nei rapporti tra Chiesa e Stato

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nei rapporti tra Chiesa e Stato
Civitas
Rivista quadrimestrale di ricerca
storica e cultura politica
• Fondata e diretta da Filippo Meda
(1919-1925)
• Diretta da Guido Gonella (1947)
• Diretta da Paolo Emilio Taviani
(1950-1995)
Quarta serie, anno III - n. 1/2006
• Diretta da Gabriele De Rosa
«Civitas» “riprenderà il difficile impegno con la serietà
ed il rigore che la hanno contraddistinta nei momenti
più travagliati e complessi.
I temi riguarderanno problemi, eventi, prospettive
della politica internazionale con un particolare riguardo
alla vita italiana ed all’unità europea.
... Il XX secolo ha lasciato tracce e impronte in Italia,
in Europa e nel mondo, che sono in gran parte da scoprire e,
per un certo verso, se non addirittura, da correggere,
da meglio interpretare.
Sarà anche questo un importante compito della nuova «Civitas»”. [Paolo Emilio Taviani, 18 febbraio 2000]
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Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
• È innegabile che le più recenti vicende politiche italiane abbiano dato ampio
spazio al dibattito sui rapporti tra Stato e Chiesa e riaperto, di fatto, una tematica
che sembrava avesse ormai trovato, in anni di confronti e di maturità, la sua giusta
collocazione tra gli elementi portanti della nostra vita civile.
• Il “risveglio” e le conseguenze che ha prodotto non sono tranquillizzanti. E
meno ancora lo saranno le prevedibili conseguenze sulla maturità politica dell’Italia che non può prescindere dalle profonde radici cristiane che hanno storicamente
dato prezioso alimento al suo alto grado di civiltà.
• L’argomento quindi dei rapporti Chiesa e Stato in Italia era d’obbligo in
questo frangente, nella visione di “Ieri” e di “Oggi” che tenga conto del cammino
del Paese all’interno, a fianco e nel contesto di una mondializzazione nella quale
conteranno sempre più valori di vita sostanziali come premessa di una civile convivenza.
• I contributi offerti da questo numero di «Civitas» sono indirizzati verso la riflessione necessaria e urgente alla quale nessuno, di qualunque parte o pensiero,
potrà onestamente sottrarsi.
Franco Nobili
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Indice
• CHIESA E STATO IN ITALIA - IERI ED OGGI
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Editoriale
Ieri
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Chiesa e Stati da Paolo VI a Giovanni Paolo II - di Andrea Riccardi
31
I concordati di Giovanni Paolo II - di Romeo Astorri
45
Bettino Craxi e l’accordo del 1984 - di Maurizio Punzo
65
Andreotti, Gonella e la revisione del Concordato - di Giuseppe Dalla Torre
81
La politica ecclesiastica della Repubblica - di Francesco Margiotta Broglio
89
Il concordato nel dibattito giuridico italiano - di Giovanni Battista Varnier
101
Il finanziamento delle Chiese in Italia - di Carlo Cardia
117
Cattolicesimo italiano e futuro del Paese - Card. Camillo Ruini
129
I principi “non negoziabili” della Chiesa fra laicità e concordato - di Pietro Scoppola
137
Laicità e “pace religiosa” nei rapporti tra Chiesa e Stato - di Agostino Giovagnoli
145
Ripensare la laicità: la sfida del pluralismo religioso - di Silvio Ferrari
159
Per una laicità “deliberativa” - di Stefano Semplici
167
La democrazia come luogo della ricerca della verità - di Francesco Totaro
175
Democrazia e riconoscimento dell’altro - di Luciano Eusebi
Oggi
RUBRICHE
POLITICA INTERNAZIONALE a cura di Mario Giro
191
RICERCHE a cura di Andrea Bixio
197
RELIGIONI E CIVILTÀ a cura di Agostino Giovagnoli
201
IL CORSIVO a cura di Giorgio Tupini
204
NOVITÀ IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris
208
NOMI CITATI
213
NUMERI PRECEDENTI
217
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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Chiesa e Stato in Italia
Ieri e Oggi
Editoriale
I rapporti tra Chiesa e Stato sono tornati in Italia al centro del dibattito poli-
tico. Ancora nel 2004, il ventesimo anniversario del nuovo Concordato – l’Accordo di Villa Madama fu sottoscritto il 18 febbraio 1984 – è passato nell’indifferenza generale: nessuna polemica, nessuna contestazione, nessuna richiesta
di modificarlo o abrogarlo. Ma, nel giro di pochi mesi, laicità dello Stato e ingerenze della Chiesa sono diventati fra i temi più frequentati da mass media,
politici, osservatori. L’antico clivage laici/cattolici è tornato a lacerare la società
italiana come non accadeva più da decenni.
Una questione, più di ogni altra, ha scosso vistosamente acque che si presumevano tranquille: il referendum sulla procreazione assistita. Subito prima
della consultazione referendaria, l’estesa convergenza nel mondo cattolico di
organizzazioni e di singoli sulla posizione indicata dal Presidente della Conferenza episcopale italiana ha suscitato molte polemiche. Osservatori non cattolici hanno lamentato l’assenza di un dibattito interno al mondo ecclesiale e
l’“appiattimento” dei laici cattolici sulle indicazioni della gerarchia. Quando
poi la posizione astensionista è risultata largamente maggioritaria, è esplosa la
polemica sull’“ingerenza” della Chiesa cattolica nella politica, favorita anche
da condizioni “privilegiate” garantite dal Concordato. Di qui, l’inaspettata ripresa di una polemica anticoncordataria che ha abilmente intercettato un confuso malessere riguardo una tematica complessa e non facilmente decifrabile,
con esiti talvolta aspri e persino singolari, come la proposta di rimettere in discussione non solo il Concordato ma persino il Trattato e cioè l’assetto giuridico
internazionale che garantisce la libertà e l’indipendenza del papa e della Curia romana.
•
• La polemica si è accesa soprattutto intorno alla denuncia di un deficit di
laicità. Non si tratta di una discussione solo italiana: negli ultimi anni, la laicità è stata utilizzata come arma polemica in vari paesi europei, dal Belgio alla Spagna, nel declino di altre identità ideologico-politiche. In Italia, la poleCivitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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Editoriale
mica è stata alimentata soprattutto da settori minoritari che sono riusciti però
a farne una questione centrale, obbligando tutte le forze politiche a prendere
posizione e introducendo elementi di divisione al loro interno. In realtà, non è
chiaro in che cosa consista esattamente tale deficit, individuato di volta in volta su terreni differenti, come il rapporto tra gerarchia e laicato all’interno della
Chiesa; l’intervento del clero nelle vicende politiche; pronunciamenti ecclesiastici sulla sfera delle scelte soggettive ed individuali; richieste di orientare la
legge dello Stato secondo principi cattolici; i “privilegi”, garantiti dal Concordato, di cui la Chiesa godrebbe, dal finanziamento del clero all’insegnamento
della religione cattolica nelle scuole. Si tratta, com’è evidente, di materie diverse, unificate in modo spesso approssimativo e confuso.
•
• Malgrado limiti evidenti, tuttavia, le polemiche in tema di laicità suscitano interrogativi importanti e, soprattutto, mostrano quanto, nel campo
dei rapporti fra Stato e Chiesa, le cose siano cambiate rispetto al passato. Tali
polemiche, infatti, si sono sviluppate e continuano a svilupparsi, in Italia e
in Europa, anche perché ci troviamo in una situazione profondamente nuova, che rende difficile conservare i giudizi e i comportamenti di prima. Proprio per questo, però, appare poco plausibile che la crisi della laicità possa essere attribuita esclusivamente ad un’improvvisa invasione del terreno dello
Stato ad opera della Chiesa: anche se così fosse, bisognerebbe quantomeno
chiedersi che cosa ha improvvisamente reso lo Stato tanto debole da subire
impotente tale invasione. Occorre, perciò, interrogarsi anzitutto su che cosa è
successo davvero e a causa di quali cambiamenti profondi è divenuto difficile applicare il principio di laicità e, contemporaneamente, si è tornati ad
utilizzarlo in modo polemico, mentre fino a poco tempo fa appariva accettato e praticato da molti e senza provocare particolari tensioni. Si assiste, infatti, ad una crisi della laicità (tradizionale) e contemporaneamente ad un
suo rilancio (ma in forme diverse dal passato). Indubbiamente, la tradizione
della laicità ha svolto un ruolo troppo importante, nella storia europea ed
italiana degli ultimi secoli, per essere sbrigativamente accantonata. Oggi,
però, si invoca la laicità per proporre qualcosa di molto diverso, se non opposto, rispetto al passato. Laicità, infatti, non significa necessariamente accendere un aspro conflitto tra Chiesa e Stato e proprio l’esperienza italiana mostra al contrario che essa ha potuto svilupparsi di più proprio nei periodi di
“pace religiosa”.
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Editoriale
•
• Lo Stato laico si è affermato nell’Europa moderna in reazione alle guerre
di religione, non certo per accrescere i conflitti ma per contrastarli, respingendo
l’uso della violenza per imporre specifiche opinioni religiose, ideologiche, politiche. È in contraddizione con l’estraneità dello Stato ai conflitti religiosi e con
la sua “neutralità” in materia religiosa, l’assunzione di atteggiamenti ostili nei
confronti delle Chiese: il laicismo è in contraddizione con il principio di laicità. Anche se, nel XIX e nel XX secolo, è accaduto che lo Stato impugnasse il
laicismo come arma per combattere le Chiese o i fenomeni religiosi, tali politiche hanno rappresentato stravolgimenti radicali della finalità originarie della
vera laicità. Richiamarsi oggi alla tradizione della laicità significa, come già
nei secoli passati, interrogarsi soprattutto sui modi per evitare sia che le istituzioni pubbliche siano coinvolte in conflitti legati a situazioni di pluralismo religioso, sia che esse interferiscano nel mondo delle religioni o, peggio, ne limitino o ne contrastino le espressioni. Tuttavia, come si è detto, questa tradizione
appare oggi in crisi ed avanzano proposte molto diverse, malgrado un’apparente continuità: è il caso, ad esempio, di tendenze relativistiche frettolosamente
assimilate al principio della laicità mentre si tratta di espressioni storicamente
e culturalmente molto distanti. Viceversa, in una situazione profondamente
diversa rispetto al passato come quella attuale, per essere davvero laici occorrerebbe anzitutto recuperare lo “spirito” vero della laicità per poi applicarlo in
forme innovative e adeguate.
•
• La situazione di oggi non è sorta all’improvviso, non tutto, cioè, è cambiato con il referendum sulla procreazione assistita. Dopo l’inatteso risultato
referendario, mass media e osservatori si sono accorti – in ritardo – di cambiamenti avvenuti in realtà prima, talvolta molto prima. Si tratta, peraltro, di
cambiamenti diversi per natura, portata ed intensità, alcuni dei quali solo italiani ed altri di respiro mondiale, alcuni assai recenti ed altri cominciati molto
tempo fa. Di qui la scelta di dedicare alla complessa tematica dei rapporti tra
Chiesa e Stato un numero particolarmente denso e consistente di «Civitas». Attraverso l’apporto di molti dei maggiori esperti di questi problemi, abbiamo
cercato sia di rivisitare il passato, sia di proiettarci verso il futuro, in entrambi
i casi ruotando intorno al presente. Nostro intento è, infatti, soprattutto di
contribuire ad una comprensione culturalmente più adeguata dei cambiamenCivitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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ti in atto, nella speranza di rendere più ricca e proficua una discussione troppo
spesso prigioniera di schemi fuorvianti.
Si è cercato anzitutto di ripartire dalle vicende del passato, senza tuttavia
risalire molto lontano del tempo e concentrando l’attenzione soprattutto intorno all’Accordo del 1984, le vicende che lo hanno preceduto e quelle che ne sono
seguite. È mancato finora uno sforzo di comprensione storica come quello qui
offerto da Andrea Riccardi, che inserisce la revisione del Concordato nel quadro più ampio dei rapporti tra Chiesa cattolica e società italiana, nel contesto
del pontificato wojtylano, del caratteristico tessuto “carismatico” del cattolicesimo italiano e delle sue trasformazioni istituzionali. È infatti possibile inquadrare storicamente l’Accordo del 1984 solo ricostruendo come, mentre la società italiana cambiava profondamente, è cambiata anche la Chiesa cattolica,
tra sensi di crisi e orientamento per l’evangelizzazione. Emblematico appare in
particolare il ruolo nuovo della Conferenza episcopale italiana, inizialmente
marginale e poi via via sempre crescente fino ad arrivare ad oggi. Altri contributi hanno messo a fuoco gli aspetti giuridici di quella revisione nel contesto
delle aperture della Chiesa verso le democrazie durante il pontificato di Giovanni Paolo II (Astorri), dell’evoluzione di una dottrina giuridica italiana
spesso incerta sui suoi orientamenti di fondo (Varnier) e in quella complessiva
dei rapporti tra Chiesa e Stato (Margiotta Broglio).
•
• Di particolare interesse, per illuminare la storia della revisione del Concordata, sono i contributi di Maurizio Punzo e di Giuseppe Dalla Torre. Il
primo ha ricostruito il decisivo intervento di Bettino Craxi, motivato non tanto dalla volontà di contrastare l’intesa fra Pci e Dc, quanto dall’intento di “liberare” il voto cattolico da un senso di responsabilità verso l’istituzione ecclesiastica, incrinando finalmente l’unità dei cattolici intorno alla Dc. Il secondo
ha invece ripercorso dall’interno il lungo lavoro preparatorio delle due delegazioni, mettendo in luce il senso dello Stato che ha ispirato il protagonista più
importante delle trattative, il democristiano Guido Gonella, a torto accusato
di difendere solo gli interessi vaticani. Entrambi rimandano indirettamente al
ruolo di questo singolare partito che è stata la Democrazia cristiana e al modo
in cui essa rappresenta, davanti allo Stato, le esigenze della Chiesa e, viceversa,
davanti all’istituzione ecclesiastica, le istanze laiche. A cavallo tra passato e
presente è poi il saggio di Carlo Cardia, che si occupa di una delle questioni al
centro delle polemiche recenti: gli aspetti finanziari dell’intesa del 1984. Il
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Editoriale
saggio getta una luce nuova sull’argomento sottolineando che il finanziamento
pubblico non è più elargito soltanto per esigenze tipiche delle confessioni religiose, ma anche per finalità sociali, umanitarie, culturali.
•
• La seconda sezione, dedicata all’oggi, si apre con la prolusione del card.
Camillo Ruini al VII Forum del Progetto culturale della Chiesa italiana, in
cui egli ha illustrato alcune delle idee guida che hanno ispirato negli ultimi
anni i suoi interventi e quelli della CEI. I mass media hanno sottolineato soprattutto il riferimento alla democrazia presente in questo testo, espressivo della volontà di non esasperare i conflitti e del desiderio di favorire l’unità del
paese. In realtà, il contributo del card. Ruini affronta qui anche una tematica
più ampia: il contributo dei cattolici e la loro collaborazione con i laici per la
costruzione di un’etica pubblica, sulla base di una razionalità condivisa pur
nel rispetto del principio di libertà. In un certo senso, pur essendo stati concepiti e scritti autonomamente, i contributi che seguono si collegano idealmente a
problemi cui il card. Ruini ha cercato di dare risposta, come la tensione tra laici e cattolici emersa negli ultimi tempi in Italia.
•
• Agostino Giovagnoli si interroga qui sulle radici di tali problemi, sottolineando che negli ultimi anni gli orientamenti della Chiesa si sono sviluppati
in relazione ad un insieme di novità connesse al cambiamento del sistema politico negli anni novanta e in particolare alla fine della Dc. Malgrado la scomparsa dei principali soggetti politici che per molti decenni avevano garantito la
pace religiosa in Italia e il venir meno di un interlocutore ben collaudato come
la classe dirigente democristiana, la Chiesa non è tornata su posizioni ottocentesche di ostilità verso lo Stato, continuando a cercare più la conciliazione dello
scontro, a differenza di alcuni dei suoi più accaniti avversari. Pietro Scoppola,
a sua volta, illustra le ragioni storiche per cui, a suo avviso, i rapporti tra la
Chiesa e Stato debbano oggi svilupparsi tra, da una parte, i princìpi intangibili professati dalla Chiesa e le regole democratiche dello Stato, entrambi irrinunciabili, e, dall’altra, l’esigenza che i due soggetti cooperino il più possibile
tra loro.
•
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Editoriale
• Altri interventi trattano alcuni dei problemi oggi più discussi riguardo
al ruolo della Chiesa nella costruzione di un’etica pubblica condivisa. Silvio
Ferrari sottolinea come, in Europa, il declino di un orizzonte condiviso di valori cristiani e, contemporaneamente, lo sviluppo di situazioni di pluralismo
religioso rilancino, in forme nuove, la questione della laicità. Secondo Ferrari,
è difficile applicare all’odierna situazione europea sia il modello della religione
civile americana sia un’interpretazione rigida della laicità intesa come estromissione radicale dei riferimenti religiosi dalla sfera pubblica. Stefano Semplici e Franco Totaro discutono invece, sul terreno filosofico, le sfide del relativismo e quelle del fondamentalismo, le spinte che vorrebbero una Chiesa rinunciataria sul piano dei principi o incapace di rapportarsi agli altri su quello della democrazia. Non immediatamente legato al tema dei rapporti tra Chiesa e
Stato è il contributo di Luciano Eusebi, il quale però scava in profondità sui
fondamenti etici della democrazia e sulle responsabilità anche “politiche” del
credente verso l’altro, in particolare il più povero, facendo così emergere il rilevo, sia pure indiretto, del riferimento religioso in scelte cruciali della collettività.
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Ieri
Chiesa e Stati
da Paolo VI a Giovanni Paolo II
La Chiesa italiana, negli anni Settanta e Ottanta, vive
un delicato passaggio che sembra travolgere i quadri e le
strutture di quel cattolicesimo come si era assestato negli anni del fascismo, anche a partire dai Patti del 1929.
Se il fascismo non aveva creato un regime cattolico, la
Chiesa aveva però ricevuto dal consenso popolare la
consacrazione di anima della nazione durante la guerra.
• Il “regime democristiano”, a partire dalla Costituente,
era stato capace di conciliare libertà democratica e carattere
cattolico della nazione. Era una conciliazione su basi che i laici, ma anche coerenti giuristi come Arturo Carlo Jemolo,
rimproveravano alla politica italiana. Negli anni Cinquanta il
cattolicesimo era stato preso da un’inquietudine. Il card. Siri
paventava la diffusione del laicismo tra i cattolici, sulla scia del
pensiero di Maritain, considerando l’autonomia dei laici cattolici e democristiani eccessiva rispetto al primato di guida
della Chiesa. Per Dossetti, che aveva fondato a Bologna dopo
l’abbandono della politica la sua “officina” teologica, era necessaria una riforma che recuperasse le dimensioni perdute del
cristianesimo patristico. A questa intuizione si ricollega anche
l’animazione di una corrente spirituale in cui, accanto ai laici,
hanno un posto prioritario le famiglie monastiche da lui fondate. Il pontificato di Giovanni XXIII aveva spiazzato attese e
discussioni con la sua pastoralità e le aveva proiettate dall’ambito italiano a quello universale del Concilio.
ANDREA RICCARDI
Università
di Roma Tre
≈
“La vita della
Chiesa italiana
non corrisponde
ad una geometria
storica, ma è il
prodotto di una
stratificazione
plurisecolare in
cui… si… vede un
disegno che va al
di là delle volontà
pastorali”
≈
Il nuovo corso di Paolo VI
• Toccava a Paolo VI, che aveva avuto grandi responsabilità nel cattolicesimo italiano dalla fine degli anni Trenta,
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Andrea Riccardi
dare un nuovo orientamento. Il cattolicesimo, che Paolo VI eredita, è quello di una
militanza inquadrata nella forte Azione Cattolica (3.600.000 iscritti nel 1962 all’aprirsi del Vaticano II), di una classe dirigente cattolica, di un ceto episcopale funzionante nella CEI: insomma una nazione cattolica ancora forte. Eppure, da molti
anni prima della sua elezione, Giovanni Battista Montini era convinto che questo
cattolicesimo non fosse destinato a reggere all’impatto con la modernità. Lo manifestava dagli anni Trenta nelle sue proposte culturali e religiose alla FUCI, che gli
valsero l’accusa di liturgismo presso il card. Vicario, Marchetti Selvaggiani. Lo
aveva manifestato a Milano con la grande missione nella città, che è stata studiata
nel suo sviluppo e nella qualità dei suoi partecipanti.
• Nel 1956 mons. Montini aveva voluto prefare l’opera di mons. Leo Jozef
Suenens, L’Église en état de mission, che voleva rendere tutti i cristiani missionari
nel mondo europeo e fuori di esso. Nel 1962, parlando della vocazione missionaria
della Chiesa, affermò: “se questa gente – riferendosi ai musulmani incontrati in
Nigeria – ha una tale coscienza della propria religione da farsi da mercanti apostoli,
che cosa dovrebbero essere i nostri cristiani, i nostri cattolici, gli alunni dei nostri
collegi, delle nostre università, i nostri giovani di Azione Cattolica, che spesso si direbbero inabili a pronunziare una sola sillaba di testimonianza e di apostolato per
Cristo Signore?”. Ed aggiunge: “bisogna che ogni cattolico sia diffusivo”. Per lui la
sfida resta quella posta dai francesi nel dopoguerra e interrotta dalla condanna dei
preti operai nel 1954: come la Chiesa può farsi missionaria nel mondo cristiano.
Ed è significativo che, nel citato discorso, ricordi il problema posto nell’immediato
dopoguerra dal card. Suhard, arcivescovo di Parigi, con la sua nota lettera pastorale, Essor ou déclin de l’Église?. Il ragionare sulla Chiesa italiana di Montini si rivolge
con grande interesse al cattolicesimo francese, quello che, per primo, ha fatto i
conti con la modernità. Per evitare il declino della Chiesa occorre la missione. Ma
un’opportuna riforma della Chiesa stessa la deve rendere atta a questo compito
epocale.
• L’arcivescovo Montini da una parte e, un suo giovane prete, don Luigi Giussani, in fondo sentivano allo stesso modo la fragilità del cattolicesimo italiano nelle
sue strutture ufficiali. Giussani coglieva la fragilità dei praticanti abitudinari e la
subordinazione dei cattolici alla cultura laica: proponeva di far rinascere negli ambienti, specie studenteschi, la comunità cristiana, considerandola tale anche quando si trattava di giovani, come soggetto di cultura e di presenza. In un certo senso
bisognava ricominciare con un movimento di cristiani. Montini, che vedeva necessaria una riforma delle strutture portanti della Chiesa, la osservava dall’alto e nel
suo complesso. Così seguiva con preoccupazione il formarsi spontaneo di realtà aggregative: “si forma un gruppo – dice alla Giac nel 1962 – e si crede di essere sociali, comunitari, dati tutti agli altri, e non si è fatto altro che allargare la cerchia del
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Andrea Riccardi
proprio egoismo, che da individuale diventa collettiva e ci si separa invece di unirsi... si entra in un piccolo ambito, in una chiesuola, in un campanilismo, in uno
spirito di gruppo che si traduce poi, per difendersi, in una continua critica agli altri: quante ne avete sentite contro l’Azione Cattolica da questi gruppi anche nati
con un certo spiritualismo cristiano...”.
• L’azione riformatrice di Montini si fa sentire nella Curia, nella diocesi di Roma, nella Conferenza episcopale italiana, dove egli intende promuovere un nuovo
personale dirigente consapevole della missione prioritaria da compiere. È l’immagine di quel “principe riformatore” di cui ho parlato, specie ne Il potere del papa.
Questo principe riformatore, per così dire, non rinuncia mai all’idea della missione
(basta guardare i suoi discorsi alla diocesi e alle parrocchie di Roma), che chiama
“evangelizzazione”. Tuttavia il grande problema del disegno riformatore e missionario montiniano è l’impatto con il movimento molecolare che sale dal ’68, dove
la soggettività dell’esperienza acquista un suo valore talvolta normativo. Non è qui
il caso di analizzare questo processo che caratterizza il pontificato montiniano, con
una scomposizione molecolare dei quadri e delle istituzioni della Chiesa. In questo
quadro la riforma è difficile: “ci avessero fatto lavorare in pace, avremmo profondamente cambiato la Chiesa” – mi disse mons. Manziana, vescovo di Crema, intimo
di papa Montini, alludendo più al papa che a lui.
La grande crisi e le speranze di Paolo VI
• Papa Montini credeva di dover fare i conti soprattutto con le resistenze che
gli venivano dal “partito romano”, dagli ambienti più legati all’eredità di Pio XII o
all’impostazione di Luigi Gedda. Al ridimensionamento di questo mondo e della
sua influenza, avrebbe provveduto con la riforma della Curia e con un nuovo
orientamento della CEI. Invece si trova a misurarsi con il clima antistituzionale del
’68, che faceva sentire la sua spinta nella più antica istituzione europea, la Chiesa.
Mons. Castellano, nel 1968, parla dell’esistenza di 800 gruppi spontanei. Sono anni in cui il Concordato è rimesso in discussione, la DC messa sotto accusa come
“mostro teologico”, la base esaltata come approdo vero dell’esperienza cristiana, in
un quadro culturale dove suggestioni evangeliche, messaggi conciliari, cultura di
sinistra si fondono in quello che sembra essere lo “spirito dei tempi”. Le misurate
riforme montiniane fanno parlare di Concilio tradito, come in quegli anni si scriveva a proposito del tradimento della Resistenza da parte di Alcide De Gasperi.
Quali gli strumenti per misurarsi con questo movimento cattolico antistituzionale?
Il rigore della disciplina ecclesiastica (che Paolo VI aveva voluto attenuare con la
riforma del Sant’Uffizio) o il dialogo?
