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Cultura, qualità della vita, coesione sociale
Flavia Franzoni
Relazione al convegno “Un bel Welfare” -29.01.2014
In questo intervento presento alcune riflessioni che si collegano all’argomento di oggi, il welfare culturale, ma che sono maturate in una esperienza professionale comune con Graziella Giovannini riguardante il welfare
di comunità e il lavoro di comunità. Tutte tematiche per affrontare le
quali sono richieste soprattutto, come dice sempre Graziella, “buone scarpe” per potere camminare per i nostri territori e rintracciare le tante e diverse iniziative, grandi e piccole, che negli anni si sono andate sviluppando per tessere e far manutenzione dei legami comunitari e costruire le nostre comunità.
Cercherò perciò di trovare qualche connessione tra le tematiche del convegno di oggi e un altro progetto del Piano Strategico Metropolitano, collocato nell’area specificamente dedicata alle politiche di welfare e titolato
“Empowement e comunità”
1) Welfare culturale, welfare comunitario
Io mi occupo di politiche sociali e, da questo punto di vista, mi chiedo se e
come le risorse e i progetti culturali di un territorio possano divenire risorsa per le politiche sociali ampiamente intese, comprendenti le politiche a
contrasto dell’esclusione sociale e per la prevenzione del disagio, le politiche sanitarie, le politiche educative, etc. Questo nell’ambito di un modello
di welfare definibile come “municipale e comunitario”, una ”vecchia”
formuletta (molto usata nei tanti convegni e corsi che si sono occupati di
politiche sociali prima e dopo l’approvazione della legge n.328/2000 che
ha profondamente ridefinito il settore), che indica quel “pezzo” di sistema
di welfare costituito dalla rete dei servizi alle persone così come è andato
costruendosi nella nostra regione e che è codificato nelle normative nazionali e regionali). Quale il significato dell’espressione “welfare municipale
e comunitario” ? Essa ribadisce il ruolo del pubblico (rappresentato dal
“municipio” o dall’asl) nell’offrire servizi alla persona. E ciò vale sia nel
caso che i servizi siano prodotti direttamente dalle pubbliche istituzioni,
che nel caso in cui tali istituzioni ne affidino la produzione ad organizzazioni esterne (come le cooperative sociali). Tali servizi tuttavia non riescono da soli a rispondere ai bisogni sempre più complessi delle persone se
non si calano e interagiscono in una rete di risorse comunitarie più o
meno formali. Questo aspetto è indicato dalla parola “comunitario”.
Parto da un esempio.
Si può programmare di assistere una persona con problemi di salute mentale nella sua casa, offrendole assistenza sanitaria e farmacologica, aggiungendo qualche ora di assistenza domiciliare e ospitandola qualche mezza
giornata in un centro diurno dell’Asl, ma l’intero progetto di inclusione fa1
tica ad avere successo se non c’è dell’altro; se non ci sono anche vicini di
casa disponibili a dare una mano alla famiglia nelle piccole cose della quotidianità, una polisportiva che ospita la persona in qualche attività, i volontari della parrocchia che portano in gita la persona o danno un po’ di respiro alla famiglia nei periodi più duri. Se non ci sono delle panchine sotto
casa che consentano alla persona di fermarsi a chiacchierare con qualcuno
(perché comunità è anche arredo urbano e costruzione della città!) o negozianti del quartiere che capiscono il problema se la persona entra nel negozio ed è un po’ in crisi, Se non ci sono appunto, per venire agli argomenti
di oggi, iniziative culturali di cui poter fruire o a cui poter partecipare;
penso ad esempio (facendo riferimento ad esperienze che ci saranno illustrate più avanti) all’inserimento in un gruppo teatrale che costituisca per
la persona non solo un percorso terapeutico, ma superamento dell’esclusione ed empowerment, etc.. Penso all’inserimento in un atelier che le
consenta di valorizzare le sue capacità espressive in qualche ambito artistico, o in un coro.
