loro";
"Gli antisemiti li metterei tutti al muro".
Liberare il pensiero di Nietzsche dalle incrostazioni naziste significherà proprio reinterpretare il concetto di
Übermensch, rifiutandoci di tradurlo con "superuomo" o uomo (razza superiore). Questo non nell'intento di
restituire il suo pensiero originario, bensì cercando di sviluppare una nostra interpretazione (una nostra pratica),
un'autotrasformazione di noi stessi che resista all'interpretazione nazista, che con essa entri in conflitto. Questo
dovrà dispiegarsi nel chiarimento dell'oltreumano come potenza.
Se il suo nome è legato a quello del nazionalsocialismo questo è indubbiamente dovuto alla sorella, Elisabeth
Förster Nietzsche, che ha manipolato l'edizione dei testi, ma anche come il pensiero di Nietzsche sia aperto,
volutamente aperto, a tutti i possibili fraintendimenti (cf. testi 1 e 2, da Ecce homo) e anzi inviti esso stesso al
fraintendimento.
In queste nostri tentativi non si tratterà di fedeltà al suo pensiero, dunque, ma della nostra trasformazione e delle
nostre esigenze. Lo rinnegheremo, se sarà necessario, proprio come Zarathustra stesso chiedeva ai suoi discepoli,
prima di andarsene (F. Nietsche, Also sprach Zarathustra, Von der schenkenden Tugend, §3):
Ora me ne vado, solo, miei discepoli! Anche voi ve ne andrete, e soli! Voglio così.
Andatevene da me, e guardatevi da Zarathustra. Meglio ancora: vergognatevi di lui! Forse vi ha
ingannati.
L'uomo della conoscenza non solo deve amare i suoi nemici; deve anche poter odiare i suoi amici.
Si ripaga male un maestro se se ne resta solo il discepolo. E perché non vorreste voi strapparmi la
corona?
Mi venerate: ma che accadrebbe, se, un giorno, la vostra venerazione, crollasse? Badate che non vi
schiacci una statua.
Dite di credere a Zarathustra? Ma che importa di Zarathustra! Siete i miei credenti, ma che importa di
tutti i credenti!
Non vi eravate ancora cercati: e mi trovaste. Così fanno tutti i credenti: per questo qualsiasi fede conta
così poco.
Ora vi chiedo di perdermi e di trovarvi; e solo quando tutti voi mi avrete rinnegato vorrò ritornare a
voi....
Lo rinnegheremo, dunque. Ma forse proprio in questo saremo fedeli non al contenuto del suo pensiero, bensì al
suo atteggiamento parresiastico, alla verità non come esattezza o corrispondenza tra pensare, dire ed essere, bensì
come coraggio di dire la verità, alla verità come rischio. E lo vedremo ritornare. Cosa scriveva, infatti, in Ecce
homo, nel capitolo intitolato "Warum ich ein Schicksal bin" (Perché sono un destino)?
La filosofia, così come io l'ho intesa e vissuta fino ad oggi, è vita volontaria tra i ghiacci e le alture
– ricerca di tutto ciò che l'esistenza ha di estraneo e problematico, di tutto ciò che finora era
proscritto dalla morale. Attraverso una lunga esperienza di itinerari nel proibito, ho imparato a
considerare le cause per cui fino ad oggi si è moralizzato e idealizzato in modo assai diverso da
quello che comunemente si richiede: mi si è fatta luce sulla storia segreta dei filosofi, sulla
psicologia dei loro grandi nomi. – quanta verità può sopportare, quanta verità può osare un uomo?
Questa è diventata la mia vera unità di misura: sempre più.
Abbiamo solo enunciato qualche difficoltà sul pensiero di chi scriveva di sé: io non sono un uomo, io sono
dinamite. Vediamo come descrive sé stesso.
– E con tutto ciò non c'è nulla in me del fondatore di religioni – le religioni sono affari per la
plebe, io sento il bisogno di essermi lavato le mani, dopo essere stato in contatto con uomini
religiosi… Non voglio credenti, penso di essere troppo malizioso per credere a me stesso, non
parlo mai alle masse… Ho una paura spaventosa che un giorno mi facciano santo: indovinerete
perché io mi premunisca in tempo, con la pubblicazione di questo libro, contro tutte le sciocchezze
che si potrebbero fare con me…Non voglio essere un santo, allora piuttosto un buffone…Forse
sono un buffone…E ciononostante, anzi, non ciononostante, – perché non c'è mai stato sinora
niente di più menzognero dei santi – la verità parla in me. – Ma la mia verità è tremenda: perché
sino ad oggi si chiamava verità la menzogna. – Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia
formula per l'atto con cui l'umanità prende la decisione suprema su sé stessa, un atto che in me è
diventato carne e genio. Vuole la mia sorte che io debba essere il primo uomo decente, che sappia
oppormi a una falsità che dura da millenni…io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per
primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata…Il mio genio è nelle mie narici…Io
vengo a contraddire come mai si è contraddetto, e nondimeno sono l'opposto di uno spirito
negatore. Io sono un lieto messaggero, quale mai si è visto, conosco compiti di una altezza tale che
finora è mancato il concetto per definirli: solo a partire da me ci sono di nuovo speranze. Con tutto
ciò io sono anche, necessariamente, l'uomo del fato. Perché ora la verità dà battaglia alla millenaria
menzogna, avremo degli sconvolgimenti, uno spasimo di terremoti, monti e valli che si spostano,
come mai prima si era sognato.
Io sono di gran lunga l'uomo più tremendo che ci sia mai stato: ciò non toglie che io possa essere il
più benefico. Conosco il piacere del distruggere in misura della mia forza di distruzione, - nell'una
e nell'altra cosa obbedisco alla mia natura dionisiaca, che non riesce a distinguere tra il fare no e il
dire sì. Io sono il primo immoralista: perché io sono il distruttore par excellence (Ecce homo, p.
365, Perché io sono un destino)
Distruttore per eccellenza ma al tempo stesso colui che dice di sì. Per dire di sì occorre riscrivere una lunga storia,
svelare le falsità come falsità, riscrivere i valori (trasvalutare). In questo senso il pensiero genealogico di
Nietzsche è come un tornado che spazza via tutto ciò che si era, sino ad ora, creduto sacrosanto.
Trasvalutazione, volontà di potenza, oltreumano. I tre concetti dovranno legarsi e comprendersi a partire dal
dionisiaco e passando per l'eterno ritorno dell'uguale. La costellazione di senso si chiarisce a partire dalla Nascita
della tragedia (1871) e dalla critica della storia (Sull'utilità e il danno della storia per la vita, 1873).
Schopenhauer ci ha descritto l’immenso orrore che afferra l’uomo, quando
improvvisamente perde la fiducia nelle forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto
il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna delle sue
configurazioni. Se a questo orrore aggiungiamo l’estatico rapimento che, per la stessa
violazione del principium individuationis, sale dall’intima profondità dell’uomo, anzi
della natura, riusciamo allora a gettare uno sguardo nell’essenza del dionisiaco, a cui
ci accostiamo di più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza. O per l’influsso
delle bevande narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il
poderoso avvicinarsi della primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura, si
destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione l’elemento soggettivo svanisce
in un completo oblio di sé.
Dionysos e il tragico (un'anticipazione)
Nietzsche ci offre, nella Nascita della tragedia, una genealogia del tragico. Prima di chiarire che cosa sia il
tragico occorre spiegare quale sia il metodo di Nietzsche, metodo che viene costantemente affinato.
Il progetto generale di Nietzsche consiste nell'introdurre in filosofia i concetti di senso e valore, ma tali nozioni
richiedono un rovesciamento (una trasvalutazione-Um-wertung), infatti i valori si danno da un lato come principi
(una valutazione presuppone dei valori a partire dai quali essa valuta i fenomeni); d'altra parte, però, sono i valori
che suppongono una valutazione, dei punti di vista della valutazione da cui derivano i valori. Ma il valore dei
valori, la valutazione da cui procede il loro valore, è il problema della loro invenzione (Erfindung).
La valutazione si definisce come elemento differenziale dei valori corrispondenti. Questo elemento è genetico e
differenziale: è propriamente la volontà di potenza (Wille zur Macht, dove la volontà non va separata da ciò che
può).
Nietzsche si impone allora due compiti:
1. riportare ogni "cosa" a dei valori;
2. rapportare i valori alla loro "nascita", provenienza, invenzione (non a un'"origine", non, cioè, a un'essenza
originaria immutabile e inalterata). Questa nascita va vista come modalità, rapporto di forze e conflitto,
non come una cosa o una sostanza. Per questo dall'idea di nascita si escludono sia l'idea di un
fondamento che lasci i valori indifferenti alla loro propria "origine", sia la semplice derivazione causale
per cui l'origine sia indifferente ai valori.
Il concetto di genealogia non richiede né il giudice di un tribunale (che andrebbe a sua volta indagato, del quale
anzi occorrerebbe a sua volta fare la genealogia), né un meccanicismo utilitarista (secondo cui si fa qualcosa solo
perché è utile, aldilà delle giustificazioni ideologiche – ma qual è il fondamento dell'utile?).
Il filosofo genealogista della nascita della tragedia è piuttosto un poeta tragico.
La sua passione per la filologia non si distingue da quella per la filosofia. La riflessione concettuale è unita a
quella estetica, come vedremo. I suoi educatori elettivi sono Wagner e Schopenhauer, prima di venire ripudiati
insieme all'intera tradizione della metafisica occidentale (riletta come morale).
Vediamo innanzitutto, allora, come leggeva la tragedia, o meglio: come pensava attraverso la lettura della tragedia
greca.
"Che cos'è dunque la verità? Un esercito mobile di metafore, metonimie, antropomorfismi,
in breve, una somma di relazioni umane che cono state sublimate, tradotte, abbellite
poeticamente e retoricamente, e che per lunga consuetudine sembrano a un popolo salde,
canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni delle quali si è dimenticato che non sono
appunto che illusioni, metafore, che si sono consumate e hanno perduto di forza, monete
che hanno perduto la loro immagine e che quindi vengono prese in considerazione solo
come metallo, non come monete."
Il mondo greco e la nascita della razionalità.
La nascita della tragedia dallo spirito della musica può essere considerata l'opera cardine di Nietzsche. Possiamo
individuarvi in nuce tutti gli elementi del suo pensiero. La Nascita della tragedia narra in realtà la storia di una
decadenza: dalla tragedia greca alla commedia attica nuova. Dal mondo di Eschilo e Sofocle si passa alle nuove
generazioni rappresentate da Euripide e dal suo "maestro" Socrate. Non si tratta solo della sostituzione di un
genere teatrale con un altro. Si tratta piuttosto di una rivoluzione epocale. Il V secolo a.C. è lo spartiacque sul
quale si fonda tutta la tradizione occidentale.
Qual è l'intento dell'opera? Mostrare come in Grecia sia nato un modo di rapportarsi al mondo che ha il perno
nella logica e che trova i suoi simboli in Socrate ed Euripide. E indicarne le conseguenze. Dietro alla tradizione
filosofica occidentale si celano "sterminate antichità", oscure e inaccessibili al nostro modo di pensare.
Come comprendere allora l'evento della nascita della razionalità, visto che il "prima" della razionalità non ci è
accessibile? Resta un solo modo, che inizia a manifestarsi ora e che si svilupperà nel metodo "genealogico":
"dobbiamo per così dire smantellare pietra per pietra quel geniale edificio" "fino a vedere le fondamenta sulle
quali si basa".
Questo significherà allora smantellare la visione di un mondo di equilibrata armonia e bellezza che era l'immagine
stereotipata della grecità ereditata dal classicismo.
Per fare questo Nietzsche si serve di due nozioni chiave: Apollo e Dioniso. Con esse riesce a dissotterrare le
fondamenta della nostra civiltà. Che cosa significano queste due divinità? Che cosa simboleggiano? Innanzitutto il
mondo degli impulsi: Apollo, divinità della bellezza, del sogno, della visione e dell'arte plastica incarna l'impulso
rappresentativo (germe che darà luogo alla coscienza razionale); Dioniso si manifesta come dio dell'ebbrezza, del
corpo, della libera esplosione degli istinti, della vita al di qua del bene e del male, si esprime nella musica e nella
danza. È esistenza magmatica.
Si tratta in ogni caso di due istinti, i quali, contrapponendosi e intrecciandosi, danno origine alle fasi della storia
della cultura umana. Apollo e Dioniso, in quanto espressioni del mondo degli impulsi, al di là dei modi delle loro
manifestazioni, hanno una radice comune. L'autentica contrapposizione non è tra Apollo e Dioniso, ma tra
Dioniso e Apollo degenere (Socrate). Il dionisiaco non rappresenta solo il caotico e l'irrazionale dell'eccitazione
musicale, così come l'apollineo non rappresenta solo la dimensione razionale, il mondo delle immagini e delle
sculture. Nel loro intimo Apollo e Dioniso condividono il magma degli istinti. Se il primo si manifesta come
rappresentazione e il secondo come volontà (così secondo il titolo del libro di Schopenhauer dal quale Nietzsche
si lascia ispirare), entrambi sono in realtà manifestazioni dei contrari che coincidono nel divenire, entrambi sono
istinti di una pluralità di centri di forza la cui radice è il principio generatore di differenze, la natura o physis
(apollineo e dionisiaco sono fenomeni fisiologici), che dovremo ricomprendere.
La contrapposizione, dicevamo, non è tra Apollo e Dioniso, ma tra Dioniso e Socrate. Lo stesso Apollo, infatti,
viene ricondotto nell'ambito del dionisiaco. Solo che nell'apollineo c'è un resto non perfettamente assorbibile dal
mondo dell'istintualità. È una conseguenza o degenerazione: la dimensione della rappresentazione, il mondo della
coscienza, l'impianto logico-razionale, la conoscenza. Il principio di ragione (nihil est sine ratione) collega tutte le
immagini e rappresentazioni secondo la legge di causalità. Socrate incarna una maschera che nasconde due visi:
quello di Platone e quello di Aristotele, maestri del principio di non contraddizione e definitivi codificatori del
ragionamento corretto (la logica). In Socrate la vita, con le sue laceranti contraddizioni, viene ridotta a schema
logico. Espelle da sé ogni riferimento al mondo del mito, alle feste dionisiache, al lato oscuro dell'esistenza. Il
mondo assume un aspetto teleologico e razionale. Ciò che in queste categorie non può essere incluso viene escluso
e negato.
Socrate è allora il grande malato. Ma rappresenta la nostra cultura. Di che cosa è malata la nostra cultura? Il
socratismo è l'inizio della decadenza dell'Occidente: la razionalità diventa il "secondo istinto" (l'habitus,
l'abitudine, secondo Aristotele era una "seconda natura") che diventa il primo, l'impulso degenerato che nega il
mondo da cui proviene. La degenerazione consiste nel sottomettersi a istanze metafisiche esterne (Vero, Bene,
Bello, Giusto) le quali non sono altro che caratteristiche umane. L'uomo pone in un altro da sé ciò che gli è più
proprio.
Nietzsche invita a recuperare la cultura tragica, modo greco di stare al mondo che, davanti ai terrori e all'atrocità
dell'esistenza, ci permette di continuare comunque a vivere. L'arte offre questa possibilità: l'apollineo, impulso
sapientemente intrecciato con il dionisiaco, produce il mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. La civiltà
greca è riuscita ad abitare con leggerezza la condizione intermedia tra i due poli, l'uno dei quali corrisponde
all'interminabile ciclo di vita e di morte, l'altro alla possibilità di dare forma, produrre immagini e rappresentazioni
che siano capaci di sottrarsi (anche se solo momentaneamente) all'indistinto fluire del tutto. Davanti al dolore
dell'esistenza l'arte ha trovato una via che le ha permesso di non annientare la vita stessa. La filosofia è così per
Nietzsche una metafisica da Artista.
Occorre, sin da ora, comprendere che questa "estetica" è già tutta la filosofia di Nietzsche. Il rovesciamento del
platonismo, centro delle ricerche genealogiche a partire dall'annuncio della morte di Dio, significa rovesciare il
rapporto che si è instaurato tra arte e filosofia, dove la leggerezza e il gioco, la menzogna, sono state scacciate
dalla città dei filosofi (cf. Repubblica di Platone) insieme ai sofisti. Rovesciare il platonismo significa ripensare
tutte le nozioni di Platone e della tradizione occidentale e vederne l'insorgenza. Questo significherà anche
ripensare il rapporto tra Essere ed Apparire, come vedremo, ma si presenta innanzitutto come critica della verità,
la quel trova il suo fondamento in Dio (la verità è il correlato concettuale di un precetto morale, il quale trova il
suo fondamento in Dio)
Storia e vita (critica all'eccesso di storia e apertura verso una concezione critica della storia)
Per ripensare la verità occorre un metodo (storico) particolare, che Nietzsche chiama "metodologia da talpe",
capace di andare a smascherare le imposture, di scavare alle radici la provenienza delle cose, nel contesto delle
analisi della propria contemporaneità, per esempio nella seconda Considerazione inattuale, Sull'utilità e il danno
della storia per la vita. L'opera è indubbiamente un manifesto dell'antistoricismo, infatti Nietzsche attacca: lo
storicismo hegeliano, all'epoca imperante, al quale viene assimilata anche La filosofia del Positivismo, nella quale
è insita una tendenza ottimistica; la Filosofia dell'inconscio (di Eduard von Hartmann), dove si sostiene che ciò
che determina le nostre azioni è inconoscibile e quindi deciso a priori rispetto al volere della coscienza
individuale. Entrambe le posizioni, è appena il caso di dirlo, derivano dal razionalismo ottimistico di socratica
memoria.
Aldilà degli attacchi occorre concentrarsi sulla concezione antiteleologica (antifinalistica) di Nietzsche.
Antifinalistica e inattuale, controcorrente. Non è la storia (l'inconscio) a decidere il destino individuale, semmai il
contrario. Contro l'idolatria del fatto Nietzsche pone la capacità attiva e fattiva del singolo (qui ritroviamo
un'anticipazione della nozione di creatività, dell'artificio, della costruzione, propria della concezione che
Nietzsche avrà della volontà di potenza, la quale non consiste nel desiderare o nel prendere, ma nel creare e nel
dare).
La storia ha senso se e solo se fornisce modelli di riferimento affinché l'individuo possa plasmare da sé il proprio
destino, dando senso alla propria vita. Si tratta qui di capire come questo senso della storia sia una sorta di
autoeducazione, non limitata al consueto iter scolastico. Concerne infatti la vita stessa, in quanto indica ciò che il
singolo individuo, in possibilità, è. Il concetto verrà ripreso in Ecce homo, in una sorta di resoconto autobiografico
e concettuale di quanto scritto precedentemente: "Come si diventa ciò che si è" recita infatti il sottotitolo
dell'opera. Proprio per questo la filosofia di Nietzsche non può che contrapporsi al modello ottocentesco
imperante: lo storicismo è il modello educativo dei suoi contemporanei, che vedono, sentono, pensano da malati,
ovvero storicamente. È come se avessero sviluppato solo un organo del proprio corpo, diventato ipertrofico. Di
nuovo: la malattia storica ha un precursore: Socrate. Perché? Non esiste storia senza un principio di ragione: il
mondo diventa indagabile attraverso un nesso causale, che riesce a imbrigliare la vita in una enciclopedia di fatti,
in una classificazione di avvenimenti databili e definibili, che corrispondono alla bava del ragno, la quale permette
di costruire una tela onniavvolgente. La trama delle cose è ridotta al principio di causalità, alla razionalità. La
malattia socratica si è così compiuta. La conseguenza è che la vita non agisce, decade. Si comporta come Amleto.
Per agire occorre un senso non storico, occorre l'oblio. L'agire prevede un ampio spettro di indeterminazione,
casualità (non causalità) e rischio, prevede lo scarto, la deviazione, l'inconcepibile.
Questo è dunque il danno. Quale l'utilità della storia? Prima di vedere i tre modi nei quali la storia serve al vivente
dobbiamo ancora dire qualcosa: l'utilità della storia è quella della storia come genealogia (il libro che tematizza la
questione è La genealogia della morale), che permette a Nietzsche di percorrere a ritroso i concetti stratificati e
sedimentati della tradizione occidentale, mostrando la provenienza (cioè l'invenzione, più che l'origine unica e
solenne) dei concetti morali, delle virtù, e quindi della logica e della razionalità stessa. Nella seconda Inattuale la
storia è vista così:
La storia appartiene al vivente sotto tre rapporti: in quanto è attivo ed ha aspirazioni;
perché preserva e venera; perché soffre e ha bisogno di liberazione." Il che corrisponde a
tre modalità della storia: "A questa trinità di rapporti corrispondono tre specie di storia e
si possono distinguere nello studio della storia un punto di vista monumentale, un punto
di vista antiquario e un punto di vista critico.
La prima considerazione concerne la storia monumentale: ciò che si è manifestato una volta in modo grandioso e
straordinario può in qualche modo rivivere. La storia antiquaria, invece, si rapporta al passato venerandolo,
impedendo però l'azione; la storia critica, infine, rompe con il passato, libera chi è abbastanza forte per creare. Si
tratta di tre modalità che esprimono il rapporto della vita con la storia. Nello Zarathustra abbiamo tre metamorfosi
dello spirito, le quali, forse, possono corrispondere a tre attitudini della vita. In ogni caso è la ripresa di tutte e tre
che può permetterci di capire la volontà di potenza come autoeducazione dell'uomo, metamorfosi che lo porterà
all'oltreuomo, passando per una trasvalutazione di tutti i valori.