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Andrea Riccardi
• Il card. Giovanni Colombo, arcivescovo di Milano, scrive al presidente della
CEI, Antonio Poma, nel 1970: “tutti poi si è sconvolti dal dilagante fenomeno della contestazione... e l’Episcopato italiano offre quasi l’impressione di non sapere
che cosa dire, e di aspettare per vedere come vanno a finire le cose: un giorno non
sarà rimproverato di pavido silenzio”. In realtà, Paolo VI punta sulla ricezione in
profondità del Vaticano II in Italia, per creare una realtà di laici e preti, che se ne
faccia carico. La riforma montiniana dà responsabilità alla CEI, alla cui testa il papa pone, al posto del card. Giuseppe Siri, delfino di Pio XII, il card. Giovanni Urbani prima, poi dal 1969 il card. Poma. La CEI si struttura con le sue commissioni, i suoi uffici, i suoi piani pastorali, divenendo il soggetto centrale della vita della
Chiesa in Italia. Si può dire che, da quel momento, comincia ad esistere una Chiesa italiana con un suo centro responsabile. Un nuovo episcopato, favorevole al Vaticano II ed alla sua lettura montiniana, prende piede in Italia: Giovanni Colombo
a Milano, Giovanni Urbani a Venezia, Michele Pellegrino a Torino, Corrado Ursi
a Napoli, Ugo Poletti a Roma, Salvatore Pappalardo a Palermo, Anastasio Ballestrero a Bari (seguito poi da Mariano Magrassi). Ma questo processo avviene in un
clima di forte lacerazione.
• Il convegno “Evangelizzazione e Promozione Umana” del 1976, che raccoglie le rappresentanze delle diocesi italiane, vuole essere la manifestazione nazionale di un cattolicesimo che dà il primato all’evangelizzazione, ma che connette ad
essa l’attività sociale e politica, detta promozione umana. È una risposta alla politique d’abord dei cristiani del socialismo o di quella sinistra cattolica che riteneva necessario mutare le strutture prima di parlare della fede. Tuttavia non mancano le
difficoltà interne alla stessa area cattolica che si riconosce nella CEI. Non sono solo
quelle del referendum del 1974, una scelta alla fine di Paolo VI; ma si tratta di un
progressivo distacco dei laici montiniani dallo stesso papa, considerato troppo prudente e mediatore. I sintomi di questo distacco sono tanti. Moro e Fanfani attaccano il card. Poletti che, a Roma, aveva indetto il convegno sulle attese di carità e
giustizia nel febbraio ’74, presentando la Chiesa con un suo profilo autonomo rispetto all’amministrazione democristiana della città. I montiniani in politica vedono con fatica la nuova soggettività della Chiesa nelle questioni sociali del paese. I
montiniani nelle istituzioni cattoliche vorrebbero un maggior spazio dei laici nel
processo decisionale della Chiesa.
• La visione di Paolo VI è più larga dei suoi amici italiani: la sua visione riguarda il destino della Chiesa in Europa e nel mondo. L’ultimo Montini, meno noto, è
il papa dell’Evangelii nuntiandi, che è un disegno di grande orientamento della
Chiesa sulla comunicazione del Vangelo. Dal Giubileo del 1975 (che uno studioso
laico, Alphonse Dupront, giudica un grande successo, malgrado la crisi), il papa
sembra cogliere qualche segnale di rinascita, spesso al di fuori di quelle forme reli-
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giose a cui era personalmente più legato, come avviene nel movimento carismatico
che gli viene presentato dal card. Suenens. Alla fine degli anni Settanta, nonostante
le polemiche che ancora li dividono, i cattolici sono cambiati anche nella qualità
della loro adesione. Se sono meno praticanti, non sono però distanti dalla Chiesa.
Se sono partecipi, lo sono con tonalità diverse.
• Grande spazio ha acquistato quello che potrebbe definirsi un nuovo movimento biblico che, a partire dalla Dei Verbum, ha colmato nel cattolicesimo l’“esilio della Parola”, come lo ha chiamato Enzo Bianchi. La Comunità di Bose stessa,
espressione di un monachesimo che vuole essere un ritorno ai Padri e alla Bibbia
nel nostro tempo, è segno di questa nuova affermazione del primato della Scrittura. Non si tratta solo di studi biblici, ma della diffusione della “lectio divina”, di
una “pietà” della Bibbia, che ha coinvolto un largo numero di cattolici. Il card.
Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, con le sue pubblicazioni, ma anche
con la sua azione pastorale, è stata la personalità più espressiva di questo nuovo interesse per la Bibbia tra i cattolici italiani.
Un tessuto carismatico italiano
Il tessuto del cattolicesimo italiano non è solo scomposto dal postConcilio e
dalla contestazione, bensì si presenta caratterizzato da una profonda e varia stratificazione. La storia della parrocchia in Italia mostra le differenze profonde tra la parrocchia urbana napoletana, quella rurale meridionale, l’ambrosiana o la veneta.
Quando si parla di “parrocchia in Italia” si utilizza una categoria teologica per
identificare una realtà che, al di là dell’istituto canonico, ha una morfologia molto
differente. Ad un importante convegno tenuto ad Assisi nel 2003, i cui atti sono
stati pubblicati a cura di Marco Impagliazzo, ho avanzato l’ipotesi di un “tessuto
carismatico” nel cristianesimo italiano. Era quello di personalità inquiete, che dopo il Vaticano II sono state definite profetiche, le quali, più o meno, si sono identificate con la “primavera” di papa Giovanni, colui che – diceva Ungaretti – “ha reso
vivibile agli occhi di tutti la santità”. È un mondo variegato che va da Giovanni
Vannucci, mistico e attento alle religioni non cristiane, a padre Benedetto Calati, a
lungo responsabile dei camaldolesi ma anche riformatore e crocevia di amicizie, a
padre David Maria Turoldo, poeta e impetuoso predicatore. Ma è un mondo di
storie particolari di santità, poco note, come quella della stigmatizzata calabrese,
Natuzza Evolo, o dell’eremita sull’Aventino, suor Nazarena, sino a Giuseppe Sandri (amico di don De Luca e di Romana Guarnieri) che abbandona il sacerdozio
nel 1949, e per più di trent’anni, da povero ed eremita, attraversa l’Italia e anima
una rete di amicizie cristiane.
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Andrea Riccardi
• Questo tessuto complesso conosce non solo casi individuali, ma correnti vaste. Il movimento più largo è quello di padre Pio da Pietrelcina, insediato dal 1918
al 1968 non lontano dal Gargano (dov’è l’antichissimo santuario di San Michele),
alla cui figura si lega una larga corrente di devozione nel paese. Il pontificato montiniano segna, per il frate, il superamento delle difficoltà che avevano caratterizzato
gli ultimi anni con Giovanni XXIII. P. Pio, come un rude starchy meridionale, parla di sollievo al mondo dei suoi devoti: “non si poteva frequentare il popolo in Italia senza incontrare questo personaggio, presente ovunque, una chiave per aprire i
cuori” – ha scritto Elemire Zolla. Qui ci imbattiamo in tutt’altro mondo rispetto
al cattolicesimo organizzato da Pio XI a Paolo VI.
L’avvento delle “comunità”
• Bisognerebbe accennare anche a don Zeno Saltini di Nomadelfia e alla sua
avventura che ripropone il modello della comunità degli Atti degli Apostoli, in severa polemica con la Chiesa di Pio XII e la Dc (ma appoggiato da Ottaviani). Lontano dall’evangelismo sociale è, invece, don Divo Barsotti, a cui si deve l’introduzione in Italia della spiritualità russa, fondatore di comunità monastiche e laiche,
animatore di una corrente spirituale profonda, nutrita di patristica, un poco ai
margini nella Chiesa di Pio XII e Paolo VI. Già si è detto dell’analisi sulla crisi del
cattolicesimo pacelliano da parte di don Giussani, da cui prendono le mosse prima
Gioventù Studentesca di Milano e poi un movimento di laici, Comunione e Liberazione, riformatosi dopo la crisi del ’68, destinato a divenire una realtà nazionale,
espressiva di una proposta cattolica di presenza.
• In realtà i cosiddetti movimenti hanno, in buona parte, un’origine precedente al Vaticano II. È il caso di un altro importante movimento, quello dei Focolari
che, con la seconda guerra mondiale, prende l’avvio da Trento per allargarsi a Roma e all’Italia. La sua fondatrice, Chiara Lubich, anche perché donna, è tenuta sotto controllo dal Sant’Uffizio e sospettata di “profetismo” per la sua spiritualità dell’unità. Il pontificato di papa Montini segna per i focolarini un processo di largo
inserimento nella Chiesa italiana. Questi non sono che alcuni esempi di quel tessuto carismatico, popolare, di gruppo e di percorsi individuali, che fa il cattolicesimo
italiano e che, negli anni di Pio XII, aveva conservato una certa autonomia (se non
era rimasto in ombra).
• C’è poi un cattolicesimo popolare, quello della pietà e dei santuari, talvolta
saltuario nella pratica, sulla cui vicenda, dopo il Vaticano II, siamo davvero male
informati. Nel cuore degli anni Settanta – si pensi al lavoro di Gabriele De Rosa,
attento alla lezione di De Martino e in dialogo con quell’originale studioso che è
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stato Alfonso Maria Di Nola – si rivalutava il ruolo della religiosità popolare da un
punto di vista storico: “non abbiamo due religioni differenti: una quella del clero
riformatore, considerata ‘pura’, e l’altra, quella popolare, considerata inferiore”, dichiarava De Rosa a Vicenza nel 1977. Eppure la pastorale conciliare ha dedicato
scarsa attenzione al mondo dei santuari. Tuttavia questo universo si è rafforzato;
sono sorti nuovi santuari, come quello di Sotto il Monte-Giovanni XXIII (originale nel suo essere senza tempio e senza corpo del beato); si sono create nuove reti,
come Radio Maria o i devoti di Medjugorje (dove la prima apparizione mariana è
del 1981). Inoltre, nell’Italia degli immigrati, dagli anni Ottanta, i santuari hanno
avuto un ruolo di integrazione della religiosità degli stranieri (anche non cattolici).
La religiosità popolare
• Il flusso forte e silenzioso di questa pietà popolare ha messo in luce un aspetto a cui il cattolicesimo del dopo Concilio ha limitatamente risposto: è un cattolicesimo che, come notava Alphonse Dupront, rischia di ritirarsi nel mondo dei
giusti e dei santi nello spazio della verità e dello spirito. È la storia della liturgia italiana dopo il Concilio, che ha trascurato i canti, i gesti, i silenzi, il popolo, con
un’attenzione troppo centrata all’elemento didascalico e al ruolo del prete-liturgoprotagonista. Proprio in un tempo in cui, con il ’68, si compiva una grande rivoluzione antropologica, quando la psicologia diveniva una koiné, ci si allontanava dal
mondo del corpo, della gestualità, dei sentimenti. Su questo spazio è rimasta ad
operare, la religiosità popolare e quella dei santuari. Al contrario, le nuove espressioni caratterizzanti gli anni Sessanta-Settanta, specie a livello giovanile, quelle di
un tempo di politicizzazione, come le assemblee, le riunioni, i dibattiti, sono state
intercettate nella gestualità dei movimenti.
• I tentativi di ricomposizione del cattolicesimo, come quelli intrapresi dal padre Sorge, direttore de «La Civiltà Cattolica», mostrano una certa irriducibilità di
un cristianesimo dai molteplici aspetti. Tale ricomposizione sulla scia del convegno
nazionale del 1976, secondo Sorge, avrebbe dovuto dar luogo ad una compattezza
articolata e a un nuovo rapporto con la Dc e la politica. Insomma avrebbe avuto
quasi la funzione di occupare lo spazio dell’Azione Cattolica, che resta un vuoto
permanente dopo il Vaticano II: quello di laici vicini alla gerarchia, capaci di un rapporto con la politica, che si riconoscono nella soggettività delle Chiese diocesane.
• Sorge, alla fine del convegno del ’76 (che lo aveva visto assurgere al ruolo di
relatore finale, anche per la morte di Bartoletti), segnalava il rischio di una divisione tra una Chiesa istituzionale e una Chiesa reale, proponendo la creazione di una
struttura permanente di consultazione e di collaborazione, come “un luogo di in-
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contro, di dialogo, di analisi, di iniziativa...”. Del resto le visioni erano differenti: al
gruppo sulla politica, presieduto da Pietro Scoppola (“cattolico del no” nel 1974),
questi aveva sostenuto come “il pluralismo sia testimonianza della ricchezza della
fede che permette diverse opzioni politiche”. Don Camillo Ruini, allo stesso gruppo, affermava come “positiva la laicizzazione della Dc... ma ha sostenuto che la
Chiesa deve mantenere un impegno a suo favore, una ‘indicazione non vincolante’
per non cedere il passo al PCI”. Franco Bolgiani, un intellettuale vicino al card.
Pellegrino, pur rifiutando un integrismo di sinistra che si sostituiva ad uno di destra, affermava invece: “il PCI può aspirare a presentarsi, nonostante forti contraddizioni, come il partito della società civile italiana”.
Giovanni Paolo II e la crisi
• Il pontificato di Paolo VI non si conclude con un bilancio che può essere
classificato con i termini di “ripresa” o di “crisi”. Tuttavia, tra quelle che sembrano
essere le difficoltà della Chiesa negli anni Settanta, Paolo VI coglie alcuni elementi
di vitalità. Lascia poi al suo successore – come lui stesso afferma – uno strumento
importante, la Conferenza episcopale italiana, come referente primario per la
Chiesa nel paese. È indubbio che il primo impatto di Karol Wojtyla con il cattolicesimo italiano abbia generato in lui, proveniente dalla Polonia, la sensazione di
una crisi molto forte. I primi passi di Giovanni Paolo II sono condizionati dal problema dell’accettazione di un papa non italiano da parte dei romani e degli italiani.
Si deve notare una certa delicatezza di papa Wojtyla nel contatto con gli italiani,
con la volontà di sintonizzarsi con le tradizioni spirituali del paese e con le sue diocesi (attraverso molte visite alle Chiese italiane). Un notevole rispetto emerge nel
trattare anche la CEI, come si vede nel discorso del maggio 1979, quando con le
dimissioni del card. Poma, a norma dello Statuto della CEI, avrebbe dovuto sceglierne il successore.
• Il comportamento di Giovanni Paolo II illustra bene il carattere della sua
azione, che non vuole innovare la struttura ma intende darle un contenuto differente: “... il menzionato principio poneva dinnanzi al Papa, un compito molto difficile
e, nello stesso tempo non volendo agire in contrasto con tale norma, ho ritenuto opportuno... di ricorrere ai Presidenti delle Conferenze Regionali, chiedendo di esprimere le
loro opinioni per assicurare la successione del cardinal Poma”. La maggioranza dei vescovi indica Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino, ed il papa lo nomina. Sono indicazioni che non segue successivamente (o non richiede) per dare un successore a Ballestrero e a Poletti. Infatti tra Giovanni Paolo II e i vescovi italiani, almeno i principali, esiste una qualche difficoltà. Questi ultimi hanno la percezione che
il papa non colga la complessità del cattolicesimo nazionale e sia portatore di un
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modello polacco. L’osservazione del papa a Czestochowa di fronte alle masse cattoliche polacche (“sarebbe bello anche nella nostra Italia”) sarebbe stata così commentata dal card. Ballestrero: “non ci farà diventare tutti polacchi”.
• Ballestrero, personalità di grande fedeltà al papa, rappresenta il disagio. Il
presidente della CEI non condivide un’idea democratica di Chiesa: “nell’organizzazione del consiglio fanno capolino alcuni elementi che sembrano mutuati dal
moderno modo di convivere e reggere la società”, dice al consiglio pastorale di Bari
nel 1974, alludendo alla democrazia e alla rappresentatività. Alcuni pensieri di Ballestrero, raccolti dalle sue conversazioni, mostrano la diversità della visione pastorale del cardinale dall’impulso di Giovanni Paolo II. A quest’ultimo sembra che sia
in ribasso l’autostima dei cattolici italiani per la loro missione nella nazione e per la
funzione del paese in Europa e nel mondo. Nei suoi innumerevoli incontri il papa
tenta di tracciare una specie di teologia della nazione per l’Italia; non trascura di lodare “l’animus religioso dei vostri fedeli”, come dice alla CEI nel 1979, mentre nota un certo frazionismo della pastorale. Ai vescovi, che credono che la crisi religiosa
italiana venga dalla secolarizzazione inevitabile, il papa propone una lettura un poco diversa: il cristianesimo “ha dovuto far fronte agli attacchi, i quali, dagli opposti
fronti del laicismo e del materialismo... hanno inferto gravi danni alla vita spirituale della nazione”.
• La Chiesa è stata “una grande donatrice di sangue” nella storia nazionale –
dice nel 1979 –; così, nella crisi italiana, deve essere un punto di riferimento per un
paese in cui “la Chiesa rischia di trovarsi in un complesso di inferiorità e di subire anche in un certo modo condizioni di ingiustizia e di discriminazione”. Tra il 1981 e il
1982 il papa riceve in visita ad limina le conferenze episcopali regionali e può così
completare la sua visione. La Chiesa, in un periodo di difficoltà nazionale, deve
“partecipare attivamente alla ricostruzione del tessuto civile della nazione, fondato
sui valori etici dell’umanesimo cristiano”.
Minoranza in una nazione a maggioranza cattolica
• Nel 1981 viene respinto il referendum abrogativo della legge sull’aborto, in
favore del quale si era impegnato il mondo cattolico. Pochi giorni prima della votazione era stato compiuto l’attentato al papa in piazza San Pietro. La sconfitta cattolica al referendum apparve come un ulteriore logoramento della presa della Chiesa
sui costumi nazionale, anche perché la percentuale favorevole all’abrogazione della
legge sull’aborto era stata inferiore a quella dei favorevoli all’abrogazione della legge sul divorzio nel 1974: infatti nel 1974 i no all’abrogazione del divorzio erano
stati il 59,1% dei votanti e i no all’abrogazione della legge 194 nel 1981 erano stati
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il 67,9%. D’altra parte il mondo cattolico, pur non avendo conosciuto le lacerazioni del 1974 tra cattolici del sì e del no, aveva avuto un impegno dal profilo piuttosto basso. Sembrava che ci fosse un inevitabile decadimento della Chiesa nel paese,
che portasse i cattolici ad essere minoranza. Bisognava gestire questo declino con
consapevolezza: tale era la posizione dell’Azione Cattolica presieduta da Alberto
Monticone.
• Proprio sul tema del cristianesimo come minoranza, si tenne a Sant’Egidio,
nel giugno 1981, un incontro tra movimenti e personalità laiche, a cui partecipò lo
stesso mons. Martini (“Da noi – disse – c’è una minoranza che parte da una maggioranza”). In quell’incontro Buttiglione parlò di “coscienza nazionale smarrita”.
Pietro Scoppola, in disaccordo con Buttiglione sulla valorizzazione della nazione,
affermò la necessità di “riprendere il largo per muoversi poi con maggiore profondità”. Giussani, concordando con i problemi che aveva posto chi vi parla (cioè partire da una condizione di minoranza per evangelizzare, mentre la frammentazione
non è pluralismo), affermava che al Liceo Berchet, negli anni Cinquanta, era proprio partito da questa realtà; ma ora “il punto di partenza oggi: la tradizione... Se la
fede non ha incidenza esistenziale, a che vale?... I ragazzi non li posso tenere solo con
una analisi culturale: prima ci deve essere una speranza ridestata”.
• Da parte sua Monticone rifiutava la definizione di minoranza per il cattolicesimo italiano, perché “pone il problema di trovare il nemico”: “il vero Diocleziano [che tale figura era stata proposta come quella di una persecuzione senza volto]
è nella difficoltà dell’evangelizzazione quotidiana”. Scoppola notava come “nella
fase formativa, un po’ di integrismo è necessario. Mi fa paura l’integrismo di ritorno...”. Giussani, da parte sua, rispondeva: “Sento il pericolo di mutilare l’esperienza di fede”, anche se dichiarava che non gli interessava essere maggioranza. Scola
affermava la centralità di una fede trainante: “La fase calda mi accompagna sempre”. Sono spezzoni di un dibattito, spesso fatto a distanza in quegli anni, di un
cattolicesimo che si scopre meno condiviso in Italia, ma ugualmente una realtà importante del paese.
• Il nuovo pontificato si allontana da un’idea di razionalità pastorale da far
passare a Chiese locali, movimenti, parrocchie, istituzioni, mentre propone un
orizzonte comune. Il papa fa la sua sintesi delle diverse chiavi di lettura, ponendosi
con la sua sensibilità al di là di esse: egli guarda ad un cattolicesimo di popolo. Con
la sua pietà personale, il papa visita innumerevoli santuari e ne difende la religiosità: “esiste infatti il pericolo di annettere a tali espressioni dello spirito un senso solo antropologico o sociologico di sub-cultura... – dice ai vescovi della Basilicata e della Puglia. Al contrario si tratta spesso di momenti di religiosa pienezza in cui l’uomo recupera un’identità perduta o frantumata, ritrovando le proprie radici”. E conclude: “asse-
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condando una certa moda svalutativa della religiosità popolare, si corre il rischio che i
quartieri, i paesi ed i villaggi, diventino deserto senza storia, senza cultura, senza religione, senza linguaggio e senza identità...”. La vita della Chiesa italiana non corrisponde ad una geometria storica, ma è il prodotto di una stratificazione plurisecolare in cui Giovanni Paolo II vede un disegno che va al di là delle volontà pastorali.
Un ruolo-guida della fede
• Il papa, nei primi anni del suo pontificato, cerca interlocutori per il suo operare in Italia. Li individua nei movimenti più antichi e nuovi del paese: egli li incontra e li conosce, mentre la loro situazione giuridica presso la CEI è tutt’altro che
chiarita. L’impegno del papa si svolge su due binari: da un lato incoraggia queste
realtà e dall’altro rispetta i vescovi che, in maggioranza, sono perplessi di fronte ai
movimenti. Gli pare, però, che si debba proporre la vita cristiana come la risposta
semplice e immediata alla crisi del paese, ad esempio quella del terrorismo: “che
cosa si può fare per frenare l’onda dilagante di questa follia omicida? Il cristiano ha
una sua risposta: pregare e amare” – dice nel 1980.
• Giovanni Paolo II cerca di sintonizzarsi con il tessuto religioso del paese. Se i
rapporti con l’episcopato non sono improntati ad una facile comprensione (anche
se non si discute la devozione al papa: “noi vescovi italiani – diceva mons. Magrassi, arcivescovo di Bari e grande liturgista – ci getteremmo nel fuoco per lui, ma è
che non ci sembra che comprenda bene questa nostra realtà”), il papa gode di
grande popolarità tra gli italiani, seppure i suoi atteggiamenti di presenza siano criticati dalla sinistra. Del resto, rispetto alla forza del partito comunista, ma anche
allo stesso partito socialista, il papa non nasconde – seppure non esibisce – la sua
diffidenza, radicata nella sua esperienza. Non crede, insomma, che il comunismo
italiano sia differente radicalmente da quello dell’Est.
• Il papa parlò ai vescovi lombardi sulla necessità che rinascesse una cultura
popolare ispirata dalla fede: “quell’insieme di principi e valori che costituiscono l’ethos
di un popolo, la forza che lo unifica nel profondo e che l’esperienza storica ha fatto maturare talvolta col duro prezzo di grandi dolori collettivi, costituendo un fondamento
comune, prima e oltre i diversi indirizzi ideologici e politici”. Questa prospettiva si
accompagna all’evangelizzazione. Si tratta di un orizzonte in cui Giovanni Paolo II
vuole collocare tutti i segmenti del cattolicesimo italiano che egli sente al plurale,
ma non destinato alla divisione. Questo è il suo rinnovamento. I vescovi se ne debbono far carico. I vescovi – aveva detto nel 1979 – “sono una rappresentanza legittima e qualificata del popolo italiano, sono una forza sociale, che ha una responsabilità nella vita dell’intera nazione”. I vescovi debbono essere leader sociali.
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L’aggiornamento del Concordato
• Il rinnovamento dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato avviene quando il papa
sta rilanciando su basi diverse i rapporti tra la Chiesa e la nazione. In questo senso,
anche sotto l’impulso del Segretario di Stato, Card. Casaroli, e di mons. Silvestrini,
conviene con la necessità di un aggiustamento dello strumento concordatario. Vi
sono anche le preoccupazioni per le risorse di una Chiesa che, nonostante il valore
degli edifici che possedeva (da cui le polemiche sulle ricchezze della Chiesa), mancava invece di cospicui mezzi finanziari. Il nuovo Concordato poteva garantirli.
Con la crisi delle finanze vaticane, inoltre, la Chiesa italiana si trovava in notevoli
difficoltà economiche. Si pensi che Paolo VI finanziava direttamente, come Santa
Sede, il quotidiano cattolico «Avvenire», la costruzione delle nuove chiese di Roma
e pagava gli stipendi del Vicariato di Roma. Tutto questo viene a cessare con Giovanni Paolo II, per scelta del papa.
• La riforma del concordato vede in posizione centrale la Segreteria di Stato di
Casaroli e Silvestrini che, dopo le difficoltà del governo di Spadolini a firmare il
nuovo accordo, trova in Bettino Craxi, l’interlocutore per la conclusione delle trattative. Mentre Giovanni Paolo II non ha una specifica posizione sul Concordato, la
CEI di Ballestrero segue con interesse particolare due questioni: l’insegnamento
della religione nelle scuole pubbliche e la riforma del sistema beneficiale. L’impulso
a quest’ultimo passo viene proprio dal card. Ballestrero, che aveva constatato la difficoltà alla perequazione del trattamento del clero su base volontaria e quindi aveva
sollecitato che la questione fosse inserita nelle trattative con l’Italia. Con il governo
Craxi, la questione viene trattata in modo tale da creare un nuovo modo di finanziamento della Chiesa (“Craxi è stato il nostro Ciro” – disse Magrassi). Il concordato ha un riflesso molto importante sulla vita della Chiesa italiana che, per la prima volta dall’Unità, si trova a disporre di larghi mezzi finanziari. È un elemento
che non può essere dimenticato quando si affronta la storia del cattolicesimo italiano negli anni Novanta. Un altro aspetto importante è che la CEI viene menzionata
nell’atto concordatario: “è la sola cosa di cui è stato contento il card. Ballestrero nel
concordato” – disse il papa.