Insomma se non c’è una comunità competente (definizione molto cara all’istituzione Minguzzi che molti anni fa cominciò ad occuparsi del tema!)
l’intero progetto di inclusione fatica ad avere successo.
Esempi analoghi si possono fare per altre situazioni. Anziani, disabili, ragazzi in difficoltà, immigrati.
Lavoro di comunità non è però o non è soltanto l’utilizzo delle risorse e
delle relazioni comunitarie in un progetto personalizzato, perché le relazioni e le reti non esistono o non esistono più “in natura”: lavoro di comunità è dunque creare relazioni tra persone, da cui possono poi nascere disponibilità all’aiuto e soprattutto senso di appartenenza alla comunità. Intorno a molti eventi culturali si originano nuove relazioni: si pensi ai cori,
alla Università Primo Levi, ai progetti culturali fortemente condivisi da
gruppi di appassionati. Queste iniziative possono cioè essere considerate
come risorse per la costruzione della comunità.
Lavoro di comunità è anche tessere reti tra organizzazioni in modo che
possano facilmente cooperare (si pensi alla collaborazione tra asl e il teatro).
Tutto questo, per rimanere alle attività culturali, senza distorcere le loro finalità primarie e il primato della qualità.
2) Piano Strategico Metropolitano: connessioni tra i progetti per il
welfare e i progetti per la cultura
A conferma di tutto questo, vediamo che un altro progetto del Piano strategico titolato “Empowerment e comunità”, là dove descrive il percorso di
costruzione e consolidamento del lavoro di comunità e delle azioni di sviluppo della comunità, richiama:
- “azioni previste dal Piano strategico metropolitano in ambito culturale. Ciò nella consapevolezza che le attività culturali e di tempo libe2
ro attivate nei quartieri e nei comuni più piccoli sono spesso finalizzate alla promozione di incontri, allo sviluppo del senso di appartenenza
al territorio e alla educazione alla cittadinanza”
A questo proposito si ricordi che, per orientare i Piani di zona, nell’ultima
stesura divenuti “Piani per la salute e per il benessere”, le Province avevano costruito i così detti Profili di comunità che contenevano le descrizioni anche dei servizi culturali.
Nel Profilo di comunità della Provincia di Bologna, nel capitolo riguardante il capitale sociale e nei paragrafi che riguardano la costruzione della comunità, considerata come risorsa per qualsiasi politica sociale ampiamente
intesa, si fa infatti specifico riferimento al settore culturale.
3) Welfare culturale: la cultura come risorsa per il diritto di tutti al
benessere
Chi si occupa di interventi sociali ponendosi obiettivi di benessere e di inclusione sociale è ben consapevole della necessità di uscire dagli angusti
confini del sociale (e anche dalle anguste risorse del sociale) e dei servizi
sociali, per poter far conto su tutte le risorse che una comunità offre.
Ecco allora che il titolo della mia relazione significa molte cose. Non solo
riconosce che la cultura è fattore determinante per la formazione del capitale umano e perciò una risorsa per la crescita economica e la trasformazione di un sistema economico che ha tanto bisogno di creatività, ma è risorsa per la qualità della vita delle persone, anche per la salute, perché la
cultura “fa star bene”. Su questo tema c’è una ricchissima letteratura e tante ricerche quantitative, ad esempio riguardanti la correlazione tra la partecipazione culturale e la percezione del proprio benessere o tra la partecipazione culturale, gli stili di vita e la salute ( si veda la recente ricerca Fondazione Bracco/Iulm).
Il titolo significa anche che le attività culturali sono un fattore importante
per la creazione di capitale sociale, inteso come insieme di relazioni di fiducia e di cooperazione.
Non mi riferisco soltanto all’ esigenza da parte delle tradizionali politiche
sociali di coordinarsi con le politiche culturali e alla richiesta di utilizzare
le risorse da esse messe in campo in progetti sociali.