Chimica delle idee e dei sentimenti
Dopo la pubblicazione di Umano, troppo umano Nietzsche si distanzia da Wagner e anche da Schopenhauer e si
dedica alle scienze positive. Si tratta di un cambiamento radicale. Nietzsche non si avvicina però al positivismo:
tenta piuttosto di scandagliare l'impianto logico razionale che domina ormai incontrastato. Nietzsche sfrutta e
approfondisce lo sguardo scientifico per far esplodere la scienza dal suo interno. Questo atteggiamento è stato
definito "illuminista" (Umano, troppo umano è dedicato a Voltaire). La scienza viene contrapposta all'arte, ma è
come l'arte una forma di rappresentazione, un modo di vedere la vita, un atto creativo: lo scienziato è un ulteriore
sviluppo dell'uomo artistico.
L'opera si apre con l'aforisma dal titolo "Chimica delle idee e dei sentimenti". La chimica filosofica ha come
oggetto d'indagine la morale intesa in senso lato: le forme spirituali prodotte dalla civiltà occidentale che
permeano di sé le attività umane (abitudini quotidiane, metafisica, religione, educazione, politica, etica, arte,
scienza).
L'opera di smontaggio inizia a presentarsi come metodo archeologico-genealogico. Iniziata con la Nascita della
tragedia, si occupa ora dei grandi moralisti francesi (Montaigne, La Rochefoucauld, Chamfort, Fontanelle,
Pascal).
Il sistema della verità, i valori e le norme a cui facciamo riferimento per vivere, non sono altro che errori. Che
cosa sono questi errori? Secondo la nozione presente in Verità e menzogna in senso extramorale si tratta di un
prodotto "troppo umano" derivato da una serie di atti e abitudini formatisi nel corso del tempo, di per sé casuali,
gratuiti, inconoscibili.
In Umano, troppo umano (II) Nietzsche ricostruisce i processi che hanno generato i sentimenti morali. Individua
nell'istinto di conservazione il motore che sta alla base di questi ultimi. Gli individui sono mossi dal principio di
conservazione, dall'intenzione di procurarsi piacere ed evitare dolore. Anche le azioni impossibili eppure reali
come l'altruismo o l'eroismo o il sacrificio di sé sono manifestazioni del fatto che l'uomo ama qualcosa di sé. È
come se l'individuo si sdoppiasse e ponesse davanti a sé l'oggetto che una volta raggiunto gli procura piacere.
Si tratta di un fenomeno di autoscissione, in cui l'uomo considera come altro da sé la parte che di sé più ama. Da
questa strutturazione duplice scaturiscono i sentimenti morali dai quali derivano le differenti forme di religione
(cf. Hegel, Feuerbach, Marx, Stirner el'alienazione) e di metafisica. Cosa intende Nietzsche con il termine
"metafisica"? L'idea di sostanza e di libertà morale, il principio di causalità da cui deriva la stessa scienza.
Raggiungimento del piacere e fuga dal dolore spiegano anche la ricerca di abitudini, ovvero di ciò che dà certezze
e sicurezze, come le categorie della ragione tramite le quali ci orientiamo nel mondo.
Aurora continua nel solco di queste indagini e pone al centro delle sue indagini proprio il concetto di morale. Che
cosa la muove? Qual è il suo fondamento? È assente. Nietzsche rilegge qui il binomio concettuale di paura e
potenza: attraverso di questo prende di mira la tradizione. Il concetto di dovere (Kant), quello dell'utile (Spencer)
o della compassione (Schopenhauer) sono stravolti. Dimostra che chi crede di comportarsi conformemente a certi
principi lo fa senza un fondamento certo. Le azioni che si basano su di essi sono in realtà basate su altre
motivazioni.
La morte di Dio e il nichilismo
L'opera di smascheramento compiuta da Nietzsche nei confronti della morale tocca via via questioni che
abbracciano l'intera società. Nella gaia scienza le ragioni del corpo smascherano l'impostura che per oltre due
millenni le ha sottomesse. La stessa storia della filosofia è stata una pratica della sottomissione, la quale ha
condannato gli istinti, il mondo della sensibilità e la vita.
L'annuncio dell'uomo folle, contenuto nella Gaia scienza, e con esso il tema dell'eterno ritorno, introducono al
tema del nichilismo. Un folle tenta di annunciare la morte di Dio. Dio ê morto, ma tutti restano indifferenti. Qual è
la questione di fondo? Metafisica e nichilismo sono intrecciati. Se la Nascita della tragedia racconta la storia di un
suicidio, quello del mondo della vita e degli istinti primordiali ad opera dell'apollineo degenerato, che dal mondo
degli istinti traeva la sua origine, la morte di Dio smaschera un gesto di autosoppressione. Cosa vuol dire? Che il
compimento della metafisica (simboleggiato dalla figura di Dio), è un suicidio, l'estinzione di un processo vitale.
La fine della metafisica segna la fine di un'epoca, quella dell'ottimismo socratico, che ha trasformato una finzione
nell'unica realtà possibile. Ma questa realtà si è smascherata da sé, ormai.
Metafisica e nichilismo sono in un certo senso il medesimo: il rifiuto dell'esistenza terrena (aldiqua) a favore di un
regno dei cieli a venire (aldilà). Questa prospettiva si manifesta con Socrate, Platone e poi con il cristianesimo. La
vita è scissa: la vita terrena rifiutata, quella ultraterrena da conseguire con qualsiasi sforzo (è il mito della
provvidenza, o anche del progresso, in età moderna).
L'ultimo mito che ci è rimasto è quello della scienza. Nietzsche mette a fuoco anche questo. È l'erede del
socratismo, anch'essa una religione, l'ultima versione possibile del mito della verità: cerca di spiegare qualsiasi
cosa riconducendola a leggi immutabili e conoscibili: la scienza riconduce la vita alla dimensione dell'utile, alla
praticità.
Il nichilismo è l'atto originario della metafisica, ma ora il cerchio si chiude e il nichilismo riemerge. Dio è stato
creato dall'uomo per annientare la vita. Ora l'uomo ha annientato Dio stesso attraverso l'ultima propaggine della
metafisica: la scienza. Il nichilismo è uno svuotamento dall'interno. La metafisica è nata attraverso la differenza
ontologica: ciò che è (l'idea, la verità, l'essere) non è ciò che diviene (la vita terrena). Ora, giunta al suo epilogo,
porta alle estreme conseguente la volontà di potenza come volontà di verità: la verità, discesa dal piano delle idee,
è ora dipendente dall'utilità umana. L'uomo folle rivela il percorso. Scopre però che l'uomo preferisce rovesciare i
piani dell'essere, sostituendo a Dio la divinizzazione del nulla: "preferisce ancora volere il nulla piuttosto che il
non volere". (conclusione della Genealogia della morale).
Il nichilismo ha due accezioni: un volto negativo e uno positivo. Quello negativo rappresenta la decadenza,
psicologistica, che ha il suo centro in uno stato d'animo nostalgico, che si manifesta nell'atteggiamento
dell'abbandonarso al disfacimento (la fascinazione della rovina: Wagner e Baudelaire); quello positivo è invece la
volontà di potenza, come gaiezza dell'apertura al possibile. Il nichilismo può essere inteso così: se Dio non c'è, se
tutto diviene, se il divenire e l'essere coincidono, allora questo è il momento in cui l'uomo può rovesciare il senso
del nulla, trasformandolo in attività creatrice. Dal nichilismo passivo si passa a quello attivo (cf. lettura).
Nietzsche ha fatto di se stesso il laboratorio in cui sperimentare questa duplicità. È un décadent e al contempo ne è
l'antitesi.
Con ottica da malato guardare a concetti e valori più sani, o all'inverso, dalla pienezza e
sicurezza della vita ricca far cadere lo sguardo sul lavoro segreto dell'istinto della
décadence – questo ê stato il mio più lungo esercizio, la mia vera esperienza, l'unica in
cui, se mai, sia diventato maestro. Ora è in mano mia, mi sono fatta la mano a spostare le
prospettive: ragione prima per cui forse a me solo è possibile una 'trasvalutazione dei
valori'.
Genealogia della morale come trasvalutazione di tutti i valori
Il nulla, cancellando l'orizzonte metafisico, apre uno spazio di nuovi valori, per nuovi mondi.
Chi sarà in grado di fruire di questo spazio? Una nuova umanità. Non basta uccidere Dio, per trasvalutare.
Distruggere è facile, ma costruire…
La nuova umanità che deve farsi carico della costruzione è chiamata Übermensch (oltre-uomo). Aldilà della
tradizione metafisica, si apre una nuova possibilità. Il mito dell'Oltreuomo è rintracciabile nello Zarathustra, in
un'atmosfera sapienziale e poetica. La filosofia del mattino, la gaia scienza, ha preparato il cammino liberando
l'uomo dall'impostura e dai pregiudizi. Il mondo vero è diventato favola (cf. lettura dal Crepuscolo degli idoli,
brano antologico. 25).
La trasvalutazione, la metamorfosi dell'uomo, si divide in tre momenti: cammello, leone, fanciullo (cf. lettura
dallo Zarathustra, brano in antologia: 12).
Se il cammello sopporta il peso del “tu devi”, il leone ribatte “io voglio”, il fanciullo “io posso”. Il fanciullo, come
metamorfosi dello spirito, è una delle figure dell'oltreuomo, ad un tempo distruttiva e creatrice come il divenire, il
dionisiaco. È creazione e distruzione, posizione di nuove tavole di valori, leggererra dell'innocenza contro il peso
della colpevolezza.
L'oltreuomo è l'individuo che va oltre la metafisica e il nichilismo, riuscendo ad applicare la genealogia della
morale e trasvalutando tutti i valori. Si fa carico, distrugge, crea. Trasforma le forze reattive (la morale del
risentimento) in forze attive: dice sì alla vita, ma non come l'asino, che porta qualunque cosa (e che dice J-A),
bensì come colui che crea, affermando e potenziando la vita.
Eterno ritorno
In questo senso l'oltreuomo, il fanciullo, che dice sì alla vita, può dire di volere l'eterno ritorno (cf. Antologia: 1112-13).
L'oltreuomo vuole il ritorno, lo ama (amor fati). In questo senso il passato non gli pesa. Il senso storico non gli
pesa, perché trasvaluta la storia della morale e della metafisica, perché l'orrore di rivedere accadere quanto
accaduto potenzia la sua affermazione della vita. Il così fu diventa così volli che fosse, così voglio, così vorrò.
L'eterno ritorno è il divenire. Ritorna il sorgere-tramontare, il volere e il creare.
Volontà di potenza
La trasvalutazione di tutti i valori operata dall'oltreuomo si basa sul volere il passato, volere che libera dal peso del
dovere e dell'esser-stato. In una parola: amor fati. Questo termine è la formula che permette di comprendere la
volontà di potenza. Lungi dall'essere interpretabile come desiderio di dominio, essa invece esprime la
fondamentale importanza che il possibile ha nella concezione dell'oltreuomo. L'oltreuomo è il senso del possibile,
potenziamento e non attualizzazione. Attivo e non reattivo.
Come si manifesta lo spirito reattivo? Come cattiva coscienza, negazone, colpa, risentimento, malafede. Queste
manifestazioni dello spirito reattivo sono l'essenza stessa della morale, che, come viene illustrato in Al di là del
bene e del male e in Genealogia della morale, poggia sulla vendetta, come espressione degenere della volontà di
potenza. La questione della morale, dei grandi valori di riferimento del mondo moderno (cristianesimo, progresso,
democrazia) ritorna dopo lo Zarathustra, in un tentativo di sistematizzazione come problema della trasvalutazione.
Tutto ciò che era stato espresso in termini sapienziali-poetici viene ripreso e rielaborato.
In Aldilà del bene e del mal e Genealogia della morale tutte le questioni vengono riprese a partire dall'occhio del
genalogista. La nuova posizione ha un nome: si chiama volontà di potenza. Nelle due opere la questione volontà
di potenza viene indagata a partire dal dolore, punto di vista privilegiato. La questione della reattività viene riprese
in quanto lo spirito reattivo è proprio di chi non sa accettare il dolore dell'esistenza, dolore che per Nietzsche, sin
dalla Nascita…, è parte intetrante della vita stessa, della volontà di potenza. Il sì alla vita è inevitabilmente anche
sì al dolore, alla volontà di potenza. Il problema è, naturalmente, che cosa questo significhi. Abbiamo visto che
significa: amor fati (accettare come creare, divenire, ciò che si è).
Il dolore è sempre stato visto dalla tradizione come qualcosa da rifiutare, negare, fuggire. Nietzsche riprende a
polemizzare con Schopenhauer: se per questi la volontà di vita è l'irrazionale essenza delle cose che tutto travolge
con l'unico scopo di affermare se stessa e alla quale bisogna sottrarsi (tramite la noluntas), per Nietzsche la
volontà di vita non è altro che volontà di potenza (e anche la volontà di verità): una forza che non solo è da
accettare (sarebbe un nichilismo passivo), ma addirittura da volere, da affermare. L'essenza delle cose, il fondo
ultimo a cui si perviene indagando la vita è piacere e dolore. Lo spirito libero riconosce così nella morale,
superandola, la storia di un pregiudizio.
La volontà di potenza è un cardine di tutto il pensiero di Nietzsche: si manifesta come superamento di qualsiasi
interpretazione dualistico-metafisica della vita (il ciò che è, essenza, intelligibile, verità, bene, rispetto a ciò che
appare, il sensibile, il falso, il male), che trova le sue origini in Platone con la contrapposizione dei due piani
dell'essere ma che si presenta ancora in Schopenhauer, che contrappone il mondo come rappresentazione
(apparenza) a quello come volontà (essenza). Per Nietzsche non ci sono mondi dietro a questo mondo, altre quinte
dietro la scena nella quale recitiamo. Essenza ed esistenza sono il medesimo. La natura non fa che rappresentare
sé medesima: labirinto di centri di forza. L'essenza corrisponde a ogni singola apparenza. Senza scissione. Ogni
singola volontà di potenza è una determinazione prospettica.
Ogni centro di forza ha per tutto il resto la sua prospettiva, cioè la sua affatto determinata
scala di valori, il suo tipo d'azione, il suo tipo di resistenza. Il 'mondo apparente' si riduce
pertanto a un modo specifico di agire sul mondo, che muove da un centro. Ma non c'è
nessun'altra azione, e il 'mondo' è solo una parola per il gioco complessivo di queste
azioni. La realtà consiste esattamente in questa azione e reazione particolare di ogni
individuo verso il tutto (Frammenti 1888).
Nietzsche individua così la particolarità di ogni singola prospettiva. Ogni prospettiva è volontà di potenza.
"Non ci sono unità durevoli ultime, non atomi, non monadi: anche qui l'"essere" è stato introdotto solo da noi (per
ragioni pratiche, di utilità, prospettiche) (…) non c'è una volontà: ci sono puntuazioni di volontà, che accrescono o
diminuiscono costantemente la loro potenza."
Due sono le nozioni che Nietzsche mette definitivamente in discussione bollandole come superstizioni: la nozione
di oggetto (la cosa in sé, l'essenza prima o il fondamento ultimo delle cose) e quella di soggetto (l'essenza
individuale, l'anima, l'io).
La verità e l'essenza, come qualsiasi altro oggetto, non sonon che rappresentazioni, fenomeni, intrecci di rapporti
di forze, elementi eterogenei; così come il soggetto, l'ego, non è che un oggetto di tipo particolare, una
rappresentazione, frutto di un'invenzione, un artefatto.
Dire che soggetto e oggetto sono fatti significa semmai, etimologicamente, dire che sono dei "costruiti": un "fatto"
è un prodotto artificiale, l'insieme fluido e in divenire di una pluralità di eventi e di impulsi contrastanti che
trovano momentanei punti di aggregazione un intricato coacervo di abitudini, istinti, valori, convinzioni.
È simile a una stratificazione eterogena e metamorfica che muta con il variare della prospettiva assunta.
Il necessario prospettivismo, in virtù del quale ogni centro di forza – e non solo l'uomo –
costruisce tutto il resto del mondo a partire da se stesso, cioè lo misura, lo modella, lo
forma secondo la sua forza […] hanno dimenticato di calcolare nell'"essere vero" questa
forza che pone prospettive.
Che cos'è questa prospettiva? La genealogia ha smascherato soggetto e oggetto: sono prodotti culturali di una
tradizione, involucri vuoti, se pensati come cose a sé stanti, indipendenti, astratte dal contesto nel quale sono nate.
Il senso si produce invece all'interno di una molteplicità di relazioni: dall'incrocio delle relazioni prende forma un
qualcosa. Prima della relazione le cose non esistono.
Contro il positivismo, che si ferma ai fenomeni: 'ci sono soltanto fatti', direi:: no, proprio i
fatti non ci sono, bensì soltanto intepretazioni. Noi non possiamo constatare nessun fatto
'in sé'; è forse un'assurdità volere qualcosa del genere. 'Tutto è soggettivo' dite voi; ma già
questa è un'interpretazione, il soggetto non è niente di dato, è solo qualcosa di aggiunto
con l'immaginazione, qualcosa di appiccicato dopo. – È infine necessario mettere ancora
l'interprete dietro l'interpretazione? Già questa è invenzione, ipotesi. In quanto la parola
'conoscenza' abbia senso, il mondo è conoscibile; ma esso è interpretabile in modi diversi,
non ha dietro di sé un senso, ma innumerevoli sensi. 'Prospettivismo' sono i nostri bisogni
che interpretano il mondo: i nostri istinti e il loro pro e contro. Ogni istinto è una specie di
sete di dominio, ciascuno ha la sua prospettiva, che esso vorrebbe imporre come norma a
tutti gli istinti.
Questa prospettiva, in cui ogni fatto si sgretola e si ricompone nelle infinite prospettive, troviamo la volontà di
potenza, un'approssimazione all'iniziale spirito dionisiaco, perduto nel suicidio della tragedia.
ANTOLOGIA DI TESTI – FRIEDRICH NIETZSCHE
0. Da Ecce homo. Perché io sono un destino
La filosofia, così come io l'ho intesa e vissuta fino ad oggi, è vita volontaria tra i ghiacci e le alture – ricerca di
tutto ciò che l'esistenza ha di estraneo e problematico, di tutto ciò che finora era proscritto dalla morale. Attraverso
una lunga esperienza di itinerari nel proibito, ho imparato a considerare le cause per cui fino ad oggi si è
moralizzato e idealizzato in modo assai diverso da quello che comunemente si richiede: mi si è fatta luce sulla
storia segreta dei filosofi, sulla psicologia dei loro grandi nomi. – quanta verità può sopportare, quanta verità può
osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura: sempre più.
Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si
era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che sinora è
stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo. Sono dinamite. – E con tutto ciò non c'è nulla in me del
fondatore di religioni – le religioni sono affari per la plebe, io sento il bisogno di essermi lavato le mani, dopo
essere stato in contatto con uomini religiosi… Non voglio credenti, penso di essere troppo malizioso per credere a
me stesso, non parlo mai alle masse… Ho una paura spaventosa che un giorno mi facciano santo: indovinerete
perché io mi premunisca in tempo, con la pubblicazione di questo libro, contro tutte le sciocchezze che si
potrebbero fare con me…Non voglio essere un santo, allora piuttosto un buffone…Forse sono un buffone…E
ciononostante, anzi, non ciononostante, – perché non c'è mai stato sinora niente di più menzognero dei santi – la
verità parla in me. – Ma la mia verità è tremenda: perché sino ad oggi si chiamava verità la menzogna. –
Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia formula per l'atto con cui l'umanità prende la decisione suprema su
se stessa, un atto che in me è diventato carne e genio. Vuole la mia sorte che io debba essere il primo uomo
decente, che sappia oppormi a una falsità che dura da millenni…io per primo ho scoperto la verità, proprio perché
per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata…Il mio genio è nelle mie narici…Io vengo a
contraddire come mai si è contraddetto, e nondimeno sono l'opposto di uno spirito negatore. Io sono un lieto
messaggero, quale mai si ê visto, conosco compiti di una altezza tale che finora è mancato il concetto per definirli:
solo a partire da me ci sono di nuovo speranze. Con tutto ciò io sono anche, necessariamente, l'uomo del fato.
Perché ora la verità dà battaglia alla millenaria menzogna, avremo degli sconvolgimenti, uno spasimo di terremoti,
monti e valli che si spostano, come mai prima si era sognato.
Io sono di gran lunga l'uomo più tremendo che ci sia mai stato: ciò non toglie che io possa essere il più benefico.
Conosco il piacere del distruggere in misura della mia forza di distruzione, - nell'una e nell'altra cosa obbedisco
alla mia natura dionisiaca, che non riesce a distinguere tra il fare no e il dire sì. Io sono il primo immoralista:
perché io sono il distruttore par excellence.