Loreto 1985
• Il disegno wojtyliano sull’Italia trova piena espressione nel convegno di Loreto del 1985, che era stato preparato da un comitato presieduto dal card. Martini,
arcivescovo di Milano. La figura del card. Martini è di particolare interesse nella
Chiesa di Giovanni Paolo II: fin dal 1984 Giovanni Valentini, in una breve e densa
biografia, ne parla come l’“antiWojtyla”, per il carattere differente dell’arcivescovo
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dal papa. Nel ministero dell’arcivescovo, anche per quel che riguarda i movimenti,
si riflette l’orientamento delle istituzioni e delle parrocchie ambrosiane; ma accomuna l’arcivescovo al papa, proprio l’atteggiamento di chi privilegia la comunicazione e la predicazione rispetto al governo ed al progetto. In realtà il card. Martini
diventa un rilevante riferimento per il cattolicesimo italiano, anche se il suo contributo è teso a sottolineare il primato dello spirituale. È un vescovo –come aveva indicato Giovanni Paolo II che – diventa leader nazionale...
• Che cosa porta Giovanni Paolo II alla scelta di Martini? Se nella nomina bisogna vedere il contributo del card. Baggio, prefetto dei vescovi, e della Segreteria
di Stato di Casaroli e Silvestrini, c’è anche la stima per il predicatore Martini e per
il suo operare pastorale nella periferia romana. Inoltre p. Martini, durante la congregazione generale del 1974-75 aveva mostrato “un cauto e silenzioso dissenso da
certi aspetti della linea Arrupe (almeno per l’insufficiente attenzione alle direttive della
Santa Sede)”, come scrive Martina. Martini rappresentava a Loreto una visione del
ruolo della Chiesa, in cui l’Azione Cattolica per suo conto si riconosceva. Alberto
Monticone avvertiva: “non ci illudiamo né come cittadini, né come Azione Cattolica
che una nuova stagione morale sia possibile in questo nostro paese se parte immediatamente da una apocalittica proclamazione dei valori etici”. Nello stesso senso Antonio
Acerbi, per lunghi anni docente nell’Università Cattolica, di cui tutti ricordiamo
gli studi, gli faceva eco, segnalando l’irrompere dei movimenti: “In Italia e particolarmente per certi movimenti l’appello alla proiezione sociale dell’esperienza cristiana
è, infatti, visto come momento compensativo della marginalità della Chiesa”. Per lo
studioso lombardo la Chiesa deve porsi il problema della sua identità sociale, ma in
termini rispettosi della complessità.
La “linea” per l’Italia
• Il convegno di Loreto rappresenta il confronto tra quella che è la sintesi elaborata da Giovanni Paolo II e la linea dei lavori preparatori. Il papa ribadiva come
la storia italiana era impregnata di cristianesimo, anche se si sentiva il peso delle
ideologie atee e del laicismo. Rivendicava con orgoglio il grande contributo del
cattolicesimo alla storia nazionale. Riproponeva al cattolicesimo italiano la via della missione, ma aggiungeva come gli sembrasse promettente “la grande varietà e vivacità di aggregazioni e movimenti, soprattutto laicali, che caratterizza l’attuale periodo conciliare”: un canale privilegiato per la Chiesa. Il papa notava l’esigenza di un
riferimento costante al vescovo da parte dei movimenti: ma il tutto andava vissuto
nella comunione con il papa. Chiedeva che “sia deposto ogni spirito di antagonismo e
di contesa, e che si gareggi piuttosto nello stimarsi a vicenda, nel prevenirsi reciprocamente nell’affetto e nella volontà di collaborazione”. Ed infine manifestava il fondo
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della sua visione per la Chiesa in Italia: “la fede cristiana abbia, o ricuperi, un ruologuida e un’efficacia trainante, nel cammino verso il futuro”.
• Negli ambienti dell’Azione Cattolica, il convegno di Loreto fu presentato
come l’affermazione della visione di Comunione e Liberazione, che era stata piuttosto marginale nel 1976. Ma era l’espressione della visione wojtyliana, attestata da
tanti interventi precedenti del papa sull’Italia. Giovanni Paolo II aveva elaborato la
sua linea per l’Italia, di cui la CEI doveva essere l’interprete. A questo fine il papa
individua in mons. Camillo Ruini, vescovo ausiliare di Reggio Emilia, il nuovo segretario della conferenza che, ben presto, ha alla sua testa il card. Poletti come presidente. Qui si apre la storia della crisi della Dc, del confronto con le tensioni e le
spinte secessioniste, verso cui Giovanni Paolo II è estremamente fermo, come si vede dalla grande preghiera per l’Italia negli anni Novanta. Ma questo, per oggi, non
ci riguarda. Resta una grande visione, quella di Giovanni Paolo II, che non si riduce a nessuno dei suoi interlocutori italiani (e li ha cercati e ne ha avuti non pochi in
Italia): una visione che succede al disegno di Paolo VI.
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I concordati di Giovanni Paolo II
Inquadrare l’accordo italiano del 1984 nella politica
concordataria di Giovanni Paolo II presuppone due riflessioni iniziali, la prima intorno ai caratteri della sua
politica concordataria, per individuarne le scelte complessive e i fattori che ne delineano i caratteri, la seconda intorno ai caratteri specifici dell’accordo del
1984, per valutarne l’appartenenza alla politica concordataria di Giovanni Paolo II, non solo dal punto di
vista cronologico, ma, soprattutto sotto il profilo dei
suoi aspetti formali e dei suoi contenuti.
• Ciò presenta qualche difficoltà, solo se si considera
che nei numerosi bilanci stesi in occasione dei 25 anni di
pontificato l’interpretazione prevalente è quella secondo la
quale «alla complessità dei problemi della vita della Chiesa il
papa risponde non solo e non tanto con il governo, ma con
altri aspetti del suo ministero, come l’insegnamento, la liturgia, i viaggi e altro».
Questo può spiegare perché, malgrado il numero degli
accordi concordatari firmati in questo quarto di secolo, pochi hanno guardato alla politica concordataria come ad uno
degli elementi caratterizzanti il pontificato. Solo qualche
specialista, nel quadro di un’analisi specificamente consacrata a questa tematica, ha cercato di ricostruirne il quadro e di
coglierne i caratteri di novità, ma anche di continuità con i
pontefici precedenti.
• Per offrire un primo dato, meramente quantitativo del
fenomeno, vorrei segnalare che, secondo le elaborazioni di
uno studioso dei concordati, il Corral, 147 dei 410 accordi
firmati dalla S. Sede tra il 1801 e il 2003 vanno ascritti a
Giovanni Paolo II. Il complesso di questi accordi rappresen-
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ROMEO ASTORRI
Università Cattolica
di Milano
≈
“La novità è…
rappresentata dal
fatto che, mentre
nel passato,
i concordati, in
quanto tali, erano
diritto particolare
pontificio, in questi
anni essi sono
divenuti anche
il fondamento
di un diritto
complementare,
la cui fonte sono
le conferenze”
≈
31
Romeo Astorri
ta perciò un corpus che non ha uguali nel corso della storia della Chiesa, neanche negli anni tra le due guerre che pure la dottrina ha definito l’età dei concordati. A completare il quadro secondo un’altra, forse più leggibile, prospettiva possiamo osservare
che sono 20 gli stati che hanno firmato un accordo generale in questo periodo, a cui
vanno aggiunte le convenzioni con 6 Länder della ex Germania Orientale.
Le iniziative concordatarie del Pontificato
• Come si vede gli oltre venticinque anni del pontificato di Giovanni Paolo II
sono stati un periodo di notevole attività della S. Sede sullo scenario internazionale
e di grande iniziativa concordataria. In questi anni molti stati, soprattutto europei,
sono stati coinvolti da tale rinnovata iniziativa della S. Sede, sia quelli, di antica
tradizione concordataria, come l’Italia, la Spagna e il Portogallo, i quali hanno rinnovato completamente i loro accordi, sia quelli, che hanno ripreso una tradizione
interrotta da lungo tempo, come la Polonia, la Lettonia, la Lituania, la Croazia e la
Slovenia, le repubbliche ceca e slovacca, o ancora, quelli senza alcuna tradizione,
come l’Albania e l’Estonia, la Svezia e due piccoli stati, come il Principato di Monaco e San Marino. Uscendo dal quadro europeo si devono segnalare 4 paesi asiatici, Israele, OLP, Kazachistan e Vietnam, 8 stati sudamericani, Argentina, Bolivia,
Brasile, Colombia, Equador, Paraguay, Perù e Venezuela e 5 stati africani, Camerun, Costa D’Avorio, Egitto, Gabon, Marocco, a cui va aggiunto l’accordo con
Organizzazione per Unione Africana del 2000 e, infine, 2 paesi dell’America Centrale, Haiti e la Repubblica Dominicana. Infine, e vanno considerati un corpus
concordatario importante, durante il pontificato di Giovanni Paolo II sono state
firmate le convenzioni generali con 6 Länder della ex Germania Orientale, 2 accordi con il Reich, 4 accordi di aggiornamento sulle questioni scolastiche con altri
Länder, e, da ultimo, una serie di accordi, di carattere finanziario e scolastico, con
l’Austria, mentre con la Francia sono stati siglati 2 accordi, per Trinità dei Monti e
per un centro universitario a Metz.
• Da questo lungo elenco si possono trarre alcune valutazioni preliminari. La
prima concerne lo spazio geopolitico di una tale politica, il cui baricentro rimane
ancora marcatamente europeo. Malgrado il sostanziale immobilismo dell’iniziativa
concordataria nei paesi dell’America Latina, l’allargamento dell’area europea dei
paesi concordatari, in conseguenza della crisi del blocco sovietico e la presenza di
paesi africani e asiatici segnalano che anche la politica concordataria va inquadrata
in quello che Cardia ha definito il «rinnovato universalismo» che il pontificato incarna e Colombo Sacco ha qualificato come «lo slancio con il quale il successore di
Pietro ha portato la Chiesa cattolica… nel moderno areopago dei rapporti interstatali». Una seconda osservazione prende spunto dalla cronologia degli accordi e per-
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mette di evidenziare la forte accelerazione intervenuta dopo il 1989. Prima di quella data, infatti, erano stati firmati solo accordi parziali, mentre, nel primo decennio
del pontificato, erano stati conclusi solo gli accordi generali con la Spagna, con il
Perù, con l’Italia e con il Principato di Monaco.
• Di fronte ad un fenomeno di tale portata, gli studiosi, come il d’Onorio,
hanno sottolineato che «loin de donner raison à ceux qui, à intervalles réguliers, présagent une ‘fin des concordats’ ou un ‘ralentissement de la politique concordataire’, Jean
Paul II a étendu et confirmé la traditionnelle activité du Saint-Siège en la matière». E
tuttavia una notazione analoga può essere fatta anche a proposito di Paolo VI, visto
che, già nel 1983, Francesco Margiotta Broglio notava che «nei quindici anni del
suo pontificato… Montini riesc[e] a concludere un numero di accordi (trenta) superiore a quello raggiunto dai suoi due predecessori (ventotto)» e che «risulta accresciuto, rispetto ai due pontefici precedenti, il numero dei concordati che tendono a regolare tutta
la problematica delle relazioni chiesa-stati o ad integrare, con la definizione di nuove
questioni, accordi già stipulati». Altri, come Martin de Agar, hanno posto l’accento
sull’influenza dei princìpi conciliari in questo settore che se non hanno portato all’abbandono degli accordi, hanno determinato un forte rinnovamento del loro
fondamento e dei loro contenuti, mentre il Corral ha rilevato che la politica ecclesiastica a livello internazionale, voluta e ricercata da Giovanni Paolo II, ha avuto
una sua ‘novità pattizia’ tutta peculiare se posta al confronto con gli esordi della
‘nuova era di concordati’.
Le ultime osservazioni aprono la strada ad una riflessione su due elementi che
costituiscono la chiave interpretativa di questa stagione concordataria, la questione
dei concordati con le democrazie e la novità nel modello che deriva dalla presenza
di nuovi soggetti che, ex parte Ecclesiae, intervengono nei rapporti con gli stati.
L’adeguamento alle costituzioni democratiche
• Quella che il Corral qualifica come novità pattizia non va riferita solo agli
accordi con i paesi dell’Europa ex-comunista, ma si estende lungo tutto il pontificato. In effetti, in questi venticinque anni si è assistito al superamento o alla nuova
legittimazione dei concordati firmati con i regimi autoritari europei negli anni di
Pio XI e di Pio XII. Dopo la firma del nuovo accordo portoghese del 2004, i concordati dei tre paesi dell’Europa meridionale che erano assurti a simbolo dell’alleanza tra la chiesa cattolica e i regimi autoritari o dittatoriali sono stati sostituiti da
una disciplina bilaterale coerente con le nuove costituzioni democratiche. Anche il
concordato con il Reich, di cui una sentenza del 1957 aveva sancito la costituzionalità, ha acquistato una nuova legittimazione democratica attraverso la firma delle
convenzioni con i nuovi Länder. Così, in quello con la Sassonia si parla di nuovo
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ordinamento sociale di libertà del Land, in quello con il Meclemburgo-Pomerania,
di società pluralistica, e nel preambolo dell’ultimo, quello con il Brandeburgo, si
qualifica la Germania federale come stato di diritto liberale e democratico. Al mutamento degli accordi del periodo tra le due guerre si aggiunge la stipula di quelli
con gli stati dell’Europa orientale usciti dal blocco sovietico, Polonia, Ungheria, Lituania, Lettonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Croazia, Slovenia, Albania, che
spesso sostituiscono gli accordi degli anni della Östpolitik di Paolo VI. In definitiva
il nuovo corpus concordatario ha segnato il superamento degli accordi con i paesi
autoritari, sia quelli prebellici, sia quelli degli anni di Paolo VI. Risulta perciò parziale il giudizio di chi, nei primi anni ’90, ha sostenuto che «il fulcro di quest’ultima [la politica concordataria N.d.A.] va individuato in operazioni dirette a consolidare con opportuni e a volte radicali aggiornamenti i sistemi concordatari esistenti in Europa». Ancora l’analisi della più recente politica concordataria mostra che
deve essere superata la tesi, diffusa in sede dottrinale, secondo la quale non solo la
svolta concordataria del XX secolo va collegata agli spazi offerti alla chiesa dai regimi totalitari, i quali hanno concesso un confessionismo più o meno accentuato in
cambio del sostegno della chiesa cattolica ai loro regimi, ma anche che il sistema
concordatario in quanto tale, andava interpretato sotto questa cifra ermeneutica.
• Nei preamboli degli accordi il richiamo alla nuova condizione democratica è
unito a quello delle nuove condizioni sociali che urgono ad un superamento degli
accordi precedenti o alla sistemazione delle relazioni tra Stato e Chiesa. E se l’accordo spagnolo del 1976 rappresenta un caso molto particolare, già nell’accordo
italiano ritroviamo osservazioni analoghe, che ancorano saldamente il corpus concordatario allo stato democratico e pluralista e ai principi del Vaticano II.
• Per quanto riguarda le osservazioni di Martin de Agar sul rinnovamento del
fondamento e dei contenuti dei concordati derivanti dai principi conciliari, a mio
avviso, tale novità si accompagna ad un’altra, la cui influenza sulla dinamica concordataria è altrettanto rilevante, costituita dal ruolo assunto dalle conferenze episcopali che, se non si è tradotto nella loro partecipazione alle trattative, le ha trasformate in un fattore decisivo nel superamento del modello degli accordi generali
e, comunque, in un fattore essenziale nella loro attuazione. In effetti, nella temperie tra le due guerre, il card. Gasparri era stato un rigidissimo tutore del ruolo
esclusivo della S. Sede nella trattativa concordataria, come dimostrano le vicende
della Polonia e il ruolo marginale dell’episcopato tedesco nelle trattative concordatarie, che ha portato lo Stutz a sostenere come fosse toccato ai governi assumere, di
fronte alla S. Sede, la funzione di difensori degli interessi delle chiese locali. Martin
de Agar riconosce nella sempre maggiore partecipazione della gerarchia locale ai
negoziati e nell’attuazione dei nuovi accordi, anche in qualità di parte contraente,
una delle tendenze generali dell’evoluzione dell’istituto concordatario. La stretta
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connessione tra ruolo delle conferenze e modello concordatario risulta confermata,
a contrario, anche dal fatto che solo in Germania, dove gli accordi sono firmati con
i Länder, e quindi senza la possibilità di un intervento organico della conferenza
episcopale, persiste il modello, nato all’inizio del secolo scorso, dell’accordo generale e unico.
Il modello del concordato Italiano
• Pur con la cautela che deriva dalla lezione dello Jemolo, secondo la quale
l’interprete deve essere attento a non cadere nel rischio di classificazioni aprioristicamente determinate, risulta, a mio parere, fondata l’ipotesi che individua nel modello realizzatosi nel concordato italiano del 1984, quello dell’accordo da cui ne dipendono altri, i quali non costituiscono vere e proprie fonti concordatarie, uno dei
tre modelli nei quali si possono suddividere gli accordi firmati durante questo pontificato. Ad esso si affiancano, infatti, quello che vede una pluralità di accordi paralleli tra di loro (il modello spagnolo) e, da ultimo, quello già ricordato delle convenzioni con i Länder tedeschi, che mantengono il modello formale degli accordi
della prima metà del secolo scorso.
• Va subito precisato che la nascita dei primi due modelli è caratterizzata da
una certa casualità. Il modello spagnolo, come, traspare chiaramente dai passi del
diario di Gianfranco Pompei, nei quali fa riferimento alla revisione del concordato
spagnolo del 1953, nasce nel quadro dell’incertezza determinatasi per il contrasto
tra mons. Benelli e mons. Casaroli intorno alla posizione da tenere verso il franchismo. Quando, nel 1976, è firmato il primo degli accordi con la Spagna, egli ne rimane profondamente deluso e lo definisce un accordo per rappezzi, in quanto si
era proceduto «in modo pragmatico, piuttosto che con una concezione d’insieme»
con il solo scopo di caducare gli aspetti più fortemente marcati di confessionismo
del concordato del 1953, il privilegio del foro e il diritto di presentazione dei vescovi. La recente testimonianza dell’allora sottosegretario agli esteri, Marcelino
Oreja, conferma le impressioni di Pompei, ma rivela anche l’influenza di un certo
anticlericalismo dell’allora presidente del consiglio, Arias. Secondo Oreja, il capo
del governo sollevò molte difficoltà sulla previsione di accordi parziali, cui dare poi
la qualifica complessiva di nuovo concordato. In realtà, nessuna delle parti intendeva, in quel momento, dar vita ad un nuovo concordato, lo Stato, perché non voleva rinunciare al diritto di presentazione, e la Chiesa per le perplessità che erano
emerse in sede conciliare a questo proposito.
• Malgrado le difficoltà, proprio in quella vicenda è possibile riscontrare il primo segnale di crisi del modello di concordato generale, perfezionato negli anni
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della Segreteria di Stato del card. Gasparri, e gli accordi spagnoli costituiscono l’inizio di un’evoluzione dell’istituto, che, a distanza di oltre venti anni, mostra come
la delusione di Pompei sia stata, per così dire, precipitosa.
Il modello, che potremmo definire dell’accordo quadro, nasce nel particolare
contesto del nostro paese. L’accordo di revisione italiano non sarebbe, infatti,
comprensibile senza tenere conto, da un lato, che molte forze politiche e la dottrina spingevanop per la “deconcordatarizzazione” di varie materie comprese nell’accordo del 1929, dall’altro che la parte vaticana non era disposta a rinunciare allo
status particolare che la costituzione assegnava ai Patti Lateranensi, e quindi al
concordato. La parte vaticana temeva, aldilà delle assicurazioni provenienti dalle
forze politiche italiane, che aprire una discussione anche solo sulle “foglie secche”
del concordato, potesse mettere a repentaglio tutto il sistema. Probabilmente da
qui deriva la scelta di prevedere un modello che consenta modifiche su questioni
particolari senza che il sistema entri in crisi. L’accordo, per mantenere sia una pur
molto discussa in dottrina, protezione costituzionale, sia la necessaria flessibilità,
ha dovuto rompere lo schema dell’accordo unico, e prevedere una sorta di “polimorfismo patrizio”.
• L’ultimo modello concordatario, quello rappresentato dalle convenzioni con
i Länder, va visto nel quadro politico e giuridico derivante dalla unificazione tedesca. Secondo la notazione di Hollerbach, la riunificazione ha dato un forte impulso
al diritto convenzionale. Ne sono derivati accordi, dapprima parziali, riguardanti le
circoscrizioni ecclesiastiche e le nomine episcopali, in seguito accordi generali, che
richiamano il modello di quelli degli anni tra le due guerre, peraltro mantenuto
anche nell’accordo con la Sassonia Inferiore del 1965.
Concordato e conferenze episcopali
• Se questo è, almeno in termini generali, il quadro della politica concordataria, rimane da chiedersi se l’influenza dell’accordo italiano sia consistita solo nel
fatto di avere costituito un modello originale. Rispondere a questa domanda,
tuttavia, impone di rispondere all’interrogativo se il concordato italiano, la cui
revisione aveva avuto inizio nel 1967, possa essere ascritto, aldilà del mero dato
cronologico, ai concordati di Giovanni Paolo II. A mio avviso la risposta a quest’ultima domanda è affermativa, e trova una prima ragione nella stasi prolungata delle trattative tra la quarta bozza, che risale all’inizio del 1979 e la quinta,
mai resa pubblica, del 1982. Una seconda ragione va vista nel nuovo scenario
che lascia intravedere l’esclusione della CEI, dopo il 1977. Infatti, all’attivismo
dei primi mesi del 1977, quando il consiglio permanente ha messo all’ordine del
giorno il contributo da dare, soprattutto dal punto di vista pastorale, alla pro-
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spettiva di revisione e, durante la successiva riunione del consiglio, dopo che
mons. Casaroli aveva informato sull’andamento della trattativa, «i vescovi hanno
espresso il loro parere sui principali problemi della trattativa» e nella XIV assemblea ordinaria del maggio successivo, mons. Clemente Riva ha tenuto una relazione sulle prospettive della revisione del concordato, sulla questione concordataria scende un prolungato silenzio, Il successivo riferimento a questo tema è costituito dal comunicato della presidenza del 18 febbraio 1984 in cui, pur nel
contesto di un giudizio formalmente positivo, si segnalano «gli obiettivi limiti di
quella che resta in pratica, pur a distanza di ormai 55 anni, una modificazione
del Concordato lateranense» e si elencano una serie di temi esclusi dalla trattativa, che pure rappresentavano le frontiere sulle quali si sarebbe giocato, per molti
aspetti, il futuro della società italiana.
Emerge indubbiamente una contraddizione tra il fatto che l’accordo, anche per
le procedure seguite nella sua applicazione, ha rappresentato il primo testo nel quale si prevede un ruolo organico per le conferenze episcopali e queste vicende, probabilmente riconducibili ad una certa presa di distanza del nuovo pontefice rispetto ad alcune posizioni dell’episcopato, che troverà conferma al convegno di Loreto
del 1985.
Il modello italiano e la prassi concordataria
• Per ricostruire il tema dei rapporti tra l’accordo italiano e la politica concordataria di Giovanni Paolo II mi muoverò lungo due linee di riflessione, la
prima riguarda la dipendenza dal modello italiano degli accordi successivi, la seconda cerca di evidenziare come alcuni contenuti e formule, specifici del concordato italiano, siano presenti anche negli articolati degli accordi firmati negli
anni seguenti.
Si può sostenere che il rinvio ad accordi sub-concordatari o paraconcordatari
in talune materie, tipico del modello “italiano”, è andato consolidandosi nella
prassi concordataria. Poiché tale modello, come detto, si concretizza nella previsione di una pluralità di accordi, anche di carattere formale differente, esso porta alla
partecipazione alle relazioni bilaterali di nuovi soggetti, sia da parte ecclesiastica, le
conferenze episcopali, che da parte statale, i ministeri competenti. L’esemplarità
del modello italiano si caratterizza poi per l’individuazione di alcune materie che le
disposizioni concordatarie riservano alla Conferenza episcopale e che, anche negli
accordi successivi diverranno una sorta di materia concorrente tra la S. Sede e le
conferenze, visto che alla prima sarà riservato il compito di offrire il quadro complessivo, mentre alle seconde toccherà quello di definire, in accordo con gli organi
dello stato, una disciplina più dettagliata.
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Il concordato del 1984
• Entrando nel merito del concordato italiano del 1984, esso prevede l’istituzione di una commissione paritetica con il compito di formulare una normativa
per «la disciplina di tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici e per la revisione
degli impegni finanziari dello Stato italiano e degli interventi del medesimo nella
gestione del patrimonio ecclesiastico» da sottoporre alle parti, un accordo circa il
riconoscimento dei titoli accademici, che «gli organi competenti delle due Parti
concorderanno opportune disposizioni in materia di beni culturali», una successiva
intesa tra le competenti autorità scolastiche e la Conferenza Episcopale Italiana la
disciplina di alcuni aspetti dell’insegnamento e, infine, che ulteriori materie per le
quali si manifestasse l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato
potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti, sia con intese tra le
competenti autorità dello Stato e la CEI.
Negli accordi successivi è possibile cogliere la continuità nell’individuazione
delle materie per le quali si prevede l’intervento delle conferenze episcopali e la ripresa di alcune espressioni letterali dell’accordo italiano del 1984.