Mi pare di vedere un vero e proprio processo di legittimazione della cultura come dimensione del welfare, nella concezione del welfare che c’è
nella nostra Costituzione, come garanzia di un minimo di benessere per
tutti. Perché la cultura è un diritto universalistico come la salute, come l’istruzione, per tutti i cittadini di tutte le età e di tutte le condizioni sociali.
Tanto che in molti dei progetti di cui oggi parliamo si parte proprio dagli
ultimi: dai carcerati, da chi ha problemi di salute mentale, dai malati, dai
più piccoli, per è poi arrivare a parlare di tutti noi.
Se dunque le iniziative culturali rispondono non solo a domande individuali, ma a un bisogno collettivo, che ha a che fare con la garanzia della
3
cittadinanza, c’è una legittimazione sociale per attivare una politica pubblica. E ciò porta anche ad alcune riflessioni sulla spesa che faremo in seguito.
Voglio invece richiamare qualche esempio per individuare le molteplici finalità che possono assumere le iniziative culturali se intese come welfare
culturale. Si tratta sia di esperienze di partecipazione alla produzione culturale, che di fruizione di eventi culturali, anche se in molti casi la separazione tra consumo e partecipazione culturale non è poi così netto (cfr.Piga
G., Cultura: significato, evoluzioni e domini operativi secondo
l’Unesco”)1
4) Esempi di ambiti e finalità diverse
4.1 Il Teatro
Mi limito ad alcune osservazioni che traggo dall’ esperienza personale e
dalle rassegne che l’Iress ha compiuto (nell’ambito di una iniziativa formativo-laboratoriale svolta per conto del Comune di Bologna su “Lavorare per la comunità, con la comunità” ) sulle interazioni e gli infiniti reticoli che caratterizzano o possono caratterizzare le nostre comunità. Faccio riferimento ad esempi concreti (alcuni dei quali saranno illustrati nel pomeriggio).
Sono stata nel comitato scientifico del Teatro del Pratello, un intervento
socio-educativo che ha coinvolto il gruppo dei ragazzi del carcere minorile, ma anche una occasione educativa per i ragazzi di alcune scuole superiori bolognesi che hanno partecipato, insieme ai ragazzi del Pratello, a
vari progetti (e sappiamo quanto le scuole in questo momento di scarsità di
risorse abbiano bisogno di attività nuove per un po’ di didattica sperimentale) come ad esempio quello titolato Dialoghi sul pregiudizio. Progetti
che hanno anche un prodotto culturale finale, un video 2, una rappresentazione, di cui il pubblico può fruire.
Iniziative come questa devono anche mantenere buoni livelli di qualità, il
Teatro deve essere di qualità. Perchè più i giovani hanno problemi, più
devono sentirsi coinvolti in iniziative importanti che fanno loro recuperare
il senso della propria dignità (non sarebbe sufficiente proporre una pur divertente recita parrocchiale che può costituire un modo simpatico di impegnare il tempo libero per ragazzi con meno problemi!). La qualità dei lavori svolti è importante anche per gli studenti perché essi devono riuscire,
devono avere la forza di far passare contenuti importanti (come il superamento dei pregiudizi, et..). La qualità è importante perché l’attività dei ragazzi deve diventare un vero e proprio prodotto culturale capace di suscitare interesse in modo autonomo, perché è una bella pièce teatrale.
1
Sta in E. Grossi, A.Ravagnan, Cultura e salute (a cura di) ed Springer 2013)
2
Si veda il DVD video “Il pregiudizio spiegato a mio nonno”
4
Ciò non toglie che lo spettatore che sceglie di andare a teatro a vederla sia
anche motivato dalla finalità prima del progetto. Insomma comprando il
biglietto compra la possibilità di vedere uno spettacolo bello, ma “compra”
anche la soddisfazione di aver partecipato ad un progetto sociale importante.