1. da: La nascita della tragedia: Il dionisiaco1
E così potrebbe valere per Apollo, in un senso eccentrico, ciò che Schopenhauer dice dell’uomo irretito nel velo di
Maya3 (Mondo come volontà e rappresentazione, I): «Come sul mare in furia che, sconfinato da ogni parte,
solleva e sprofonda ululando montagne d’onde, un navigante siede su un battello, confidando nella debole
imbarcazione; così l’individuo sta placidamente in mezzo a un mondo di affanni, appoggiandosi e confidando nel
principium individuationis»4. Si dovrebbe anzi dire di Apollo che l’incrollabile fiducia in quel principium e il
placido acquietarsi di colui che da esso è dominato, hanno trovato in lui la loro espressione più sublime, e si
potrebbe definire lo stesso Apollo come la magnifica immagine divina del principium individuationis, dai cui gesti
e sguardi ci parla tutta la gioia e la saggezza della «parvenza», insieme alla sua bellezza. Nello stesso luogo
Schopenhauer ci ha descritto l’immenso orrore che afferra l’uomo, quando improvvisamente perde la fiducia nelle
forme di conoscenza dell’apparenza, in quanto il principio di ragione sembra soffrire un’eccezione in qualcuna
delle sue configurazioni. Se a questo orrore aggiungiamo l’estatico rapimento che, per la stessa violazione del
principium individuationis, sale dall’intima profondità dell’uomo, anzi della natura, riusciamo allora a gettare uno
sguardo nell’essenza del dionisiaco, a cui ci accostiamo di più ancora attraverso l’analogia con l’ebbrezza. O per
l’influsso delle bevande narcotiche, cantate da tutti gli uomini e dai popoli primitivi, o per il poderoso avvicinarsi
della primavera, che penetra gioiosamente tutta la natura, si destano quegli impulsi dionisiaci, nella cui esaltazione
l’elemento soggettivo svanisce in un completo oblio di sé. (…)
Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la
«moda sfacciata» hanno stabilito fra gli uomini. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non
1
Nietzsche paragona l’apollineo al mondo come rappresentazione di Schopenhauer: dominato dalla ragione e dalla causalità,
ordinato e rassicurante, esso non è che la superficie di una realtà inquietante. Dietro l’apollineo c’è il mondo nascosto del dionisiaco,
ci sono gli istinti vitali, capaci di risvegliare le forze più naturali e più autentiche dell’uomo. Tali forze, però, sono positive e feconde,
di segno opposto rispetto alla Volontà descritta da Schopenhauer.
solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maya fosse stato
strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria. Cantando e danzando, l’uomo si
manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto di
volarsene in cielo danzando. Dai suoi gesti parla l’incantesimo. Come ora gli animali parlano, e la terra dà latte e
miele, così anche risuona in lui qualcosa di soprannaturale: egli sente se stesso come dio, egli si aggira ora in
estasi e in alto, così come in sogno vide aggirarsi gli dèi. (La nascita della tragedia, par. 1, in Opere, vol. III,
tomo I, pp. 24-25.)
2Dalle considerazioni inattuali: L'utilità e il danno della storia per la vita.
Dalla seconda inattuale2
Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa.
Digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e
dolore, attaccato cioè al piuolo dell'istante, e perciò né triste né tediato (I). Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al
confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello —
giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché
non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua fèlicità e soltanto
mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che
volevo dire, ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò.
Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente
legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena. E un miracolo:
l’istante, eccolo presente. eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia ancora come spettro,
turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via —
e scivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l'uomo dice «mi ricordo. e invidia l’animale che
subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni
istante (2). Quindi l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve come un numero nel presente, senza che
ne resti una strana frazione; non è in grado di fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento in tutto e per
tutto come ciò che è, quindi non può essere nient'altro che sincero. L’uomo invece resiste sotto il grande e sempre
più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come
un invisibile e oscuro fardello, che egli può ben far mostra di rinnegare, e che nei rapporti coi suoi simili rinnega
fin troppo volentieri, per suscitare la loro invidia. Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso
perduto, il vedere il gregge che pascola o, in più familiare vicinanza, il bambino che non ha ancora nessun passato
da rinnegare e che giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro. E tuttavia il suo giuoco deve
essere disturbato: anche troppo presto egli si risveglia dal suo oblio. Allora impara a intendere la parola «c’era»,
quella parola d’ordine con cui lotta, sofferenze e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è
la sua esistenza — qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il
desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza imprimendo in tal modo il sigillo su quella
conoscenza — che l’esistenza è solo un ininterrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se
stessa, del contraddire se stessa (3). Se è una felicità. se è un correr dietro a una nuova felicità ciò che in un certo
senso trattiene in vita il vivente e continua a spingerlo alla vita, nessun filosofo ha forse più ragione del Cinico.
poiché la felicità dell’animale. come perfetto Cinico, è la prova vivente del diritto del cinismo. La felicità più
piccola, purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza confronto una felicità maggiore della più grande.
che venga solo come episodio, per così dire come capriccio, come idea folle, fra mera sofferenza, brama e
privazione. Ma sia nella massima, sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità
diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dona. la capacità di sentire, mentre essa dura. in modo
non storico. Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è
capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la
felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. Immaginate l’esempio estremo, un uomo
che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo
simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le
cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non
oserebbe più alzare il dito (4). Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non
soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui
che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per
2
L'inizio del brano si ispira evidentemente al Canto notturno di un pastore errane dell'Asia di Giacomo Leopardi. Nella prima
stesura della II inattuale Nietzsche stesso citava i vers: "Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai, Ch'ogni
stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché già mai tedio non provi". Attraverso la memoria, invece, l'uomo
si differenzia dall'animale. Il sapere storico è una forma di memoria, che costruisce una continuità nel tempo, una tradizione. L'uomo
non si dissolve nell'istante.
ripetuta ruminazione. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor
più semplicemente: c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente riceve danno
e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di popolo o di una civiltà. [...].
La serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro tutto ciò dipende, nell’individuo come nel
popolo, dal fatto che ci sia una linea che divida ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che è chiaro, da ciò
che è non rischiarabile e oscuro; dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare quanto ricordare al tempo giusto;
dal fatto che si discerna immediatamente con forte istinto quando è necessario sentire in modo storico e quanto in
modo non storico. È proprio questa la proposizione alla cui considerazione il lettore è invitato: ciò che non è
storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà.
Ma la questione fino a che grado la vita abbia bisogno in genere del servizio della storia, è una delle questioni
e preoccupazioni più alte riguardo alla salute di un uomo, di un popolo, di una cultura. Perché con un certo
eccesso di storia la vita si frantuma e degenera, e alla fine a sua volta, a causa di questa degenerazione, va perduta
la storia stessa.
Ma che la vita abbia -bisogno del servizio della storia, deve essere compreso altrettanto chiaramente quanto la
proposizione secondo cui un eccesso di storia danneggia l’essere vivente. In tre riguardi al vivente occorre la
storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha
bisogno di liberazione. [...]
La storia occorre innanzitutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno
di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente... Che i grandi momenti
nella lotta degli individui formino una catena, che attraverso essi si formi lungo i millenni la cresta montuosa
dell’umanità, che per me le vette di tali momenti da lungo tempo trascorsi siano ancora vive, chiare e grandi è
questo il pensiero fondamentale di una fede nell’umanità che si esprime nell’esigenza di una storia monumentale...
- In che giova dunque all’uomo d’oggi la considerazione monumentale del passato, l’occuparsi delle cose
classiche e rare delle epoche precedenti?
Egli ne deduce che la grandezza, la quale un giorno esistette, fu comunque una volta possibile, e perciò sarà
possibile un'altra volta; egli percorre più coraggiosamente la sua strada, perché ora il dubbio che lo assale nelle
ore di debolezza, di volere forse l'impossibile, è spazzato via.
Della storia ha bisogno in secondo luogo colui che custodisce e venera — colui che guarda indietro con fedeltà e
amore, verso il luogo onde proviene, dove è divenuto; con questa pietà egli per così dire paga il debito di
riconoscenza per la sua esistenza. [...]
La felicità di non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come eredi, fiori e frutti, e di
venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella propria esistenza —e questo ciò che oggi si designa di preferenza
come il vero e proprio senso storico... Qui è sempre molto vicino un pericolo: alla fine tutto ciò che di antico e
passato entra in genere ancora nell’orizzonte, viene semplicemente accettato come ugualmente venerabile, mentre
tutto ciò che non muove incontro con venerazione a questa antichità, ossia il nuovo e ciò che diviene, è rifiutato e
avversato. [...] [La storia antiquaria] è capaceappunto solo di conservare, non di generare vita; perciò sottovaluta
sempre ciò che diviene, in quanto non ha per esso alcun istinto divinante come per esempio lo ha la storia
monumentale. Quindi la storia antiquaria ostacola la forte risoluzione per il nuovo, quindi paralizza chi agisce, il
quale sempre, come agente, violerà e deve violare qualche pietà.
Qui si fa chiaro come l’uomo abbia molto spesso necessariamente bisogno, accanto al modo monumentale e
antiquario di considerare il passato, di un terzo modo, quello critico:e anche di questo per servire la vita. Egli deve
avere, e di tempo in tempo impiegare, la forza di infrangere e di dissolvere un passato per poter vivere: egli ottiene
ciò traendo quel passato innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente, e alla fine condannandolo; ogni
passato merita invero di essere condannato — giacché così vanno le cose umane: sempre la violenza e la
debolezza umane sono state potenti. Non è la giustizia che siede qui a giudizio; ancor meno è la clemenza quella
che pronunzia qui il giudizio: ma soltanto la vita... Tavolta proprio la vita stessa, che ha bisogno della
dimenticanza, richiede il temporaneo annientamento di questa dimenticanza; allora appunto deve precisamente
divenir chiaro quanto sia ingiusta l’esistenza di una qualche cosa, di un privilegio, di una casta, di una dinastia per
esempio, quanto questa cosa meriti la fine. Allora il suo passato viene considerato criticamente, allora si attaccano
con il coltello le sue radici, allora si calpestano crudelmente tutte le pietà. (Considerazioni inattuali, II, pp. 1-4)
3. La scienza
I Un’interpretazione scientifica del mondo, come l’intendete voi, potrebbe essere pur sempre una delle più
sciocche, cioè, tra tutte le possibili interpretazioni del mondo una delle più povere di senso: sia detto ciò per gli
orecchi e per la coscienza dei signori meccanicisti che oggi s’intrufolano volentieri tra i filosofi, e sono
assolutamente dell’opinione che la meccanica sia la teoria delle leggi prime e ultime, sulle quali ogni esistenza
dovrebbe essere edificata come sopra le sue fondamenta. Tuttavia un mondo essenzialmente meccanico sarebbe
un mondo essenzialmente privo di senso. Ammesso che si potesse misurare il valore di una musica da quanto di
essa può essere computato, calcolato, tradotto in formule, come sarebbe assurda una tale «scientifica» misurazione
della musica! Che cosa di essa avremmo mai colto, compreso, conosciuto? Niente, proprio un bel niente di ciò che
propriamente in essa è «musica».
II Si vede che anche la scienza riposa su una fede, che non esiste affatto una scienza «scevra di presupposti». La
domanda se sia necessaria la verità, non soltanto deve avere avuto già in precedenza risposta affermativa, ma deve
averla avuta in grado tale da mettere quivi in evidenza il principio, la fede, la convinzione che «niente è più
necessario della verità e che in rapporto a essa tutto il resto ha soltanto un valore di secondo piano». Questa
incondizionata volontà di verità, che cos’è dunque?
Ebbene, si sarà compreso dove voglio arrivare, vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui
riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza di oggi, noi atei e antimetafisici,
continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall’ incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede
cristiana che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina... Ma come è possibile, se
proprio questo diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l’errore, la cecità, la menzogna,
se Dio stesso si rivela come la nostra più lunga menzogna? (F.Nietzsche, La gaia scienza)
4. La chimica della morale3
Tutto ciò di cui abbiamo bisogno e che allo stato presente delle singole scienze può esserci veramente dato, è una
chimica delle idee e dei sentimenti morali, religiosi ed estetici, come pure di tutte quelle emozioni che
sperimentiamo in noi stessi nel grande e piccolo commercio della cultura e della società, e persino nella
solitudine: ma che avverrebbe, se questa chimica concludesse col risultato che anche in questo campo i colori più
magnifici si ottengono da materiali bassi e persino spregiati? Avranno voglia, molti, di seguire tali indagini?
L’umanità ama scacciare dalla mente i dubbi sull’origine e i princìpi: non si deve forse essere quasi disumanizzati
per sentire in sé l’inclinazione opposta (Umano, troppo umano I, par. I, in Opere, voi. IV, torno 11, p. 15)?
5: Origine e funzione della giustizia4
92. Origine della giustizia. La giustizia (equità) prende origine fra uomini di forza pressappoco uguale, come
Tucidide (nel terribile colloquio degli ambasciatori ateniesi e melii) ha rettamente inteso: dove non esiste una
superiorità chiaramente riconoscibile e una lotta si ridurrebbe a un infruttuoso nuocersi a vicenda, ivi sorge il
pensiero di mettersi d’accordo e di negoziare le reciproche pretese: il carattere dello scambio è l’originario carattere della giustizia. Ciascuno accontenta l’altro, in quanto ciascuno riceve ciò che egli apprezza più dell’altro.
Si dà a ciascuno, come ormai suo, ciò che egli vuole avere, e si riceve in compenso ciò che si desidera. La
giustizia è dunque compensazione e scambio, in base al presupposto di una posizione di forza all’incirca pari: così
la vendetta rientra originariamente nella sfera della giustizia, è uno scambio. Così pure la gratitudine. La giustizia
si riconnette naturalmente col punto di vista di una intelligente conservazione di sé, vale a dire con l’egoismo di
questa riflessione: «Perché dovrei farmi inutilmente danneggiare e magari non raggiungere nemmeno il mio
scopo?». Tanto, dell’origine della giustizia. Per il fatto che gli uomini, secondo la loro abitudine intellettuale,
hanno dimenticato lo scopo originario delle azioni cosiddette giuste ed eque, e particolarmente per il fatto che per
millenni è stato insegnato ai fanciulli ad ammirare e a imitare tali azioni, è sorta a poco a poco la parvenza che
un’azione giusta sia un’azione altruistica; ed è su questa parvenza che è basata l’alta valutazione di essa, che
inoltre, come tutte le valutazioni, prende sempre più vigore: qualcosa che è stimato altamente viene, infatti,
ricercato con sacrificio, imitato, moltiplicato, e acquista sempre maggior vigore perché al valore della cosa stimata
viene aggiunto da ciascuno il valore della fatica e dello zelo spesi. Quanto poco morale apparirebbe il mondo
senza la dimenticanza! Un poeta potrebbe dire che Dio ha posto la dimenticanza come custode sulla soglia del
tempio della dignità umana. (Umano, troppo umano I, par. 92, in Opere, voi. IV, torno 11, pp. 70-71)
6. L'origine della logica5
III. Origine del logico. Donde è nata la logica nella testa dell’uomo? Indubbiamente dalla non-logica, il regno
della quale, originariamente, deve essere stato immenso. Tuttavia innumerevoli esseri che argomentavano in
maniera diversa da come oggi argomentiamo noi, perirono: ciò potrebbe essere stato ancor più vero! Chi, per
esempio, non riusciva a trovare abbastanza spesso l’«uguale», relativamente alla nutrizione o agli animali a lui
3
È necessaria una chimica della morale e delle idee, per scomporle nei loro costituenti elementari, anche correndo il rischio che idee
nobili si rivelino in realtà composte da elementi spregevoli.
4
La giustizia nasce tra uomini di forza simile, perché una situazione di conflitto nuocerebbe a entrambi. In origine è dunque uno
scambio, quando non è possibile sopraffare l’altro. Dimenticando l’origine della giustizia e insegnando ai bambini questo
comportamento, lo si è ammantato di significati positivi, facendone un valore altruistico.
5
I grandi principi della logica, che sembrano connaturati al pensiero umano, sono in realtà poco logici e sono in origine legati
all’adattamento all’ambiente. Non esistono, ad esempio, cose concrete perfettamente uguali tra loro, ma chi riusciva ad applicare il
principio di uguaglianza a cose simili poteva trattare nello stesso modo animali diversi, però simili in quanto pericolosi, oppure
oggetti diversi, ma accomunati dal fatto di essere «cibo», aumentando in questo modo le proprie possibilità di sopravvivenza.
ostili, colui che quindi procedeva troppo lento, troppo cauto nella sussunzione, aveva più scarsa probabilità di
sopravvivere di chi invece, in tutto quanto era simile, azzeccava subito l’uguaglianza. Ma l’inclinazione
prevalente a trattare il simile come uguale, un’inclinazione illogica — perché nulla di uguale esiste — ha creato in
principio tutti i fondamenti della logica. Similmente, perché nascesse il concetto di sostanza, che è indispensabile
per la logica, anche se ad esso, a rigor di termini, non corrisponde nulla di reale, non si dovette per lungo tempo né
vedere né sentire il permutarsi delle cose’°; gli esseri che non vedevano con precisione avevano un vantaggio
rispetto a coloro che vedevano tutto «allo stato fluido». In sé e per sé, già ogni grado elevato di cautela
nell’argomentare, ogni inclinazione scettica — è un grande pericolo per la vita. Non si sarebbe conservato alcun
essere vivente, se non fosse stata coltivata, in modo estremamente vigoroso, l’opposta inclinazione, diretta ad
affermare piuttosto che a sospendere il giudizio, a errare e a immaginare piuttosto che a restare in posizione
d’attesa, ad assentire invece che a negare, a esprimere la propria opinione invece che a essere giusti”. Il decorso
dei pensieri e delle deduzioni logiche nel nostro cervello di oggi corrisponde a un processo e a un conflitto di
istinti che presi per sé, nella loro rispettiva singolarità, sono tutti molto illogici e ingiusti’2 noi esperimentiamo di
consueto solo il risultato della lotta, tanto rapido e nascosto si svolge oggi il funzionamento di questo primordiale
meccanismo (La gaia scienza, § III, in Opere, vol. V, torno 11, pp. 121-2).
7:L’annuncio della morte di Dio
L’uomo folle. Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al
mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». E poiché proprio là si trovavano raccolti
molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «E forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un
bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» gridavano e
ridevano in una gran confusione. il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò coi suoi sguardi: «Dove se n’è
andato Dio? — gridò — ve lo voglio dire! Siamo stati noi ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma
come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la
spugna per cancellare l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole?
Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E
all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esistono ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando
come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a
venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini
mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione?
Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo
noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è
dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci?
Quali riti espiatòri, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di
questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione
più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di
quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!».
A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo
guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto
— proseguì — non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo
cammino non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle
costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e
ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure sono loro che
l’hanno compiuta!». Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse
chiese, quivi abbia intonato il suo Requiem aeternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse
limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i
sepolcri di Dio?» (La gaia scienza, §. 125, in Opere, vol. V, torno II, pp. 129-30).
6
8: Le conseguenze della morte di Dio7
Quel che significa per la nostra serenità. Il maggiore degli avvenimenti più recenti — che «Dio è morto», che la
fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile — comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa. Almeno
a quei pochi [...] la diffidenza di sguardo dei quali è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare appunto
6
Il brano, costruito intorno a metafore, sullo stile delle parabole evangeliche, presenta la figura di un folle che cerca Dio, con una
lanterna accesa nonostante sia giorno. Di fronte ai motteggi degli astanti, enuncia il suo messaggio: Dio è morto, noi l’abbiamo
ucciso eliminando con ciò ogni punto di riferimento; per essere all’altezza di questa azione, dobbiamo farci noi stessi Dio.
7
La morte di Dio è destinata a portare con sé una lunga serie di crisi e di demolizioni, perché dovrà crollare tutta la morale, insieme a
tutto ciò che dalla fede era sostenuto. Ma nell’immediato, questo annuncio provoca una grande serenità, perché apre di nuovo
l’orizzonte alla responsabilità umana, alla possibilità, alla costruzione da parte dell’uomo stesso dei propri significati del mondo e del
proprio destino.
che un qualche sole sia tramontato, che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta in dubbio: a costoro
il nostro vecchio mondo dovrà sembrare ogni giorno più crepuscolare, più sfiduciato, più estraneo, più «antico».
Ma in sostanza si può dire che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla
capacità di comprensione del maggior numero perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso; e
tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che propriamente è accaduto con questo avvenimento e
di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito, e in essa
aveva trovato il suo appoggio, e dentro di essa era cresciuto: per esempio tutta la nostra morale europea. Una
lunga, copiosa serie di demolizioni, distruzioni, decadimenti, capovolgimenti ci sta ora dinanzi: chi già da oggi
potrebbe aver sufficiente divinazione di tutto questo, per far da maestro e da veggente di questa mostruosa logica
dell’orrore, per essere il profeta di un offuscamento e di un’eclissi di sole, di cui probabilmente non si è ancora
mai visto sulla terra l’uguale?
Perfino noi, per nascita divinatori d’enigmi, noi che siamo in attesa per così dire sulle montagne, piantati fra
l’oggi e il domani, interiormente tesi nella contraddizione tra l’oggi e il domani, noi primogeniti e figli prematuri
del secolo imminente, noi che già dovremmo scorgere le ombre che ben presto avvolgeranno l’Europa: com’è che
per. fino noi le guardiamo salire senza una vera partecipazione a questo ottenebramento, soprattutto senza
preoccuparci e temere per noi stessi? Siamo forse ancor troppo soggetti alle più immediate conseguenze di questo
avvenimento: e queste più immediate conseguenze, le sue conseguenze per noi, contrariamente a quello che ci si
potrebbe aspettare non sono per nulla tristi e rabbuianti, ma piuttosto come un nuovo genere, difficile da
descriversi, di luce, di felicità, di ristoro, di rasserenamento, di rincoramento, d’aurora [..]. In realtà, noi filosofi e
«spiriti liberi», alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci siamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il
nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa, finalmente l’orizzonte torna ad
apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno — finalmente possiamo di nuovo sciogliere le vele alle
nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il
mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinnanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così «aperto» (La gaia
scienza, par. 343, in Opere, vol. V, tomo II, pp. 204-5.).
9: da Aurora, 95
Un tempo si cercava di dimostrare che Dio non esiste – oggi si mostra che ha potuto avere origine la fede
nell'esistenza di un Dio, e per quale tramite questa fede ha avuto il suo peso e la sua importanza: in tal modo una
controdimostrazione della non esistenza di Dio diventa superflua.
10: Il primo annuncio dell’eterno ritorno8
Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle
tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora
innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e
sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa
sequenza e successione e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io
stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!».
Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse
vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa
più divina?». Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi (cfr.
Zarathustra, Delle tre metamorfosi) e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa «Vuoi tu questo ancora
una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto
dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo
suggello? (La gaia scienza, par. 341, in Opere, voi. V, tormo II, pp. 201-2).
11: L’oltreuomo e la fedeltà alla terra9
1 Giunto nella città vicina, sita presso le foreste, Zarathustra vi trovò radunata sul mercato una gran massa di
popolo: era stata promessa infatti l’esibizione di un funambolo. E Zarathustra parlò così alla folla:
Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli
esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa grande marea e retrocedere
alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa.