I concordati Europei e Africani
• Su questa linea si muove il concordato polacco del 1993, ratificato nel 1998,
il quale prevede numerosi accordi tra le competenti autorità civili e la conferenza
episcopale in materia di insegnamento della religione, di scuole e università, di beni culturali e per gli impegni finanziari dello stato verso la chiesa.
Per l’ampiezza con cui è stato applicato il principio, va segnalato l’accordo con
il Gabon, il primo con un paese africano, che, nel titolo è qualificato esplicitamente come accordo quadro. Gli ulteriori accordi tra la conferenza episcopale e lo Stato, o i ministeri competenti, riguardano lo statuto civile dei beni ecclesiastici, le associazioni dei fedeli, l’assistenza spirituale, lo statuto delle istituzioni assistenziali e
caritative della Chiesa, e il loro finanziamento, le istituzioni scolastiche e un eventuale riconoscimento civile del matrimonio religioso. Il Protocollo addizionale prevede poi che un comitato bilaterale predisponga misure transitorie o permanenti
che facilitino l’applicazione dell’accordo.
• L’accordo con la Lettonia prevede un’intesa tra la conferenza episcopale e le
competenti autorità dello stato circa i beni sottratti illegalmente alla chiesa lettone
e una clausola generale per la quale i dettagli relativi a determinati aspetti specifici
saranno regolati con speciali documenti di intesa tra le competenti autorità della
Chiesa cattolica e della Repubblica di Lettonia. L’accordo base tra la Santa Sede e la
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Repubblica Slovacca rimanda ad intese tra le Alte Parti sul finanziamento alla
Chiesa Cattolica, che riguarderà anche le scuole. Ancora nell’accordo sul regolamento dei reciproci rapporti con la Repubblica Ceca del 2002, si rimanda ad
un’ulteriore intesa in materia di assistenza spirituale ai detenuti o a coloro che sono
in attesa di giudizio.
• Il modello delle intese sub-concordatarie è utilizzato anche in accordi ascrivibili al modello “spagnolo”, a dimostrazione che si tratta per alcune materie, come
i beni culturali e l’assistenza spirituale, di una scelta consolidata, la quale individua
nelle conferenze episcopali il soggetto preposto a trattare con lo Stato intorno a tali
problematiche.
L’accordo circa questioni giuridiche con la Croazia prevede un’ulteriore intesa
sull’assistenza spirituale nelle carceri, negli ospedali e negli altri istituti di assistenza, sui sussidi economici alle istituzioni della Chiesa cattolica al servizio del bene
comune della società, sulla mutua collaborazione delle proprie istituzioni assistenziali. Quello sulla collaborazione in campo educativo e culturale prevede intese tra
il Governo e la Conferenza episcopale sui programmi e le modalità di svolgimento
dell’insegnamento della religione cattolica e sull’accesso ai mezzi di comunicazione. sugli istituti cattolici universitari e sui titoli e gradi accademici da essi rilasciati.
Ancora, in materia di beni culturali, l’accordo croato prevede l’istituzione di una
commissione mista formata da rappresentanti della Chiesa cattolica e della Repubblica per la salvaguardia, la catalogazione, la protezione, l’incremento e l’accessibilità del patrimonio culturale della Chiesa cattolica e dei documenti custoditi negli
archivi e nelle biblioteche ecclesiastiche. Infine, più in generale, la conferenza episcopale è competente a firmare un’intesa sui beni culturali.
• Un’intesa sui beni culturali tra i competenti organi dello Stato ungherese e
la conferenza episcopale è prevista in Ungheria. Dal canto suo, l’accordo con la Lituania sulle questioni dell’educazione e della cultura prevede intese tra la conferenza episcopale e gli organi statali competenti in materia di programmi per l’insegnamento della religione, di procedura per la notificazione della revoca all’autorizzazione all’insegnamento, di accesso ai programmi televisivi e radiofonici, di beni
culturali. Ancora si stabilisce che la conferenza episcopale lituana e il governo istituiscano una commissione bilaterale permanente sui beni culturali. L’accordo sugli
aspetti giuridici prevede un’intesa, sempre tra conferenza e autorità competenti
della Lituania, sul tempo e la modalità della registrazione di un matrimonio religioso nel registro civile e l’istituzione di una commissione mista tra le parti per
l’applicazione dell’accordo. Anche l’accordo sulla cura pastorale dei cattolici che
servono nell’esercito prevede un’intesa tra conferenza e ministero della difesa sul
ministero pastorale dei cappellani militari e sulla loro condizione nella struttura
militare.
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• Da ultimo, vanno segnalati situazioni particolari, quella di Malta, dove nei 9
accordi firmati tra il 1986 e il 1995, si prevedono ulteriori intese in materia scolastica, di insegnamento della religione e l’istituzione di commissioni miste su scuole
e beni ecclesiastici, il Fundamental Agreement tra la S. Sede e lo Stato di Israele e
l’accordo di base con la Repubblica Slovacca, nei quali sia si rimanda ad altre intese. L’Agreement prevede un’intesa sulla personalità giuridica degli enti (Legal Personality Agreement) e sulla proprietà, sul trattamento fiscale ed economico della
Chiesa cattolica in Israele, mentre l’accordo con la Slovacchia prevede che le Alte
Parti firmeranno un’intesa particolare sull’assicurazione finanziaria alla chiesa, e intese internazionali sulla scuola, sull’insegnamento della religione cattolica e sulle
università cattoliche e sulle facoltà di teologia, i seminari e le istituzioni formative
religiose.
Tipologia e specificità
• Da quanto detto emerge che, se la tipologia dell’accordo quadro è nata casualmente, la scelta di tale modello è divenuta un’opzione stabile nella politica
concordataria.
A questa prima osservazione vanno aggiunte due altre notazioni. La prima riguarda l’art. 7 dell’accordo italiano. Come si è detto, prevede che le parti costituiscano una commissione paritetica con il compito di formulare una disciplina concernente tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici, la revisione degli impegni finanziari dello Stato verso la Chiesa cattolica e della disciplina degli interventi nella
gestione patrimoniale degli enti ecclesiastici. Si definisce quindi una procedura per
disciplinare con una fonte bilaterale alcune materie che, in precedenza erano, in
parte contenute in leggi concordatarie e, in parte, in fonti unilaterali. Tale previsione costituisce una novità per l’Italia ed è ripresa in numerosi accordi successivi.
L’istituzione di una commissione analoga, in taluni casi concernente un singolo problema, in altri, con finalità generali, è presente in numerosi concordati successivi a quello italiano.
• Così l’accordo sulle questioni giuridiche con la Croazia prevede al secondo
comma dell’art. 18 che le materie di comune interesse che richiedono soluzioni
nuove o supplementari saranno trattate da una Commissione Mista la quale sottoporrà le sue proposte all’approvazione delle rispettive autorità. Anche nel caso del
Gabon si introduce una clausola simile, quando si stabilisce che le materie di interesse comune che richiedano soluzioni nuove o supplementari dovranno essere
trattate da una commissione mista ad hoc, la quale sottoporrà le sue proposte all’approvazione delle autorità da cui dipende. E, visto che nel primo comma si fa
esplicito riferimento alla regolazione per via diplomatica delle difficoltà d’interpre-
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tazione e applicazione dell’accordo, e dalla locuzione utilizzata non sembrano esserci dubbi sul fatto che la commissione di cui si parla riguardi la conferenza episcopale.
• Lo scambio di note con l’Estonia, all’art. 9 prevede che nel caso di questioni
incerte, irrisolte o in discussione intorno a proprietà, questioni fiscali ed economiche relative alla Chiesa cattolica, o a specifiche comunità o istituzioni cattoliche, la
Chiesa Cattolica e l’autorità competente presso la Repubblica di Estonia formino
una commissione congiunta ‘ad hoc’. Ancora nel recente accordo con l’Albania, si
prevede che «in caso di questioni incerte, irrisolte o contese riferite alla Chiesa cattolica in Albania, la Chiesa cattolica in Albania e l’autorità competente della repubblica d’Albania costituiranno una commissione ‘ad hoc’ con il compito ritrovare soluzioni accettabili da ambo le parti».
• Come si può notare, si tratta sempre dell’istituzione di una commissione
mista, che ha la competenza per proporre soluzioni normative sia su materie specifiche, sia su questioni generali. Dell’accordo italiano i concordati riprendono
anche un’altra formula, quella dell’art. 13, il quale dispone che ulteriori materie
per le quali si manifestasse l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo
Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti, sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la Conferenza Episcopale Italiana. Si
tratta di una clausola aperta sul piano delle materie oggetto degli accordi e sul
piano dei soggetti ecclesiastici (o statuali) che ne sono i firmatari (S. Sede o conferenza episcopale).
• L’importanza di tale clausola è duplice. Da un lato rappresenta lo strumento
attraverso il quale gli episcopati nazionali ottengono un ruolo più rilevante che in
passato in un ambito, quello del rapporto con gli stati, dal quale erano stati esclusi.
In tal modo è stata anche data applicazione alle disposizioni codiciali intorno ad
una maggiore presenza dei vescovi nei rapporti con le autorità statuali; per un altro
aspetto, e l’osservazione vale per l’Italia, rompe con una tradizione tipica della
chiesa italiana, secondo la quale la S. Sede era l’unica protagonista delle relazioni
con lo Stato e ha permesso alla CEI di caratterizzarsi come «il soggetto più idoneo
a trattare con i pubblici poteri».
• Così nel concordato polacco si ripete che i problemi i quali richiedono soluzioni nuove o supplementari saranno regolati mediante accordi tra la S. Sede e il
Governo polacco oppure tra questo e la conferenza episcopale, previa autorizzata
dalla S. Sede stessa. Il recentissimo concordato portoghese stabilisce che il contenuto dell’accordo possa essere ulteriormente sviluppato attraverso accordi celebrati
tra le autorità competenti della Chiesa Cattolica e della Repubblica Portoghese.
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Nell’accordo lettone si prescrive di regolare i dettagli relativi a determinati aspetti
specifici con speciali documenti di intesa tra le competenti autorità della Chiesa
cattolica e della Repubblica della Lettonia. Nella medesima direzione va l’accordo
con la Repubblica Ceca, secondo il quale «le questioni che riguardano l’intera
Chiesa Cattolica nella Repubblica Ceca, in particolare quelle che richiedono soluzioni nuove o supplementari, sono trattate dalla Conferenza Episcopale Ceca con i
ministeri e con le altre autorità amministrative della Repubblica Ceca. Questa disposizione non altera il diritto delle parti contraenti di trattare tali questioni. Le
questioni citate potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le parti contraenti, sia con intese tra le competenti autorità amministrative e la Conferenza Episcopale Ceca che agisce con il consenso della Santa Sede».
Il ruolo organico delle Conferenze
• L’analisi sin qui condotta ci porta alla conclusione che nell’accordo italiano
del 1984 è, per la prima volta, fissato un ruolo organico per le conferenze e che,
dopo di allora, esso supera di gran lunga quanto si può desumere dal diritto universale. Così quando Carlos Corral sostiene che «l’accordo italiano… si pone quasi
come un termine di paragone, una sorta di ‘apripista’ in quanto ‘modello’ pattizio
della nuova politica concordataria che la S. Sede intende intraprendere con gli attuali Stati soprattutto occidentali», il giudizio non può essere ridotto unicamente
«alla sua complessità intrinseca e all’ampiezza delle tematiche coinvolte», ma deve
essere esteso anche alla definizione del ruolo assunto dalla CEI.
Sotto un tale profilo, nel sistema concordatario italiano la conferenza episcopale è l’istanza ecclesiastica che ha esplicitamente competenza in materia di regolamentazione dell’insegnamento religioso e, implicitamente, in materia di assistenza
spirituale e di beni culturali, oltre ad essere potenzialmente competente a firmare
accordi in materie ulteriori che richiedessero la collaborazione tra Stato e Chiesa,
ma anche, sulla base della legge 222, in materia di enti, beni e sostentamento del
clero.
Un tale schema si consolida poi nel corpus concordatario degli anni successivi. Negli accordi successivi a quello italiano, i beni culturali, pur sotto diversi
profili, sono competenza delle conferenze in Ungheria, Polonia, Slovenia, Portogallo, Croazia, Lituania, Lettonia, Israele (pellegrinaggi); il finanziamento alla chiesa in Ungheria, Portogallo, almeno sotto un profilo, e Croazia; l’insegnamento della religione a Malta (ma qui abbiamo commissioni composte oltre che
da rappresentanti della Conferenza, anche dal nunzio), Polonia, Lituania, Lettonia, Gabon; l’assistenza religiosa in Portogallo, Lituania, Gabon, Ungheria,
Croazia.
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Il principio della collaborazione
• Da ultimo vorrei soffermarmi su una formula, la cui espansione in altri testi
concordatari, mi sembra particolarmente significativa. L’art. 1 del concordato del
1984, proclamando solennemente che «La repubblica italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, impegnandosi al pieno rispetto di tale principio nei loro rapporti ed alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e per il bene del paese», per un verso riprende l’art. 7 della costituzione e, per l’altro, proclama un principio di collaborazione, che rappresenta un’assoluta novità per la storia dei rapporti dello stato
italiano con la chiesa cattolica. Senza entrare nel merito delle discussioni dottrinali
sulla valenza giuridica della riproposizione del dettato costituzionale nell’accordo,
risulta invece rilevante per le osservazioni che andiamo conducendo, la notazione
che tale formula, nata in un contesto dottrinale tipicamente italiano, è stata ripresa
in numerosi altri accordi. Il preambolo dell’accordo con San Marino, l’accordo sulle questioni giuridiche con la Croazia, l’accordo quadro con il Gabon, l’accordo
con la Lettonia, quello sulle questioni giuridiche con la Lituania e quello con la
Slovenia riprendono, pur con sfumature differenti, il testo del concordato italiano.
• Malgrado la prassi curiale favorisca la riproposizione in altri contesti, di formule inserite in accordi precedenti, credo meriti di essere sottolineato il fatto che
un’espressione tipica della storia dei rapporti tra Stato e Chiesa cattolica in Italia sia
riproposta, pur con qualche articolazione, in altri accordi concordatari. I due elementi caratteristici del concordato italiano, quello del richiamo dell’autonomia e
della sovranità, nel proprio ordine della Chiesa e dello Stato e l’altro dell’impegno
alla collaborazione per la promozione dell’uomo e per il bene del paese, tendono a
diventare, secondo la felice espressione del Wernz, parte di un corpus che proxime
ad ius comune accedit.
• Il giudizio che il quadro che abbiamo delineato fa emergere non è, tuttavia,
solo quello del ruolo assolutamente nuovo e rilevante degli episcopati nell’applicazione delle norme concordatarie. A questo vorrei aggiungere due brevi notazioni;
la prima è quella che i concordati di Giovanni Paolo II segnano la progressiva, e
forse, definitiva divaricazione tra la competenza concordataria della quale continua
ad essere titolare unicamente la S. Sede, che si colloca nell’ambito dell’ordinamento internazionale, e quella crescente degli episcopati, i quali possono, se autorizzati,
concludere intese. In effetti, le fonti del diritto concordatario non sono più unicamente gli accordi generali che trovavano la loro ragione nella proclamazione dell’originarietà del diritto canonico, ma a queste si accompagnano fonti, certamente bilaterali, la cui natura è però strettamente collegata al diritto interno dei singoli stati. E va considerato di particolare rilievo il fatto che la rottura avviene con il con-
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Romeo Astorri
cordato italiano che, pure era stato, come dimostra la discussione avvenuta in sede
di costituente, occasione per la proclamazione solenne del principio del carattere
interordinamentale dei rapporti tra Stato e Chiesa.
• Il secondo aspetto su cui vorrei sottolineare è il fatto che nel corso di questi
due decenni, che coincidono con gli anni di vigenza del nuovo codice di diritto canonico, è andato consolidandosi un diritto concordatario che ha assegnato alle
conferenze competenze legislative in ambiti specifici e comuni. Questo, malgrado
l’opinione di qualche interprete, conferma la funzione dei concordati come fonte
di produzione di diritto particolare. La novità è però rappresentata dal fatto che,
mentre nel passato, i concordati, in quanto tali, erano diritto particolare pontificio, in questi anni essi sono divenuti anche il fondamento di un diritto complementare, la cui fonte sono le conferenze. La potestà legislativa delle conferenze ne
risulta fortemente ampliata, in materie che si ripetono costantemente, creando una
forte differenziazione tra le conferenze dei paesi nei quali gli accordi seguono i
nuovi modelli e quelle dei paesi non concordatari o con accordi firmati dai precedenti pontefici.
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Bettino Craxi e l’accordo del 1984
Il 19 settembre, a poco più di due mesi dalla sua elezione alla segreteria del PSI, Bettino Craxi, dedicando un editoriale dell’«Avanti!» alla ricorrenza laica del
XX settembre, affrontava con decisione la questione
della revisione del Concordato. Ricordava come essa,
posta dall’Assemblea Costituente e lasciata congelata
negli anni del centrismo, nonostante i progressi fatti
nel frattempo in tema di attuazione della Costituzione, fosse maturata nella coscienza del paese e della
stessa Chiesa e avesse quindi portato ad importanti
iniziative nella quarta e nella quinta legislatura, tra le
quali andava annoverata l’istituzione della commissione Gonella. La sesta legislatura invece “nonostante
la vittoria del 12 maggio e la rinnovata iniziativa del
bicolore Moro-La Malfa” agli inizi del 1975, “che i
socialisti incoraggiarono anche con uno specifico intervento di Nenni sull’«Avanti!» del 2 marzo”, aveva
visto “l’ulteriore congelamento della questione del
concordato”.
• Il richiamo a Nenni era particolarmente importante:
in quell’articolo del 1975 l’anziano leader socialista, approvando l’iniziativa del Presidente Moro di riprendere con la
Santa Sede la trattativa per la revisione del Concordato, aveva ricordato che dopo il voto espresso dalla Camera il 5 ottobre 1967 “in ordine alla revisione bilaterale di alcune norme
concordatarie”, molta acqua fosse passata sotto i ponti: anche l’approvazione della legge sul divorzio, considerata dal
Vaticano un vulnus al Concordato, aveva contribuito a far sì
che solo nell’aprile 1971 la Camera esprimesse a larga maggioranza l’auspicio che venisse finalmente affrontato il negoziato per modificare il Concordato.
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MAURIZIO PUNZO
Università di Milano
≈
“… appare
evidente che il
leader socialista
avesse ragione di
sentirsi fiero di
aver potuto dare
un contributo,
decisivo, a una
questione che
aveva sempre
ritenuto
importante e alla
quale … aveva
dedicato non
poche energie”
≈
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Maurizio Punzo
Ora che Moro aveva lodevolmente ripreso l’iniziativa, continuava Nenni:
Bisogna questa volta procedere senza altre perdite di tempo. Il Paese ha problemi
più urgenti da affrontare e risolvere, ma questo non lo è meno di altri, come tutto ciò
che ha riferimento alla vita civile della nazione.
Il problema è vecchio di trent’anni. Il ritardo enorme con cui viene affrontato si spiega con le vicissitudini della nostra politica interna, dalla Liberazione in poi, e con la necessità in cui le forze laiche e socialiste si sono trovate di evitare tutto quanto poteva assumere anche soltanto l’apparenza di una guerra di religione (Fu questo l’argomento con
cui Togliatti cercò nel 1947 di giustificare il voto comunista all’art. 7 della Costituzione
che fece dei Patti del Laterano la base dei rapporti dello Stato con la Chiesa).
Un problema superato
• Questo problema ora non esisteva o non esisteva più, come aveva dimostrato
anche l’esito del referendum sul divorzio, con la sconfitta dei nemici della laicità
dello stato.
Nenni ricordava ancora come al momento della firma dei Patti, nel 1929, la
voce degli antifascisti fosse stata assolutamente contraria: il Comitato Centrale della Concentrazione Antifascista il 13 febbraio 1929 aveva affermato con decisione
che i partiti antifascisti non avrebbero accettato né il Trattato né il Concordato.
La lotta antifascista aveva però mutato questa posizione e lo stesso Nenni l’11
aprile 1946, in occasione del Congresso di Firenze del Partito Socialista, aveva dichiarato che nessuno pensava di rimettere in discussione i Patti lateranensi:
«Compagni, il Paese attende da noi una parola chiara sullo Stato laico. È questa
una rivendicazione alla quale non possiamo rinunciare. Essa non offende la fede cattolica della maggior parte degli italiani, né tende a rimettere in discussione la Conciliazione. Dal tempo in cui gli uomini della Destra storica, unitamente a quelli dell’avanguardia mazziniana e garibaldina, tenacemente si opponevano alla conciliazione, molta acqua è passata sotto i ponti del Tevere. Il pericolo di vedere la Nazione
ricadere sotto il giogo teologico non esiste più e ciò consente di considerare con molta
tranquillità il problema dei rapporti dello Stato con la Chiesa. Nessuno di noi pensa
di rimettere in discussione il Trattato del Laterano, né di promuovere una rinuncia
unilaterale del Concordato. Ma questa è una ragione in più per riaffermare il carattere laico dello Stato democratico, equidistante dallo Stato etico dei nazionalisti o
dallo Stato confessionale dei cattolici, garante della libertà del pensiero, promotore
della scienza, educatore della gioventù, al di fuori, se non al di sopra, di ogni preoccupazione religiosa».
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Maurizio Punzo
La linea Craxi
• Una mozione congressuale aveva riaffermato sinteticamente lo stesso concetto.
A questa presa di posizione del primo Congresso socialista del dopoguerra si riallacciava esplicitamente Craxi nel suo articolo del 1976, rivendicando quindi la piena coerenza della linea della sua segreteria con quella tenuta in precedenza, a partire dal 1946 e quindi durante i lavori della Costituente.
• È noto che i socialisti sia nella prima sottocommissione, sia nella Commissione dei 75, sia infine nella discussione generale sul testo definitivo della Costituzione ribadirono che a loro giudizio non esisteva ormai alcun pericolo di guerra di
religione. Su questo punto, ancora prima delle dichiarazioni di voto sull’articolo 7,
si manifestò una diversità di vedute tra socialisti e comunisti. Questi ultimi, come
venne ribadito in aula durante la discussione generale sul testo della Costituzione,
l’11 marzo da Togliatti ed il 14 marzo da Concetto Marchesi, non volevano né la
revoca dei Patti Lateranensi, né, per il momento, la loro modifica e neppure il loro
inserimento nella Costituzione. Togliatti aveva però asserito, in palese dissenso con
gli oratori degli altri partiti laici, che non era vero che la questione della pace religiosa non esistesse e motivò poi, nella sua dichiarazione di voto sull’articolo 7, la
posizione favorevole dei comunisti proprio con l’intento di evitare che si verificasse
nella classe operaia “una scissione per motivi religiosi”.
• Per i socialisti invece la pace religiosa era una conquista acquisita ben prima
dei Patti del 1929 e alla cui conservazione sarebbe comunque stata sufficiente la rinuncia a chiedere l’abrogazione del Trattato e del Concordato. Nenni, che il 10
marzo giunse ad affermare: “Il fondamento della pace religiosa è nella laicità dello
stato e nella laicità della scuola”, il 25 marzo ribadì che la questione della pace religiosa era chiusa e sarebbe rimasta chiusa e che i socialisti avrebbero salvato la pace
religiosa proprio votando contro l’articolo 7. Gli altri esponenti socialisti si mantennero sulla stessa linea: Pietro Mancini, rivolgendosi a Concetto Marchesi disse:
“Il roveto non è più ardente. È spento, onorevole Marchesi”. I socialisti rimasero
comunque fermamente contrari all’inserimento dei Patti nella Costituzione anche
quando i comunisti decisero di votare a favore.
• Sostennero però fino all’ultimo la proposta di scrivere nella Costituzione che
i rapporti tra Stato e Chiesa venissero regolati “in termini concordatari”. Lelio Basso, che era allora il segretario del PSI, intervenendo sul progetto di Costituzione
nella seduta del 6 dicembre affermò: “voteremo in perfetta lealtà e in perfetta coscienza l’affermazione che i rapporti tra la Chiesa e lo stato devono essere regolati
su basi concordatarie, perché questa è una soluzione storica che noi accettiamo
lealmente, perché noi vogliamo conservare all’Italia la pace religiosa”.
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Maurizio Punzo
Ripresentò quindi, nella discussione sull’articolo 7, la proposta già sostenuta in
precedenza per il primo comma:
La Chiesa cattolica è, nell’ambito suo proprio, libera ed indipendente.
I rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono regolati in termini concordatari.
Non dissimile la proposta avanzata da Edgardo Lami Starnuti a nome del
gruppo socialista dei lavoratori italiani:
La Repubblica riconosce la Chiesa cattolica, nel suo ordine, indipendente e sovrana.
La condizione giuridica della religione cattolica è disciplinata mediante concordati
con la Chiesa.
La concordanza sulla revisione
• Su questo argomento vi fu dunque piena concordanza tra i socialisti dei due
partiti nati dalla scissione del gennaio 1947. Analogo fu l’atteggiamento degli altri
gruppi della sinistra laica: repubblicani, azionisti, demolaburisti.
Venne comunque ribadito da parte socialista che alla votazione contro l’articolo 7 avrebbe fatto seguito l’impegno per una battaglia politica per una revisione
consensuale dei Patti. Tutti i partiti, compresi i democristiani, auspicavano del resto che ciò avvenisse ed era quindi un impegno comune quello di porre mano al
Trattato e al Concordato, per adeguare alla Costituzione quelle norme che con essa
apertamente configgevano, in qualunque modo fosse andata la votazione sull’articolo 7.
L’approvazione dell’articolo 7 avrebbe dovuto quindi aggiungere alla posizione
socialista e di quanti avevano condiviso la loro opposizione un motivo in più di urgenza perché venisse eliminato al più presto quel conflitto tra il testo dei Patti e
quello della Costituzione, che ora era stato introdotto nella Costituzione stessa.