Si aggiunga poi che il Teatro del Pratello, come tutti gli interventi rieducativi, è da considerarsi come una azione di prevenzione della criminalità
futura e quindi ha in qualche modo a che fare con la sicurezza del nostro
vivere nella città.
Analoghe riflessioni si possono fare sull’esperienza del Teatro del regista
Nanni Garella e sulla collaborazione dell’Associazione Arte e salute con
l’Asl, in iniziative che coinvolgono i malati psichiatrici come attori in pièce teatrali di alta qualità. Un percorso terapeutico verso una maggiore consapevolezza delle proprie capacità e della propria identità per i malati, uno
strumento importantissimo per portare il pubblico al superamento dello
stigma che ancora accompagna la malattia mentale.
Finalità analoghe a quelle del Teatro del carcere di Gruppo Elettrogeno in
cui recitano carcerati che hanno potuto portare le loro rappresentazioni nei
programmi estivi dei nostri quartieri3.
Un esempio interessante è quello del teatro Dom alla Cupola del Pilastro
che ha coinvolto ragazzi room non nella recitazione, ma nelle attività tecniche (luci, mix musicali, montaggio scene, etc) realizzando in realtà un
progetto di orientamento professionale per elettricisti, falegnami, e tecnici
del suono…
Girando anche per i teatri minori si possono poi vedere bellissime pièce
teatrali che potrebbero entrare nei percorsi culturali di tante istituzioni formative…il teatro comunica meglio delle conferenze finalizzate alla educazione alla cittadinanza o alla conoscenza del proprio territorio. Penso al
modo di lavorare di Marinella Manicardi e all’efficacia didattica di un pezzo come La Maria dei dai da brodo sulla storia della meccanica a Bologna.
.4.2
Dalla musicoterapia alla musica in ogni luogo
Tanti i progetti musicali che partono dalla convinzione che cultura ed arte
non devono essere confinati nei luoghi deputati, ma possono invadere tutti
gli spazi per generare vivibilità nei luoghi pubblici e anche nei luoghi di
cura.
La recente scomparsa del maestro Claudio Abbado alle cui esequie ha cantato anche il coro del carcere della Dozza, una esperienza da lui avviata, ci
ha ricordato come la musica possa essere intesa come impegno sociale.
3
Per altri esempi si veda Migani C., Valli M.F., Il teatro illimitato. Progetti di cultura e salute mentale,
Ed Cause ed Effetti 2009
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Lo stesso Abbado ha tra l’altro partecipato , insieme alla sua orchestra, ad
un progetto di musicoterapia titolato Tomino messo a punto dal Servizio di
psico-oncologia della Clinica oncologia pediatrica dell’ospedale Sant’Orsola, con la collaborazione di Ageop (Associazione genitori ematologia e
oncologia pediatrica).
Tanti i luoghi di cura in cui è portata la musica: nelle strutture per anziani,
in luoghi ancora più problematici come la Casa dei risvegli.
L’associazione Kaleidos, ad esempio, ha portato per dieci anni musica in
ospedale con l’iniziativa Musica per la salute.
Esaminando questo ed altri progetti si può osservare come portare la musica nei luoghi di cura abbia (o possa avere) una molteplicità di valenze. La
musica può essere utilizzata come un semplice momento di sollievo in un
luogo difficile per i ricoverati e per i parenti , contribuendo all’umanizzazione dei luoghi di cura fino ad avere, come si è già visto, un impatto terapeutico per i degenti che la ascoltano. Si può anche semplicemente portare
”musica in corsia” con il più generale intento di promuovere la conoscenza
e la capacità di ascolto della musica, soprattutto della musica classica.