8
La prospettiva del ritorno di ogni gesto e di ogni evento della vita per l’eternità potrebbe riempire d’angoscia o di felicità, a seconda
che si siano subiti i vari momenti della vita o che, al contrario, li si sia scelti e voluti.
9
Zaratbustra parla alla folla radunata nella piazza del mercato, annunciando l’oltreuomo, considerato come un salto nella catena
evolutiva, pari a quello rappresentato dall’uomo verso la scimmia. L’annuncio dell’oltreuomo è strettamente legato all’esortazione
alla «fedeltà alla terra», cioè al recupero di valori legati alla naturalità, alla fìsicità, agli istinti. Il discorso di Zaratbustra è
interrotto dalla folla che reclama l’esibizione del funambolo, e Zaratbustra prende spunto dall’inizio dell’esibizione per illustrare
con altre metafore il concetto dell’oltreuomo.
E questo appunto ha da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna. Avete percorso il
cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è
più scimmia di qualsiasi scimmia. E il più saggio tra voi non è altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro.
Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso
della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!
2 Vi scongiuro, fratelli rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo
sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi,
hanno stancato la terra: possano scomparire! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio
è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la
cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra! In passato l’anima
guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: essa voleva il corpo macilento,
orrido, affamato. Pensava in tal modo di poter sfuggire al corpo e alla terra.
Ma questa anima era anch’essa macilenta, orrida e affamata: e crudeltà era la voluttà di questa anima! Ma anche
voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell’anima vostra? Non è forse la vostra anima indigenza e
feccia e miserabile benessere? Davvero, un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un
fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può
inabissare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande
disprezzo. [...]
Non il vostro peccato — la vostra accontentabilità grida al cielo, la vostra parsimonia nel vostro peccato grida al
cielo! Ma dov’è il fulmine che vi lambisca con la sua lingua! Dov’è la demenza che dovrebbe esservi inoculata?
Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è quel fulmine e quella demenza!
3 Zarathustra aveva detto queste parole, quando uno della folla gridò: «Abbiamo sentito parlare anche troppo di
questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!». E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che
ciò fosse detto per lui, si mise all’opera.
Zarathustra invece guardò meravigliato la folla. Poi parlò così: L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo
— un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso
guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno
scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se
non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono
anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva. Io amo coloro che non aspettano di
trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un
giorno la terra sia del superuomo.
Io amo colui che vive per la conoscenza e vuole conoscere, affinché un giorno viva il superuomo. E così egli
vuole il proprio tramonto. Io amo colui che lavora e inventa, per costruire la casa al superuomo, e gli prepara la
terra, l’animale e la pianta: giacché così egli vuole il proprio tramonto. Io amo colui che ama la sua virtù: giacché
virtù è volontà di tramontare e una freccia anelante. [...]
Io amo colui l’anima del quale trabocca da fargli dimenticare se stesso, e tutte le cose sono dentro di lui: tutte le
cose divengono così il suo tramonto. Io amo colui che è di spirito libero e di libero cuore: il suo cervello, in tal
modo, non è altro che le viscere del cuore, ma il suo cuore lo spinge a tramontare. Io amo tutti coloro che sono
come gocce grevi, cadenti una a una dall’oscura nube incombente sugli uomini: essi preannunciano il fulmine e
come messaggeri periscono. Ecco, io sono un messaggero del fulmine e una goccia greve cadente dalla nube: ma
il fulmine si chiama superuomo (Così parlò Zarathustra, Prefazione di Zarathustra, parr. 3-4, in Opere, voi. VI, torno I, pp. 69.).
12: Dall’uomo all’oltreuomo10
Delle tre metamorfosi.
Tre metamorfosi io vi nomino dello spirito: come lo spirito diventa cammello, e il cammello leone, e infine il
leone fanciullo.
1 Molte cose pesanti vi sono per io spirito, lo spirito forte e paziente nel quale abita la venerazione: la sua forza
anela verso le cose pesanti, più difficili a portare. Che cosa è gravoso? domanda lo spirito paziente — e piega le
ginocchia, come il cammello, e vuoi essere ben caricato. Qual è la cosa più gravosa da portare, eroi? — così
chiede lo spirito paziente, — affinché io la prenda su di me e possa rallegrarmi della mia robustezza. Non è forse
questo: umiliarsi per far male alla propria alterigia? Far rilucere la propria follia per deridere la propria saggezza?
Oppure è: separarsi dalla propria causa quando essa celebra la sua vittoria? Salire sulle cime dei monti per tentare
il tentatore? Oppure è: nutrirsi delle ghiande e dell’erba della conoscenza e a causa della verità soffrire la fame
10
Zarathustra esemplifica il passaggio dall’uomo all’oltreuomo mediante tre metamorfosi: il cammello è l’uomo della morale, che
sopporta il peso del dovere; il leone è la forza distruttiva che combatte il drago, simbolo del dovere e di ogni morale che si impone
all’individuo; il fanciullo, infine, è il creatore che, liberato dalla morale, può inventare da sé il suo mondo.
dell’anima? Oppure è: essere ammalato e mandare a casa coloro che vogliono consolarti, e invece fare amicizia
coi sordi, che mai odono ciò che tu vuoi? Oppure è: scendere nell’acqua sporca, purché sia l’acqua della verità,
senza respingere rane fredde o caldi rospi? Oppure è: amare quelli che ci disprezzano e porgere la mano allo
spettro quando ci vuoi fare paura? Tutte queste cose, le più gravose da portare, lo spirito paziente prende su di sé:
come il cammello che corre in fretta nei deserto sotto il suo carico, così corre anche lui nei suo deserto.
2 Ma là dove il deserto è più solitario avviene la seconda metamorfosi: qui lo spirito diventa leone, egli vuoi come
preda la sua libertà ed essere signore nel proprio deserto. Qui cerca il suo ultimo signore: il nemico di lui e dei suo
ultimo dio vuol egli diventare, con il grande drago vuoi egli combattere per la vittoria. Chi è il grande drago, che
lo spirito non vuol più chiamare signore e dio? «Tu devi» si chiama il grande drago. Ma io spirito del leone dice
«io voglio». «Tu devi» gli sbarra il cammino, un rettile dalle squame scintillanti come l’oro, e su ogni squama
splende a lettere d’oro «tu devi!». Valori millenari rilucono su queste squame e così parla il più possente dei
draghi: «Tutti i valori delle cose risplendono su di me». «Tutti i valori sono già stati creati, e io sono ogni valore
creato. In verità non ha da essere più alcun «io voglio»!». Così parla il drago. Fratelli, perché il leone è necessario
allo spirito? Perché non basta la bestia da soma, che a tutto rinuncia ed è piena di venerazione? Creare valori
nuovi — di ciò il leone non è ancora capace: ma crearsi la libertà per una nuova creazione — di questo è capace la
potenza del leone. Crearsi la libertà e un no sacro anche verso il dovere: per questo, fratelli, è necessario il leone.
Prendersi il diritto per valori nuovi — questo è il più terribile atto di prendere, per uno spirito paziente e
venerante. In verità è un depredare per lui e il compito di una bestia da preda. Un tempo egli amava come la cosa
più sacra il «tu devi»: ora è costretto a trovare illusione e arbitrio anche nelle cose più sacre, per predar via libertà
dal suo amore: per questa rapina occorre il leone.
3 Ma ditemi, fratelli, che cosa sa fare il fanciullo, che neppure il leone era in grado di fare? Perché il leone rapace
deve anche diventare un fanciullo? Innocenza è il fanciullo, e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante
da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora
lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo. Tre metamorfosi vi ho
nominato dello spirito: come lo spirito divenne cammello, leone il cammello, e infine il leone fanciullo (Così parlò
Zarathustra, Delle tre metamorfosi, in Opere, vol. VI, torno I, pp. 23-25).
13: L’eterno ritorno e la nascita dell’oltreuomo11
Salivo, salivo, sognavo — pensavo: ma tutto mi opprimeva. Ero come un malato: stremato dal suo tormento
atroce, sta per dormire, ma un sogno, più atroce ancora, lo ridesta. Ma c’è qualcosa che io chiamo coraggio:
questo finora ha sempre ammazzato per me ogni scoramento. Questo coraggio mi impose alfine di fermarmi e
dire: «Nano! O tu! O io!».
Coraggio è la mazza più micidiale: il coraggio ammazza anche la compassione. Ma la compassione è l’abisso più
fondo: quanto l’uomo affonda la sua vista nella vita, altrettanto l’affonda nel dolore.
Coraggio è però la mazza più micidiale, coraggio che assalti: esso ammazza anche la morte, perché dice: «Questo
fu la vita? Orsù! Da capo!». Ma in queste parole sono molte squillanti fanfare. Chi ha orecchi, intenda.
2 «Alt, nano! dissi. O io! O tu! Ma di noi due il più forte sono io: tu non conosci il mio pensiero abissale! Questo
— tu non potresti sopportano!». Qui avvenne qualcosa che mi rese più leggero: il nano infatti mi saltò giù dalle
spalle, incuriosito! Si accoccolò davanti a me, su di un sasso. Ma, proprio dove ci eravamo fermati, era una porta
carraia. «Guarda questa porta carraia! Nano! continuai: essa ha due volti. Due sentieri convengono qui: nessuno li
ha mai percorsi fino alla fine. Questa lunga via fino alla porta e all’indietro: dura un’eternità. E quella lunga via
fuori della porta e ìn avanti — è un’altra eternità. Si contraddicono a vicenda, questi sentieri; sbattono la testa l’un
contro l’altro: e qui, a questa porta carraia, essi convengono. In alto sta scritto il nome della porta: «attimo». Ma,
chi ne percorresse uno dei due sempre più avanti e sempre più lontano: credi tu, nano, che questi sentieri si
contraddicano in eterno?».
«Tutte le cose diritte mentono, borbottò sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo».
«Tu, spirito di gravità! dissi io incollerito, non prendere la cosa troppo alla leggera! O ti lascio accovacciato dove
ti trovi, sciancato — e sono io che ti ho portato in alto! Guarda, continuai, questo attimo! Da questa porta carraia
che si chiama attimo, comincia all’indietro una via lunga, eterna: dietro di noi è un’eternità. Ognuna delle cose
che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via? Non dovrà ognuna delle cose
che possono accadere, già essere accaduta, fatta, trascorsa una volta? E se tutto è già esistito: che pensi, o nano, di
questo attimo? Non deve anche questa porta carraia esserci già stata? E tutte le cose non sono forse annodate
11
Zarathustra racconta una visione, nella quale egli sta inerpicandosi faticosamente verso la vetta di una montagna. Porta sulle
spalle un essere deforme, metà nano metà talpa, simbolo dello «spirito di gravità», del peso del passato che impedisce di salire verso
l’oltreuomo. Ad un tratto, il nano scende dalle sue spalle e Zaratbustra gli espone la teoria dell’eterno ritorno. Il nano cerca di
interpretarla, ma la fraintende, considerandola una semplice visione circolare del tempo. Mentre Zaratbustra, adirato, riprende la
spiegazione per mostrare al nano la differenza, ha un’ulteriore visione: vede un pastore che sta lottando con un serpente che gli
penzola dalla bocca. Grida allora al pastore di mordere la testa del serpente; seguendo questa indicazione, il pastore si libera della
bestia e appare tra sfigurato: è la metafora della nascita dell’oltreuomo.
saldamente l’una all’altra in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose avvenire? Dunque — anche
se stesso? Infatti, ognuna delle cose che possono camminare: anche in questa lunga via al di fuori — deve
camminare ancora una volta! E questo ragno che indugia strisciando al chiaro di luna e persino questo chiaro di
luna e io e tu bisbiglianti a questa porta, di cose eterne bisbiglianti — non dobbiamo tutti esserci stati un’altra
volta? e ritornare a camminare in quell’altra via al di fuori, davanti a noi, in questa lunga orrida via — non
dobbiamo ritornare in eterno?».
3 Così parlavo, sempre più flebile: perché avevo paura dei miei stessi pensieri e dei miei pensieri reconditi. E
improvvisamente, ecco, udii un cane ululare. Non avevo già udito una volta un cane ululare così? Il mio pensiero
corse all’indietro. Si! Quand’ero bambino, in infanzia remota: allora udii un cane ululare così. [...] E ora, sentendo
di nuovo ululare a quel modo, fui ancora una volta preso da pietà.
Ma dov’era il nano? E la porta? E il ragno? E tutto quel bisbigliare? Stavo sognando? Mi ero svegliato? D’un
tratto mi trovai in mezzo a orridi macigni, solo, desolato, al più desolato dei chiari di luna. Ma qui giaceva un
uomo! E — proprio qui! — il cane, che saltava, col pelo irto, guaiolante, — adesso mi vide accorrere — e allora
ululò di nuovo, urlò: — avevo mai sentito prima un cane urlare aiuto a quel modo?
E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in
viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio
dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e lì si era abbarbicato
mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava invano! non riusciva a strappare il serpente dalle
fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: «Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!», così gridò da dentro di
me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me buono o cattivo gridava da dentro di
me, fuso in un sol grido.
Voi, uomini arditi che mi circondate! Voi, dediti alla ricerca e al tentativo, e chiunque tra di voi si sia mai
imbarcato con vele ingegnose per mari inesplorati! Voi che amate gli enigmi! Sciogliete dunque l’enigma che io
allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario tra gli uomini! Giacché era una visione e una
previsione: — che cosa vidi allora per similitudine? E chi è colui che un giorno non potrà non venire? Chi è il
pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l’uomo, cui le più grevi e le più nere tra le cose
strisceranno nelle fauci?
Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse bene! Lontano da sé sputò la testa
del serpente: e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva!
Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, e ora mi
consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa. La nostalgia di questo riso mi consuma: come
sopporto di vivere ancora! Come sopporterei di morire ora! Così parlò Zarathustra (Così parlò Zarathustra, La visione
e l’enigma, in Opere, vol. VI, tomo I, pp. 191-94.).
14: Amor fati ed eterno ritorno
La mia formula per la grandezza dell'uomo è amor fati: non volere nulla di diverso, né dietro, né davanti a sé, per
tutta l'eternità. Non solo sopportare, e tanto mento dissimulare, il necessario […] ma amarlo. (Nietzsche, Ecce
homo. Perché sono così accorto, 10)
E il senso di tutto il mio operare è che io immagini come un poeta e ricomponga in uno ciò che è frammento ed
enigma e orrida casualità. E come potrei sopportare di essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta e solutore di
enigmi e redentore della casualità!
Redimere coloro che sono passati e trasformare ogni "così fu" in un "così volli che fosse!" – solo questo può
essere per me "redenzione"!
Volontà – è il nome di ciò che libera e procura la gioia: così vi ho insegnato, amici miei! Ma adesso imparate
ancora questo: la volontà, di per sé, è ancora come imprigionata.
Volere libera: ma come si chiama ciò che getta in catene anche il liberatore?
"Così fu" – così si chiama il digrignar di denti della volontà e la sua mestizia più solitaria. Impotente contro ciò
che è già fatto, la volontà sa male assistere allo spettacolo del passato.
La volontà non riesce a volere a ritroso; non potere infrangere il tempo e la voracità del tempo, questa è per la
volontà la sua mestizia più solitaria…
Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; "ciò che fu" – così si chiama il macigno che
la volontà non può smuovere. E così fa rotolare sassi piena di malumore e rovello, e si vendica contro tutto quanto
non provi il suo stesso rovello e malumore. Così la volontà, invece di liberare, infligge sofferenza: e oggetto della
sua vendetta, per non poter volere a ritroso, è tutto quanto sia capace di soffrire…[…]
Via da tutte queste filastrocche, io vi condussi quando vi insegnai: "la volontà è qualcosa che crea".
Ogni "così fu" è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche:
"ma così volli che fosse!"
Finché la volontà che crea non dica anche: "ma così voglio! Così vorrò!"
(F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, "Della redenzione")
15: La morale dei signori e la morale degli schiavi12
Vagabondando tra le molte morali, più raffinate e più rozze, che hanno dominato fino a oggi o dominano ancora
sulla terra, ho rinvenuto certi tratti caratteristici, periodicamente ricorrenti e collegati tra loro: cosicché mi si sono
finalmente rivelati due tipi fondamentali e ne è balzata fuori una radicale differenza. Esiste una morale dei signori
e una morale degli schiavi — mi affretto ad aggiungere che in tutte le civiltà superiori e più ibride risultano
evidenti anche tentativi di mediazione tra queste due morali e, ancor più frequentemente, la confusione dell’una
nell’altra, nonché un fraintendimento reciproco, anzi talora il loro aspro confronto — persino nello stesso uomo,
dentro la stessa anima. Le differenziazioni morali di valore sono sorte o in mezzo a una stirpe dominante, che con
un senso di benessere acquistava coscienza della propria distinzione da quella dominata, oppure in mezzo ai
dominati, gli schiavi e i subordinati di ogni grado. Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare la
nozione di «buono», sono stati di elevazione e di fierezza dell’anima che vengono avvertiti come il tratto distinti e
qualificante della gerarchia. [...} È un fatto palmare che le designazioni morali di valore sono state ovunque
primieramente attribuite a uomini e soltanto in via derivata e successiva ad azioni: per cui è un grave errore che gli
storici della morale prendano come punto di partenza problemi quali «perché è stata lodata l’azione pietosa?».
L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il
suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce stesso come quel che unicamente
conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori. Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta
morale è autoglorificazione. Sta in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la
felicità della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e largire – anche l’uomo nobile
presta soccorso allo sventurato, ma non o quasi non per pietà, bensì piuttosto per un impulso generato dalla
sovrabbondanza di potenza.
[...] Diversamente stanno le cose per quanto riguarda il secondo tipo di morale, la morale degli schiavi. Posto che
gli oppressi, i conculcati, i sofferenti, i non liberi, gli insicuri e stanchi di se stessi, facciano della morale, che cosa
sarà l’elemento omogeneo nei loro apprezzamenti di valore? Probabilmente troverà espressione un pessimistico
sospetto verso l’intera condizione umana, forse una condanna dell’uomo unitamente alla sua condizione. Lo
schiavo non vede di buon occhio le virtù dei potenti: è scettico e diffidente, ha la raffinatezza della diffidenza per
tutto quanto di «buono» venga tenuto in onore in mezzo a costoro —, vorrebbe persuadersi che tra quelli la stessa
felicità non è genuina. All’opposto vengono messe in evidenza e inondate di luce le qualità che servono ad
alleviare l’esistenza ai sofferenti: sono in questo caso la pietà, la mano compiacente e soccorrevole, il calore del
cuore, la pazienza, l’operosità, l’umiltà, la gentilezza a esser poste in onore — giacché sono queste, ora, le qualità
più utili e quasi gli unici mezzi per sopportare il peso dell’esistenza. La morale degli schiavi è essenzialmente
morale utilitarista. Ecco il focolare dove è nato quel famoso contrasto tra «buono» e «malvagio» — nell’intimo
del male si avverte la potenza e la pericolosità, una certa terribilità, finezza e forza che soffoca il disprezzo alle
radici (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, par. 260, in Opere, vol. VI, tomo II, pp. 178-79, 180-81).
16: La negazione della morale 13
Questo problema del valore della compassione e della morale della compassione (io sono un avversario dello
scandaloso infrollimento moderno dei sentimenti) sembra innanzitutto soltanto un fatto isolato, un interrogativo a
sé; ma a chi su questo punto resta inchiodato, a chi su questo punto impara a interrogare, accadrà quel che è
accaduto a me —gli si spalancherà dinanzi una prospettiva nuova, immensa, una possibilità lo afferrerà come una
vertigine, ogni specie di diffidenza, di sospetto, di paura farà un balzo in fuori, vacillerà la fede nella morale, in
ogni morale — finalmente si renderà avvertibile una nuova esigenza. Enunciamola questa nuova esigenza:
abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di cominciare a porre una buona volta in questione il valore
stesso di questi valori e a tale scopo è necessaria una conoscenza delle condizioni e delle circostanze in cui sono
attecchiti, poste le quali si sono andati sviluppando e modificando (morale come conseguenza, come sintomo,
come maschera, come tartuferia, come malattia, come fraintendimento; ma anche morale come causa, come
terapia, come stimulans, come inibizione, come veleno), non essendo esistita fino a oggi una tale conoscenza e
non essendo stata neppure soltanto desiderata. Si è preso il valore di questi «valori» come dato, come risultante di
fatto, come trascendente ogni messa in questione; fino a oggi non si è neppure avuto il minimo dubbio o la
12
Nietzsche individua nella storia due morali: quella dei signori e quella degli schiavi. La differenza maggiore è che la prima è
basata sugli uomini, la seconda sulle azioni. Per la morale dei signori, gli individui sono buoni, nobili ecc., e «buono» o «nobile» è
ciò che essi fanno. Sono essi a stabilire e a creare i valori. Gli schiavi, al contrario, basano la loro morale su leggi che si impongono
agli uomini, leggi che condannano la potenza e l’affermazione di sé, esaltando al contrario la rinuncia (umiltà, rassegnazione) come
virtù. In questa prospettiva «buono» e «cattivo» non sono riferiti agli uomini ma alle azioni, a seconda che si con formino o meno
alle leggi.
13
Dopo l’analisi delle diverse morali, Nietzsche mette in dubbio il concetto stesso di morale, contesta la possibilità di valori,
sottolinea che la stessa nozione di «bene» potrebbe essere uno strumento per limitare la forza vitale, la realizzazione di sé.
minima esitazione nello stabilire «il buono» come superiore, in valore, al «malvagio», superiore in valore nel
senso di un avanzamento, di una utilità, di una prosperità in rapporto all’uomo in generale (compreso l’avvenire
dell’uomo).
Come? e se la verità fosse il contrario? Come? e se nel bene fosse insito anche un sintomo di regresso, come pure
un pericolo, una seduzione, un veleno, un narcoticum27 attraverso il quale a un certo punto il presente vivesse a
spese dell’avvenire? Con maggior agio, forse, e con minor pericolo, ma anche con uno stile inferiore, più volgare?