Come però aveva ricordato Nenni nel suo articolo del 1975, vi era stato un
lungo intervallo in cui la questione della revisione non era stata sollevata. Nei loro
stessi Congressi i socialisti, che della necessità di attuare la Costituzione, comprese
quelle parti verso cui durante i lavori dell’Assemblea Costituente erano stati più
tiepidi, se non apertamente contrari – il referendum, l’ordinamento regionale, la
creazione della Corte Costituzionale –, fecero un punto centrale delle rivendicazioni del partito, ma non sollevarono mai il tema della revisione del Concordato.
• Non si parlò di revisione del Concordato neppure al Congresso di Torino,
che pose la questione politica del dialogo con i cattolici come dialogo con la Democrazia Cristiana, ritenendo evidentemente che la questione fosse in definitiva
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Maurizio Punzo
meno importante delle altre che dovevano essere a fondamento dell’apertura a sinistra o che quella richiesta avrebbe finito persino col rendere l’apertura stessa più
problematica. Le stesse considerazioni valgono anche per le trattative e la definizione dei programmi del centro-sinistra. La questione della laicità dello stato, della
scuola in particolare, fu allora riproposta e provocò più di una crisi di governo, ma
quella del Concordato non venne sollevata neppure per quanto riguardava lo spinoso aspetto della presenza dell’insegnamento scolastico della religione cattolica.
I tempi, evidentemente, non erano ritenuti maturi.
Le condizioni dei Socialisti
• Ora però, nel 1976, il tema era stato finalmente sollevato – tra l’altro, come
lo stesso Craxi ricordò in molte altre occasioni, dalla mozione Ferri-Basso del marzo 1965 – ed erano state avanzate delle proposte. Esse erano ancora ben lontane
però dal fare intravedere una conclusione positiva e dunque il neo-segretario del
PSI, all’inizio della settima legislatura, sottolineava l’urgenza della revisione ed insieme elencava le condizioni irrinunciabili dei socialisti: l’eliminazione dell’obbligatorietà dell’insegnamento religioso nella scuola pubblica, la tutela paritaria di
tutte le confessioni religiose, la risoluzione del “complesso problema del rapporto
Chiesa-Regione nel quadro dell’attuazione delle autonomie e della radicale riorganizzazione degli apparati amministrativi centrali”.
• Craxi constatava poi la “marginalità politica del dilemma «abrogazione o revisione del Concordato lateranense»”, perché la prima non avrebbe garantito
“un’effettiva applicazione delle garanzie costituzionali e quell’ampio e approfondito confronto tra società civile e società religiosa che la realtà italiana impone, che la
tentazione e le interferenze neo-integraliste, sempre vive in alcuni settori del mondo cattolico, rendono urgente”.
Rifiutava dunque di prendere in considerazione due possibilità che erano ben
presenti nel mondo laico e nel suo stesso partito: quella della denuncia del Concordato, che era stata rafforzata dall’esito del referendum sul divorzio ed era esplicitamente sostenuta da alcune forze politiche, tra cui il Partito Radicale, e quella, adottata di fatto negli ultimi decenni, del tacito superamento della questione mediante
il ricorso alle leggi ordinarie e alle sentenze della Corte Costituzionale.
• Egli avanzava quindi la proposta, che avrebbe costituito il fondamento per
una felice conclusione delle trattative: “Il Concordato […] non potrà che essere di poche, precise norme fondamentali che precisino gli ambiti già indicati dall’art. 7 della
Costituzione e regolino i problemi di effettiva rilevanza politica e religiosa, rinviando
per le molteplici «materie ecclesiastiche» a leggi dello Stato vincolate (come già accade,
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in base all’art. 8 della Costituzione per le confessioni religiose diverse dalla cattolica) da
intese con la Chiesa italiana che consentano di soddisfare, con maggiore aderenza e rapidità, le sempre nuove specifiche esigenze della società religiosa”.
Concludendo il suo articolo con l’auspicio che la revisione del Concordato
rappresentasse “il vero compimento del 20 settembre” il segretario socialista metteva in guardia dal pericolo di sprecare quell’occasione, che avrebbe potuto non ripresentarsi e ammoniva quindi a non perdere tempo.
La fase negoziale
• La presa di posizione di Craxi era tempestiva, dato che proprio con il governo Andreotti, nel 1976, iniziò la fase negoziale, con l’istituzione di una commissione da parte italiana e di una da parte della Santa Sede e la conseguente presentazione di una prima bozza alla Camera, che approvò una mozione che invitava a proseguire le trattative.
Gennaro Acquaviva nel 1987 ha affermato che i socialisti divennero filoconcordatari, “da epoca non sospetta, sicuramente dalla fine degli anni sessanta” e che
con la segreteria Craxi ciò trovò anche “conferme formali”. Formalmente, in realtà,
come si è detto, la posizione “filoconcordataria”, nel senso dell’auspicio di una revisione del Concordato, era stata quella ufficiale del partito a partire dal 1946, ma in
effetti, come si è già detto, non era stata più riproposta fino alla seconda metà degli
anni sessanta. Alla nuova attenzione per la soluzione della questione del Concordato corrispondeva un vivace interesse per il mondo cattolico, che indusse tra l’altro
il segretario socialista a valorizzare nell’organizzazione interna di partito alcuni
funzionari, come lo stesso Acquaviva, i cui profondi legami con quel mondo sarebbero poi stati uno degli elementi risolutori della trattativa, quando Craxi giunse alla Presidenza del Consiglio.
• Acquaviva ha ricordato di recente, parlando proprio del ruolo svolto da
Craxi riguardo al nuovo Concordato, l’attenzione dimostrata dal segretario socialista per il mondo cattolico:
«Quello che mi ha sempre meravigliato ed impressionato, nell’atteggiamento di Bettino Craxi rispetto alla spiritualità, alla religione, al ruolo dei credenti nell’impegno sociale e naturalmente nella politica, all’azione della Chiesa in Italia, era la curiosità,
l’attenzione sempre vigile, la voglia di capire».
L’impostazione socialista, formalizzata dalla Direzione del PSI nel novembre
1976 e nel successivo intervento alla Camera di Gaetano Arfé il 1°dicembre 1976,
venne ribadita da Craxi in occasione del Comitato Centrale del 18 ottobre 1977,
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insistendo ancora sull’inopportunità di appoggiare la tesi abrogazionista anziché
quella revisionistica. Due erano le ragioni addotte:
«La prima è che il Concordato risulta protetto dall’art. 7 della Costituzione, che non
fummo noi a votare e che pertanto l’abrogazione, mancando il consenso dell’altra parte
comporterebbe un procedimento di revisione costituzionale realisticamente improponibile nell’attuale situazione politica e parlamentare, senza contare che resterebbe comunque
aperto il problema di una regolamentazione dei rapporti tra lo Stato italiano e la Santa
Sede, la quale rappresenta una massiccia realtà, con vaste e diffuse presenze nel mondo
politico, con profonde influenze nella sfera dei principi, dei valori, della cultura.
La seconda ragione è che l’iniziativa di una agitazione in senso abrogazionistico
introdurrebbe pericolosamente elementi di scontro ideologico lacerante in una situazione già gravida di tensioni e di conflitti: senza contare, anche in questo caso, che il partito socialista apparirebbe come il fautore di una sorta di guerra religiosa agli occhi di
quei lavoratori cattolici dei quali ci sentiamo interpreti non soltanto sul terreno degli
interessi di classe ma anche su quello dell’affermazione di comuni valori di libertà di
giustizia, di moralità laicamente intesa».
• Craxi era poi esplicito nell’affermare che non si dovesse dare l’idea che i socialisti fossero disposti ad accettare una soluzione qualsiasi, pur di arrivare comunque ad un accordo.
Non ci dovevano, a questo proposito, essere equivoci:
«Ferme restando queste ragioni noi abbiamo però anche detto che la revisione perché passasse col nostro consenso doveva – e deve – senza nulla lasciare nell’equivoco,
adeguare il concordato allo spirito e alla lettera della nostra Costituzione: nulla di più,
ma neanche nulla di meno.
Alla luce di questo criterio abbiamo trovato largamente insoddisfacente la bozza
comunicataci nel novembre scorso dal presidente del consiglio e sulla quale esprimemmo le nostre critiche, formulando le nostre proposte nel dibattito parlamentare concluso nel dicembre dello scorso anno, e nel corso del quale avemmo parte importante
nel promuovere intese e convergenze con i partiti laici e col partito comunista, ottenendo da questa base il consenso anche della Democrazia cristiana su di una mozione che impegnava il governo a riaprire la trattativa con la Santa Sede alla luce del
dibattito parlamentare per predisporre un testo che segni un effettivo superamento
della legislazione concordataria, che porta chiari e profondi i segni dell’epoca in cui il
patto fu stipulato».
• Dei risultati dell’ulteriore trattativa il segretario socialista si diceva francamente insoddisfatto, al punto che egli, pur auspicando ancora l’intesa, ricordava
che per i socialisti esistevano dei:
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«non possumus, dei limiti al di là dei quali non possiamo andare, e che consistono
nella difesa senza spirito di prevaricazione ma senza transigenza, dei principi di laicità, vale a dire libertà, nella vita della società e dello stato democratico.
Ove questo non fosse possibile, pur senza porci sul terreno di una anacronistica sfida
al mondo cattolico, la via della abrogazione, espressamente prevista peraltro dalla Costituzione, per ardua e lunga che essa possa essere resterebbe per noi la sola via da battere».
Soste e riprese delle trattative
• Una minaccia esplicita dunque, anche se mitigata, nella conclusione della relazione, dalla “ragionevole fiducia” di poter giungere a una conclusione positiva
delle trattative.
C’è naturalmente da domandarsi quanto su questo irrigidimento socialista pesasse la preoccupazione di evitare che il clima politico del compromesso storico potesse portare ad un cattivo compromesso sul Concordato, ripercorrendo la strada
che nel 1947 aveva portato all’inserimento nella Costituzione dei Patti Lateranensi
e fondando su di esso quel rapporto privilegiato tra comunisti e cattolici che allora
non era stato possibile realizzare.
Che questa preoccupazione ci fosse appare senza dubbio evidente, ma non fu
essa a dettare l’atteggiamento socialista sull’argomento, come vedremo meglio più
avanti.
• Nel corso dell’anno successivo il meccanismo dell’accordo di revisione sembrò rimettersi in moto, superando l’impasse dell’approvazione della legge sull’aborto e della sorte negativa della seconda bozza, che non era stata presentata in Parlamento e che, come si è visto, aveva fatto dubitare il segretario socialista della possibilità di una conclusione positiva. La terza bozza invece approdò al Senato nel dicembre 1978. Nel corso di quel dibattito, come il sen. socialista Fabio Fabbri ricordò in occasione di quello del 1984, l’impostazione socialista era stata quella già
delineata da Craxi nel settembre 1976: regolare col nuovo Concordato le materie
più rilevanti e lasciare le altre ad accordi successivi.
• Il segretario socialista era tornato sull’argomento con un altro articolo in occasione del XX settembre 1978, la cui ricorrenza aveva voluto abbinare al saluto al
nuovo papa Giovanni Paolo I, eletto un mese prima ed il cui pontificato certo nessuno poteva prevedere tanto breve.
Egli auspicava che il nuovo pontefice volesse “incoraggiare una pronta e decisiva ripresa delle trattative” ed impegnava i socialisti, che si erano già impegnati in
passato perché la questione venisse risolta, a “dare ancora ogni necessaria collaborazione attraverso il dibattito in Parlamento e gli incontri con la delegazione governati-
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va, ma anche portando dal Parlamento nel paese la discussione su un tema di profonda rilevanza ideologica e di non scarsa emergenza politica per laici e socialisti”.
• La posizione dei socialisti era ben nota, ma venivano comunque ribadite:
“coerenti con le precedenti ma aperte ad un superamento della vecchia logica concordataria attraverso un sistema articolato di «intese» che integrino un «accordo-quadro» di
poche, precise norme fondamentali”.
In modo chiaro veniva anche indicato il fine che, con la revisione, il Partito Socialista si proponeva di raggiungere:
«Il Partito Socialista Italiano è per una revisione profonda e globale dei Patti Lateranensi e di tutto l’insieme della legislazione ecclesiastica fascista. Tale revisione deve
riuscire a determinare una effettiva trasformazione di quelle relazioni tra società civile
e la società religiosa (più che tra le istituzioni di vertice dello Stato e della Chiesa) che
così intimamente appartengono alla vita del nostro Paese».
I nodi irrisolti
• Craxi enunciava quindi quelli che erano secondo il suo partito i nodi irrisolti.
Si trattava, naturalmente, delle questioni che, raggiunto, l’accordo-quadro, sarebbero state poi demandate ad ulteriori intese: quella degli enti e dei beni della Chiesa,
quella degli effetti civili dei matrimoni religiosi e, infine, quello dell’insegnamento
della religione cattolica. Quest’ultima era senza dubbio la questione più complessa,
ma Craxi, nel difendere il principio della piena “opzionalità” per gli studenti e per le
famiglie, intendeva rassicurare la Chiesa: l’insegnamento religioso, che appariva culturalmente emarginato nella scuola italiana in un sistema di “piena opzionalità” sarebbe stato elevato di livello, divenendo una “disciplina realmente competitiva che,
per l’interesse che non potrà non sollevare anche presso i non credenti, sarà in grado, se insegnata da persone veramente qualificate, di tenere senz’altro testa alle altre
discipline facoltative”. Una visione decisamente ottimistica, che riposava non solo
sulla fiducia di una possibile intesa tra Stato e Chiesa sull’annosa questione della revisione del Concordato, ma più profondamente sulla considerazione del ruolo che
la Chiesa era chiamata a svolgere nella società contemporanea: un ruolo che sarebbe
stato tanto più positivo quanto più la Chiesa si fosse lasciata alle spalle il passato,
rappresentato dagli accordi del 1929, e si sarebbe aperta al futuro, all’appuntamento
con l’Europa che era ormai all’ordine del giorno:
«I patti del 1929 non devono più essere, per la Chiesa cattolica, la palla al piede che
impedisce di arrivare all’appuntamento. Più presto e meglio la catena sarà recisa, più facile e più produttivo per entrambe sarà il rapporto tra società civile e società religiosa».
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• Qualche mese più tardi, nel cinquantesimo anniversario dei Patti Lateranensi, Craxi tornava sull’argomento: dopo aver ripercorso la genesi dei Patti, le ragioni
della convergenza tra la Chiesa cattolica ed il regime mussoliniano e ricordato l’atteggiamento di opposizione che verso di essi avevano assunto tutto gli antifascisti,
laici, socialisti, comunisti ma anche cattolici, il segretario del PSI veniva al secondo
dopoguerra, all’articolo 7 della Costituzione, che, come aveva scritto Nenni, non
aveva chiuso la questione del Concordato, ma al contrario l’aveva riaperta. La questione restava dunque sul tappeto, ma la soluzione non sembrava vicina:
«Nuove, impreviste difficoltà sorgono su punti non secondari della revisione dei
Patti. L’impegno dei partiti laici è messo nuovamente a dura prova quando ormai, con
la discussione in Senato del dicembre 1978, sembrava avviarsi, su ben precise basi, a
concludere una troppa lunga questione. I princìpi della Costituzione repubblicana restano, comunque, i limite invalicabile di ogni trattativa. E i “significati” della Conciliazione sono ancora quelli del 1929».
• Sembrava dunque che la questione si fosse nuovamente bloccata e che i socialisti, ancora una volta, non fossero disposti a sbloccarla a costo della rinuncia ai
princìpi cui si erano ispirati costantemente. Nel paese, del resto, erano emerse ben
altre emergenze, a partire da quella del terrorismo, ma anche altre considerazioni
sembravano suggerire un ennesimo rinvio dell’annosa questione della revisione dei
Patti Lateranensi: la fine dei governi di unità nazionale ed il ritorno della collaborazione dei socialisti con la Democrazia Cristiana rendevano meno probabile che la
questione del Concordato potesse fornire un terreno d’intesa per i fautori del compromesso storico; l’avvicinarsi della scadenza del referendum sull’aborto del maggio
1981, d’altro canto, non favoriva certo il dialogo tra mondo laico e mondo cattolico.
Il congresso di Palermo
• Al Congresso di Palermo dell’aprile 1981 Craxi non fece quindi nessun riferimento alla questione della revisione del Concordato e nominò la Chiesa solo in relazione al referendum sull’aborto, per difendere con decisione il diritto della donna:
«Noi non ignoriamo il problema morale collegato alla questione dell’aborto e pensiamo che ogni donna che si trovi in determinate condizioni debba risolvere liberamente nella propria coscienza, libera di ascoltare la morale della sua chiesa, della sua religione, della sua convinzione. Noi non entriamo in campo a contestare alla Chiesa, ed
ai movimenti cattolici, la libertà di svolgere e di propagandare il loro insegnamento
morale per pretenderne il rispetto. Noi difendiamo il diritto della donna a scegliere liberamente la sua condizione di madre di fronte alla società ed allo Stato. E lo Stato è
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intervenuto per arginare una piaga sociale, per offrire una protezione ed una garanzia
alla libertà di scelta ai propri cittadini. La legge dello Stato garantisce oggi questo diritto così come avviene in moltissimi altri Paesi civili. La pretesa di cancellarlo, di sconfessare il Parlamento in una materia così sensibile rischia di provocare una grave lacerazione nella comunità nazionale anche se la richiesta è presentata nella sua forma legittima. È per questo che abbiamo levato in tempo un grido di allarme. È per questo che
abbiamo apprezzato la decisione della Dc di non gettarsi a bandiere spiegate in una
crociata di questo tipo. È per questo che siamo a fianco di tutte le forze democratiche
che intendono difendere la donna, un diritto ed una protezione che ha conquistato, per
non far arrestare questo Paese nella via della sensibilità sociale, della tolleranza e del rispetto delle libere decisioni dei cittadini».
• A proposito del cattolicesimo il discorso del segretario socialista si limitò a
citare le tesi congressuali, che esprimevano un generico augurio di collaborazione:
«L’augurio che il Psi esprime nelle sue “tesi” congressuali è che “il fondamento democratico e le aspirazioni al rinnovamento e all’eguaglianza sociale che hanno radici
profonde nelle tradizioni del cattolicesimo politico più avanzato possano trovare adeguate e coerenti espressioni politiche tali da alimentare le possibilità di incontro, di dialogo, di collaborazione costruttiva per il bene del Paese con i propositi e i programmi
riformatori che ispirano e vincolano l’azione dei socialisti”».
La nuova forza di Craxi
Questi passaggi sono importanti, perché si tratta dell’ultimo Congresso socialista
prima dell’assunzione da parte di Craxi della carica di Presidente del Consiglio, nell’agosto 1983. Fu in quello stesso Congresso che Craxi, ormai alla testa di una solida
maggioranza non più definita autonomista, ma riformista, venne confermato direttamente dall’assemblea segretario del partito. Questo gli conferiva un’autorità che gli
avrebbe permesso di affrontare la questione del Concordato quando e nel modo che
ritenne opportuni, senza tener conto delle remore presenti nel suo stesso partito.
• La questione della revisione nel frattempo era nonostante tutto andata avanti, avvicinandosi ad una soluzione, senza però riuscire a raggiungerla. Vi era stata
una quinta bozza (1980-81), poi la nomina da parte di Spadolini, nel 1982, della
commissione Caianiello, che varò una bozza “non bilaterale”, la quinta bis, cui seguì, durante il breve governo Fanfani, la sesta bozza, che non fu risolutiva e non
venne resa pubblica, come del resto la quinta.
I risultati della commissione Caianiello invece fornirono la base per la trattativa finale.
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La questione era dunque ad un passo dalla soluzione, ma quel passo poteva benissimo, ancora una volta, non essere compiuto.
• Nella presentazione del governo Craxi, il 9 agosto 1983, non vi fu nessun accenno alla questione del Concordato, di cui il Presidente del Consiglio non parlò
neppure nella replica, il 12: segno questo non solo che il problema non rientrava
negli accordi e nei propositi governativi, ma anche che nessuna delle forze politiche presenti in Parlamento lo sollecitò su quell’argomento.
Sappiamo però che “una delle primissime mosse” di Craxi appena divenuto
Presidente del Consiglio “fu quella di riaprire la trattativa con la Santa Sede, che
aveva – come afferma Acquaviva – languito nei sei mesi precedenti del governo
Fanfani. Si ripresero allora contatti di antica data, che in quattro o cinque mesi
portarono alla conclusione”.
Quando infatti il Presidente del Consiglio inviò alle Camere la “nota informativa” del 20 gennaio 1984, egli assunse un impegno concreto e solenne, basato su
una fondata certezza che ormai si fosse davvero vicini alla conclusione.
La ripresa del negoziato
• La dichiarazione “Il Presidente del Consiglio intende riprendere e condurre
personalmente la fase finale del negoziato con la santa Sede per la revisione dei Patti lateranensi” significava certo che Craxi intendeva spendere tutta la propria autorità per superare le ultime difficoltà, ma anche che rivendicava pienamente il merito di un successo che a buon ragione poteva attribuire al suo governo e a se stesso.
La coerenza del comportamento socialista dalla Costituente al nuovo Concordato fu sottolineato, nei giorni successivi alla firma, da parecchi articoli apparsi
sull’Avanti!: studiosi e protagonisti del processo che aveva portato alla revisione
(Acquaviva, Arfé, Margiotta Broglio) ripercorsero quasi quarant’anni di storia per
mettere in luce i meriti che il Partito Socialista aveva avuto nel sollevare il problema e contribuire alla sua soluzione.
• È di un certo interesse citare l’accenno fatto da Arfé alla contrarietà che anche tra i socialisti vi era stata ad accettare di percorrere la strada della revisione del
Concordato anziché quella dell’abrogazione. Vi sono vari indizi che lasciano in effetti pensare che non vi fu grande entusiasmo nel Partito Socialista per il nuovo
Concordato. Silenzi, più che prese di posizione contrarie, che pure non mancarono
sulla stessa stampa socialista. Tra essi, indubbiamente significativo quello tenuto allora dalla «Critica Sociale», rivista diretta da Carlo Tognoli e sicuramente vicina alle posizioni del segretario socialista, e più recentemente da Ugo Finetti, che, nell’introduzione a un libro che raccoglie gli interventi congressuali di Craxi, rivendi-
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ca entusiasticamente e puntigliosamente i meriti del segretario del partito e del
Presidente del Consiglio, omettendo però di menzionare la questione della revisione del Concordato.
• Evidentemente, come già si è accennato, tale soluzione era ritenuta contraria
alla tradizione laica del socialismo italiano da molti socialisti, compresi alcuni collaboratori di vecchia data del segretario, che, non potendo apertamente avversarla,
preferivano minimizzarla o ignorarla. Del tutto diverso l’atteggiamento non solo
dei socialisti cattolici, ma anche dei socialisti di altre confessioni religiose, entusiasti non solo del nuovo Concordato, ma anche dell’intesa con le Chiese metodista e
valdese, sulla cui importanza lo stesso Craxi insistette parecchio nei suoi discorsi in
Parlamento nel gennaio 1984.
Craxi, socialismo e religione
• Questo ci riporta a due questioni, che per la loro complessità non è purtroppo possibile approfondire in questa sede: quella dell’importanza per Craxi dei rapporti tra socialismo e religione e quella della formazione delle decisioni nel Partito
Socialista degli anni Ottanta.
Riguardo alla prima, che appare tutt’altro che irrilevante, non bisogna tralasciare alcuni indizi importanti, come il legame di affetto e di stima del segretario
socialista per due grandi figure del socialismo milanese, che fecero entrambe professione sia di socialismo sia di cattolicesimo: il Sindaco della Liberazione Antonio
Greppi ed il giovane studioso e giornalista Walter Tobagi. Craxi guardò inoltre
con favore all’attività dell’Associazione Socialisti Cristiani Europei (ASCE), fondata nel 1976 a Milano dal socialista Alfredo Luciani e collaborò assiduamente alle
sue iniziative, rivolte ad organizzare i cristiani presenti nei vari partiti socialisti europei e a sviluppare il dialogo tra socialismo e cristianesimo. Concludendo il proprio intervento al Convegno promosso dall’ASCE a Milano nell’ottobre 1976 sul
tema I cristiani nei partiti socialisti europei il segretario del PSI sostenne l’esigenza
di una “conciliazione” tra i valori cristiani e quelli socialisti:
«Occorre approfondire la ricerca di una conciliazione tra i valori fondamentali del
cristianesimo e i principi del socialismo. Questa ricerca si rivelerà utile tanto alla coscienza religiosa, quanto al rinnovamento del pensiero socialista e alla definizione di
quale socialismo vogliamo edificare».
Per quanto riguarda la seconda questione, bisogna senza dubbio mettere in rilievo che il “decisionismo” non era certamente solo un aspetto caratteriale di Bettino Craxi, ma si basava su una struttura del partito assai diversa rispetto al passato,
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che lasciava al segretario la responsabilità delle scelte politiche, senza il coinvolgimento o l’interferenza di strutture collegiali.
La stretta finale
• La decisione di stringere sul Concordato venne quindi assunta da Craxi in
piena autonomia, secondo un’idea della leadership che appariva nuova per l’Italia
repubblicana e soprattutto per il mondo socialista.
Craxi, al Senato prima e alla Camera poi, ripercorrendo a sua volta le tappe
della lunga trattativa, non mancò di ricordare che a trarre la questione della revisione dal dimenticatoio, seguito all’approvazione dell’art. 7, erano state la voce di Pietro Nenni, di Ugo la Malfa e degli intellettuali “Amici del Mondo” ai quali aveva
fatto eco, nel 1959, Aldo Natoli: un riconoscimento quindi, che univa i socialisti, i
laici e i comunisti.
