LA VITA, AMICO, È L`ArTe DeLL`INCONTrO

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LA VITA, AMICO, È L`ArTe DeLL`INCONTrO
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LA VITA, AMICO, È L’ARTE DELL’INCONTRO
sergio endrigo (1933-2005)
“Mio padre non capiva nulla di affari, di marketing, né di contratti. Non aveva la mentalità e non gli importava proprio. Era un artista
vecchio stampo, che non contava i soldi, non
controllava nulla e si fidava di tutti. Per questo lo hanno sempre fregato, in vita, e anche
adesso che non c’è più. Non voglio fare di lui
una vittima, ma se ne sono approfittati in
troppi. E questo dispiacere, il dolore per tanta
gente che gli aveva voltato le spalle, se lo è portato dietro fino ai suoi ultimi giorni. Non riusciva
proprio a capire un mondo usa e getta”.
Claudia Endrigo
C’è una folgorante intuizione di Enzo Jannacci –
quell’Ufficio Facce che consentiva al Dottore di catalogare, un po’ lombrosianamente, ma con il sorriso,
il suo prossimo – che da sempre mi fa tornare alla
mente la figura di Sergio Endrigo. Il quale con quel
suo volto antico e nobile, di eleganza austera e senza
tempo, raccontava moltissimo al pubblico, fin dal
primo acchito: e nascondeva, anche, celava, alludeva,
accennava, quasi che la condizione di cantautore in
lui dialogasse con il corpo e le linee del viso. D’altronde, con quell’espressione un po’ così, quel carico
di garbo e onestà intellettuale sospesi in una sorta di
twilight zone, Endrigo si poteva permettere di cantare
e dire praticamente di tutto, senza mai risultare sconveniente, eccessivo, fuori luogo. Chi altri, ad esempio, avrebbe potuto pronunciare un verso definitivo
(“La solitudine che tu mi hai regalato / io la coltivo
come un fiore”, 1968), capace poi di vincere il festival
di Sanremo, il primo del dopo-Tenco, Canzone per te,
con altrettanta forza e credibilità? Era, quello sotteso
all’universo di Endrigo, una sorta di caos calmo, una
poetica suggestiva e penetrante come un fiume carsico di parole e suggestioni, pillole di un artista che
agli occhi del pubblico doveva sempre essere sembrato adulto e saggio, quasi che i colori e la devianza,
le vibrazioni e gli impulsi tipici della gioventù dell’epoca, a Sergio non l’avessero mai neppure sfiorato.
La sua storia, professionalmente capace di abbracciare circa mezzo secolo, dalle esperienze del
night club, a sussurrare My funny Valentine, September song, I’m in the mood for love, a sognare Johnny
Mathis e Nat King Cole, ai tentativi di recuperare terreno, di restare sulla scena, stanco e sfiduciato, fino
all’ultimo, è sottolineata da grandi successi: tra canzoni mandate a memoria da una generazione intera e
capaci di imporsi anche all’estero (era di casa in Brasile e Sudamerica, e i dischi uscivano in molti paesi,
con tournée trionfali in Grecia, Spagna, Giappone,
USA, Canada, Turchia, Israele, Unione Sovietica e
tutto l’est europeo…). Ma, in linea con quel carattere
schivo, da persona soprattutto perbene, attraversato
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da un’ironia sottile e delicata, che ben si adattava al
modo di cantare in punta di voce, senza slabbrature,
né inflessioni dialettali, di Endrigo piace immaginare
una modalità espressiva forse meno nota: che pare
invece ideale per smascherarne qualità laterali, in
grado di spiegare meglio un’identità altrettanto autentica, sfuggita probabilmente alle masse della tv
in bianco e nero dei fatidici anni Sessanta, quando
Sergio era un protagonista assoluto, un capofila indiscusso della musica italiana. Un lato semi-nascosto che qui si evidenzierà, e che rivela aspetti a tratti
anche sorprendenti, è quello che emerge da un suo
romanzo uscito originariamente per un piccolo editore di Lugano nel 1995, poi ristampato nel 2004 da
Stampa Alternativa: Quanto mi dai se mi sparo? che
dice già quasi tutto fin dal titolo. Quel che si legge
nelle 160 pagine, virate al fantasy, ma che più autobiografiche non si potrebbe, è la radiografia impietosa di un periodo, dei rapporti personali e artistici
cresciuti e morti nel tempo, la traiettoria di una
vita, il morso feroce di un ambiente che Endrigo conosceva bene, per averlo frequentato nei momenti
d’oro, tra fiori e applausi, e in quelli cupi della dimenticanza, dello smarrimento. Una discesa agli inferi
sublimata dall’intelligenza e dall’educazione, che ha
tutte le caratteristiche del tradimento volgare, patito
senza colpe specifiche e destinato a lasciare una ferita profonda, un segno indelebile. “L’emarginazione
è durata più di vent’anni”, dice la figlia Claudia, “una
specie di piano inclinato: forse è dipeso dal conflitto
con qualcuno, ma lui non se ne è fatta mai una ragione. E si è ammalato anche per una componente
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psicosomatica: i medici non avevano diagnosi precise, ma quando nulla andava bene si ripiegò in se
stesso, senza reagire più”.