Così che precisamente la morale sarebbe responsabile del fatto che una in sé possibile suprema possanza e
magnificenza del tipo uomo non è mai stata raggiunta? Così che proprio la morale sarebbe il pericolo dei pericoli?
(Genealogia della morale, §. 6, in Opere, vol. VI, tomo II, pp. 218-19)
17: La cattiva coscienza e la morale del risentimento14
A questo punto non posso più esimermi dal fornire alla mia particolare ipotesi sull’origine della «cattiva
coscienza»15 una prima provvisoria formulazione: tale ipotesi non si lascia facilmente ascoltare e vuole essere
lungamente meditata, vigilata e ponderata. Considero la cattiva coscienza come quella grave malattia in balia della
quale doveva cadere l’uomo sotto la pressione della più radicale tra tutte le metamorfosi che egli abbia mai vissuto
— quella metamorfosi in cui si venne a trovare definitivamente incapsulato nell’incantesimo della società e della
pace. Non diversamente da quel che deve essere accaduto agli animali acquatici, allorché furono costretti a
divenire animali terrestri oppure a perire, si compì la sorte di questi semianimali felicemente adattati allo stato
selvaggio, alla guerra, al vagabondaggio, all’avventura — a un tratto tutti i loro istinti furono svalutati e «divelti».
Dovettero ormai camminare sulle gambe e «portare se stessi», laddove fino a quel momento venivano portati
dall’acqua: una spaventosa pesantezza gravava su di loro. Si sentivano inabili alle funzioni più semplici, per
questo nuovo mondo sconosciuto non avevano più le loro antiche guide, gli istinti regolativi, inconsciamente
infallibili — erano ridotti, questi infelici, a pensare, dedurre, calcolare, combinare cause ed effetti, alla loro
«coscienza», al loro più miserevole organo, il più esposto a ogni errore! Credo che non ci sia mai stato sulla terra
un tale senso di miseria, un tale plumbeo disagio — e intanto quegli antichi istinti non avevano cessato tutt’a un
tratto di porre le loro esigenze! Solo che difficilmente e di rado era possibile dar loro soddisfacimento: in
sostanza, essi dovettero cercarsi nuovi e per così dire sotterranei appagamenti. Tutti gli istinti che non si scaricano
all’esterno, si rivolgono all’interno — questo è quella che io chiamo interiorizzazione dell’uomo: in tal modo
soltanto si sviluppa nell’uomo quella che più tardi verrà chiamata la sua «anima». L’intero mondo interiore,
originariamente sottile come fosse teso tra due epidermidi, si è stemperato e dischiuso; ha acquistato profondità,
latitudine, altezza a misura che è stato impedito lo sfogo dell’uomo all’esterno. Quei terribili bastioni con cui
l’organizzazione statale si proteggeva contro gli antichi istinti della libertà — le pene appartengono soprattutto a
questi bastioni — fecero sì che tutti codesti istinti dell’uomo selvaggio, libero, divagante si volgessero a ritroso, si
rivolgessero contro l’uomo stesso. L’inimicizia, la crudeltà, il piacere della persecuzione, dell’aggressione, del
mutamento, della distruzione tutto quanto si volge contro i possessori di tali istinti: ecco l’origine della «cattiva
coscienza». L’uomo che in mancanza di nemici esterni e di resistenze, rinserrato in una opprimente angustia e
normalità di costumi, faceva impazientemente a brani se stesso, si perseguitava, si rodeva, si aizzava, si
svillaneggiava, quest’animale che si vuole «ammansire» e dà di cozzo alle sbarre della sua cella fino a coprirsi di
piaghe, questo essere che manca di qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e che deve far di se stesso
un’avventura, una camera di supplizi, una selva insicura e perigliosa — questo giullare, questo desioso e disperato
prigioniero, divenne l’inventore della «cattiva coscienza». Con essa fu però introdotta la più grande e la più
sinistra delle malattie, di cui fino a oggi l’umanità non è guarita, la sofferenza che l’uomo ha dell’uomo, di sé:
14
La cattiva coscienza si forma in seguito alla nascita della vita associata, che impone la repressione degli istinti vitali e
l’esaltazione del pensiero, della ragione, della coscienza. Gli istinti originari, che non possono più dirigersi verso l’esterno, si
ripiegano verso l’uomo stesso, dilatandone il mondo interiore e al tempo stesso dilaniando l’individuo, mettendolo in conflitto con se
stesso e con la propria naturalità. Questa è l’origine della cattiva coscienza, che spinge l’uomo a martoriare se stesso, a essere
autoaggressivo e infelice.
15
L’argomentazione di Nietzsche ricorda alcuni passi freudiani. Si noti l’enfasi iniziale, fino a considerare la nascita della «cattiva
coscienza» come una vera e propria mutazione genetica, descritta nel brano con un ricco apparato metaforico. Ricostruiamo i
passaggi salienti dell’analisi di Nietzsche, decodificando il tessuto metaforico. a. l’uomo era guidato originariamente dagli istinti e
non esisteva un’interiorità; b. per garantirsi una sopravvivenza senza pericolo e senza lotta, in un secondo momento l’uomo ha
represso gradualmente i propri istinti; c. non potendo più scaricarsi all’esterno, come aggressività verso gli altri, ma conservando la
loro energia, gli istinti (forse, meglio, gli impulsi) si sono rivolti contro l’individuo stesso, mediante un processo di interiorizzazione;
d. in questo modo è nato un mondo interiore, chiamato «anima», che è andato via via crescendo durante la storia dell’umanità; e. la
coscienza così prodotta è però «cattiva», perché fatta di autoaggressività, di autorepressione, di commiserazione di sé. L’uomo si è
costruito un mondo interiore rinunciando alla libera espressione della sua parte vitale e indirizzandola contro se stesso; f. questo
processo è stato rafforzato, anzi in una certa misura indotto, dallo sviluppo della civiltà, dallo Stato che ha elaborato un sistema
repressivo per punire la manifestazione degli impulsi istintuali, costringendo l’individuo a rivolgerli contro se stesso; g. in seguito a
questo processo, l’uomo si è però distinto da tutti gli altri animali, è diventato un essere speciale, tormentato dalla propria coscienza,
ma capace, proprio per la contraddittorietà del proprio essere, del grande salto verso l’oltreuomo.
conseguenza di una violenta separazione dal suo passato d’animale, di un salto e di una caduta, per così dire, in
nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti, sui quali fino
allora riposava la sua forza, il suo piacere e la sua terribilità.
Aggiungiamo subito che, d’altro canto, col fatto di un’anima animale rivolta contro se stessa, intenta a
prender partito contro se stessa, si era presentato sulla terra qualcosa di tanto nuovo, profondo, inaudito,
enigmatico, colmo di contraddizioni e colmo d’avvenire, che l’aspetto della terra ne fu sostanzialmente
trasformato. In realtà, ci sarebbero voluti spettatori divini per apprezzare lo spettacolo che in tal modo aveva avuto
inizio e di cui non è ancora assolutamente prevedibile la fine — uno spettacolo troppo squisito, troppo
meraviglioso, troppo paradossale perché potesse svolgersi assurdamente inosservato su un qualche ridicolo astro!
Da allora l’uomo è annoverato tra le più inaspet. tate e stimolanti mosse azzeccate che gioca il «grande fanciullo»
eracliteo, si chiami Zeus o caso — desta per sé un interesse, una tensione, una speranza, quasi una certezza, come
se con lui qualcosa si annunziasse, qualcosa si preparasse, come se l’uomo non fosse una meta, ma soltanto una
via, un episodio, un ponte, una grande promessa (Genealogia della morale, par. 16, in Opere, vol. VI, tomo II, pp. 283-85).
18: Il nichilismo passivo e la morale dell'autorità16.
La domanda del nichilismo17 «a che scopo?» procede dalla vecchia abitudine di vedere il fine come posto, dato,
richiesto dall’esterno — cioè da una qualche autorità sovrumana. Anche dopo aver disimparato a credere in
quest’ultima, si continua a cercare, secondo la vecchia abitudine, un’altra autorità in grado di parlare un
linguaggio assoluto e di imporre fini e compiti. Viene quindi in primo piano l’autorità della coscienza (quanto più
si emancipa dalla teologia, tanto più la morale diventa imperativa), in sostituzione di una autorità personale. O
l’autorità della ragione. O l’istinto sociale (il gregge). O la storia con uno spirito immanente, che ha il suo fine in
sé e a cui ci si può abbandonare. Si vorrebbe aggirare la necessità di avere una volontà, di volere uno scopo, il
rischio di dare a se stessi un fine; si vorrebbe scaricare la responsabilità (si accetterebbe il fatalismo). Infine:
felicità, e, con una certa tartuferia, la felicità dei più (Frammenti postumi 1887-88, par. 33, in Opere, voi. VIII, tomo Il, p.
17).
19
Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al "perché?"; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si
svalorizzano. Esso è AMBIGUO:
A) Nichilismo come segno della cresciuta potenza dello spirito: come NICHILISMO ATTIVO.
Può essere un segno di forza; l'energia dello spirito può essere cresciuta tanto, che i fini sinora perseguiti
("convinzioni, articoli di fede") le riescano inadeguati. […]
D'altra parte un segno di forza non sufficiente per porsi ora nuovamente, in maniera creativa, un fine, un perché,
una fede. […]
B) Nichilismo come declino e regresso della potenza dello spirito: il NICHILISMO PASSIVO:
come segno di debolezza: l'energia dello spirito può essere stanca, esaurita, in modo che i fini sinora perseguiti
sono inadeguati e non trovano più credito;
la sintesi dei valori e dei fini (su cui riposa ogni forte cultura) si scioglie, in modo che i singoli valori si fanno la
guerra: disgregamento;
tutto ciò che ristora, guarisce, tranquillizza, stordisce, sarà in primo piano, sotto diversi travestimenti, religiosi o
morali o politici o estetici, ecc. [Frammenti postumi, 1887, 35]
PRESUPPOSTI DI QUEST'IPOTESI
Che non ci sia una verità; che non ci sia una costituzione assoluta delle cose, una "cosa in sé";
- ciò stesso è un nichilismo, è anzi il nichilismo estremo. Esso ripone il valore dele cose proprio nel fatto che a tale
valore non corrisponda né abbia corrisposto nessuna realtà, ma solo un sintomo di forza da parte di chi pone il
valore, una semplificazione ai fini della vita. (Nietzsche, Frammenti postumi [1887], 35)
20: I mille volti del cristianesimo18
16
Il nichilismo nega l'autorità divina o trascendente come fondamento della morale, tendendo però a sempre nuove autorità, dalla
coscienza morale alla ragione all'utilità sociale, perpetuando l'equivoco di fondo: che la morale debba poggiare su qualcosa di esterno
all'individuo.
17
Nonostante la diversità delle motivazioni, le diverse concezioni del nichilismo passivo sono accomunate dal riferimento a
un’autorità esterna, e come tale viene trattata la stessa coscienza, in quanto riferita all’anima in contrapposizione al corpo. Del
sorgere e del perpetuarsi della morale criticata da Nietzsche è responsabile soprattutto il cristianesimo, oggetto di un’aspra condanna
nell’Anticristo.
18
La concezione cristiana della provvidenza divina è paralizzante perché sulla base di essa gli uomini sono indotti a rinunciare
all’azione, non sentendosi più responsabili del proprio destino. Lo stesso risultato deriva dai ritenere il mondo, secondo una visione
Da meditare, fino a che punto continui a sussistere la nefasta fede nella Provvidenza divina — questa credenza tra
le più paralizzanti che ci siano mai state, per l’azione e per la ragione; fino a che punto continuino a vivere i
presupposti e l’interpretazione cristiani sotto le parole «natura», «progresso», «perfezionamento»,
«darwinismo»19, in base alla superstizione di una certa connessione tra felicità e virtù, tra infelicità e colpa.
Quell’assurda fiducia nel corso delle cose, nella «vita», nell’ «istinto della vita», quella rassegnazione bonaria la
quale crede che ciascuno debba solo compiere il proprio dovere perché tutto vada bene — cose del genere hanno
senso solo ammettendo una direzione delle cose sub specie boni31. Lo stesso fatalismo, la nostra forma attuale di
sensibilità filosofica, è una conseguenza del fatto che si sia così a lungo creduto a una disposizione divina, una
conseguenza inconscia: cioè come se appunto non dipendesse da noi che tutto vada in un certo modo (come se ci
fosse lecito lasciare che le cose vadano come vanno e ogni individuo fosse solo un modus della realtà assoluta).
Si deve al cristianesimo: l’intromissione del concetto di colpa e di castigo in tutti i concetti; la vigliaccheria di
fronte alla morale; la stupida fiducia nel corso delle cose (nel «meglio»); la falsità psicologica verso se stessi
(Frammenti postumi 1887-88, in Opere, voi. VIII, tomo II, p. 142).
21: I significati della volontà di potenza20.
Che cos’è buono? — Tutto ciò che eleva il senso della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa nell’uomo.
Che cos’è cattivo? Tutto ciò che ha origine dalla debolezza. Che cos’è felicità? — Sentire che la potenza sta
crescendo, che una resistenza viene superata. Non appagamento, ma maggior potenza; non pace sovra ogni altra
cosa, ma guerra; non virtù, ma gagliardia (virtù nello stile del Rinascimento, virtù libera dall’ipocrisia morale). I
deboli e i malriusciti devono perire: questo è il principio del nostro amore per gli uomini. E a tale scopo si deve
anche essere loro d’aiuto. Che cos’è più dannoso di qualsiasi vizio? — Agire pietosamente verso tutti i malriusciti
e i deboli — il cristianesimo. [...]
Il problema che io pongo qui non riguarda il posto che l’umanità deve prendere nella serie successiva degli esseri
(l’uomo è una fine): bensì quale tipo umano deve essere allevato21, deve essere voluto, in quanto tipo di superiore
valore, più degno di vivere, più certo dell’avvenire. Questo tipo di superiore valore è già esistito abbastanza
spesso: come caso fortunato, però, come eccezione; mai come qualcosa di voluto. È stato proprio questo invece ad
essere particolarmente temuto, esso è stato fino a oggi quasi la cosa terribile, e prendendo le mosse dal timore è
stato voluto, allevato, raggiunto il tipo opposto: l’animale domestico, l’animale d’armento, l’uomo come animale
malato — il cristiano. [...] (L’anticristo, parr. 2-3, in Opere, voi. VI, torno III, pp. 168-69).
22: La volontà di potenza come recupero della totalità dell’uomo
La coscienza e le facoltà connesse di solito alla morale non sono che una piccola parte dell’uomo, ci è invece
soprattutto fisicità, animalità, tutti aspetti cioè fondamentalmente amorali. Al di là delle giustificazioni che
l’uomo si è dato, il fine dell’attività umana è l’accrescimento della potenza, il «potenziamento della vita», intesa
in senso biologico e istintuale.
Ciò che vien detto una «buona azione» è un mero equivoco; azioni del genere non sono affatto possibili.
«Egoismo» è, del pari che «disinteresse», una finzione popolare, allo stesso modo l’individuo, l’anima.
Nell’immensa molteplicità di quanto accade in un organismo, la parte di cui acquistiamo coscienza è un semplice
angolino; e quel poco di «virtù», di «disinteresse» e di simili finzioni viene smentito, in maniera assolutamente
apparentemente laica, retto da princìpi come la natura o il progresso. Anche in questo caso, infatti, si sostiene l’esistenza di un senso
del mondo destinato a realizzarsi da sé.
19
Provvidenzialismo, fatalismo, evoluzionismo ecc., pur apparendo come concezioni tra loro antitetiche, sono simili nella sostanza,
in quanto tutte affermano l’esistenza di una razionalità esterna all’uomo. Il cristianesimo ha influenzato profondamente la società
occidentale, con l’introduzione di una serie di atteggiamenti che hanno permeato gli aspetti più diversi della cultura. I concetti di
colpa e di castigo, ad esempio, non riguardano soltanto la trasgressione dei comandamenti divini, ma sono stati assimilati anche da
filosofie laiche o addirittura atee. Allo stesso modo, la provvidenza divina non riguarda solo la religione, ma ogni concezione che
consideri la storia come uno sviluppo necessario, da quella hegeliana a quella evoluzionistica (darwinismo). In questo contesto, la
«volontà di potenza» si pone come la trasvalutazione di tutti i valori, non soltanto di quelli stabiliti dal cristianesimo e da
Socrate, ma del «valore» in quanto tale. L’unico punto di riferimento d’ogni giudizio è l’uomo stesso come essere naturale, e
l’accrescimento della propria potenza, della forza vitale.
20
Dopo la distruzione della morale, l’unico punto di riferimento resta il singolo individuo, nella sua naturalità: è buono tutto ciò che
ne accresce la potenza e la forza vitale, cattivo il contrario. L’uomo «superiore», che fa di sé l’unico criterio morale, è nato a volte
in modo fortuito: si tratta di fare in modo che divenga la norma.
21
Qui, come in altri passi sullo stesso argomento, la posizione di Nietzsche è aperta a una varietà d’interpretazioni. Il motivo centrale
è univoco: la «volontà di potenza» è la sostituzione di un senso del mondo dato dall’esterno, da un’autorità di qualsiasi tipo, con la
capacità dell’individuo di essere fonte di significati. Nietzsche non auspica quindi una nuova morale, ma un nuovo tipo d’uomo,
l’oltreuomo. A questo egli contrappone però «i malriusciti e i deboli» che «devono perire». Non è chiaro quanto questo linguaggio
sia metaforico e quanto invece sia da prendere alla lettera, con le inquietudini e le assonanze storiche con l’ideologia nazista che in
questo caso evocherebbe. La stessa ambiguità è presente nel passo successivo, dove si può leggere quasi una prospettiva di selezione
di una razza superiore.
radicale, dal resto dell’accadere globale. Faremo bene a studiare il nostro organismo nella sua perfetta
immoralità32. Le funzioni animali sono anzi, per principio, milioni di volte più importanti di tutte le belle
disposizioni e le altezze della coscienza: queste ultime sono un sovrappiù, in quanto non siano strumenti di quelle
funzioni animali. Tutta la vita cosciente, l’intelletto insieme con l’anima, insieme col cuore, insieme con la bontà,
insieme con la virtù, al servizio di che cosa opera? Per il massimo perfezionamento dei mezzi (di nutrimento e di
sviluppo) delle funzioni animali fondamentali: soprattutto per il potenziamento della vita.
Ciò che si è chiamato «corpo» e «carne» conta infinitamente di più: il resto è un piccolo accessorio. Il compito di
continuare a filare l’intero tessuto della vita e in modo che il filo diventi sempre più potente — tale è il compito.
Ma si veda poi come cuore, anima, virtù e spinto facciano addirittura una congiura per distorcere questo compito
principale; come se fossero essi lo scopo. [...1 La degenerazione della vita è sostanzialmente determinata dalla
straordinaria capacità di errore della coscienza: essa viene tenuta assai poco a freno dagli istinti e sbaglia perciò
lunghissimamente e profondissimamente. Misurare se l’esistenza ha valore in base ai sentimenti piacevoli o
spiacevoli di questa coscienza: si può immaginare un più folle eccesso di vanità? Essa è infatti solo un mezzo; e i
sentimenti piacevoli o spiacevoli sono a loro volta solo mezzi! In base a che cosa si misura oggettivamente il
valore? Solo in base al quantum di potenza accresciuta e organizzata, in base a ciò che accade in ogni
accadimento, una volontà di un di più (Frammenti postumi 1887-88, par. 339, in Opere, vol. VIII, tomo II, pp. 250-51).
23: Volontà di potenza e prospettivismo22
Non esistono una «pura ragione» o una conoscenza impersonale. La conoscenza è sempre conoscenza da parte di
qualcuno, che è orientato dal proprio stato d’animo e dal proprio punto di vista particolare, e dunque è sempre
prospettico. L’oggettività consiste nel mettere insieme una molteplicità di punti di vista.
D’ora innanzi guardiamoci meglio infatti, signori filosofi, dal pericoloso, antico favoleggiamento concettuale, che
ha impiantato un «puro, senza volontà, senza dolore, atemporale soggetto della conoscenza»; guardiamoci dalle
prensili braccia ditali concetti contraddittori come «pura ragione», «assoluta spiritualità», «conoscenza in sé»; qui
si pretende sempre di pensare un occhio che non può affatto venir pensato, un occhio che non deve avere
assolutamente direzione, in cui devono essere troncate, devono mancare le forze attive e interpretative, mediante
le quali soltanto vedere diventa un vedere qualcosa: qui dunque viene sempre preteso un controsenso e un nonconcetto di occhio. Esiste soltanto un vedere prospettico, soltanto un «conoscere» prospettico; e quanti più affetti
lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per
questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro «concetto» di essa, la nostra «obiettività». Ma eliminare in
genere la volontà, sospendere tutte quante le passioni, ammesso che di questo fossimo capaci: come? non
significherebbe castrare l’intelletto (Genealogia della morale, in Opere, vol. VI, tomo II, pp. 101-2.)?
24 Da: Ecce homo su "Il crepuscolo degli idoli"
"Questo scritto di cento cinquantapagine, sereno e fatale nel tono, un demone che ride, l'opera di così
pochi giorni che esito a dire quanti, è l'eccezione tra i libri: non vi è nulla di più ricco di sostanza, di più
indipendente, di più eversivo, di più cattivo. Se ci si vuole fare rapidamente un'idea di come, prima di me,
tutto fosse capovolto, si inizi con questo libro. Ciò che nel titolo è indicato come 'idoli' è molto
semplicemente ciò che sino ad ora è stato chiamato verità. Crepuscolo degli idoli, detto a chiare lettere:
le antiche verità stanno per finire."