Questo ci porta a riprendere un tema lasciato prima in sospeso: quello del valore politico della questione del Concordato nell’ambito della politica di concorrenzialità del Partito socialista nei confronti di quello comunista e di alternativa, in un
futuro non lontano, alla Democrazia Cristiana.
È importante a questo proposito notare come mai Craxi abbia, certo non nei
suoi interventi alle Camere nel gennaio 1984, ma neppure in seguito, rivendicato
il successo del nuovo Concordato come un’operazione condotta per combattere il
compromesso storico.
• Nel maggio 1984, parlando al Congresso del suo partito, che si teneva tre
mesi dopo la firma del nuovo Concordato, il segretario del PSI e Presidente del
Consiglio non mancò di rivendicare quel recente successo del suo governo:
«Ed è con spirito di libertà che il Governo della Repubblica ha portato a conclusione, in amichevole collaborazione con la Santa Sede, la questione annosa e non semplice
della revisione del Concordato. La firma di Villa Madama ha segnato l’inizio di una
fase nuova degli accordi Stato-Chiesa… trasformando i “patti d’unione” del passato in
nuovi “patti di libertà e di cooperazione”, superando un regime da tutti riconosciuto
inadatto, anacronistico e lontano dalla evoluzione dei tempi, attuando pienamente il
dettato costituzionale, nella prospettiva di fecondi rapporti tra lo Stato e la Chiesa, nelle caratteristiche proprie di uno Stato laico nel quale i cittadini, senza distinzione di
credenze, possano sempre compiere scelte religiose consapevoli, in piena e consolidata libertà».
Un’affermazione inequivocabile, che colpiva per la sua brevità e concisione,
nell’ambito di un discorso assai lungo ed articolato.
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• Tre anni più tardi, a Rimini, quando l’esperienza alla guida del governo del
leader socialista volgeva ormai al termine, la rivendicazione del valore positivo della
firma del nuovo Concordato avveniva in un contesto più ampio: ad essa veniva fatta risalire una nuova fase dei rapporti tra laici e cattolici, a livello della società civile
più che a quello puramente politico:
«Cambiamenti anche nel mondo della spiritualità, delle religioni, nel mondo cattolico. I laici, credenti e non credenti, vi hanno avuto una parte notevole, contribuendo
alla rivalutazione dei valori spirituali dei singoli e della comunità, bandendo i fanatismi ideologici, restituendo in concreto tutte le credenze la piena libertà e dignità, senza
ordini di precedenza, sostenendo un patto di collaborazione con la chiesa cattolica per
lo sviluppo civile degli italiani. Ciò conferma che il progresso civile e spirituale, la crescita dei sentimenti di solidarietà, hanno un valore altrettanto grande del progresso materiale. Sono valori che uniscono la nazione e che rendono i singoli più partecipi della
vita comune. La firma dei nuovi Patti Concordatari, che eliminano il contenzioso legislativo tuttora esistente assimilando il tutto alla disciplina della legge italiana e ai principi costituzionali, e stabiliscono la cooperazione fra lo Stato e la Chiesa per il progresso
morale e civile, hanno così potuto raccogliere i fermenti più vivi di coscienze laiche e
cattoliche».
Sono probabilmente gli unici due cenni al nuovo Concordato contenuti nella
relazioni congressuali del segretario Craxi, che non nascose invece mai un evidente
interesse per il mondo cattolico e per la Chiesa.
Socialisti e voto cattolico
• È a tale proposito degna di una grande attenzione la parte dedicata a questo
tema nella replica del segretario al Congresso di Bari del 1991, in cui si avverte netto il conflitto tra la politica di alleanza al governo con la Dc, ritenuta indispensabile per assicurare la governabilità del paese, e il desiderio di una fase nuova della vita
politica del paese, caratterizzata dalla fine dell’unità politica dei cattolici e quindi
dalla possibilità anche per i socialisti di rivolgersi con piena legittimità al voto cattolico:
«Abbiamo sottolineato e sottolineiamo tutta l’importanza dell’impegno sociale della
Chiesa, la sua denuncia delle povertà, delle disuguaglianze tra gli uomini, la sua difesa
dell’uomo e della sua dignità, la denuncia delle ingiustizie, delle oppressioni e delle immoralità delle ingiustizie. Pertanto, quando si scrive che noi siamo oggi in preda a rigurgiti anticlericali, si scrive una cosa molto ingiusta. I motivi anticlericali, in questo
nostro Paese libero per tutti, per tutte le religioni, per tutti i culti, per tutte le culture,
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per tutti i cittadini, possono solo essere riaccesi e rinfocolati dall’attivismo di un clero
politicante. Sentiamo tutta la grandezza di quello che Garibaldi chiamava “l’immortale cristianesimo”, e chiediamo alla Chiesa cattolica semplicemente e rispettosamente
di considerare tutti uguali i cristiani e i cattolici presenti nei partiti politici italiani e
nel Partito socialista, secondo il principio dell’autonomia e della libertà politica dei cattolici, che è stato a volte proclamato, ma che è assai più raramente praticato. Ci chiedono, come condizione e prova delle nostre buone intenzioni, l’uscita dal cosiddetto “sistema di potere della Democrazia Cristiana”. Noi siamo – del resto non da oggi – un Partito di governo, che ha partecipato a Governi, ha sorretto Governi, ha guidato Governi
del Paese. Siamo, in questo momento, in una coalizione con la Democrazia Cristiana e
siamo alleati di Governo con la Democrazia Cristiana. Tuttavia siamo un Partito molto libero, come una infinità di prove e di fatti dimostrano. Senza trascurare le altre sarebbe giusto partire dalla prima considerazione, che è la più semplice e che non può
sfuggire a nessuno. Questo Paese, in questi anni, senza un accordo tra la Dc e il Psi, non
avrebbe avuto una maggioranza per essere governato».
• Manca, nel passo appena citato, un riferimento esplicito alla firma del nuovo
Concordato come punto di partenza di un possibile nuovo rapporto tra i socialisti
e il mondo cattolico.
È quindi legittimo chiedersi se l’iniziativa di Craxi volta a concludere, a tambur battente, non appena eletto Presidente del Consiglio, le trattative con la Santa
Sede nascondesse, al di là di quanto veniva dichiarato apertamente, un secondo fine: quello di contribuire alla politica socialista diretta a sbarrare la strada al compromesso storico e ad aprire un canale privilegiato di relazioni tra i socialisti ed i
cattolici, anche al di là della Dc.
• Appare assai importante quanto scrisse a questo proposito, all’indomani della firma del Concordato, colui che era stato il maggiore collaboratore di Craxi in
quel frangente, Gennaro Acquaviva, su una pubblicazione rivolto ai dirigenti e militanti del Partito Socialista.
Ricordando l’interesse per la questione della revisione del Concordato dimostrata da Craxi fin dalla sua assunzione della segreteria del partito, nel 1976, Acquaviva scriveva:
«L’interesse verso questo complesso di problemi nasceva per i socialisti da tre ordini
di considerazioni:
1) collocare innanzitutto questo importante tema nel quadro di una rinnovata volontà di concorrere a modernizzare lo Stato e tutte le sue espressioni, una delle quali,
fondamentale, è quella del rispetto senza riserve verso la libertà religiosa:
2) in secondo luogo, operare affinché la nube di integralismo che la politica di compromesso storico, allora in pieno svolgimento, addensava sulla società italiana, si dira-
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dasse e si allontanasse. Il nostro obiettivo – qui come altrove – fu quello di lottare perché
riemergesse il pluralismo, si dispiegasse un processo di laicizzazione della società; ed anche, di pari passo, potesse avanzare la spinta articolata e feconda dei settori più avanzati dei credenti, di quelli più sensibili alla valorizzazione, e non alla irregimentazione,
in una vita democratica articolata e ricca di fermenti,
3) in terzo luogo, opporre un netto rifiuto all’idea prevalente nel Pci e in genere
nella sinistra, di considerare i credenti “categorie speciali” nelle file di un partito politico, una sorta di fiore all’occhiello sgargiante ma con il gambo “segato”. La convinzione
socialista fu invece quella di dover avviare con continuità una riflessione sulla questione cattolica, senza vincoli di steccati anacronistici, nella consapevolezza di non dovere
ignorare il contributo in termini di valore e di testimonianza che i credenti potevano
portare, se lo volevano, alla trasformazione della società».
Concordato, socialisti, cattolici
• La volontà di contrastare il compromesso storico e più in generale un approccio antiquato e strumentale alla presenza dei cattolici nella vita politica e negli
stessi partiti era apertamente dichiarata, ma si trattava di un elemento secondario
in una prospettiva più ampia di modernizzazione del paese e di rinnovamento delle
sue strutture, ma anche dei tradizionali modi di pensare e di agire.
Superata la fase dell’unità nazionale e allontanatosi quindi il “rischio” del compromesso storico, la questione del Concordato assumeva, a maggior ragione, un significato positivo di per sé, un contributo fondamentale al fine di lasciarsi alle spalle un’annosa questione ed insieme aprire una prospettiva nuova di collaborazione
non solo tra socialisti e cattolici, ma più in generale tra mondo laico e mondo cattolico.
• Quando nel 1947 i socialisti di entrambi i partiti votarono contro l’articolo
7, la loro decisione fu certo rafforzata dalla considerazione che la loro prospettiva
politica divergeva da quella dei comunisti, i quali ritenevano ancora essenziale il
proseguimento della collaborazione governativa tra il loro partito e la Democrazia
Cristiana.
I socialisti “di Nenni” erano invece ormai convinti che le sinistre unite si dovessero, alle prossime elezioni politiche, contrapporre alla Dc per strapparle la guida
del paese, mentre i socialisti “di Saragat” avversavano il tripartito del terzo governo
De Gasperi e non desideravano certo mostrarsi remissivi verso il partito di maggioranza relativa, cui si apprestavano a contestare quanto meno la direzione della politica economica.
Gli uni e gli altri, che al contrario del Pci non avevano bisogno né cercavano
una legittimazione democratica della propria esistenza nell’Italia repubblicana, agi-
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rono però, soprattutto, spinti da una questione di principio. La dichiarazione di
voto espressa da Nenni poteva interpretare la convinzione di tutti i costituenti socialisti: “Con la coscienza di fare il nostro dovere verso la Nazione e verso la Repubblica, noi voteremo contro l’articolo 7 per ragioni, ad un tempo, di principio e
di coscienza”.
L’amarezza da Hammamet
• Per gli stessi motivi “di principio e di coscienza” i socialisti si erano fatti sostenitori della revisione del Concordato, ben consapevoli che essa rappresentasse
comunque un passo in avanti anche sulla via dei loro rapporti con i cattolici e con i
comunisti.
È quindi significativo che dopo il suo ritiro ad Hammamet, negli ultimi anni
della sua vita, lontano dalla vita politica ed amareggiato verso molti dei suoi protagonisti, Craxi abbia in più occasioni rievocato la firma del nuovo Concordato come un grande successo della sua opera di governo, senza manifestare nessun ripensamento.
Va ricordata, a questo proposito, l’intervista rilasciata a «Famiglia Cristiana»,
tanto più importante se si tiene presente che fu lo stesso Craxi a sollecitarla e che,
risalendo a meno di un anno prima della morte del leader socialista, contiene probabilmente le sue valutazioni definitive sull’argomento.
• Craxi riconosceva che “la revisione del Concordato e la firma dei nuovi accordi tra Stato e Chiesa non furono una improvvisazione di pochi mesi. Fu semmai
il capitolo conclusivo di un lungo percorso iniziato addirittura quaranta anni addietro”, a partire quindi dalla stessa Costituente. Ripercorse quindi brevemente le
tappe della trattativa e ricordato l’impegno di molti governi italiani, fino a quello
di Spadolini, aggiungeva: “Io mi trovai così di fronte ad un materiale prezioso che costituiva già una solida base per riprendere l’iniziativa in vista di giungere finalmente e
dopo tante peripezie ad un risultato conclusivo”.
Si trattava di una citazione quasi letterale di quanto dichiarato nel gennaio
1984 alla Camera e al Senato:
«Al momento di assumere la guida dell’attuale Governo, il Presidente del Consiglio
si è trovato perciò di fronte ad un materiale prezioso, frutto di larghi approfondimenti,
che costituiva una solida base per riprendere l’iniziativa in vista di giungere ad un risultato conclusivo».
Nell’intervista del 1999 Craxi metteva quindi in luce la complessità del negoziato che aveva dovuto affrontare per dirimere le ultime questioni, sottolineando la
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volontà di entrambe le parti di giungere ad un accordo, che “ in sei mesi di lavoro,
fu raggiunto con piena soddisfazione di tutti”.
Non erano mancate le resistenze che il nuovo Concordato aveva incontrato,
nel mondo politico e nello stesso episcopato. Craxi però precisava: “I comunisti
votarono a favore e tra di essi in particolare vi furono i consigli costruttivi del sen.
Bufalini”.
Insisteva poi sulla piena coscienza di aver partecipato ad un processo di grande
rilevanza:
«Ricordo solo la consapevolezza che allora avevo dell’importanza storica di giungere
ad un accordo. Ricordo l’impegno che profusi con i miei collaboratori e con i miei interlocutori perché venissero rimossi gli ostacoli, si facesse tutta la chiarezza che era necessaria sulle questioni più delicate, e perché venissero ricercate soluzioni equilibrate. Ricordo bene il clima di fiducia, di partecipazione e di rispetto che continuò ad ispirare dall’inizio alla fine tutto il negoziato».
• Ad una domanda specifica sul bilancio che si poteva trarre “a quindici anni
da quello storico avvenimento” replicò che da quell’accordo erano derivati “solo effetti benefici per lo Stato, per la Chiesa e per la società italiana”. Eventuali questioni ancora aperte sarebbero state risolte di comune accordo: “la via maestra è quella
delle intese”.
All’ultima domanda, infine, che verteva sui motivi per i quali quell’accordo era
“stato sottoscritto grazie a un presidente laico e mai con i Governi democristiani
che si sono avvicendati”, Craxi rispose con grande equanimità, giustificando la
prudenza democristiana e insieme subordinando il proprio merito ad una imponderabile casualità del divenire storico, la stessa che aveva fatto sì che altri disegni
che gli erano stati a cuore non potessero realizzarsi:
«È una domanda che mi posi e che mi pongo anch’io. Probabilmente gli statisti democristiani temevano l’accusa di debolezze compromissorie nei confronti della Chiesa.
Probabilmente l’8 per mille sarebbe stato demonizzato. Sta di fatto che predisposero
molti progetti che rimasero però sulla soglia. Non c’è da meravigliarsi più di tanto. Anche altre “grandi riforme”, riguardanti questa volta le istituzioni dello Stato, se ne sono
state per decenni sospese a mezz’aria senza trovare il modo di incamminarsi nella direzione giusta».
• In questo clima di sconforto, in cui si avverte la triste consapevolezza di non
essere riuscito a concludere tutti gli obiettivi che si era prefisso, appare evidente che
il leader socialista avesse però ragione di sentirsi fiero di aver potuto dare un contributo, decisivo, a una questione che aveva sempre ritenuto importante e alla quale,
come abbiamo visto, aveva dedicato non poche energie.
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Maurizio Punzo
Nel suo intervento alla Costituente del 25 marzo 1947, nel quale aveva annunciato il voto favorevole del suo partito all’articolo 7, spiegandone le ragioni, Palmiro Togliatti aveva fatto ricadere sui democristiani e su De Gasperi, come capo della
Democrazia Cristiana e soprattutto come capo del governo, la responsabilità della
decisione di imporre all’Assemblea quella scelta, che si sarebbe dovuta e potuta evitare. Affermò tra l’altro il leader comunista:
«Avremmo voluto che l’onorevole De Gasperi non parlasse qui, come ha parlato,
quale esponente del Partito democristiano o, ancora di meno, come esponente della coscienza cattolica, la quale non si estrinseca né si può estrinsecare in un solo partito; ma
che, per tramite suo, tutto il nostro dibattito fosse guidato da un rappresentante autorizzato di tutta la Nazione, cioè del nostro governo, democratico e repubblicano.
Questo non è avvenuto; e dobbiamo dolercene».
Trentasette anni dopo questo era però avvenuto e c’era quindi da rallegrarsene,
e, pur nell’amarezza dell’esilio, se ne poteva rallegrare Bettino Craxi, consapevole
di avere adeguatamente guidato la trattativa e conclusa positivamente l’annosa
questione del rinnovo dei Patti Lateranensi.
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Andreotti, Gonella e la revisione
del Concordato
11 marzo 1980: presso la sede della Nunziatura Apostolica in Italia, nella romana via Po, ha luogo il trentottesimo incontro delle Delegazioni della Santa Sede
e del Governo italiano incaricate dei negoziati per la
revisione del Concordato italiano del 1929.
La Delegazione della Santa Sede, dopo la elevazione al
cardinalato di Mons. Agostino Casaroli e la sua nomina a Segretario di Stato nel 1979, è ora presieduta dal
nuovo Segretario del Consiglio per gli Affari pubblici
della Chiesa Mons. Achille Silvestrini, che era già
componente della stessa Delegazione, e composta, oltre che dal Padre Salvatore Lener S.J., già membro della medesima, da Mons. Audris Backis, Sottosegretario
del medesimo Consiglio. La Delegazione italiana è ancora nella sua composizione originaria, e cioè: Guido
Gonella, presidente, Arturo Carlo Jemolo e Roberto
Ago membri.
Un lungo lavoro
• Negli incontri che ho nei giorni precedenti con Gonella, nella mia qualità di segretario della Delegazione governativa (l’altro segretario è il consigliere di Cassazione Vito
Librando), colgo un’atmosfera di fiducia. Il presidente Gonella ritiene, infatti, che dopo anni di difficile ed intenso lavoro si sia giunti alla formulazione di un testo concordato
dalle due Parti che può trovare positivo accoglimento in sede
politica e parlamentare.
Il clima, in sostanza, è quello ottimistico dato dalla sensazione di aver raggiunto finalmente una conclusione che,
anche per il contesto politico del momento, sembra permettere finalmente di chiudere una trattativa in certi momenti
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GIUSEPPE DALLA
TORRE
Rettore della Libera
Università “Lumsa”
≈
“… il contributo
di Gonella alla
revisione
concordataria fu
importante; anzi,
assolutamente
determinante.
Chi successe a lui
nella guida della
Delegazione
italiana proseguì
nella via maestra
da lui tracciata…”
≈
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Giuseppe Dalla Torre
estenuante e comunque davvero troppo lunga, essendosi formalmente aperta con il
primo incontro delle due Delegazioni il 28 ottobre 1976.
• In verità nella lunga serie di incontri, svoltasi dall’autunno del 1976 alla primavera del 1980, il lavoro si era sviluppato in un ottimo clima di collaborazione,
con grande impegno e nel comune desiderio di giungere presto e bene alla conclusione di un lavoro di cui tutti avvertivano la rilevanza non solo storica. Da parte
italiana si sentiva la responsabilità di corrispondere appieno all’esigenza di una armonizzazione costituzionale delle disposizioni concordatarie, adempiendo così finalmente una promessa fatta in sede di Assemblea Costituente, nel corso del vivace
dibattito che aveva poi portato all’approvazione dell’art. 7 della Costituzione, col
suo richiamo ai Patti lateranensi.
Quell’articolo era stato approvato, in particolare nel suo secondo comma,
anche per la prospettazione di una possibile revisione del testo del 1929 come
concreta soluzione delle “antinomie” tra Concordato e Costituzione, rilevate
non solo dalle posizioni più estremistiche di parte laica. Nel senso di una revisione armonizzatrice delle disposizioni concordatarie alle disposioni costituzionali
si erano espressi, nei giorni di quel marzo 1947 in cui la Costituente trattò dei
rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica, numerosi costituenti di differenti formazioni politiche.
Tra essi Alcide De Gasperi, che nel suo unico intervento in Assemblea, con l’asciuttezza d’espressione che gli era propria, poneva in evidenza come i sostenitori
del richiamo ai Patti lateranensi nel testo costituzionale non volessero “arrestare la
storia”, non intendessero “inchiodare (…) i nostri rapporti, in tutte le forme, a
quelli che erano ieri o diventarono nel 1929”, mettendo in evidenza come la formula proposta all’Assemblea non solo dichiarasse la modificabilità dei Patti, ma ne
prevedesse la possibilità senza il ricorso a procedure aggravate, dichiarando che “sono modificabili con la semplice maggioranza parlamentare”.
La posizione della Santa sede
• Da parte della Santa Sede era vivamente avvertita la necessità di armonizzare
le disposizioni concordatarie, nate in un diverso contesto storico-politico ed ordinamentale, alle deliberazioni del Concilio Vaticano II, soprattutto a quelle contenute nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium
et spes e della dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae. Ma probabilmente era anche l’esigenza di prevenire le possibili involuzioni di un clima generale
favorevole alla revisione, oltre che gli eventuali sviluppi di una giurisprudenza novatrice della Corte costituzionale, che già agli inizi degli anni settanta aveva cominciato ad affrontare la questione delle antinomie tra disposizioni pattizie e disposi-
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Giuseppe Dalla Torre
zioni costituzionali, la quale, in mancanza di una revisione del Concordato, avrebbe potuto condurre oltre le oggettive esigenze di una adeguata armonizzazione costituzionale.
In realtà Gonella si illudeva. Fattori esterni alle due Delegazioni, essenzialmente politici, facevano interrompere i lavori, che sarebbero riprese esattamente tre anni dopo, nel marzo del 1983, con una Delegazione italiana rinnovata dopo la morte dello stesso Gonella, sostituito alla presidenza da Pietro Gismondi, e di Arturo
Carlo Jemolo, sostituito da Paolo Rossi. Il volgere delle cose avrebbe privato proprio lui, Gonella, che pure aveva speso gli ultimi anni della sua vita tutti alla grande questione della revisione del Concordato, della soddisfazione di vedere la conclusione positiva dei suoi sforzi.
I preliminari di un impegno
• La passione, la competenza e l’impegno con cui Guido Gonella affrontò e
portò molto avanti la complessa questione della revisione del Concordato si spiegano anche alla luce di pregressi fattori, che costituirono preliminari altamente favoritivi e che danno ragione del fatto che Gonella fosse l’uomo più adatto per condurre a termine un progetto di tanto rilievo.
Di questi tre in particolare sembra necessario fare menzione.
Il primo attiene alla sua formazione culturale. Gonella, infatti, fu un giurista
raffinato, con sensibilità e conoscenze che andavano ben al di là dello specifico settore scientifico-disciplinare da lui coltivato, cioè la filosofia del diritto. È noto l’elogio di lui fatto, intervenendo alla Consulta nel dibattito sul referendum istituzionale, da Vittorio Emanuele Orlando, il quale disse di ravvisare in lui “sotto mentite spoglie, un mio collega in diritto pubblico, perché egli si muove con una grande
sicurezza nell’usare dei metodi propri della tecnica giuspubblicistica”. Ed in effetti
se non fu giurista nel senso comune del termine, cioè giurista di toga, pratico del
diritto, e solo limitatamente nel tempo giurista di cattedra, teorico del diritto, in
quanto gli impegni nella professione giornalistica prima, quelli nella politica e nelle istituzioni poi, lo tennero sostanzialmente lontano dalla cattedra universitaria
per cui pure era portato e che aveva pur brillantemente conquistato, si deve riconoscere che fu giurista in senso pieno ed autentico. Nel senso che tutta la sua azione
giornalistica, politica, di legislatore ed amministrativa appare, per dir così, attraversata e guidata dalla sensibilità più profonda del giurista autentico che non si arresta
davanti alla norma scritta, ma scava nel diritto vivente; non si limita all’apprensione del diritto positivo, ma va a cogliere l’espressione della giuridicità nelle dimensioni vitali dell’esperienza concreta.
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Giuseppe Dalla Torre
Fin dall’età della costituente
• Un secondo fattore, di estrema rilevanza per quanto si viene approfondendo in questa sede, è da cogliersi nel ruolo svolto da Gonella nell’età della Costituente.
Invero egli non ebbe direttamente un ruolo di rilievo nella fase di elaborazione
della Carta costituzionale perché, pur facendo parte della Costituente, sin dal luglio del 1946 venne ad essere investito di funzioni istituzionali come Ministro della Pubblica Istruzione del primo Governo della Repubblica. Ma sono note le consonanze tra il testo della relazione da lui tenuta al I Congresso nazionale della Democrazia Cristiana ed il testo della Costituzione che poi sarebbe venuta; come pure
sono note le assonanze con questa contenute negli articoli pubblicati tra il 1944 ed
il 1946 da Gonella su «Il Popolo», giornale del partito democristiano di cui era direttore.
Come ebbi modo di osservare in altra occasione, da quei testi si ricava un suo
precoce interesse per le problematiche giuridiche relative al fenomeno religioso nel
nuovo Stato democratico. Con due punti focali: la tematica della libertà religiosa,
rilevabile ad esempio nelle sue polemiche contro la restaurazione dei reati elettorali
dei ministri di culto, ovvero contro il proliferare dei “giuramenti coattivi” negli uffici pubblici e nelle cariche pubbliche; la definizione dei rapporti tra lo Stato e la
Chiesa cattolica nel nuovo contesto ordinamentale e politico.
L’impegno per la integrità della Costituzione
• Infine, più tardi, il suo impegno culturale e politico per la Costituzione e
contro ogni suo travisamento, principio, quest’ultimo, di involuzione e di crisi. Nel
quadro delle sue preoccupazioni, non infondate, per una Costituzione in parte non
applicata, in parte tardivamente e male applicata, in parte addirittura violata, come
“in materia di unità della famiglia e di difesa del costume”, si colloca anche il suo
impegno, di studio prima ancora che di azione, per la revisione del Concordato lateranense e per il superamento della vecchia legislazione ecclesiastica sui “culti ammessi”, attraverso la stipula di Intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica sulla base di quanto previsto dal terzo comma dell’art. 8 della Costituzione.