te lo leggo negli occhi
L’avventura terrena di Sergio Endrigo è una bella linea
retta, spezzata in alcuni punti, tormentata e insieme
luminosa, rischiarata da alcune canzoni esemplari
per la nostra cultura popolare e mai più rimosse.
Era nato a Pola, in Istria, nel giugno 1933, sotto il segno dei Gemelli, e lì vi resta fino all’immediato dopoguerra, quando quel lembo di terra passa dall’Italia alla
Jugoslavia e il piccolo Sergio acquisisce lo status di profugo. Impara presto che la vita non è necessariamente
una passeggiata in discesa: il padre muore presto, che
Sergio è bambino. Crescerà “in quella decorosa miseria tipica delle famiglie operaie”. “Mia madre lavorava
tutto il giorno in una fabbrica di lucchetti e il suo guadagno ci bastava appena per mangiare”, racconta.
Il nucleo comprende anche un fratello, che da giovane in cerca di fortuna si trasferirà in Australia, a
commerciare in fiori, senza più fare ritorno. Nel 1947,
anno anche della prima chitarra, acquistata vendendo
una raccolta di francobolli, Sergio finisce in un collegio di Brindisi: ottimo rendimento scolastico, ma
il tragitto è destinato a interrompersi in quinta ginnasio. “Avevo l’impressione di perdere tempo e non
imparare niente. Cominciavo a essere grandino, avevo
sempre fame e avevo voglia di lavorare, di essere libero. Mi diedero un sette in condotta e mi buttarono
fuori dal collegio”.
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Proprio relativamente al rapporto con gli studi e
l’etica professionale, torna utile quanto dichiarato al
settimanale “Bolero”, nel marzo 1970: “Sono il primo
a riconoscere i miei limiti: d’altra parte nei miei studi
non sono mai andato oltre la quinta ginnasio, quindi
non posso certo aspirare a diventare un accademico…”
Il ragazzino è acerbo, ma con le idee chiare e a Venezia, dove abita la mamma, si industria dedicandosi
a mansioni e a lavoretti i più vari: lift in un grande albergo, il Danieli, fattorino per la Mostra del Cinema,
ufficiale di censimento, mentre si riaffaccia la passione
per il canto, ereditata dal babbo, tenore autodidatta
che si era anche esibito al Dal Verme ai tempi in cui,
durante la chiusura della Scala, quello era il primo teatro milanese. “Rimbalzato” un lavoro alle Poste, Sergio
a piccoli passi riesce a sbarcare il lunario con il tramite
della musica, al Roxy Bar del Lido di Venezia, dove un
quartetto suonava per i turisti, poi d’inverno in una
sala da ballo di Mestre, una densa gavetta grazie a cui
sarebbe approdato all’orchestra di Riccardo Rauchi, in
qualità di bassista e voce solista. “Ormai era diventato
il mio lavoro e del resto non avrei saputo fare altro…”
Si apre una lunga stagione di viaggi e incontri, dancing e balere, tra un soggiorno professionale a Beirut e l’incontro con Sergio Bardotti, l’amico e partner
di tante canzoni: è l’estate 1956, al Lido Nettuno di
Sanremo, dove i due formano al tavolo di ping-pong
una coppia imbattibile. In Riviera tutte le sere il complesso di Rauchi è intanto impegnato al Roof Garden
del Casinò. Intorno all’attività di quegli anni nel 2010
è uscito un disco, Si comincia a cantare, su etichetta
On Sale Music, che raccoglie rare performance del
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1959: talvolta Endrigo cantava anche sotto altra generalità, come Sergio Doria. Ma ogni gioco ha un capolinea e per Endrigo c’è il desiderio di tentare la strada di
cantante a proprio nome, per “evitare di vedersi a sessant’anni ancora con il contrabbasso in mano”. Firma
un contratto con la Ricordi e del 1960 è l’esordio a 45
giri, Bolle di sapone: “Non trovavo autori disposti a
puntare una lira sulla mia voce e così ho deciso di scrivermi le canzoni da me”.