È evidente che a seconda delle finalità che si scelgono come prevalenti devono essere diversi tanti elementi del progetto. Pensiamo semplicemente
ai diversi spazi dell’ospedale dove si è via via collocata l’iniziativa che abbiamo citato: nell’atrio in funzione di accoglienza, nei reparti (da quelli
per bambini, ai reparti oncologici,), nei luoghi dove la gente attende in
coda. Ciascuna di queste collocazioni presuppone un obiettivo diverso del
progetto e richiede conseguentemente diverse modalità organizzative e diverse scelte musicali.4
4.3 Allargare la fruizione (consumo) dei grandi eventi culturali
Anche i grandi eventi culturali di una città si possono usare per finalità sociali ed educative, senza intralciare la loro normale fruizione da parte del
pubblico più esteso, ma utilizzando al meglio le risorse (sempre tante) impiegate per la loro organizzazione.
Come esempio riporto un ricordo di tanti tanti anni fa quando Graziella
Giovannini era direttrice della rivista Scuola e professione: la rivista documentò un progetto complesso con cui si portarono tantissimi ragazzi (an4
Per individuare gli elementi da tenere sotto monitoraggio è importante il confronto
con altre iniziative strutturate che si sono realizzate nel territorio italiano, al di la di
portare un po’ di musica in occasioni di festa. Ci sono in proposito i materiali di un
partenariato tra l’ospedale Meyer di Firenze, altre associazioni e la Francia che ha
portato anche alla definizione di corsi per Musicisti in corsia. Il titolo dell’iniziativa
complessiva: Musique en milieu da la santè e du handicap.
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che piccoli) ad alcune mostre di pittura di particolare complessità, ciascuna classe con percorsi adeguati all’età. Furono portati centinaia di alunni
delle scuole elementari alle mostre sul ‘600 emiliano, organizzate in quegli
anni dalla Pinacoteca di Bologna. Per accompagnare e guidare i bambini
furono impiegati i cosìddetti “tirocinanti” delle allora scuole magistrali.
Questi studenti furono ovviamente appositamente preparati a svolgere il
compito. Si realizzò così una sorta di moltiplicatore della diffusione della
conoscenza delle opere esposte (dai ragazzi ai bambini più piccoli) e si
realizzarono due percorsi pedagogici, l’uno rivolto ai piccoli, l’altro rivolto ai ragazzi delle scuole superiori (sperimentando una forma di tirocinio
professionale abbastanza innovativo). La ricaduta del progetto era non soltanto il coinvolgimento dei più piccoli, ma la formazione dei ragazzi/maestri che facevano da guida.
Altro esempio potrebbe esser una recentissima serata organizzata, nell’ambito del programma Cinema in piazza dalla Cineteca in cui è stato proiettato Bolliwood (una produzione cinematografica indiana di successo), proprio per coinvolgere e promuovere socializzazione con i tanti indiani che
risiedono a Bologna che si sono ritrovati, alla fine della proiezione tutti in
piazza a ballare. Un tentativo di promuovere un incontro tra un gruppo etnico e la città, coerentemente con le più ampie finalità di promozione di
coesione sociale proprie delle nostre pubbliche amministrazioni.
5) Una molteplicità di obiettivi che richiede un’analisi costi-benefici
Parlare di welfare culturale significa aver ben presente e valorizzare tutte
le implicazioni dei progetti culturali in termini di impatto sul benessere dei
cittadini e sulla distribuzione del benessere. Si parla di produrre senso di
identità, prevenire l’esclusione, costruire un’appartenenza sociale, creare
legami comunitari, risultati non facilmente misurabili
Tuttavia chiunque si impegni in progetti come quelli sopra richiamati, in
cui si mette in gioco la propria professionalità di musicisti, registi, artisti
di varie discipline, per obiettivi che vanno oltre e sono disciplinarmente
diversi dal proprio ambito di competenze, desidererebbe avere una idea del
raggiungimento degli obiettivi stessi, di quanto conta il proprio lavoro. Lo
stesso vale per chi deve decidere il finanziamento, pubblico o privato che
sia, dei diversi progetti a cui abbiamo fatto riferimento: di un progetto teatrale per il carcere minorile o per alcuni malati, di concerti in ospedale,
etc, sia cioè che si tratti di progetti che implicano la partecipazione di soggetti problematici alla produzione culturale, sia che si tratti di fruizione
delle iniziative culturali.