L’intervento alla Camera del 4 ottobre 1947
• In siffatta prospettiva si coglie appieno il senso del suo fondamentale discorso tenuto alla Camera dei Deputati, il 4 ottobre 1967, sul problema della revisione
del Concordato, nel quale riprendeva con precisione le posizioni diverse emerse
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nell’ormai lontano dibattito in Assemblea Costituente sull’art. 7, nonché le posizioni e le iniziative di varie parti politiche succedutesi negli anni cinquanta e sessanta in tema di rapporti fra Chiesa cattolica e Stato in Italia, per poi delineare l’architettura della revisione possibile e, a suo avviso, necessaria: mantenimento del
principio pattizio, di fronte alle posizioni estreme dell’abrogazionismo; distinzione
tra Stato e Chiesa ma senza separazione, né opposizione o sovrapposizione di uno
all’altra; riaffermazione di una sana laicità; aggiornamenti delle norme concordatarie, ma “non punitivi”, semmai “correttivi, interpretativi, integrativi”; garanzie per
una serie di materie “nelle quali sta per noi la ragion d’essere prima del Concordato e
senza le quali la pace religiosa sarebbe sicuramente e definitivamente compromessa”.
• A questa attenzione al dibattito politico sulle tematiche della revisione concordataria, che si accompagna agli interventi contro innovazioni legislative che hanno anche una incidenza sulla materia concordataria, quali il divorzio, alcune discutibili innovazioni introdotte dalla riforma del diritto di famiglia, l’aborto, si accompagnò infine l’esperienza maturata in qualità di presidente della commissione ministeriale di studio per la predisposizione di un progetto di revisione del Concordato
lateranense, da lui stesso istituita a seguito della mozione approvata dalla Camera
dei Deputati il 5 ottobre 1967 con cui, “considerato che i Patti lateranensi a norma
della Costituzione repubblicana regolano le relazioni tra Stato e Chiesa, ciascuno
nel proprio ordine indipendente e sovrano; rilevata, per quanto riguarda lo Stato,
l’opportunità di riconsiderare talune clausole del Concordato in rapporto all’evoluzione dei tempi ed allo sviluppo della vita democratica; avendo presente che a tal fine è consona alla natura dell’accordo la procedura dell’intesa bilaterale prevista anche dalla Costituzione”, la Camera invitava “il Governo a prospettare all’altra Parte
Contraente tale opportunità in vista di raggiungere una valutazione comune in ordine alla revisione bilaterale di alcune norme concordatarie”.
Il contributo di Gonella alla revisione
• Il contributo di Guido Gonella alla revisione del Concordato lateranense si
svolse su diversi piani.
Innanzitutto sul piano politico. Negli anni che vanno dall’ottobre del 1976, data
di insediamento delle due Delegazioni italiana e vaticana, al marzo del 1980, in cui
come s’è ricordato partecipa per l’ultima volta alle sedute delle Delegazioni, Gonella
si fa attento, costante ed abile tessitore di una serie di rapporti con singoli esponenti
politici, con gruppi parlamentari, con maitres à penser dell’opinione pubblica, ma anche con i più alti esponenti d’oltretevere e con i più influenti rappresentanti dell’episcopato italiano, per far maturare un consenso attorno alla revisione: alla sua necessità, ai grandi orientamenti ideali che la debbono guidare, alle soluzioni possibili dei
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singoli problemi, in particolare sui nodi fondamentali della disciplina del matrimonio, degli enti ecclesiastici e dell’insegnamento religioso nelle scuole pubbliche. A
questi incontri di carattere politico, a lui particolarmente congeniali, è incoraggiato,
sostenuto e consigliato da Giulio Andreotti, che soprattutto nelle funzioni di Presidente del Consiglio ha molto a cuore il tema politico della revisione.
• I contatti tra i due sono costanti e da questi nascono scelte di fondo, come
quella della cosiddetta “parlamentarizzazione” del procedimento di revisione; parlamentarizzazione che ha un precedente illustre, al quale sostanzialmente si ispira,
quello che aveva portato al Trattato di Osimo del 1975. Si tratta di un modo di
procedere singolare se si guarda alle prassi internazionali, giacché implica la costante informativa al Parlamento sull’andamento delle trattative anziché il suo coinvolgimento successivo alla conclusione delle stesse, in sede di legge di autorizzazione
alla ratifica e di esecuzione.
• La parlamentarizzazione del procedimento di revisione del Concordato è anche la causa dei tempi lunghi della trattativa: dal 1976 al 1984. Il Parlamento, infatti, interviene varie volte ed in diverse forme, costringendo sostanzialmente le
due Delegazioni a riprendere ogni volta testi su cui pure s’erano trovate d’accordo,
per recepire le osservazioni delle Camere. Di qui le diverse “bozze” da esse prodotte, con il conseguente timore da parte di qualcuno di un progressivo svuotamento,
bozza dopo bozza, d’ogni contenuto sostanziale l’Accordo. Ma la scelta si è dimostrata, agli occhi della storia, saggia, perché ha permesso di giungere ad una soluzione pienamente soddisfacente per entrambe le parti con un consenso parlamentare molto ampio, rispondente in particolare ai desideri della Santa Sede che non
avrebbe apprezzato un Accordo di revisione del Concordato lateranense approvato
in Parlamento con una esigua maggioranza.
Lo sviluppo del dibattito sul Concordato
• Mentre si svolgono le trattative per la revisione del Concordato, si intesse nel
Paese un dibattito ampio ed approfondito sul Concordato e sulle tematiche concordatarie. Gonella è attentissimo, con la sua ben nota sensibilità di giornalista e di
politico, alle diverse posizioni che emergono – e si sviluppano anche – in sede politica e sulla stampa. Ma è particolarmente attento al contributo che la dottrina giuridica, specie quella costituzionalistica ed ecclesiasticistica, ma anche quella canonistica, viene ad offrire sui diversi problemi, ed alla prospettazioni di soluzioni
concrete che essa viene facendo sulle riviste scientifiche, in opere monografiche e
soprattutto in una serie di convegni scientifici che espressamente sono promossi
per monitorare l’andamento delle trattative e per prospettare soluzioni alternative.
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• A molti convegni che in quegli anni si svolgono in sedi diverse e con taglio
diverso Gonella partecipa di persona: muto ma attentissimo spettatore delle idee
che vi si esprimono, di cui prende accuratamente nota. Ricordo in particolare la
sua attenta partecipazione ai lavori di quello che fu, sia per il pluralismo delle
posizioni espresse sia per lo spessore dottrinale e politico dei contributi, forse il
più rilevante di quegli eventi: il convegno nazionale sulla revisione del Concordato, svoltosi a Bologna dal 3 al 5 febbraio 1977, promosso dall’Istituto di Studi
Giuridici della Regione Emilia-Romagna, nonché dalle Facoltà di Giurisprudenza e di Scienze Politiche dell’Università di Bologna. E ricordo il suo ripetuto invito, sia in seno alla Delegazione italiana, sia negli incontri ufficiali di questa con
la Delegazione della Santa Sede, a tenere presente tutta questa notevole produzione dottrinale, a considerare le diverse posizioni assunte sui vari problemi dagli
studiosi, a soppesare dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico le differenti e spesso contrastanti proposte, in particolare quelle scaturite dal convegno
bolognese.
A questa costante attenzione allo svolgimento del dibattito sul Concordato,
nelle varie sedi ed ai diversi livelli, seguiva un metodo di lavoro particolarmente
rigoroso. Nei periodi di più intenso impegno Gonella incontrava almeno una
volta alla settimana i due segretari della Delegazione italiana, nei locali che aveva
presso lo studio di Giulio Andreotti in piazza Montecitorio, o più spesso presso
la sua abitazione di via Colli della Farnesina, per ordinare la documentazione
raccolta, scambiare idee e valutazioni, disporre eventuali indagini ed approfondimenti su questioni specifiche. Ad esse seguivano riunioni con i componenti la
Delegazione italiana, destinate a preparare gli incontri in programma con la Delegazione della Santa Sede, che avevano luogo presso la Nunziatura Apostolica in
Italia.
Metodo ed autorevolezza
• La metodologia di lavoro adottata gli permise di guidare con efficacia ed
autorevolezza i lavori della revisione, offrendo non di rado un contributo originale alla soluzione di problemi via via posti sul tappeto. È sua ad esempio l’idea,
poi passata nel testo definitivo del Concordato (art. 9 n. 2), di prevedere che la
scelta se avvalersi o non avvalersi dell’insegnamento di religione cattolica nelle
scuole pubbliche di ogni ordine e grado avvenga su richiesta dell’autorità scolastica, al fine di superare l’eventuale inerzia dei destinatari dell’insegnamento, ma
anche per assicurare imparzialità della amministrazione scolastica e garantire rispetto a discriminazioni possibili, in un senso o nell’altro, qualora fossero state
adottate altre soluzioni pratiche. Così pure è sua la idea di portare l’esonero dal
servizio militare dei chierici e dei religiosi dal tradizionale terreno canonistico
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dei privilegia clericorum (ancora presenti nella codificazione canonica del 1917,
allora in vigore), al terreno di una equiparazione alle forme comuni di dispensa
dal servizio militare, sul modello della legge in materia di obiezione di coscienza
del 1972, cercando così di ricondurre, per quanto possibile, l’antico privilegio al
diritto comune. In questa prospettiva egli è sempre contro formulazioni delle disposizioni concordatarie che potessero sapere di privilegio. Ancora è sua la proposta, anch’essa transitata nel testo finale del Concordato, di un particolare regime giuridico dell’ “ora di religione” per le Regioni di confine o quella di limitare
le disposizioni concordatarie sugli enti ecclesiastici ai grandi principi, rinviando
ad una successiva Commissione bilaterale la soluzione dei notevoli problemi di
carattere tecnico-giuridico che la revisione di una normativa risalente alle leggi
eversive della metà dell’Ottocento poneva.
• Non sempre naturalmente le sue personali posizioni sono condivise dalla
stessa Delegazione italiana, o vengono recepite nei lavori delle due Delegazioni.
Ricordo, ad esempio, che per quanto riguardava la disposizione sul nulla osta dei
docenti della Università Cattolica del Sacro Cuore, disposizione che peraltro era
passata positivamente al vaglio della Corte Costituzionale, riteneva che sarebbe stato possibile assicurare con altre modalità il sacrosanto ed intangibile principio della
coerenza fra l’insegnamento assicurato dai docenti e la tendenza cattolica dell’Ateneo fondato da Gemelli: per esempio attraverso l’inserimento del richiesto gradimento ecclesiastico in una disposizione statutaria dell’Ateneo milanese, nel quadro
della autonomia rafforzata di cui godono le Università non statali nell’ordinamento italiano.
Mi piace pensare che questa soluzione venisse in mente a Gonella pensando allo Statuto dell’altro Ateneo cattolico italiano, l’Istituto Universitario Pareggiato di
Magistero Maria Ss. Assunta (ora Libera università Maria Ss. Assunta-Lumsa), che
egli ben conosceva avendovi insegnato negli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra, ed essendone divenuto più tardi componente del consiglio di amministrazione. Difatti questo Ateneo ha sempre ritenuto, nei successivi testi dei suoi
statuti, di poter coordinare libertà di insegnamento e tendenza dell’istituzione universitaria prevedendo che il nulla osta della competente autorità ecclesiastica per la
nomina dei docenti fosse espressione non di eteronomia ma di autonomia, non
fosse cioè imposto da una disposizione esterna all’ordinamento dell’Università,
qual è la stessa fonte concordataria, ma da una libera autodeterminazione interna
in sede statutaria.
Se difendeva con forza e convinzione le proprie proposte, tuttavia Gonella era
molto attento alle posizioni degli altri commissari, accedendo senz’altro a soluzioni
diverse dalla sua quando queste apparivano maggiormente condivise.
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Il senso profondo dello Stato
• Mi preme comunque testimoniare l’alto senso dello Stato che Guido Gonella espresse sempre nel lungo arco di tempo in cui si svolse la trattativa, il rispetto delle posizioni manifestate dalle varie parti politiche che comunque doveva rappresentare nel corso delle trattative e l’assoluta fedeltà alle deliberazioni
parlamentari. Nonostante le insinuazioni provenienti da qualche parte il suo essere cattolico, questo non fece velo alla sua azione in nome dello Stato italiano e
nell’interesse dello Stato italiano. Ricordo come spesso le sue posizioni, nel rispettare il mandato ricevuto, fossero più “laiche” di quelle di altri componenti la
Delegazione italiana ed in particolare – e la cosa non può che essere assai significativa – di quelle di Arturo Carlo Jemolo il quale, eccezion fatta forse per la materia matrimoniale, appariva in quegli anni estremi della sua vita molto più aperto alle esigenze di parte ecclesiastica. In questa prospettiva si coglie anche l’impegno, parallelo, con il quale Gonella intraprese formali contatti con le rappresentanze della Chiesa Valdese e delle comunità ebraiche, al fine di procedere alla stipula di intese e dare finalmente attuazione al dettato del terzo comma dell’art. 8
Cost.
• Insomma: nella vicenda concordataria Guido Gonella mostrò appieno di essere, cattolicamente, un “laico in piedi”, cioè un fedele che ha profondo il senso
dello Stato e che, proprio in quanto credente, ha a cuore ed intende salvaguardare
la sana laicità dello Stato, curando di evitare al tempo stesso ogni confessionalizzazione della politica ed ogni politicizzazione della religione. In questa prospettiva
costante fu in lui la preoccupazione che il nuovo testo del Concordato servisse ad
evitare qualsiasi ingerenza reciproca tra le due Autorità, e riteneva che sarebbe stato
preferibile pensare a prevedere una disponibilità della Chiesa a collaborare, in ordine suo, con lo Stato soprattutto con interventi in campo sociale. Era, in nuce, la
preoccupazione che sarebbe stata poi raccolta nella famosa formula dell’art. 1 dell’Accordo di Villa Madama, secondo cui la Repubblica italiana e la Santa Sede,
“impegnandosi al pieno rispetto” nei loro rapporti del principio di reciproca indipendenza e sovranità sancito dal primo comma dell’art. 7 Cost., si impegnano altresì “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del Paese”.
Le «Documentazioni di Justitia»
• Nel contesto dell’impegno per la revisione concordataria, che nella sua sensibilità di antico costituente esprimeva anche la volontà di soddisfare finalmente un
impegno assunto in sede di Assemblea Costituente, non posso fare a meno di ri-
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cordare una particolare iniziativa di cui Guido Gonella fu suggeritore, promotore e
sostenitore, e nella quale fui coinvolto in prima persona.
Mi riferisco al periodico «Documentazioni di Justitia», pubblicato a cura dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani come una sorta di supplemento della nota ed
autorevole rivista della associazione, «Justitia» appunto, di cui apparvero ventotto
fascicoli tra il marzo del 1977 ed il maggio del 1979; periodico pubblicato dalla
stessa casa editrice di «Justitia», la milanese Giuffré, e diffuso con larghezza tra uomini politici, parlamentari, giuristi, giornalisti ed organi di informazione.
• L’idea soggiacente all’iniziativa era in sostanza quella di accompagnare e sostenere il procedimento di revisione, nel convincimento che questo fosse necessario per le mutate realtà nella società civile ed nella Chiesa, che fosse dovuto per gli
impegni assunti in sede di Costituente, che fosse l’unica via perseguibile nella fedeltà al testo costituzionale, lasciando da parte ogni ipotesi massimalista – che pure
in quagli anni si era riaffacciata – diretta ad abrogare il Concordato o addirittura a
rivedere l’art. 7 della Costituzione. In questa prospettiva la rivista si preoccupava
innanzitutto di diffondere, in tempi rapidi, la documentazione ufficiale relativa alle trattative (come gli atti parlamentari, gli atti governativi, i documenti della Santa
Sede ecc.), saggi giuridici e documentazione relativa a convegni scientifici sulla revisione (come il seminario di studi promosso a Milano, nell’aprile del 1977, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, dalle facoltà Teologiche italiane e dall’Unione Giuristi Cattolici Italiani su “Stato democratico e Chiesa conciliare di fronte
alla revisione del Concordato”), la giurisprudenza in materia ecclesiastica che la
Corte costituzionale proprio negli anni settanta veniva producendo (di evidente,
rilevante interesse per l’armonizzazione costituzionale delle norme concordatarie),
le esperienze concordatarie straniere, gli articoli apparsi sulla stampa quotidiana e
periodica, i commenti originali di studiosi ed uomini politici. La rivista pubblicò
di volta in volta i vari testi (le cosiddette “bozze”) di revisione del Concordato, elaborate nel corso delle Trattative, anche nel formato in testi paralleli – idea propria
di Gonella – diretti ad evidenziare i progressi fatti dalle trattative medesime ed a
documentare come nelle trattative si fosse via via tenuto conto sia dei rilievi parlamentari sia dei suggerimenti della dottrina giuridica.
• Sulle pagine del periodico, in cui fu prevalentemente presente nelle note
dottrinali la cultura giuridica di parte cattolica, non mancarono tuttavia interventi
diretti, o riprodotti da altra fonte, di studiosi di diverso orientamento. Penso ad
esempio ad un articolo di Vezio Crisafulli, a commento della sentenza n. 16 del
1978 con la quale la Corte costituzionale dichiarava inammissibili otto richieste di
referendum abrogativo ex art. 75 Cost., presentate dai radicali in rapporto a disposizioni concordatarie: articolo che indirettamente acquisiva grande rilievo nel sostegno della tesi della impercorribilità di altre strade, rispetto a quella intrapresa
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della revisione bilaterale, per modificare il Concordato del 1929. Penso, ancora, ad
un articolo di Arturo Carlo Jemolo sull’insegnamento della religione nelle scuole
pubbliche di ogni ordine e grado, che costituì una delle materie di più tormentata
elaborazione nelle trattative, nel quale l’illustre ecclesiasticista spezzava una lancia a
favore del mantenimento di tale insegnamento, sia pure con le dovute cautele per
la tutela della libertà religiosa di genitori e studenti.
• Il periodico pubblicava anche notizie e documentazioni relative a vicende
che, nel contesto di quei difficili anni Settanta, in qualche modo toccavano la questione della pacifica convivenza sociale e della pace religiosa. Così ad esempio nel
numero di luglio del 1977 appariva un dossier sui numerosi atti di violenza ed intolleranza contro edifici di culto cattolici, istituzioni cattoliche ed appartenenti ad
associazioni cattoliche (in particolare esponenti di Comunione e Liberazione) perpetrati nel primo semestre di quell’anno. Scopo della documentazione, come esplicitamente era scritto nell’introduzione alla stessa, era di mettere in evidenza la sussistenza di un disegno di violenza che si accaniva contro la Chiesa e contro i cattolici, disegno che fu tragicamente svelato da una serie di crimini quali l’uccisione di
Aldo Moro, di Vittorio Bachelet, di Roberto Ruffilli; ed al contempo segnalare la
necessità e l’urgenza di chiudere bene la revisione del Concordato, vedendosi in
questo uno strumento valido di garanzia della pace religiosa nel nostro Paese.
• Nel novembre del 1978, all’indomani di una dolorosa estate che aveva conosciuto la morte di due Papi ed un duplice conclave, «Documentazioni di Justitia»
pubblicava un fascicolo in cui erano riprodotti articoli ed interviste di Guido Gonella apparsi su vari quotidiani e periodici, in cui si ricordavano le parole ed i gesti
di Paolo VI e di Giovanni Paolo I, ma anche di Pio XII nel ventennale della morte,
nonché si coglievano le prime manifestazioni di quello che sarebbe stato il lungo
pontificato wojtyliano. In questi contributi Gonella non mancava di richiamare, di
volta in volta, l’apporto fondamentale della Chiesa per i diritti umani e per la pace,
toccando tra l’altro la questione dei rapporti fra Chiesa e Stato. In particolare commentando l’omelia tenuta dal cardinale Wojtyla nella Cappella Sistina, subito dopo l’elezione al pontificato, coglieva immediatamente le linee programmatiche di
un pontificato che sarebbe stato di grande spessore sul piano di nuove modalità di
gestire la funzione pastorale da parte del pontefice e che, in quanto tale, avrebbe
certamente toccato la questione bimillenaria, eppure sempre nuova, delle relazioni
della Chiesa col potere politico. Gonella notava con acutezza che in tale discorso si
delineava una dottrina sull’uomo “che è presupposto della dottrina della società,
della dottrina del mondo nel quale l’uomo è immerso”. Ed aggiungeva: “in difesa
dell’uomo Giovanni Paolo II parla nella sua omelia insistendo nella lotta per la pace, per la eliminazione delle disuguaglianze e della povertà, e specificamente ‘per la
libertà di coscienza e la giusta libertà religiosa’. E dice ciò senza interferire nei valori temporali. Anzi, affermando un principio che non potrà non essere tenuto nel
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debito conto in materia di rapporti fra Stato e Chiesa. Il Papa ha detto che non lo
spinge ‘nessuna intenzione di interferenza politica o di partecipazione alla gestione
di affari temporali’ essendo egli mosso solo da ‘motivazioni religiose e morali’”.
Due direttive di valore
• Nella sensibilità con cui annotava questi passaggi dell’omelia del nuovo pontefice si può cogliere l’attenzione del Gonella intento all’opera di revisione concordataria, opera che voleva ispirata da due grandi direttive di valore: la distinzione
tra ordine politico e ordine spirituale, fondamento di una sana laicità dello Stato;
la collaborazione fra Stato e Chiesa per il bene della persona umana e dell’intera
società italiana. Quella duplice direttiva di valore che, appunto, fu consacrata nella
formula dell’art. 1 dell’Accordo di Villa Madama e che segna la “filosofia” del Concordato.
A fine inverno del 1979, in uno di quei momenti nei quali sembrò che l’opera
di revisione fosse ormai giunta al suo termine e mancasse nient’altro che l’iniziativa
politica diretta a concludere diplomaticamente l’Accordo, Gonella pubblicò un
lungo articolo, ripreso dalla Rivista, che partendo dalla Questione romana e dalla
ricorrenza del cinquantesimo anniversario della sua fine, segnata dai Patti del
1929, affrontava sistematicamente la questione concordataria e, riprendendo le ragioni dell’esclusione di ogni tentazione abrogazionista e della necessità dell’ipotesi
revisionista sottesa al testo dell’art. 7 Cost., sintetizzava con efficacia i problemi affrontati e le soluzioni raggiunte in due anni di negoziati bilaterali italo-vaticani. Si
tratta di un contributo di rilevante interesse non solo per fare il punto della situazione ad un tempo determinato, che non sarebbe stato quello conclusivo del lungo
iter, ma anche per cogliere, in una sorta di inconfessata autobiografia, la cultura e
la sensibilità con cui Gonella guidò il procedimento di riforma e, in qualche modo,
anche il suo originale apporto al raggiungimento di un testo condiviso tra le parti
in negoziato e condivisibile nel Paese.
Conclusioni
• Senza voler togliere nulla a nessuno, si deve riconoscere che il contributo di
Gonella alla revisione concordataria fu importante; anzi, assolutamente determinante. Chi successe a lui nella guida della Delegazione italiana proseguì nella via
maestra da lui tracciata. In particolare non si possono disconoscere i meriti acquisiti dal presidente del Consiglio Bettino Craxi, che con la determinazione a lui propria e con grande sensibilità politica portò finalmente a conclusione il lungo e tormentato procedimento di revisione. Ciò fu possibile grazie anche al fatto che con
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la sua iniziativa veniva meno la sostanziale contrarietà a questo obbiettivo politico
che aveva caratterizzato, fino ad allora, la posizione del Partito socialista, contrariamente all’atteggiamento assunto di fronte alla questione concordataria da tutti
i grandi partiti della cosiddetta Prima Repubblica. Si deve anzi ricordare che proprio l’opposizione sostanziale – ma anche formale – dei socialisti alla revisione,
costituì uno dei principali fattori del prolungarsi nel tempo dei negoziati, dando
luogo a quella “politica del carciofo”, come fu chiamata, che a lungo caratterizzò
la procedura di revisione: cioè l’azione diretta, grazie alla particolare procedura
adottata della cosiddetta “parlamentarizzazione”, a strappare di volta in volta elementi del nucleo originario del Concordato lateranense nella speranza, non troppo nascosta, di giungere ad un sostanziale svuotamento dell’accordo ed alla riduzione del rinvio al Concordato, contenuto nel secondo comma dell’art. 7 Cost.,
ad un mero flatus vocis.
Gonella, Craxi e Andreotti
• Ma a me pare che, nonostante certe apologetiche affermazioni dell’indomani della firma dell’Accordo di Villa Madama, tendenti a sottolineare l’originalità
dell’impostazione data da Craxi al testo concordatario ed alla svolta che egli
avrebbe dato, quanto a contenuti e ad architettura, al testo poi sottoscritto, si
debba riconoscere invece che anche nella fase finale, nella quale il motus divenne
velocior, il lavoro della revisione si è mosso sulle fondamenta e lungo i binari posti
dalla presidenza Gonella. Se a Craxi si deve il merito di aver avuto la forza di concludere, a Gonella si deve quello di aver avuto la capacità di costruire. Comunque
a Gonella, con Andreotti, si deve l’atteggiamento politico più deciso nella scelta
preliminare per la revisione del Concordato, lasciando da parte le tesi, provenienti
dal mondo laico ma anche da qualche politico ed intellettuale cattolico, di un superamento o di un azzeramento del Concordato, o la vecchia ipotesi delle “foglie
secche” di Jemolo.