25. Come il mondo vero finì per diventare favola.
Nietzsche ripercorre la storia del pensiero filosofico, paragonandola al graduale intensificarsi della luce in
una giornata dopo la notte della trascendenza platonica: il primo chiarore (Kant), il mattino (positivismo),
fino al mezzogiorno di massima luminosità.
Storia di un errore.
22
Alla volontà di potenza è correlato anche il prospettivismo. Ogni individuo è punto di riferimento e origine di valori, in quanto
esprime una prospettiva particolare del mondo. Al posto di un significato univoco e oggettivo del mondo viene introdotta una
molteplicità di significati che hanno il loro centro nei singoli individui, intesi e definiti come «centri di forza» indipendenti. La
volontà di potenza non è affermazione del vitalismo soltanto nel senso di un recupero degli istinti e della naturalità, ma più in
generale è un rifiuto di significati già assegnati, di ogni fede, sia in ambito morale che conoscitivo. La conoscenza deve essere
ricondotta a una pluralità di prospettive, di interpretazioni, ed è perciò produzione e creazione continua.
Il soggetto impersonale ha costituito nella filosofia il presupposto per una conoscenza universale e «oggettiva», indipendente dai
singoli individui e valida in sé. Secondo Nietzsche, il significato del mondo è dato dal soggetto individuale. Non solo: la conoscenza,
in quanto ricondotta al singolo, non ha valenza puramente teoretica, ma dipende anche dalla volontà e dalle passioni. Infine, la
prospettiva varia per l’individuo stesso, a seconda dei suoi stati d’animo, dei diversi momenti in cui guarda il mondo, di come egli è.
Questa pluralità di prospettive, però, non è fonte di errore, dato che non c’è il vero e il falso, ma arricchisce la conoscenza stessa di
significato. La nozione futura di «obiettività», sottolinea Nietzsche, è«la facoltà di avere in proprio potere, di scombinare e
combinare il nostro pro e contro: cosicché si sa utilizzare, per la conoscenza, proprio la diversità delle prospettive e delle
interpretazioni affettive» (Genealogia della morale, in Opere, voi. Vi, torno II, p. 101I.
1. Il mondo vero, attingibile dal saggio, dal pio, dal virtuoso – egli vive in esso, lui stesso è questo mondo.
(la forma più antica dell'idea, relativamente intelligente, semplice, percuasiva. Trascrizione della tesi "Io,
Platone, sono la verità").
2. Il mondo vero, per il momento inattingibile, ma promesso al saggio, al pio, al virtuoso ("al peccatore che
fa penitenza").
(Progresso dell'idea: essa diventa più sottile, più capziosa, più inafferrabile – diventa donna, si cristianizza…).
3. Il mondo vero, inattingibile, indimostrabile, impromettibile, ma già in quanto pensato una consolazione,
un obbligo, un imperativo. (In fondo l'antico sole, ma attraverso nebbia e scetticismo; l'idea sublimata,
pallida, nordica, königsbergica).
4. Il mondo vero – inattingibile. Comunque non raggiunto. E in quanto non raggiunto, anche sconosciuto. Di
conseguenza neppure consolante, salvifico, vincolante: a che ci potrebbe vincolare qualcosa di
sconosciuto?…
(Grigio mattino. Primo sbadiglio della ragione. Canto del gallo del positivismo).
5. Il "mondo vero" un'idea, che non serve più a niente, nemmeno più vincolante – un'idea divenuta inutile e
superflua, quindi un'idea confutata: eliminiamola!
(Giorno chiaro; prima colazione; ritorno del bon sens e della serenità; Platone rosso di vergogna; baccano
indiavolato di tutti gli spiriti liberi).
6. Abbiamo tolto di mezzo il mondo vero: quale mondo ci è rimasto? Forse quello apparente?…ma no! col
mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente! (mezzogiorno: momento dell'ombra più corta;
fine del lunghissimo errore; apogeo dell'umanità; incipit Zarathustra) (Crepuscolo degli idoli, Opere, vol VI,
tomo III, pp. 75-76).
26 Così parlò Zarathustra: della virtù che dona.
3. Detto ciò Zarathustra tacque, come uno che non abbia ancora detto l'ultima parola; a lungo, perplesso, dondolò
il bastone in mano.
Quando riprese a parlare, la sua voce era mutata:
"Andrò solo, adesso, miei discepoli! Anche voi ve ne andrete, e soli! Lo voglio.
In verità vi consiglio. Andatevene lontano da me, guardatevi da Zarathustra! Meglio ancora: vergognatevi di lui!
Forse vi ha ingannato.
L'uomo che cerca la conoscenza deve non soltanto sapere amare i propri nemici, ma anche odiare gli amici.
Ripaga male un maestro chi resta sempre suo discepolo. E perché non vorreste voi sfrondare la mia corona?
Mi siete devoti: ma cosa accadrebbe se un giorno crollasse la vostra venerazione? Badate affinché non vi
schiacci una statua!
Dite d'avere fede in Zarathustra. Ma che importa di Zarathustra! Voi siete i mei credenti: ma che importano tutti i
credenti del mondo?
Voi non vi eravate ancora cercati: e mi trovaste. Così fanno tutti i credenti: perciò la fede vale poco.
Ora vi chiedo di perdere me e di cercare voi; e soltanto allorché mi avrete tutti rinnegato, tornerò a voi.
In verità, fratelli miei, con altri occhi cercherò allora quelli che ho smarrito; vi amerò d'altro amore.
E un giorno potrete ancora essere i miei amici e i figli di una sola speranza; allora per la terza volta sarò con voi,
per celebrare con voi la festa del grande meriggio.
Sarà il grande meriggio, quando l'uomo si troverà a mezza strada tra il bruto e il superuomo e celebrerà il suo
volgere al tramonto come la sua più grande speranza: giacché questo tramonto sarà la via a un'aurora nuova.
Colui che tramonta benedirà allora se stesso, perché è uno che va verso la sua risurrezione; e il sole della sua
conoscenza sarà nel suo meriggio.
"Tutti gli dei sono morti: viva il superuomo": sia questa, un giorno, nel grande meriggio, la nostra volontà
suprema!"
Così parlò Zarathustra.
27 Da: la gaia scienza, aforisma 279
Amicizia stellare. Eravamo amici e ci siamo diventati estranei. Ma è giusto così e non vogliamo dissimularci e
mettere in ombra questo come se dovessimo vergognarcene. Noi siamo due navi, ognuna delle quali ha la sua
meta e la sua strada: possiamo benissimo incrociarci e celebrare una festa tra di noi, come abbiamo fatto: allora i
due bravi vascelli se ne stavano così placidamente all'àncora n uno stesso porto e sotto uno stesso sole, che
avevano tutta l'aria di essere già alla meta, una meta che era stata la stessa per tutti e due. Ma proprio allora
l'onnipossente violenza del nostro compito ci spinse di nuovo l'uno lontano dall'altro, in diversi mari e zone di sole
e forse non ci rivedremo mai – forse potrà anche darsi che ci si veda, ma senza riconoscerci: i diversi mari e soli ci
hanno mutati! Che ci dovessimo divenire estranei è la legge incombente su di noi: ma appunto per questo
dobbiamo diventare più degni di noi! Appunto per questo il pensiero della nostra trascorsa amicizia deve diventare
più sacro! Esiste verosimilmente un'immensa invisibile curva e orbita siderale, in cui potrebbero essere
ricomprese, quasi esigui tratti di strada, le nostre diverse vie e mete, - innalziamoci a questo pensiero! Ma la
nostra vita è troppo breve, troppo scarsa la nostra facoltà visiva per poter essere più che degli amici nel senso di
quella nobile possibilità. E così vogliamo credere alla nostra amicizia stellare, anche se dovessimo essere terrestri
nemici l'un l'altro.
INTEGRAZIONE
1.La filosofia, così come io l'ho intesa e vissuta fino ad oggi, è vita volontaria tra i ghiacci e le alture – ricerca di
tutto ciò che l'esistenza ha di estraneo e problematico, di tutto ciò che finora era proscritto dalla morale. Attraverso
una lunga esperienza di itinerari nel proibito, ho imparato a considerare le cause per cui fino ad oggi si è
moralizzato e idealizzato in modo assai diverso da quello che comunemente si richiede: mi si è fatta luce sulla
storia segreta dei filosofi, sulla psicologia dei loro grandi nomi. – quanta verità può sopportare, quanta verità può
osare un uomo? Questa è diventata la mia vera unità di misura: sempre più. (da Ecce homo)
2. (Da Ecce homo. Perché io sono un destino) Conosco la mia sorte. Un giorno sarà legato al mio nome il
ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della
coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che sinora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un
uomo. Sono dinamite. – E con tutto ciò non c'è nulla in me del fondatore di religioni – le religioni sono affari per
la plebe, io sento il bisogno di essermi lavato le mani, dopo essere stato in contatto con uomini religiosi… Non
voglio credenti, penso di essere troppo malizioso per credere a me stesso, non parlo mai alle masse… Ho una
paura spaventosa che un giorno mi facciano santo: indovinerete perché io mi premunisca in tempo, con la
pubblicazione di questo libro, contro tutte le sciocchezze che si potrebbero fare con me…Non voglio essere un
santo, allora piuttosto un buffone…Forse sono un buffone…E ciononostante, anzi, non ciononostante, – perché
non c'è mai stato sinora niente di più menzognero dei santi – la verità parla in me. – Ma la mia verità è tremenda:
perché sino ad oggi si chiamava verità la menzogna. – Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia formula per
l'atto con cui l'umanità prende la decisione suprema su se stessa, un atto che in me è diventato carne e genio.
Vuole la mia sorte che io debba essere il primo uomo decente, che sappia oppormi a una falsità che dura da
millenni…io per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho sentito la menzogna come menzogna, la
ho fiutata…Il mio genio è nelle mie narici…Io vengo a contraddire come mai si è contraddetto, e nondimeno sono
l'opposto di uno spirito negatore. Io sono un lieto messaggero, quale mai si ê visto, conosco compiti di una altezza
tale che finora è mancato il concetto per definirli: solo a partire da me ci sono di nuovo speranze. Con tutto ciò io
sono anche, necessariamente, l'uomo del fato. Perché ora la verità dà battaglia alla millenaria menzogna, avremo
degli sconvolgimenti, uno spasimo di terremoti, monti e valli che si spostano, come mai prima si era sognato.
Io sono di gran lunga l'uomo più tremendo che ci sia mai stato: ciò non toglie che io possa essere il più benefico.
Conosco il piacere del distruggere in misura della mia forza di distruzione, - nell'una e nell'altra cosa obbedisco
alla mia natura dionisiaca, che non riesce a distinguere tra il fare no e il dire sì. Io sono il primo immoralista:
perché sono il distruttore par excellence.
1Dalle considerazioni inattuali: L'utilità e il danno della storia per la vita. (Dalla seconda inattuale23)
Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa.
Digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e
dolore, attaccato cioè al piuolo dell'istante, e perciò né triste né tediato (I). Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al
confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello —
giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale né tediato né fra dolori, e lo vuole però invano, perché
non lo vuole come l’animale. L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua fèlicità e soltanto
mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che
volevo dire, ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò.
Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente
legato al passato: per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena. E un miracolo:
l’istante, eccolo presente. eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia ancora come spettro,
turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via —
e scivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l'uomo dice «mi ricordo. e invidia l’animale che
subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni
23
L'inizio del brano si ispira evidentemente al Canto notturno di un pastore errane dell'Asia di Giacomo Leopardi. Nella prima
stesura della II inattuale Nietzsche stesso citava i versi: "Quanta invidia ti porto! Non sol perché d'affanno Quasi libera vai, Ch'ogni
stento, ogni danno, Ogni estremo timor subito scordi; Ma più perché già mai tedio non provi". Attraverso la memoria, invece, l'uomo
si differenzia dall'animale. Il sapere storico è una forma di memoria, che costruisce una continuità nel tempo, una tradizione. L'uomo
non si dissolve nell'istante.
istante. Quindi l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve come un numero nel presente, senza che ne
resti una strana frazione; non è in grado di fingere, non nasconde nulla e appare in ogni momento in tutto e per
tutto come ciò che è, quindi non può essere nient'altro che sincero. L’uomo invece resiste sotto il grande e sempre
più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come
un invisibile e oscuro fardello, che egli può ben far mostra di rinnegare, e che nei rapporti coi suoi simili rinnega
fin troppo volentieri, per suscitare la loro invidia. Perciò lo commuove, come se si ricordasse di un paradiso
perduto, il vedere il gregge che pascola o, in più familiare vicinanza, il bambino che non ha ancora nessun passato
da rinnegare e che giuoca in beatissima cecità fra le siepi del passato e del futuro. E tuttavia il suo giuoco deve
essere disturbato: anche troppo presto egli si risveglia dal suo oblio. Allora impara a intendere la parola «c’era»,
quella parola d’ordine con cui lotta, sofferenze e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è
la sua esistenza — qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il
desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza imprimendo in tal modo il sigillo su quella
conoscenza — che l’esistenza è solo un ininterrotto essere stato, una cosa che vive del negare e del consumare se
stessa, del contraddire se stessa (3). Se è una felicità. se è un correr dietro a una nuova felicità ciò che in un certo
senso trattiene in vita il vivente e continua a spingerlo alla vita, nessun filosofo ha forse più ragione del Cinico.
poiché la felicità dell’animale. come perfetto Cinico, è la prova vivente del diritto del cinismo. La felicità più
piccola, purché esista ininterrottamente e renda felici, è senza confronto una felicità maggiore della più grande.
che venga solo come episodio, per così dire come capriccio, come idea folle, fra mera sofferenza, brama e
privazione. Ma sia nella massima, sia nella minima felicità, è sempre una cosa sola quella per cui la felicità
diventa felicità: il poter dimenticare o, con espressione più dona. la capacità di sentire, mentre essa dura. in modo
non storico. Chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è
capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la
felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri. Immaginate l’esempio estremo, un uomo
che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo
simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le
cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non
oserebbe più alzare il dito (4). Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non
soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui
che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per
ripetuta ruminazione. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor
più semplicemente: c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente riceve danno
e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di popolo o di una civiltà.[...}.
La serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro tutto ciò dipende, nell’individuo come nel
popolo, dal fatto che ci sia una linea che divida ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che è chiaro, da ciò
che è non rischiarabile e oscuro; dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare quanto ricordare al tempo giusto;
dal fatto che si discerna immediatamente con forte istinto quando è necessario sentire in modo storico e quanto in
modo non storico. È proprio questa la proposizione alla cui considerazione il lettore è invitato: ciò che non è
storico e ciò che è storico sono ugualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo e di una civiltà.
Ma la questione fino a che grado la vita abbia bisogno in genere del servizio della storia, è una delle questioni
e preoccupazioni più alte riguardo alla salute di un uomo, di un popolo, di una cultura. Perché con un certo
eccesso di storia la vita si frantuma e degenera, e alla fine a sua volta, a causa di questa degenerazione, va perduta
la storia stessa.
Ma che la vita abbia -bisogno del servizio della storia, deve essere compreso altrettanto chiaramente quanto la
proposizione secondo cui un eccesso di storia danneggia l’essere vivente. In tre riguardi al vivente occorre la
storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha
bisogno di liberazione. [...] La storia occorre innanzitutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande
battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel
presente... Che i grandi momenti nella lotta degli individui formino una catena, che attraverso essi si formi lungo i
millenni la cresta montuosa dell’umanità, che per me le vette di tali momenti da lungo tempo trascorsi siano ancora vive, chiare e grandi è questo il pensiero fondamentale di una fede nell’umanità che si esprime nell’esigenza
di una storia monumentale...
- In che giova dunque all’uomo d’oggi la considerazione monumentale del passato, l’occuparsi delle cose
classiche e rare delle epoche precedenti?
Egli ne deduce che la grandezza, la quale un giorno esistette, fu comunque una volta possibile, e perciò sarà
possibile un'altra volta; egli percorre più coraggiosamente la sua strada, perché ora il dubbio che lo assale nelle
ore di debolezza, di volere forse l'impossibile, è spazzato via. / Della storia ha bisogno in secondo luogo colui che
custodisce e venera — colui che guarda indietro con fedeltà e amore, verso il luogo onde proviene, dove è
divenuto; con questa pietà egli per così dire paga il debito di riconoscenza per la sua esistenza. [.. .]
La felicità di non sapersi totalmente arbitrari e fortuiti, ma di crescere da un passato come eredi, fiori e frutti, e di
venire in tal modo scusati, anzi giustificati nella propria esistenza —e questo ciò che oggi si designa di preferenza
come il vero e proprio senso storico... Qui è sempre molto vicino un pericolo: alla fine tutto ciò che di antico e
passato entra in genere ancora nell’orizzonte, viene semplicemente accettato come ugualmente venerabile, mentre
tutto ciò che non muove incontro con venerazione a questa antichità, ossia il nuovo e ciò che diviene, è rifiutato e
avversato. [...]
[La storia antiquaria] è capace appunto solo di conservare, non di generare vita; perciò sottovaluta sempre ciò che
diviene, in quanto non ha per esso alcun istinto divinante come per esempio lo ha la storia monumentale. Quindi
la storia antiquaria ostacola la forte risoluzione per il nuovo, quindi paralizza chi agisce, il quale sempre, come
agente, violerà e deve violare qualche pietà.
Qui si fa chiaro come l’uomo abbia molto spesso necessariamente bisogno, accanto al modo monumentale e
antiquario di considerare il passato, di un terzo modo, quello critico:e anche di questo per servire la vita. Egli deve
avere, e di tempo in tempo impiegare, la forza di infrangere e di dissolvere un passato per poter vivere: egli ottiene
ciò traendo quel passato innanzi a un tribunale, interrogandolo minuziosamente, e alla fine condannandolo; ogni
passato merita invero di essere condannato — giacché così vanno le cose umane: sempre la violenza e la
debolezza umane sono state potenti. Non è la giustizia che siede qui a giudizio; ancor meno è la clemenza quella
che pronunzia qui il giudizio: ma soltanto la vita... Tavolta proprio la vita stessa, che ha bisogno della
dimenticanza, richiede il temporaneo annientamento di questa dimenticanza; allora appunto deve precisamente
divenir chiaro quanto sia ingiusta l’esistenza di una qualche cosa, di un privilegio, di una casta, di una dinastia per
esempio, quanto questa cosa meriti la fine. Allora il suo passato viene considerato criticamente, allora si attaccano
con il coltello le sue radici, allora si calpestano crudelmente tutte le pietà (Considerazioni inattuali, II, pp. 1-4).
APPROFONDIMENTI
1. MICHEL FOUCAULT: RIFLESSIONI SUL METODO GENEALOGICO
Per il momento vorrei riprendere, in modo diverso, le riflessioni metodologiche delle quali parlavo poco fa.
Sarebbe stato possibile, è forse più onesto, non citare che un nome, quello di Nietzsche; perché ciò che dico qui
non ha senso che in rapporto con l'opera di Nietzsche, dove si trova effettivamente un tipo di discorso che fa
l'analisi storica della formazione del soggetto stesso, l'analisi storica della nascita di un certo tipo di sapere – senza
mai ammettere la preesistenza di un soggetto di conoscenza. Ciò che mi propongo, ora, è di seguire, nell'opera di
Nietzsche, i lineamenti che possono servirci come modello per le analisi in questione.
Prenderei come punto di partenza un testo di Nietzsche datato 1873, pubblicato postumo. Il testo dice: "In fondo a
qualche angolo dell'universo inondato da fuochi di innumerevoli sistemi solari, ci fu un giorno un pianeta sul
quale degli animali intelligenti inventarono la conoscenza. Fu il minuto più orgoglioso e più menzognero della
storia universale." (F. Nietzsche, Verità e menzogna in senso extramorale).
[...] [Considererei] dapprima il termine "invenzione". Nietzsche afferma che, in un punto determinato del tempo e
in un luogo determinato dell'Universo, degli animali intelligenti hanno inventato la conoscenza. La parola che usa,
"invenzione" (Erfindung), è ripresa spesso, nei suoi testi, e sempre con un senso e una intenzione polemica.
Quando parla di invenzione, N. ha sempre in mente un termine che si oppone a "invenzione": il termine "origine".
Quando dice invenzione (Erfindung) è per non dire "origine" (Ursprung). [...]
Per esempio, nella Gaia scienza, dove parla di Schopenhauer rinfacciandogli la sua analisi della religione, N. dice
che Schopenhauer ha commesso l'errore di cercare l'origine (Ursprung) della religione in un sentimento metafisico
che sarebbe presente in tutti gli uomini e che conterrebbe, in nuce, qualsiasi religione: il suo modello allo stesso
tempo vero ed essenziale. N. afferma: ecco un'analisi della storia della religione completamente falsa, infatti
ammettere che la religione si origini all'interno di un sentimento metafisico significa dire [...] che la religione
dovrebbe trovarsi già, almeno implicitamente, in questo sentimento metafisico. Ora, dice N., la storia non è
questo, non è in questo modo che la si fa, e non è questo che [544] è accaduto. Perché la religione non ha
un'origine (Ursprung), è stata inventata, c'è stata una Erfindung della religione. A un momento dato è successo
qualcosa che ha fatto apparire la religione. Essa è stata fabbricata, non esisteva prima. Tra la grande continuità
dello Ursprung descritto da Schopenhauer e la rottura che caratterizza la Erfindung di Nietzsche, c'è
un'opposizione fondamentale.
Parlando della poesia, sempre nella Gaia scienza, N. afferma che ci sono coloro che cercano l'origine (Ursprung),
della poesia, mentre, in verità, non c'è un Ursprung della poesia, c'è solo la sua invenzione (Gaia scienza, libro V,
§ 353). Un giorno, qualcuno ha avuto l'idea, assai curiosa, di utilizzare un certo numero di proprietà ritmiche o
musicali del linguaggio per parlare, per imporre le sue parole, per stabilire, attraverso le sue parole, una certa
relazione di potere sugli altri. Anche la poesia è stato inventata o fabbricata.