Per questi tipi di progetti non esiste un sistema di valutazione appropriato,
ma l’individuazione e la consapevolezza degli obiettivi possono almeno
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aiutare a mettere a fuoco le variabili da considerare per valutare il proprio
lavoro .
Tali variabili possono poi essere osservate secondo un approccio costi- benefici, particolarmente utile in un periodo di crisi economica.
Una avvertenza: non si tratta soltanto di individuare i costi finanziari (relativi alle retribuzioni del lavoro e agli alle spese in materiali) ma di considerare l’insieme di risorse formali e informali che vengono mobilitate
(considerando ad esempio anche la disponibilità degli operatori sanitari
che aiutano la musica ad andare in corsia, l’attività di volontari che poterebbe essere impiegata in altri progetti, etc.).
E come benefici si deve tener conto di tutte le ricadute positive. Se rimaniamo nel semplice esempio della musica in ospedale, si dovrà considerare
il miglioramento del clima e della qualità della vita in ospedale, la diffusione della cultura musicale, ma anche quel po’ di reddito distribuito a chi
eventualmente lavora come retribuito al progetto (un piccolo compenso
anche non in denaro per i giovani musicisti’), che è certamente un costo,
ma che è anche un sostegno alle professionalità dei giovani.
La qualità è ottenuta inevitabilmente con costi alti, ma si deve poter fare
una analisi costi-benefici di tutto quello che il progetto produce: per i ragazzi del Pratello (che non sono del territorio e che sono sotto la responsabilità di un’altra amministrazione), per chi ama il teatro, ma anche per tutti
coloro che si incontrano intorno a questa iniziativa, per i legami comunitari che produce (e noi sappiamo che i legami comunitari sono la materia
prima del capitale sociale) e per l’educazione civica (contro gli stereotipi,
etc…) degli studenti delle scuole bolognesi coinvolte nel progetto.
In generale, come per tutte le attività artistiche, si deve poi tener presente e
confrontare il prodotto culturale con le entrate dei biglietti, ma anche con
gli effetti moltiplicativi dell’occupazione dei lavoratori dello spettacolo
che sono insieme un beneficio (secondo il moltiplicatore Keynesiano!) e
un costo.
In generale poi si deve sempre tener presente che la partecipazione culturale è un elemento fondamentale della cittadinanza attiva.
Illustrare l’approccio analisi costi-benefici richiederebbe ben altro rigore,
mi sono limitata a richiamarne qualche aspetto.
Un approccio di questo tipo allontana forse la tentazione di scegliere
sempre l’ambito culturale come voce di spesa da tagliare, perché la cultura
è considerata intrattenimento e dunque relegata nel superfluo o considerata
un bene di elite.
Nell’individuare la cultura come parte del welfare abbiamo voluto invece
dire che è un investimento per tutti, a partire dagli ultimi. Che tagliare la
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cultura non ha forse effetti dirompenti nell’immediato, ma è devastante per
il lungo periodo.
Certo rimane un problema di risorse. Inoltre in un periodo di scarsità di risorse e di revisione delle priorità, si devono rimodellare i costi, non si deve
ricorrere soltanto al sostegno pubblico, ma anche ad un privato motivato.
E qui potremmo richiamare un altro progetto del Piano strategico in cui si
parla di “welfare condiviso”, proprio per chiamare in causa la responsabilità sociale di impresa.
In queste riflessioni un po’ disordinate ho voluto comunque dire che se si
lavora insieme - servizi sociali, servizi educativi, servizi culturali e servizi
sanitari - ci sono sinergie e ci si valorizza reciprocamente.
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