Sin da quei passi si riconosce nel clima e nella costruzione una sorta di “saudade istriana” che lo connoterà per sempre. È la scoperta di uno spazio nuovo,
diverso, proprio mentre il primo astronauta è in orbita, Yuri Gagarin, aprile 1961, e su “Sorrisi e Canzoni”
si legge un articolo che sembra il tipico abbaglio giornalistico: “Sono composizioni incolori, musicalmente
confuse, ma sovraccariche di ambizioni”, è scritto a
proposito del secondo 45 giri, I tuoi vent’anni e Chiedi
al tuo cuore, “Endrigo riprende certi procedimenti di
canti chiesastici, con l’unico risultato di creare delle
canzoni anemiche da chierichetto”.
L’anno dopo, trasferitosi alla romana Rca, esce la
più grande hit, Io che amo solo te (“C’è gente che ama
mille cose / e si perde per le strade del mondo / Io
che amo solo te / io mi fermerò / e ti regalerò / quel
che resta della mia gioventù”), 650mila copie vendute
quando inizia a impazzare un vento diverso e altri coetanei provano a cantare il loro tempo. Sono compagni di avventura pronti a un futuro radioso: di nome
fanno Gino (Paoli), Umberto (Bindi), Bruno (Lauzi),
Luigi (Tenco), Fabrizio (De André). È la cosiddetta
scuola genovese.
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In questo stesso scorcio di carriera esce anche Via
Broletto, un noir ambientato nell’omonima via di
Milano (dove non esiste il numero 34 indicato nella
canzone, licenza poetica): tutto ruota intorno a un
delitto passionale (“Proprio sotto il cuore / ha un forellino rosso / rosso come un fiore”), risolto con una
confessione di superba eleganza: “Sono stato io / mi
perdoni Iddio / ma sono un gentiluomo / e a nessuno
dirò il perché”. Sulle sue radici e fonti di ispirazione
Endrigo non farà mistero, con una strofa che metterà
a fuoco i riferimenti principali: “Madame Guitar ti
chiamavo così / quando amavo e cantavo Brassens
e Brel / tra le mie braccia hai visto il mondo / ho
amato e cantato insieme a te” (da Madame Guitar,
1977: la canzone ha ispirato anche il titolo di un bel
festival dedicato alla chitarra, che si organizza a Tricesimo, in Friuli). Sergio non è certo un intruso, ma
dispone di un bel passo, di una lingua diversa che peraltro si mescola con la poesia, anche fuori dai patrii
confini: una formula mandata in porto prima e meglio di tutti gli altri. In quelle stagioni, e per tutti gli
anni Sessanta, Endrigo resta tra gli artisti di prima
fila, sfuggendo però alle qualifiche più classiche e ovvie: il “debutto” in società, al festival di Sanremo, è
datato 1966, con la delicata Adesso sì, da ricordare
anche per aver poi “battezzato” Lucio Battisti-cantante, alla prima incisione della carriera, in una delle
rarissime interpretazioni di brani che non portano la
sua firma. Adesso sì, doppiata a Sanremo da Chad &
Jeremy, si gioverà di insperati riflessi internazionali:
conosciamo addirittura una versione in giapponese,
di Fausto Cigliano!
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Ora Endrigo è troppo popolare e “cantabile” per essere
annoverato nel drappello dei cantautori impegnati, e
troppo poco moderno, à la page, per poter competere
con l’onda del beat, del nuovismo a tutti i costi che
in poco tempo spazzerà via dal mercato quelle figure
più radicate nel gusto nazionale. Dietro la sua voce si
stagliano raffinate orchestrazioni, le melodie che oggi
ancora ci incantano appaiono lievemente polverose, e
il portamento, quella tipologia ben classificata dall’Ufficio Facce, lo tiene lontano dall’universo dei teenager
che si affaccia al mondo (della musica): avete mai visto qualcuno che tenesse un poster di Endrigo appeso
al muro della sua cameretta? E tra gli addetti ai lavori
c’è nessuno che abbia brigato per coinvolgerlo in un
musicarello, quei film musicali che gran clamore ottenevano nei Sessanta? Quisquilie, forse, ma è a questo
punto che la scialuppa tenderà lentamente alla deriva:
senza strilli, senza sbraitare, lontano da capigliature e
vestiti alla moda, per uno stile che faceva sorridere la
gioventù più agitata e movimentista dell’epoca.
se le cose stanno così
Il patrimonio di credibilità, successo, fama che in un
paio di lustri Endrigo si trova ad accumulare, anche
suo malgrado, oggi forse ci sfugge: e non parliamo
solo di vendite, classifiche, premi, onorificenze, in
Italia come all’estero, ma piuttosto dello spessore di
un’arte sottile, intangibile, facile all’evaporazione
qual è una canzone a 45 giri.
Uno dei momenti più alti del suo tocco, così pulito
e fermo fin dagli inizi, viene da una canzone del 1962,
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