C'è ancora il celebre brano alla fine del primo discorso della Genealogia della morale, dove N. si riferisce a quella
specie di grande fabbrica, grande officina dove si produce l'ideale (Genealogia, primo trattato, § 14). L'ideale non
ha origine. Anch'esso è stato inventato, fabbricato, prodotto da una serie di meccanismi, di piccoli meccanismi.
L'invenzione, Erfindung, è per N. da un lato una rottura, dall'altro qualche cosa che possiede un piccolo inizio,
basso, meschino, inconfessabile. Questo è il punto cruciale della Erfindung. È stato attraverso oscure relazioni di
potere che la poesia è stata inventata. Allo stesso modo, è stato attraverso pure ed oscure relazioni di potere che la
religione è stata inventata. Meschinità (vilenie), dunque, di tutti questi cominciamenti, allorché vengono
contrapposti alla solennità dell'origine quale essa è concepita dai filosofi. Lo storico non deve temere le
meschinità, perché di meschinità in meschinità, di piccola cosa in piccola cosa, infine, si sono formate le grandi
cose. Alla solennità dell'origine occorre contrapporre, attraverso un buon metodo storico, la piccolezza meticolosa
e inconfessabile di queste fabbricazioni, di queste invenzioni.
La conoscenza è stata, dunque, inventata. Dire che essa è stata inventata, significa dire che essa non ha origine.
Significa dire, in modo più preciso, per quanto paradossale, che la conoscenza non è affato iscritta nella natura
umana. La conoscenza non costituisce [545] il più antico istinto umano o, inversamente, non c'è, nel
comportamento umano, negli appetiti umani, nell'istinto umano qualcosa come un germe della conoscenza. In
fatti, dice N., la conoscenza ha un rapporto con gli istinti, ma non può essere presente in essi, e nemmeno essere
un istinto come gli altri. La conoscenza è semplicemente il risultato del gioco, dello scontro, della giunzione, della
lotta e del compromesso tra gli istinti. È perché gli istinti si incontrano, si battono e arrivano, infine, alla fine delle
loro battaglie, a un compromesso, che qualcosa si produce. Questo qualcosa è la conoscenza.
Di conseguenza, per Nietzsche, la conoscenza non è dell stessa natura degli istinti, non è come un raffinarsi degli
istinti stessi. La conoscenza ha per fondamento, per base e punto di partenza gli istinti, ma gli istinti enlla loro
confrontazione, della quale essa non è che il risultato, in superficie. La conoscenza è come un ECLAT, come una
luce che si diffonde, ma che è prodotta da meccanismi o realtà che sono di natura totalmente diversa. la
conoscenza è l'effetto degli istinti; è come un colpo fortunato, o come il risultato di un lungo compromesso. È,
dice ancora N., come una "scintilla tra due spade", ma che non è fatta dello stesso ferro.
Effetto di superficie, non tratteggiato in anticipo nella natura umana, la conoscenza porta il suo gioco davanti agli
istinti, al di sopra di essi, in mezzo a loro; li comprime, traduce un certo stato di tensione o di calma tra gli istinti.
Ma da essi non è possibile dedurre la conoscenza, in modo analitico, come se si trattasse di una derivazione
naturale. Non è possibile, e necessariamente, dedurla dagli istinti stessi. La conoscenza, in fondo, non fa parte
della natura umana. Sono la lotta, il combattimento, il risultato del combattimento, e di conseguenza il rischio e
l'azzardo che danno luogo alla conoscenza. La conoscenza non è istintiva, è contro-istintiva; parimenti, non è
naturale, bensì contro-natura.
Questo è il primo senso che potrebbe dato all'idea che la conoscenza è un'invenzione e che non ha origine. Ma
l'altro senso che potrebbe essere dato a questa affermazione, sarebbe che la conoscenza, oltre a non essere legata
alla natura umana, a non derivarne, non ha nemmeno una parentela, attraverso un diritto originario, con il mondo
da conoscere. Non c'è, secondo Nietzsche, nessuna somiglianza, nessuna affinità predeterminata tra la conoscenza
[546] e le cose che bisognerebbe conoscere. In termini più rigorosamente kantiani, occorrerebbe dire che le
condizioni dell'esperienza e le condizioni dell'oggetto d'esperienza sono totalmente eterogenee.
Ecco la grande rottura. [...] Nietzsche pensa [...] che tra la conoscenza e il mondo da conoscere ci siano altrettante
differenze come ce ne sono tra la conoscenza e la natura umana. [...] La conoscenza non ha relazioni di affinità
con il mondo da conoscere, dice Nietzsche, molto di frequente. Citerò solo un testo della Gaia scienza (libro III, §
109): "Il carattere dell'insieme del mondo è da tutta l'eternità quello del caos, in ragione non dell'assenza di
necessità, ma dell'assenza di ordine, articolazione, forma, bellezza, saggezza. Il mondo non cerca affatto di imitare
l'uomo. Ignora qualsiasi legge. Guardiamoci dal dire che ci sono delle leggi nella natura. È contro un mondo senza
ordine, senza legami, senza forma, senza bellezza, senza saggezza, senza armonia, senza legge che la conoscenza
si trova a dover lottare. È ad esso che si rapporta. Non c'è nulla nella conoscenza che la abiliti, per un diritto
qualunque, a conoscere questo mondo. Non è naturale, per la natura, essere conosciuta. Così, tra l'istinto e la
conoscenza, non si trova una continuità, ma una relazione di lotta, di dominazione, di servitù, di compensazione;
allo stesso modo, non può esserci, tra la conoscenza e le cose che la conoscenza deve conoscere, nessuna
relazione di continuità naturale. Non può esserci che una relazione di violenza, di dominazione, di potere e di
forza, di violazione. La conoscenza non può che essere una violazione delle cose da conoscere, e non una
percezione, un riconoscimento, una identificazione di esse [...].
Mi sembra che ci sia, in questa analisi di N., una rottura duplice e molto importante [...]. La prima è la rottura tra
la conoscenza e le cose. Che cosa, effettivamente, nella filosofia occidentale, assicurava che le cose da conoscere
e la conoscenza stessa fossero in relazione di continuità? Che cosa assicurava alla conoscenza il potere di
conoscere davvero [547] le cose del mondo e di non essere indefinitamente errore, illusione, arbitrio? Che cosa, se
non Dio, poteva garantire tale potere nella nella filosofia occidentale? [...] Per dimostrare che la conoscenza era
[...] fondata, in verità, nelle cose del mondo, Cartesio ha dovuto affermare l'esistenza di Dio.
Se non esiste più una relazione tra la conoscenza e le cose da conoscere, se la relazione tra la conoscenza e le
cose conosciute è arbitraria, se è una relazione di potere e violenza, l'esistenza di Dio al centro del sistema della
conoscenza non è più indispensabile. Nello stesso brano della Gaia scienza in cui evoca l'assenza di ordine, di
legame, di forma, di bellezza nel mondo, N. chiede, precisamente: "Quando tutte le ombre di Dio cesseranno di
oscurarci? Quando avremo totalmente de-divinizzato la natura?" (ibid.).
La rottura della teoria della conoscenza con la teologia comincia stricto sensu con un'analisi come quella di N.
In secondo luogo, dire che, se è vero che tra la conoscenza e gli istinti [...] non c'è che rottura, relazioni di
dominazione e di servitù, relazioni di potere, allora non sparisce solo Dio, ma lo stesso soggetto nella sua unità e
sovranità.
Risalendo alla tradizione filosofica a partire da Cartesio [..] si vede che l'unità del soggetto umano era assicurata
dalla continuità che va dal desiderio alla conoscenza, dall'istinto al sapere, dal corpo alla verità. Se è vero che ci
sono da un lato i meccanismi dell'istinto, i giochi del desiderio, gli affrontamenti della meccanica del corpo e della
volontà, e, dall'altro lato, a un livello dalla natura completamente differente, la conoscenza, allora non abbiamo
più bisogno dell'unità del soggetto umano. Possiamo ammettere un soggetto, o possiamo ammettere che il
soggetto non esiste. [...]
Ora, quando N. dice che la conoscenza è il risultato degli istinti, ma che non è un istinto, né deriva direttamente
dagli istinti, che cosa vuol dire esattamente, e come concepisce questo [548] curioso meccanismo attraverso il
quale gli istinti, senza avere alcuna relazione di natura con la conoscenza, possono, attraverso il loro semplice
gioco, produrre, fabbricare, inventare una conoscenza che non ha nulla a che vedere con essi? Ecco la seconda
serie di problemi che vorrei affrontare.
Esiste un testo della Gaia scienza (§ 333) che possiamo considerare come una delle analisi più rigorose che N. ha
fornito di questa fabbricazione, invenzione della conoscenza. In quel lungo testo intitolato "Che cosa significa
conoscere?" N, riprende un testo di Spinoza, nel quale venivano contrapposti intelligere (comprendere), da un
lato, e ridere, lugere, detestari dall'altro. Spinoza diceva che, se vogliamo capire le cose, se vogliamo
comprenderle nella loro natura, nella loro essenza, e dunque nella loro verità, occorre che evitiamo di riderne, di
deplorarle o detestarle. Solo se queste passioni si placano possiamo comprendere. N. non solo dice che questo non
è vero, ma anche che è proprio il contrario a realizzarsi effettivamente. Intelligere, comprendere, non è nulla più
che un certo gioco o, meglio, il risultato di un certo gioco, una certa composizione o compensazione tra ridere,
lugere, detestari. N. dice che comprendiamo solo perché dietro tutto questo ci sono il gioco e la lotta di questi tre
istinti, di questi tre meccanismi, o di queste tre passioni che sono il deridere, il deplorare, il detestare/maledire
(Verlachen, Beklagen, Verwünschen).
Innanzitutto dobbiamo notare che queste tre passioni, o queste tre pulsioni [...] hanno in comune il fatto di essere
un modo non di avvicinarsi all'oggetto, o di identificarsi con esso, bensì di mantenerlo a distanza, di
differenziarsene o di porsi in rottura con esso, di proteggersi da esso attraverso il riso, di svalorizzarlo attraverso il
pianto, di allontarlo ed eventualmente distruggerlo attraverso l'odio. Di conseguenza, tutte queste pulsioni che
sono alla radice della conoscenza e la producono, hanno in comune la messa a distanza dell'oggetto, una volontà
di allontanarsene e di allontanarlo allo stesso tempo, e, infine, di distruggerlo. Dietro la conoscenza c'è una
volontà, senza dubbio oscura, non di portare l'oggetto verso di sé, di identificarsi con lui, ma, al contrario, una
volontà oscura di allontanarsene e distruggerlo. Malignità radicale della conoscenza.
[549] Si arriva così a una seconda idea importante: che queste pulsioni (ridere, piangere, detestare) siano tutte
dell'ordine delle malvage relazioni. Dietro la conoscenza, alla radice della conoscenza, N. non mette una sorta di
affezione, di pulsione o di passione che ci farebbe amare l'oggetto da conoscere, ma piuttosto delle pulsioni che ci
piazzino in posizione di odio, disprezzo o rimpianto delle cose che minacciano e sono presuntuose.
Se queste tre pulsioni (ridere, deplorare, odiare) arrivano a produrre la conoscenza, non è, secondo N., perché si
sono placate, come in Spinoza, o riconciliate, o perché sono giunte a un'unità. È, al contrario, perché hanno lottato
tra loro, perché si sono affrontate. è perché queste pulsioni si sono combattute, perché hanno tentato [...] di
nuocersi l'un l'altra, perché sono in stato di guerra, in una stabilizzazione momentanea di questo stato di guerra,
che arrivano a una specie di stato, di scissione (coupure), dove finalmente la conoscenza apparirà come la
"scintilla che scaturisce dallo scontro tra due spade".
Non c'è dunque, nella conoscenza, una adaequatio all'oggetto, una relazione di assimilazione, ma piuttosto una
relazione di distanza e di dominazione; non c'è, nella conoscenza, qualcosa come felicità e amore, ma odio e
ostilità; non c'è unificazione ma sistema precario di potere. [...] La filosofia occidentale [...] ha sempre
caratterizzato la conoscenza attraverso il logocentrismo, la somiglianza, l'adaequatio, la beatitudine, l'unità. Tutti
questi grandi temi sono ora rimessi in questione. [...] Nietzsche mette al centro, alla radice della conoscenza,
qualcosa come l'odio, la lotta, la relazione di potere.
[...] Se vogliamo sapere che cos'è la conoscenza non dobbiamo avvicinarci alla forma di vita, di esistenza, di
ascetismo propria del filosofo. Se vogliamo davvero conoscere la conoscenza, sapere che cosa essa sia, [550]
coglierla nella sua radice, al momento della sua fabbricazione, dobbiamo avvicinarci non ai filosofi ma ai
politici, dobbiamo comprendere quali siano le relazioni di lotta e di potere. È solo in queste relazioni di lotta e
potere, attraverso il modo il cui le cose tra loro, gli uomini tra loro si odiano, lottano, egli uni cercano di dominare
gli altri, di esercitare su di loro relazioni di potere, che è possibile comprendere in che cosa consista la
conoscenza.
Possiamo allora capire come un'analisi di questo tipo ci introduca, in modo efficace, a una storia politica della
conoscenza, a fatti di conoscenza e al soggetto della conoscenza.
[...] Ho preso questi testi di Nietzsche in funzione dei miei interessi, non per dimostrare che questa fosse la
concezione niciana della conoscenza [...] ma per mostrare che esiste in N. un certo numero di elementi che
mettono a nostra disposizione un modello per un'analisi storica di ciò che chiamerei la politica della verità. È un
modello che si trova effettivamente in Nietzsche, e penso anche che costituisca nella sua opera uno dei modelli
più importanti per la comprensione di qualche elemento apparentemente contraddittorio della sua concezione della
conoscenza. [...] [551] [Contro Kant] Nietzsche vuol dire che non c'è una natura della conoscenza, una essenza
della conoscenza, delle condizioni universali della conoscenza, ma che la conoscenza è, ogni volta, il risultato
storico e puntuale delle condizioni che non sono di ordine conoscitivo. La conoscenza è in effetti un evento che
può essere piazzato sotto il segno dell'attività. La conoscenza non è una facoltà o una struttura universale. Anche
quando utilizza un certo numero di elementi che possono sembrare universali, la conoscenza sarà solamente
dell'ordine del risultato, dell'evento, dell'effetto.
Possiamo così comprendere una serie di testi nei quali N. afferma che la conoscenza ha un carattere prospettico.
[...] N. non vuol dire che sarebbe un mélange di kantismo e di empirismo, che la conoscenza sia limitata,
nell'uomo, da un certo numero di condizioni, di limiti derivati dalla natura umana, dal corpo umano o dalla
struttura stessa della conoscenza. [...] Sostiene invece che non c'è conoscenza se non sotto forma di un certo
numero di atti che sono diversi tra loro e multipli nella loro essenza; atti attraverso i quali l'essere umano si
impadronisce violentemente di un certo numero di cose, reagisce a un certo numero di situazioni, impone loro dei
rapporti di forza. In altri termini, la conoscenza è sempre una certa relazione strategica nella quale l'uomo si trova
situato. È questa relazione strategica che definisce l'effetto della conoscenza ed è per questo che sarebbe
totalmente contraddittorio immaginare una conoscenza che non sia per sua stessa natura parziale, obliqua,
prospettica. Il carattere prospettico della conoscenza non deriva dalla natura umana, ma sempre dal carattere
polemico e strategico della conoscenza. Si può parlare del carattere prospettico della conoscenza perché c'è una
battaglia, e la conoscenza è l'effetto di questa battaglia.
È per questo che troviamo in Nietzsche l'idea, che [552] ritorna di continuo, che la conoscenza sia allo stesso
tempo ciò che c'è di più generalizzante e di più particolare. La conoscenza schematizza, ignora le differenze,
assimila le cose tra loro, e questo senza alcun fondamento nella verità. Per questo fatto, la conoscenza è sempre un
misconoscere. D'altro lato, è sempre qualcosa che prende di mira, in modo maligno, insidioso e aggressivo,
individui, cose, situazioni. Non c'è conoscenza se non nella misura in cui, tra l'uomo e ciò che conosce, si
stabilisce, si trama qualcosa come una lotta singolare, un tête-à-tête, un duello. C'è sempre nella conoscenza
qualcosa che è dell'ordine del duello e che la rende sempre singolare. Questo è il carattere contraddittorio della
conoscenza, quale è definito nei testi di Nietzsche, che apparentemente si contraddicono: generalizzante e sempre
singolare.
Ecco come [...] è possibile costruire non una teoria generale della conoscenza ma un modello che permetta di
approcciare l'oggetto di queste conferenze: il problema della formazione di un certo numero di domini di sapere a
partire dai rapporti di forza e delle relazioni politiche nella società.
2. FERNANDO PERISSINOTTO, NIETZSCHE, LO ZARATHUSTRA, L'ETERNO RITORNO
L'opera di Nietzsche, fino alla stesura dello Zarathustra.
Agli inizi del 1883 Nietzsche durante il suo soggiorno a Rapallo inizia la prima stesura di Così parlò Zarathustra
che terminerà, nel corso dei suoi pellegrinaggi tra Sils Maria nell'Alta Engadina e Nizza, nel 1885. Tutta la critica
nietzschiana concorda sulla centralità di questo testo nell'opera del filosofo tedesco. 1)
L'opera di Nietzsche, fino alla stesura dello Zarathustra, aveva conosciuto, pur nella complessa profondità delle
tematiche trattate, una sua articolata coerenza che può essere forse riassunta, con grande approssimazione, nei
temi centrali della scoperta della decadence come cuore pulsante della storia della cultura occidentale; dello
smascheramento delle "cattive maschere" della morale, della religione della metafisica; della dialettica del
nichilismo. 2)
Come Nietzsche ben spiega già nel 1872, in un testo che sarà pubblicato dopo la sua morte, Verità e menzogna in
senso extramorale, è la stessa capacità proteiforme e metaforica che sta alla base della produzione artistica e
mitica, che, in determinate condizioni di dominio sociale, porta la società a produrre quelle maschere e quelle
metafore che si fisseranno nelle verità immutabili della metafisica, solo che in questo caso si perde coscienza
dell'origine arbitraria di queste finzioni che si cristallizzano nel Mondo vero contrapposto ad un mondo apparente.
Il mondo vero diviene così, non solo fondamento, ma anche giustificazione e criterio del mondo apparente. Il
senso, la verità sono poste fuori dalla dimensione della nostra esistenza che, proprio in quanto necessita di una
giustificazione e di un fondamento fuori di sé, è avvertita come incompleta, parziale, colpevole. Ha qui origine la
decadenza e il nichilismo che contraddistinguono la nostra cultura e nei confronti della quale Nietzsche compie un
opera sistematica di smascheramento. 3)
Da dove proviene infatti la nostra volontà di smascheramento se non proprio da quell'imperativo incondizionato
alla ricerca della verità che è iscritto nella stesso atto di produzione di un mondo vero, contrapposto al mondo
apparente? E' così la stessa volontà di verità che sta alla base della svalutazione del mondo del divenire e
dell'apparenza che, in un processo autoconsuntivo, giunge a dissolvere se stessa, a smascherare le sue radici non
certo divine o incondizionate, ma umane, troppo umane.
"Ebbene si sarà compreso dove voglio arrivare vale a dire che è pur sempre una fede metafisica quella su cui
riposa la nostra fede nella scienza; che anche noi, uomini della conoscenza d'oggi, noi atei e antimetafisici,
continuiamo a prendere anche il nostro fuoco dall'incendio che una fede millenaria ha acceso, quella fede cristiana
che era anche la fede di Platone, per cui Dio è verità e la verità è divina...Ma come è possibile, se proprio questo
diventa sempre più incredibile, se niente più si rivela divino salvo l'errore, la cecità, la menzogna, se Dio stesso si
rivela come la nostra più lunga menzogna" 4)
La figura finale che corona i testi nietzschiani di questo periodo pare così essere quella dello spirito libero, di colui
che raggiunta la coscienza della radicale insensatezza del reale, del suo darsi come flusso libero e disancorato di
apparenze, non rimane però paralizzato dall'angoscia, orfano di Dio e di una forma di giustificazione superiore,
ma matura una "buona volontà delle apparenze" trovando una realizzazione estetica per la propria esistenza nel
gioco consapevole delle apparenze. 5)
La riproposizione di nuovo mito: Zarathustra e il suo annuncio dell'Eterno Ritorno.
Se si è così parlato di una fase illuministica per questi scritti di Nietzsche, non esiste per il filosofo tedesco
contraddizione fra lo smascheramento e la desacralizzazione di questi testi e la riproposizione di nuovo mito:
Zarathustra e il suo annuncio dell'Eterno Ritorno. 6)
La tesi dell'Eterno Ritorno nella sua essenzialità costituisce una frattura profonda con la concezione progressiva
del tempo maturata nell'ambito del pensiero ebraico-cristiano e che si trova alla base, come fa notare Karl Löwith,
delle filosofie secolarizzate della storia da Condorcet a Comte da Hegel a Marx. 7)
L'inattualità straniante di tale concezione comporterebbe per Nietzsche il vantaggio di poter pensare alla vita a
prescindere da un senso trascendente o ad essa immanente: all'interno di una concezione circolare del tempo non
possiamo tanto sostenere che l'istante che viviamo è stato causato dalla successione degli istanti precedenti,
quanto che l'istante presente sia alla radice degli sviluppi futuri. 8)
Quindi, la dottrina dell'Eterno Ritorno, risucchiando la storia nella ciclicità della natura, costituisce la
congiunzione astrale di tempo ed eternità, di divenire ed essere. Eternità e temporalità non sono, come pretende il
pensiero cristiano da Agostino in poi, due dimensioni antitetiche e incomunicabili, l'una propria della perfezione
divina l'altra della caducità mondana, ma coincidono nell'infinito ritorno dell'istante. L'immagine decisiva a cui
Zarathustra-Nietzsche associa l'Eterno Ritorno è quella, densa di riferimenti panici, del grande meriggio: l'istante
senza tempo in cui il sole si trova immobile nel punto più alto del cielo, l'istante in cui tutto tace addormentato
nella luce abbagliante, l'istante in cui con l'apparire di Pan, tempo ed eternità coincidono. Proprio il riferimento
alla natura panica del meriggio e al suo legame con l'Eterno Ritorno pongono però una serie di problemi
interpretativi che svelano la natura ambigua del pensiero nietzschiano. Come nota giustamente Löwith
riprendendo una felice intuizione di Karl Schelekta, proprio quando, nell'evocazione del meriggio panico,
Nietzsche sembra riaffermare una concezione arcaica e pagana del tempo nell'abbandono dell'uomo all'apertura
dispiegata della physis, si ripresenta invece l'hybris della decisione. 9)
Se Zarathustra svela il pensiero dell'Eterno Ritorno, è l'Ubermensch, invocato dal profeta iranico, colui che vuole
l'Eterno Ritorno o, se vogliamo seguire il primo, inaudito annuncio della Gaia Scienza, colui che è capace di non
essere schiacciato, stritolato da questo pensiero.
"Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti
dicesse: <>. Non ti rovesceresti a terra, drighignando i denti e maledicendo il demone che così ti ha parlato?
Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: <>. Se quel
pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la
domanda per qualsiasi cosa: <
Riflettendo proprio su questo aforisma, come chiave interpretativa dello Zarathustra, già G. Simmel nel 1907, a
ridosso dell'esperienza nietzschiana, aveva interpretato la figura dell'Eterno Ritorno nello spazio della volontà e
della decisione. 10)
Se nell'annuncio di Zarathustra l'Eterno Ritorno si presenta come nuovo inizio, il concetto stesso di ritorno non
stride forse con quello di inizio? O ancora, come evidenziano in modo diverso sia Löwith che Heidegger, il
concetto stesso di Eterno Ritorno non si presenta come un enigma racchiuso in un ossimoro? Se l'eternità fa
riferimento ad una temporalità senza inizio ne fine, il ritorno richiama ad una temporalità finita in cui sono
reperibili un prima e un dopo che permettono di definire l'idea stessa di ritorno. Forse, non tanto per uscire dalla
contraddizione, quanto per coglierne la radicalità, bisogna allontanarsi da quel paradigma che abbiamo fino qui
mantenuto come decisivo nell'interpretazione dell'Eterno Ritorno: il modello della circolarità. Seguendo
l'intuizione di Deleuze, folgorante nel suo capitale testo su Nietzsche e approfondita in seguito in Differenza e
Ripetizione, ciò che torna sempre identico nel divenire non è forse la differenza? La necessità che si afferma
sempre uguale non sarebbe così altro che il differire del divenire, la necessità che si manifesta, il ritorno
incessante del caso che genera di continuo nuove e inaspettate combinazioni. 11)
Del resto come nota con acume G.Vattimo nella sua imprescindibile interpretazione, ma come del resto già la
scuola francese da Deleuze a Foucault a Pautrat aveva dimostrato, la figura del circolo, se presenta una prima
approssimazione dell'Eterno Ritorno, deve essere abbandonata nel momento in cui si voglia penetrare realmente
nelle profondità del pensiero abissale di Zarathustra così come ci viene presentata nel decisivo passo nietzschiano:
la visione e l'enigma
"Tutte le cose dritte mentono, borbotto sprezzante il nano. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo". "Tu
spirito di gravità! - dissi io incollerito - , non prendere le cose troppo alla leggera!...Guarda, - continuai quest'attimo! Da questa porta carraia che si chiama attimo, comincia all'indietro una via lunga, eterna: dietro di noi
è un'eternità. Ognuna delle cose che possono camminare, non dovrà forse avere già percorso una volta questa via?
Non dovrà ognuna delle cose che possono accadere, già essere accaduta, fatta trascorsa una volta? E se tutto è già
esistito: che pensi, o nano, di quest'attimo? Non deve essere questa porta carraia - esserci già stata? E tutte le cose
non sono forse annodate saldamente l'una all'altra, in modo tale che questo attimo trae dietro di sé tutte le cose
avvenire? Dunque anche se stesso?"
E' chiaro che in questo passo si scontrano due formulazioni dell'Eterno Ritorno, quella del nano e quella di
Zarathustra. La formulazione del nano è quella canonica del ritorno: tutto ritorna per cui non esiste un senso, una
direzione del tempo. 12)
Ma la dimensione dell'Eterno Ritorno così come è presentata da Zarathustra va oltre l'ambito teorico, investe la
dimensione pratica come mostra il terzo momento: la visione del pastore strangolato dalla serpe.
"E, davvero, ciò che vidi, non l'avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto
in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca...La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tiravainvano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggi dalla bocca: "Mordi! Mordi!
Staccagli il capo! Mordi!", così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto
quanto in me - buono o cattivo - gridava da dentro in me fuso in un sol grido.-...Voi che amate gli enigmi!
Sciogliete dunque questo enigma che io allora contemplai, interpretatemi la visione del più solitario degli
uomini!... Chi è il pastore, cui il serpente strisciò in tal modo entro le fauci? Chi è l'uomo, cui le più grevi e le più
nere tra le cose strisceranno nelle fauci? -Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido; e morse
bene! lontano da sé sputò la testa del serpente -: e balzò in piedi. - Non più pastore, non più uomo, - un
trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise!"
Il morso del pastore è la decisione, mentre il serpente (figura della circolarità) è la dottrina stessa dell'Eterno
Ritorno nella sua duplice accezione della falsa circolarità, che viene rinnegata, e della reale affermazione
dell'identità fra esistenza e senso nell' "attimo immenso" dell'Eterno Ritorno. 13)
Come già il soggetto che decide per l'Eterno Ritorno, l'attimo nella dimensione dell'Eterno Ritorno, non è una
sospensione del divenire, ma è esso stesso divenire: è un fascio di innumerevoli relazioni temporali, ma in quanto
tali relazioni sono incessantemente mutevoli, esso stesso deve mutare senza posa. 3b) Come il soggetto
tradizionale della metafisica e della morale, il soggetto responsabile, osservatore neutrale e distaccato è stritolato
dall'interpretazione decisiva dell'Eterno Ritorno, così anche la visione tradizionale del tempo, quella per cui ogni
istante trova il suo senso fuori di sé, nel rinvio alla concatenazione passata degli eventi e/o nell'aspettativa della
risoluzione e della redenzione finale, è radicalmente negata. Tutto il senso, tutto il valore non è al di fuori
dell'attimo, ma immanente ad esso. 14)
La figura del pastore è così quella dell'Oltreuomo, di colui che sa dispiegare il versante creativo della volontà di
potenza, colui per il quale la volontà di potenza non è più negazione, ma volontà di affermazione, sì alla vita: il
fanciullo della terza metamorfosi annunciata da Zarathustra.
Conclusione
Alla luce di questa interpretazione è forse possibile evocare una figura dell'oltreuomo ben distante sia dalla bestia
bionda trionfante, dal dominatore violento, che dal soggetto dispiegato della metafisica della volontà di potenza.
Se il passato non incombe più sul presente con il peso dell'autorità del già dato, da cui deriva la nostra condizione
di gettatezza (gli storpi a cui parla Zarathustra nel brano Della Redenzione), dell'immutabile che grava sul
presente, ma innerva l'evento come del resto il futuro permea l'attimo, l'attività dell'oltreuomo, di colui che
decidendosi per la dimensione diveniente e differente del tempo ha spezzato i legami con il soggetto della
metafisica, sarà quella del gioco debordante delle interpretazioni. Nell'interpretazione si risponde così all'appello
che giunge dall'evento, si risponde e corrisponde ad un segnale che non è però mai un dato originario, ma rinvia a
stratificazioni mobili di sensi, a conflitti precedenti di interpretazioni e nello stesso tempo si ricostruisce, nel
compito genealogico, proprio quella sedimentazione di maschere e finzioni che costituiscono il dato in un
conflitto sempre aperto e diveniente in cui lo stesso soggetto interpretante più che essere l'artefice del gioco è
costantemente giocato. Non esistono fatti, ma interpretazioni, sostiene Nietzsche alla fine della sua parabola
speculativa, e questa affermazione, lungi dallabbandonarsi alla deriva soggettivistica, coinvolge lo stesso soggetto
interpretante nel flusso delle interpretazioni: l'interpretazione infatti più che svelare un senso riposto lo produce,
ma questo vuol dire che lo spazio stesso in cui risiede il soggetto interpretante è lo spazio mobile di un divenire
interpretante che lo precede e a cui non può che corrispondere. Forse, al di là dello stesso Nietzsche, si apre la
prospettiva dell'oltreuomo come soggetto depotenziato che gioca ed è giocato nel conflitto delle interpretazioni,
mentre la volontà di potenza, perdendono ogni connotazione aggressiva e violenta, si riscopre come volontà di
interpretazione, policentrica e diveniente.
NOTE, OSSERVAZIONI
1) Sia per quanto concerne la prima presentazione delle tematiche che caratterizzeranno il suo pensiero maturo, la
riflessione su Übermensch, sull'Eterno Ritorno e sulla Volontà di Potenza, sia per la natura sperimentale della
scrittura dello Zarathustra che nella sua forma narrativa, metaforica, poetica, rompe radicalmente con la tradizione
sistematico-argomentativa della filosofia. Il testo di Nietzsche sembra infatti prescindere da qualsiasi struttura
dimostrativa riproponendo provocatoriamente la perentorietà allusiva della dimensione mitica, giocando sulle
corde di uno stile allo stesso tempo evocativo, profetico, ma anche parodistico ironico e autoironico: stile e forma
che non rivestono tanto un contenuto, ma che diventano corpo portante del messaggio nietzschiano impegnato
nella ricerca di una sovraragione, policentrica, mobile, asistematica, capace, più che comprendere, di modellarsi
sui suoi oggetti: il divenire, il caso e la sua necessità. Per questo motivo sicuramente lo Zarathustra è stato ed è il
testo più letto e amato di Nietzsche, ma certamente anche quello più frainteso, più equivocato, scontando così un
destino di ambiguità che è del resto coessenziale al suo stesso determinarsi e prodursi.
2) Apertasi con la provocatoria rinterpretazione della classicità nel suo testo sulla tragedia, la riflessione di
Nietzsche scopre alla radice della nostra stessa civiltà un processo di progressivo occultamento e rifiuto della
molteplicità debordante e diveniente della vita. L'incapacità di guardare fino in fondo l'abisso di insensatezza su
cui poggia la nostra esistenza, l'angoscia nei confronti della contraddizione quale cifra del nostro essere, profonda
verità che emerge nel pensiero tragico, porta l'uomo a negare e sfuggire l'instabilità costitutiva del suo essere, a
ipostatizzare, contro lo spalancarsi ingiustificato contraddittorio, ma innocente dell'apparire, un mondo vero, di
essenze eterne, di verità, immutabili, di leggi necessarie universali: il mondo della religione, della metafisica, della
morale, della verità.
3) La novità della riflessione nietzschiana nei confronti della tradizione illuministica, a cui vengono riallacciate le
opere di questo periodo, sta nella lucidissima consapevolezza che non si tratta tanto di operare un semplice
ribaltamento dialettico, un ritorno, sul modello di Feurebach, dell'essenza dell'uomo, dall'alienazione: in primo
luogo perché non esistono essenze eterne e immutabili, in secondo luogo perché lo smascheramento è iscritto
nella stessa storia del nichilismo e della decadenza.
4) Il valore e il significato della nota sentenza nietzschiana "Dio è morto", sta proprio in questa rivelazione. Non si
tratta di una semplice professione di ateismo, ma dalla constatazione che la morte di Dio ha un carattere
eventuale: è l'evento decisivo della storia del nichilismo, un evento di cui non si ha ancora piena coscienza perché
il suo darsi è epocale, storico. Dio è per Nietzsche il luogo stesso dei valori oltre che il loro fondamento ultimo e il
suo venir meno non può essere il frutto di una semplice confutazione teorica, ma di un processo che coinvolge
tutte le condizioni di vita dell'uomo. Annunciare che Dio è morto e che siamo "noi" ad averlo ucciso, vuol dire
siamo entrati in una dimensione in cui abbiamo sempre meno bisogno delle forme di rassicurazione e
giustificazione che avevano imposto la finzione del mondo vero, anche se l'uomo non sembra ancora pronto ad
accogliere questo annuncio: "Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni
caverne nelle quali si additerà la sua ombra. E noi - noi dobbiamo vincere anche la sua ombra" (F.Nietzsche, op.
cit, pag. 114)
5) "La nostra ultima gratitudine verso l'arte. Se non avessimo consentito alle arti ed escogitato questa specie di
cultura del non vero, la cognizione dell'universale non verità e menzogna che ci è fornita dalla scienza, - il
riconoscimento dell'illusione e dell'errore come condizioni dell'esistenza conoscitiva e sensibile, - non sarebbe
affatto sopportabile. Le conseguenze dell'onestà sarebbero la nausea e il suicidio. Ora però la nostra onestà ha una
controforza che ci aiuta ad eludere tali conseguenze: l'arte intesa come buona volontà dell'apparenza."
(F.Nietzsche, op. cit, pag. 112)
6) Nietzsche stesso racconta come germinò in lui l'idea di Eterno Ritorno nell'agosto del 1881 sulle rive del lago
di Silvaplana nei boschi dell'Alta Engadina "a seimila piedi al di là dell'uomo e del tempo". Come spiega Charles
Andler nella sua monumentale monografia su Nietzsche le fonti dell'idea sono molteplici: dall'antica filosofia
presocratica, al pensiero stoico, alle radici orientali della dottrina: la stessa Persia di Zarathustra/Zoroastro e le
filosofie indiane, fino alle rinterpretazioni contemporanee come quella presente in un testo del fisico tedesco F.G.
Vogt che, proprio pochi anni prima dell'illuminazione nietzschiana, riformulava l'ipotesi sulle basi dei presupposti
matematici della scienza moderna.
7) Se queste leggono la storia secondo lo schema di un processo lineare con un inizio (la creazione), un senso, nel
duplice significato di una direzione che stabilisce la scansione fra un prima e un dopo nel flusso del tempo e di
una verità o di un valore che si realizza nella e attraverso la storia, ed un fine iscritto nell'orizzonte della
redenzione, l'idea dell'Eterno Ritorno, la dottrina che tutti gli eventi del mondo sono destinati a tornare infinite
volte e nell'ordine stesso della loro manifestazione, ripresenta provocatoriamente, sempre secondo le parole di
Löwith, una concezione pagana del tempo in aperta controtendenza con l'affermarsi della modernità nella
secolarizzazione del messaggio cristiano.
8) Le dimensioni del tempo perdono quindi la loro stabilità: il passato si confonde con il futuro, l'avvenire ci
proviene dalle profondità del passato, mentre il presente ripete e ripeterà sempre ciò che sarà ed è stato. Nella confusione dei tempi ciò che viene meno è così, assieme all'idea di un'origine in cui si conserva la verità essenziale
del divenire, anche quella di fine. Se non esiste un senso trascendente verso cui tende il cammino degli uomini,
neppure è iscritto nella storia un telos che ne indirizzi il divenire. Questo vuol perciò anche dire che l'instancabile
e immotivato ritorno di ogni evento, il cieco divenire dell'essere, non attende nessun compimento: non esiste
nessuna meta finale che riscatti e dia un senso al tornare incessante di ogni evento. Il divenire riconquista la sua
innocenza, privo di qualsiasi giustificazione o redenzione.
9) Non ci si deve infatti lasciar ingannare dall'enfasi profetica delle parole di Zarathustra: ciò che qui viene
annunciato non è la struttura metafisica dell'essere, non quindi il riproporsi di una verità assoluta, ma un
interpretazione decisiva, che si sa, si conosce, si vuole come interpretazione, un interpretazione per cui bisogna
decidersi, un interpretazione che comporta un nuovo inizio: "La caratterizzazione nietzschiana del meriggio è
quindi perciò sempre ambigua: l'atmosfera panica è costantemente attraversata e turbata dall'idea non pagana e
innaturale secondo cui l'ora del meriggio è un'ora della <>...il tempo della festa del <> sarà un evento
escatologico. Mentre nell'ora di Pan si rivela ciò che per natura sempre si ripete, con il grande meriggio
dell'anticristo-Zarathustra ha inizio qualcosa di totalmente nuovo e definitivo" (K. Löwith, Nietzsche e l'Eterno
Ritorno, Roma-Bari, 1985, II ed. pag. 105)
10) L'Eterno Ritorno nella lettura di Simmel assumerebbe la funzione di un idea regolativa sul modello kantiano:
l'agire dell'uomo dovrebbe conformarsi, in una adeguazione all'infinito, all'idea dell'Eterno Ritorno. L'uomo per
realizzarsi pienamente dovrebbe amare e affermare la propria vita, ogni istante della propria vita, come se questo
dovesse tornare eternamente. L'analisi di Simmel, in parte ripresa anche da Löwith, se ha il merito di eviden-ziare
la natura non metafisica, interpretativa, della dottrina dell'Eterno Ritorno appare però, per certi versi, troppo
tranquillizzante e rasserenante, smorza e occulta le contraddizioni incapsulate nel pensiero nietzschiano.
11) Se questa interpretazione è coerente allora, come evidenzia G.G.Pasqualotto, potremmo utilizzare come
criterio interpretativo dell'Eterno Ritorno un altro aforisma della Gaia Scienza: "...non esiste più nessuna ragione
in ciò che accade, nessun amore in ciò che accadrà - più non si dischiude al suo cuore un asilo di pace, in cui vi sia
soltanto da trovare e non più da cercare, ti stai difendendo da qualsiasi ultima pace, tu vuoi l'Eterno Ritorno di
guerra e di pace...". (F.Nietzsche, op. cit., pag.158) Contro ogni volontà di pacificazione definitiva e stabilizzante,
sia anche questa la chiarezza accecante del meriggio pagano (ti stai difendendo da qualsiasi ultima pace), ciò che
torna e si riproduce sempre di nuovo è il contrasto irrisolto di guerra e pace od ancora, in senso più profondo, il
differire precario e diveniente conflittuale (tu vuoi l'Eterno Ritorno di guerra e pace).
12) E' lo spirito di gravità che qui ha parlato, il nichilismo passivo che vista la rovina di tutti i valori sui cui ha
poggiato la sua esistenza, si sente in preda all'angoscia e alla disperazione per la perdita del senso. Ma in questo
modo il nano, il nichilista passivo, non si rende conto d'essersi preservato dal processo dell'Eterno Ritorno. E'
infatti per il soggetto che si pone come punto centrale "presente" e, nello stesso tempo, spettatore esterno alla
vicenda del divenire insensato che questo spettacolo può apparire disperante. Solo se si vive ancora nella
fascinazione del senso e della verità, la rivelazione della causalità innocente del divenire può suscitare orrore. Per
Zarathustra, per il nichilismo che si fa attivo, non esiste più un punto di vista privilegiato, un soggetto distaccato e
spettatore, da cui constatare angosciati la perdita di senso del divenire perché l'attimo stesso della visione è tratto
nell'abisso della circolarità: non si danno così centri spiazzati da cui giudicare l'insensatezza. Tutto è gioco di
maschere e finzioni e la stessa verità dell'Eterno Ritorno è soggetta al ritorno incessante dell'interpretazione. Colui
che si ricomprende nel vortice delle finzioni e delle interpretazioni è così lo spirito libero che vive la buona
volontà dell'apparenza.
13) Attimo è ciò che sta scritto sopra la porta carraia in cui converge l'eternità del passato e quella del futuro, ma
nell'attimo sono, secondo le parole di Nietzsche, saldamente annodate tutte le cose, "in modo tale che questo
attimo trae dietro di sé tutte le cose a venire? dunque anche se stesso." Nell'attimo perciò precipitano e scorrono
tutti i tempi intimamente intrecciati, vivere l'Eterno Ritorno è così esperire l'attimo come simultaneità di tutti i
tempi, ma nello stesso tempo percepirlo non come istante immobile e atemporale, ma come spazio mobile di
confluenza della temporalità. Per questo l'attimo " è illimitato, connesso ad un numero illimitato di tempi, tessuti
di storie antenate ed eredi: esso, infatti non è qualcosa di finito nel tempo, ma è tempo e in quanto tale, partecipa
della sua infinitezza"
14) Al di là della dimensione del nichilismo passivo, che è solamente consapevole dell'assenza di senso e che
soffre di questa o si rifugia nella giustificazione estetica dell'esperienza come lo spirito libero, il decidersi per la
dimensione dell'Eterno Ritorno vuol dire riscoprire l'unità inaudita di senso e valore: la parola finale non è così
l'assenza di senso, la fine dei valori, ma la trasmutazione di tutti valori, l'attività creatrice dell'oltreuomo che pone
sensi e valori nuovi. Questo non vuol dire però , come abbiamo visto, che la dimensione temporale acquisisca la
stabilità e l'assolutezza della verità trascendente, quanto che la verità e il senso assumano il valore precario e
diveniente dell'esistenza. Il vero nemico dell'Eterno Ritorno, della coincidenza fra valore e senso, è così il
soggetto della metafisica e della morale tradizionale, che non riesce a pensare la coincidenza tra evento e senso se
non con terrore e disgusto perché ancorato ad una concezione stabile, definita, necessaria della verità. Dire infatti
che il significato e il valore non trascendono l'evento dell'esistenza, non deve essere pensato per Nietzsche,
hegelianamente, come l'inverarsi del finito nell'infinito, quanto che il senso, non ponendosi più fuori del fluire del
divenire, non riposando più nella dimensione dell'essere, assume la precarietà, la mobilità, l'instabilità del
divenire.