Due annotazioni in conclusione
• La prima attiene alla cultura che, dinanzi alla questione del Concordato,
Gonella espresse e ne guidò l’azione. Nel senso che i contributi di pensiero e di
azione politica di Gonella sembrano essere stati più debitori della grande cultura
giuridica del tempo che fu suo, che non della speculazione filosofico-teologica
francese tra le due guerre mondiali circa i rapporti tra Chiesa e Stato; sembrano più
rispondenti alla concezione che presiede al primo comma dell’art. 7 Cost., cioè di
rapporti fra istituzioni sovrane nel proprio ordine, che alla concezione sottostante
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all’art. 2 Cost. che, guardando alla Chiesa come formazione sociale nel quadro
della nota concezione del pluralismo organicistico cattolico, parrebbe maggiormente inclinare verso le differenti e – almeno dottrinalmente – più moderne teoriche sull’animazione cristiana dell’ordine temporale.
Al riguardo quella di Gonella, che pure per la militanza fucina ben conosceva
i pensieri di un Maritain, di un Congar o di un De Lubac, era una cultura che
non inclinava verso le moderne prospettazioni dei rapporti Chiesa-Stato della
Nouvelle théologie francese; era una cultura prettamente giuridica, che si era formata allo studio delle tradizionali teoriche canonistiche sulla Chiesa come societas
iuridica perfecta, ravvivate dottrinalmente dalla lettura del magistero sociale, in
particolare delle encicliche di Leone XIII, a partire da quell’Immortale Dei
(1885), dove è detto tra l’altro che “la Chiesa nell’ordine suo e nella sua costituzione giuridica è società perfetta al pari della civile” (§ 15). Ma una cultura giuridica canonistica integrata e, per dir così, rafforzata dalla grande cultura giuridica
secolare che, nell’età dell’incipiente fascismo, aveva teorizzato la “pluralità degli
ordinamenti giuridici” quasi come inconscia, estrema difesa dell’individuo e della
società civile con le funzioni sociali in cui si esprime, contro la dilagante statalizzazione. In effetti Gonella, “mio collega in diritto pubblico” secondo la lusinghiera affermazione di Vittorio Emanuele Orlando, non ignorava la grande lezione di
teoria generale del diritto data da Santi Romano: lezione che aveva contribuito
non poco a trarre fuori l’ordinamento giuridico della Chiesa dal cantuccio emarginante in cui era stato ridotto dal positivismo giuridico, ridandogli il prestigio ed
il rango di un tempo.
• La seconda attiene alla sensibilità di Gonella come uomo che, anche alla fine della propria vicenda terrena, sa cogliere i segni dei tempi e non si lascia irretire
dal passato.
Anche qui un ricordo personale. Durante una pausa, alla fine degli anni settanta, dei lavori della commissione bilaterale per la revisione del Concordato, il
presidente Gonella si avvicina e mi esterna alcune personali valutazioni su nodi
problematici della trattativa, dove risulta più difficoltoso raggiungere un accordo
soddisfacente tra le parti: gli enti, il matrimonio, l’insegnamento religioso nelle
scuole pubbliche. Si tratta, del resto, di classici punti di frizione nei rapporti tra
Stato e Chiesa, cui corrisponde storicamente il “nocciolo duro” della tradizione
concordataria.
Ad un certo momento, quasi a modo di battuta, mi dice: “È ora che i Concordati si allarghino a materie nuove. Aborto, eutanasia, manipolazioni genetiche: questo è
il terreno su cui la modernità chiama la Chiesa a confrontarsi con lo Stato!”. Lasciai
cadere, allora, la sollecitazione sottesa alle sue parole, pronunciate del resto quasi di
sfuggita. Mi parvero, sul momento, come un’evasione dalla concretezza del confronto che ci impegnava; forse l’espressione del disagio di un’intelligenza adusata
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allo spaziare libero della speculazione, dinanzi al tecnicismo – talvolta arido – proprio dell’opera di formulazione normativa e per di più in un ambito, com’è quello
concordatario, tradizionalmente vincolato a poche e ben determinate fattispecie
materiali. Evidentemente la incipiente questione bioetica dovette sembrarmi del
tutto estranea alla tematica giuridica dei rapporti fra Chiesa e Stato.
Ma quanto attuale mi appare, oggi, quella sollecitazione; oggi che la questione
bioetica risulta segnare decisamente le nuove frontiere dei rapporti fra le due autorità; oggi che, addirittura, il nuovo potere scientifico-tecnologico, nella sua autoreferenzialità e nella sua insofferenza ad ogni eteroregolamentazione, anche di carattere morale, sembra rivestire dinnanzi a Dio la figura di quel Cesare che, per secoli,
ha incarnato il potere per eccellenza: il potere politico.
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La politica ecclesiastica della Repubblica
È sicuramente legittimo domandarsi se sia mai esistita
una politica ecclesiastica dell’Italia democratica. La
Resistenza non ebbe né il tempo né forse l’intenzione,
con qualche eccezione liberal-socialista, di immaginare un approccio post-fascista alla condizione giuridica
dei “culti ammessi” e alle relazioni con la “religione
dello Stato”. Si continua a citare, come unica seria riflessione sul tema, il famoso opuscolo di Jemolo per la
pace religiosa edito nel 44 dalla Nuova Italia di Codignola.
• Si ha poi l’impressione che alla Costituente tutte le
posizioni furono, in ultima analisi, piuttosto improvvisate:
mancò un vero approfondimento non tanto dei profili del
sistema concordatario, che nessuno metteva in discussione,
o dello stesso richiamo dei Patti del ’29 che la S.Sede sostanzialmente impose agli stessi democristiani, quanto della tematica delle libertà religiose, del modo di ridare cittadinanza, al di là di quello che sarà lo stesso art.8 della Costituzione, alle religioni di minoranza che ottennero è vero
un nuovo status, ma grazie anche a una sorta di intervento
ab extra del protestantesimo nordamericano del quale il
governo USA si fece portavoce presso le autorità italiane.
La stessa posizione degli azionisti e del PSI su quello che
sarà l’art. 7 Cost., fu dettata in sostanza dalla tradizione
post-risorgimentale, offesa da una Chiesa che aveva ritenuto, come Enrico IV di Francia, che Parigi valeva bene una
messa e che aveva messo all’indice (1934) l’opera omnia di
quel senatore Croce il quale, nel suo discorso del 1929 al
Senato, aveva appunto, dichiarato che, per lo sparuto
gruppo degli eredi delle Guarentigie, la messa valeva ben
più di Parigi.
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
FRANCESCO
MARGIOTTA
BROGLIO
Università di Firenze
≈
“… tra passato
e futuro,
le premesse per
una nuova politica
religiosa della
Repubblica…
sono fondate sugli
accordi con la
Chiesa e sulle
intese con gli altri
culti che hanno
caratterizzato il
quarto decennio
repubblicano”.
≈
81
Francesco Margiotta Broglio
• Né – al di là della richiesta di integrale conservazione dell’assetto fascista dei
rapporti Stato-Chiesa – la riflessione fu più esauriente sull’altra sponda del Tevere,
se il progetto di costituzione fatto approntare da Pio XII ai padri gesuiti della “Civiltà Cattolica”, si muoveva in una dimensione strettamente confessionale e addirittura pre-lateranense (gli stessi Accordi del ’29 venivano ritenuti un cedimento allo
Stato italiano che aveva, pur sempre, privato del suo regno il Sovrano Pontefice).
Perfino la Segreteria di Stato, nella persona di mons. Dell’Acqua, restò perplessa
di fronte alle posizioni di Villa Malta, che comunque furono comunicate ai costituenti DC e ad alcuni costituenti “amici” di orientamento liberale o qualunquista.
40 anni prima dei “Patti”
• La fase successiva, i quasi quarant’anni che vanno dall’elaborazione della
Carta costituzionale alla revisione bilaterale dei Patti del Laterano, (ratificata il 25
marzo ’85) conclusasi solo 20 anni fa con la legge 222 del 20 maggio 1985, non vide, fino a metà degli anni Sessanta, ma soprattutto fino a dopo il 1970 (legge sul
divorzio) nessun programma, partitico o governativo, di politica religiosa che almeno impostasse la soluzione dei due problemi rimasti aperti nel ’47:
– adeguare i Patti Lateranensi ai nuovi principi della democrazia costituzionale;
– stipulare le intese previste dalla Costituzione con le confessioni di minoranza
e, soprattutto, sostituire la normativa del 1929-30 sui culti ammessi e sulle comunità ebraiche (che comunque la S. Sede pretendeva che tornassero, come prima di
Mussolini, soltanto tollerati).
• Si rifletta che ancora oggi, in questo 2005 che vede una forte presenza di appartenenti a culti diversi dal cattolico fra migranti ufficiali e clandestini e, in Francia, la celebrazione del centenario della separazione tra Stato e religioni, il Parlamento italiano non è riuscito a varare quella legge sulla libertà di religione che deve
sostituire la normativa del 1929 e che il presidente del consiglio Craxi annunciò in
Parlamento proprio vent’anni or sono.
• Ad affrontare la revisione dei Patti del ’29 i partiti di centro, di destra o di sinistra, e i governi della Repubblica furono obbligati da due fattori che potremmo
considerare esterni alla vita parlamentare. Nel 1967 la famosa questione del “Vicario”, che mise in evidenza l’insostenibilità di una norma pattizia che proteggeva il
carattere sacro di Roma in un contesto dove, dopo il Giubileo del ’50, la “sacralità”
stentava molto a farsi percepire e dove la legge sul divorzio del ’70 e la svolta del
’71 nella giurisprudenza della Corte Costituzionale (le disposizioni di derivazione
concordataria non possono violare i principi supremi dell’ordinamento costituzionale) segnalavano un mutamento politico da non sottovalutare.
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Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Francesco Margiotta Broglio
• Nel 1974, inoltre, l’esito del referendum popolare sul divorzio, voluto dalle
gerarchie ecclesiastiche e dalla maggioranza del mondo cattolico, mise in piena evidenza la profonda trasformazione, sul piano dell’obbedienza ai precetti religiosi e
alle specifiche indicazioni del magistero romano, dei contesti socio-culturali della
penisola.
La commissione Gonella
• Dopo le incertezze della Commissione Gonella e le titubanze dei politici democristiani che non vollero rendere noti i risultati di quel primo, timido inizio di
una politica religiosa, accadde che Guido Gonella, che aveva appunto presieduto la
Commissione governativa per la revisione del Concordato, escluso dalle trattative
tra mons. Bartoletti, Segretario della CEI, e l’ambasciatore d’Italia presso il Vaticano, Pompei (trattative volute da Paolo VI e dal presidente del Consiglio Moro, con
l’avallo di quel Nenni che aveva guidato alla Costituente l’opposizione all’art.7), si
decise a consegnare la documentazione dei lavori della sua Commissione a Giovanni Spadolini, ministro nel governo Moro-La Malfa, cui lasciò la responsabilità politica della pubblicazione. Quello stesso Spadolini che sulla “Stampa” del 3 marzo
’73 aveva intitolato un suo articolo, un anno prima del referendum sul divorzio,
“Un Concordato da abbandonare” e che, pubblicando appunto gli atti della Commissione governativa Gonella ne mise in luce i profondi limiti e fornì, con la sua
presentazione critica dei materiali e con una serie di interventi pubblicati nella
“Nuova Antologia” da lui diretta (Jemolo, d’Avack, Barile etc.) elementi a Moro e
all’ambasciatore Pompei, per abbandonare la strada fino ad allora battuta per la revisione del Concordato. Una strada che lo stesso Jemolo, componente di rilievo
della Commissione Gonella, aveva giudicato inadeguata in una lettera a Spadolini
del 28 maggio ’76 dove scriveva: “Non è dubbio che gli atti della commissione Gonella fossero già in ritardo sulla coscienza del tempo; ma il Guardasigilli Gava… ci aveva
ricordato… che il nostro compito era limitato e che non si potevano toccare clausole del
Trattato”. Quanto a lui stesso precisava di aver dichiarato agli atti della Commissione che “servire lo Stato in quest’opera non significava punto abbandonare la … fede
separatista”, maturata all’ombra del suo maestro Ruffini.
• La conseguenza dell’emarginazione di Gonella dalle trattative BartolettiPompei (che possono essere seguite sui diari editi del diplomatico e sulle agende
inedite del Segretario CEI studiate da Federica Nannini) fu che, quando negli ultimi mesi del ’76 l’uomo politico Dc, officiato dal presidente del Consiglio Andreotti, iniziò le trattative ufficiali con la S. Sede – che si concluderanno è noto
dieci anni dopo con il negoziato diretto Craxi-Casaroli assistiti dagli esperti delle
due Parti – finì per reagire, a sua volta, chiudendo in un cassetto il progetto del go-
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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Francesco Margiotta Broglio
verno Moro e decidendo con una S. Sede ben lieta di abbandonare le linee seguite
da mons. Bartoletti con il personale avallo di Paolo VI, di ripartire dal testo messo
a punto dalla Commissione da lui presieduta nel 1969, il testo sul quale lo stesso
Jemolo che ne era stato uno dei redattori, aveva espresso qualche mese prima le riserve che si sono sopra richiamate.
Ricorderei inoltre, che solo sulla base di un pro-memoria consegnato da Moro
a Nenni nei primi mesi del ’75, che sintetizzava le posizioni della S. Sede sui punti
del Concordato da rivedere, Nenni iniziò a far cambiare linea al suo partito determinando, quindi, quella conclusione che Craxi potè poi realizzare con gli Accordi
del febbraio 1984. Queste posizioni si ritrovano nel progetto Pompei-Bartoletti
che io stesso, con il consenso del presidente Andreotti, dell’ambasciatore Pompei e
di don Clemente Riva (che era stato con don Emilio Gandolfo parte importante di
quella fase), feci pubblicare nel volume della Presidenza del Consiglio sulla revisione dei Patti del ’29 edito vent’anni fa.
La ufficializzazione dei rapporti con la Chiesa
• È Moro, quindi, il primo Capo di un Governo della Repubblica che, sollecitato anche da un importante documento della direzione del PCI del luglio 1974,
confortato dall’appoggio del PRI garantito da Spadolini e da quello del PSI assicurato ufficialmente da Nenni con un articolo su «L’Avanti» del marzo ’75, inserisce
nel programma di governo un riferimento alla politica ecclesiastica dichiarando
formalmente che, dopo il referendum, la riforma dei Patti era doverosa ed urgente.
L’urgenza durò, comunque, altri dieci, lunghi anni che videro anche la tragica
scomparsa del leader democristiano, uno dei politici più sensibili alle problematiche giuridico-religiose fin dalla Costituente.
• Il resto è più noto. Dopo il 1975 tutti i governi dichiararono di volersi impegnare per la revisione dei Patti con la Chiesa cattolica e per la stipulazione delle prime intese con gli altri, confortarono le trattative tra delegazione vaticana e delegazione governativa per le modificazioni bilaterali degli accordi, ma nessun “Ministero”, comunque, osò disegnare una più ampia strategia di politica ecclesiastica che
andasse al di là delle pure modificazioni di quei protocolli già in qualche modo
“condannati” alla conformità costituzionale dalla consolidata giurisprudenza della
Consulta – preparatoria di quella che consacrerà la laicità come principio fondamentale della Carta – e che affrontasse tutti i problemi dell’attuazione della Costituzione nelle materie “religiose” in senso lato, mettendo anche allo studio la complessa questione del finanziamento dei “servizi di culto” che, in un modo o nell’altro, contribuivano a quel pieno sviluppo della persona umana che la Repubblica si
era impegnata a favorire, rimuovendo gli ostacoli economici e sociali che limitano
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Francesco Margiotta Broglio
la libertà e l’uguaglianza dei cittadini anche, come nel caso che qui interessa, sotto
il profilo dell’appartenenza religiosa.
Il ruolo di Craxi
• Si dovrà, però, arrivare dopo l’ulteriore, grave spaccatura provocata nell’81
dal referendum sull’aborto, dopo la tragica notte della Repubblica, funestata dall’assassinio di Moro (il primo uomo di governo che cercò di immaginare una politica ecclesiastica italiana), dopo l’incidente IOR che impedì a Spadolini, anche per
l’irrigidimento di Andreatta, di portare avanti le sue linee di politica religiosa al governo a guida socialista, diretto da Bettino Craxi, per vedere giungere finalmente
in porto le lunghe trattative per la revisione dei Patti e per vedere tracciato un primo generale disegno di politica ecclesiastica con la legge 222 del 1985, con le prime intese con in culti diversi dal cattolico (in primis valdese e ebraico), con la previsione di una legge generale sulla libertà religiosa che, dopo l’impegno di Craxi,
saranno poi De Mita, Andreotti, Prodi, D’Alema, Amato e Berlusconi a tentare ma
invano di portare alla luce in un Parlamento incerto, contraddittorio, poco informato, pronto a dare ascolto al primo ministro di culto di passaggio, incontrato nel
collegio di provenienza, dal quale sollecitare o ricevere spunti, idee, cavilli fantasiosi – quando non immotivati o giuridicamente perversi – sugli articoli in discussione. Si pensi che in questa dimensione si è arrivati ad approvare una legge che istituisce, al di fuori della previsione concordatarie, festività religiose “battezzate” come ricorrenze civili.
In proposito va invece dato atto che in buona sostanza tutte le confessioni religiose interessate ascoltate ampiamente dalle Commissioni parlamentari nelle due
ultime legislature, hanno saputo dare contributi seri, motivati e costruttivi dei quali i successivi governi hanno, nei limiti del possibile e dell’ordinamento giuridico,
tenuto il debito conto.
• Tornando alla ratifica degli Accordi di Villa Madama di vent’anni fa, vorrei
sottolineare che se si cerca di affrontare con consapevolezza l’azione di Craxi e dei
suoi governi, non solo il ruolo determinante nella politica ecclesiastica degli anni
Ottanta svolto dal Segretario del PSI e poi dal capo del governo (Craxi aveva iniziato a disegnare una linea coerente per il suo partito all’indomani della sua nomina a Segretario del partito anche con una serie di articoli sulla stampa e la svilupperà ampiamente ne suoi discorsi parlamentari), ma che il terreno di quella politica fu uno dei pochi sui quali l’intesa con Berlinguer fu piena, leale e costruttiva.
Grazie a parlamentari del PCI come Bufalini e del PSI come Arfè, alle sapienti mediazioni di Cossiga e Spadolini, e nella attenta esperienza di Gennaro Acquaviva,
l’azione di Craxi venne sempre sostenuta dai comunisti, com’è facile verificare dai
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Francesco Margiotta Broglio
rispettivi interventi alla Camera e al Senato, nei quali non mancarono reciproci riconoscimenti e positive valutazioni delle posizioni del governo e di quelle del Pci e
del Pri. Ciò tolse spazio non solo agli esponenti della Democrazia cristiana poco
soddisfatti che fosse un partito poi contrario all’art. 7 in sede di Costituente a condurre in porto la lunga, complessa e difficile questione concordataria, aperta proprio dal voto su quell’articolo della Costituzione, ma lo tolse anche a quelle tendenze del governo vaticano e dell’episcopato italiano meno inclini a riconoscere il
ruolo positivo dei partiti della sinistra che avevano guidato l’elettorato divorzista
nei referendum del ’74 e dell’81, rendendo palese il deficit di consenso popolare su
due capisaldi della morale cattolica.
Determinante fu, inoltre, l’intesa tra comunisti e socialisti nella predisposizione bilaterale della legge sugli enti ecclesiastici ed il sostentamento del clero
della quale, oggi, dopo vent’anni dalla sua approvazione, Stato, Chiesa cattolica
e altre confessioni con intesa devono certificare un bilancio complessivamente
positivo, anche se alcune ombre non mancano. Così il fatto che molti contributi
assegnati dal governo sull’otto per mille statale vadano ad enti, associazioni e istituzioni cattoliche o di culti con intesa; così la crescente diminuizione delle offerte liberali deducibili di fedeli e cittadini; così la pioggia di contributi ad enti e
istituzioni religiose sui bilanci di comuni, province e regioni; così ancora il proliferare di convenzioni e intese a tutti i livelli – persino quello altissimo della Congregazione della dottrina della fede che ha stipulato un’intesa con il Ministero
dei beni culturali all’insaputa anche della CEI su materia di competenza dei vescovi o della loro conferenza a termini del Concordato – al di fuori delle “cornici” espressamente previste dalla normativa di derivazione concordataria, primaria o secondaria.
I problemi ancora aperti
• Quanto al futuro, che ha sempre e comunque, come scriveva Carlo Levi, “un
cuore antico”, a quello del 1929, aggiornato vent’anni fa, va osservato che quel
cuore non è stato mai ripensato dalle Chiese e dallo Stato in un generale e onnicomprensivo quadro di politica religiosa che tenga conto di grandi trasformazioni
come quelle indotte nella società religiosa dal Vaticano II e dal dialogo interreligioso (e perché no dalla grande politica dei diritti e delle libertà di Giovanni Paolo II)
e nella società civile dalle normative dell’Unione Europea, dagli atti internazionali
sulla libertà di religione e convinzione (si veda ora il “Codice” pubblicato dalla
prof. Scalabrino), e dal passaggio dell’Italia ad una realtà multiculturale di pluralismo religioso, lontanissima da quella che ebbero di fronte i costituenti e, in fondo,
anche da quella che il Parlamento vent’anni fa approvò la prima riforma della legislazione religiosa.
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Francesco Margiotta Broglio
• Tra i problemi ancora aperti segnalo i principali:
– attuazione delle intese CEI-Ministero dei beni culturali sui beni d’interesse religioso di proprietà ecclesiastica;
– regolamentazione di antiche istituzioni come le fabbricerie, oggi in cerca di nuovi, impropri status privatistici sulla base di uno sciagurato parere del Consiglio
di Stato;
– definizione del trasferimento di chiese acquisite dallo Stato nella seconda metà
dell’Ottocento agli enti – chiesa o parrocchia – che ottengano la personalità giuridica civile;
– soluzione di alcune difficoltà interpretative delle disposizioni concordatarie in
materia di libertà di comunicazione e corrispondenza tra organi e autorità ecclesiastici;
– attuazione delle previsioni concordatarie nella vasta materia dell’assistenza spirituale nelle strutture c.d. obbliganti, senza che le competenze statali e regionali
finiscano per consentire soluzioni disorganiche e non coordinate;
– riconoscimento dei titoli accademici in teologia e nelle altre discipline ecclesiastiche definite dalle parti con atti bilaterali, anche alla luce di recenti provvedimenti unilaterali dello Stato che, violando il principio patrizio, hanno inaugurato una stagione di riconoscimenti di esami e lauree in discipline profane alla luce
di discipline di derivazione internazionale impropriamente applicate alle materie regolate dagli Accordi del 1984;
– definizione di alcune problematiche che potremmo definire di “buon vicinato”
tra gli Stati italiano e vaticano alla luce delle disposizioni del Trattato Lateranense.
• Tra passato e futuro, in conclusione, le premesse per una nuova politica religiosa della Repubblica indubbiamente esistono e sono fondate sugli accordi con la
Chiesa e sulle intese con gli altri culti che hanno caratterizzato il quarto decennio
repubblicano. C’è solo da augurarsi che privatizzazioni e delegificazioni, sussidiarietà e amministrativizzazioni dei provvedimenti in materie religiose, non finiscano
per mettere in crisi il contesto della democrazia e per indulgere a comunitarismi
senza capo né coda e spesso privi anche di ogni senso comune.
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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Il concordato nel dibattito giuridico italiano
Convenzionalmente, si fa risalire l’iter per la revisione
del Concordato alla mozione parlamentare presentata
dai capigruppo dei tre partiti della maggioranza il 5
ottobre 1967. In quella occasione il Parlamento prospettò al Governo la strada da percorrere (una limitata
istanza di revisione) e il modo in cui percorrerla (intesa bilaterale), ma la mozione evidenzia altri elementi
significativi: il fatto che fino ad allora le richieste di revisione erano sempre state avanzate dalle opposizioni
e che tale mozione fu firmata dai capogruppo parlamentari di due forze politiche anticoncordatarie e laiciste, come i socialisti e i repubblicani. Dunque, una
istanza “politica”, che i giuristi inquadrano in quel clima definito di disgelo istituzionale.
Dalla Conciliazione del 1929 alla Costituzione del 1948
• Inoltre, c’è da osservare che una migliore comprensione dell’iter di revisione è tuttora ostacolata dalla mancanza
di uno studio ricostruttivo che possa contribuire a sciogliere
l’interrogativo se l’accordo di Villa Madama fu l’apogeo di
un regime al tramonto o l’avvio di un processo di riforme
istituzionali, delineate nella prima fase del governo Craxi e
poi non realizzate, e verificare la ragione per cui l’allora presidente del Consiglio non riuscì, a seguito di quell’evento, a
coagulare attorno al suo partito il consenso della gerarchia
ecclesiastica (che invece fu prodiga di applausi per Mussolini
in occasione delle elezioni politiche del 1929), rimasta impegnata oltre ogni limite a sostegno in una operazione di retroguardia dell’unità partitica dei cattolici italiani.
Giungendo alla dottrina strettamente intesa bisogna
scindere il dibattito sullo strumento concordatario come tale
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
GIOVANNI BATTISTA
VARNIER
Università di Genova
≈
“… il nostro diritto
ecclesiastico
è andato …
evolvendosi
in … modo …
di considerare
il sentimento
religioso …
addirittura come
uno dei beni
costituzionalmente
rilevanti…”
≈
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Giovanni Battista Varnier
(che trovò oppositori anche nelle fila del fascismo del peso di Giovanni Gentile, il
quale definì la possibilità di una conciliazione tra Stato e Chiesa sostanzialmente
come una “brutta utopia”) dal dibattito sul Concordato e sulla sua revisione di cui
dobbiamo occuparci. Per fare questo in modo completo si dovrebbe risalire all’indomani dell’11 febbraio 1929, allorché scoppiarono le prime diatribe – sostenute
da giuristi dei due schieramenti – a proposito della inscindibilità del Concordato
dal Trattato. A tale contrapposizione fece seguito quella tra studiosi di formazione
liberale passati al fascismo e altri più decisamente fascisti di provenienza nazionalista. Fondamentalmente, nella interpretazione del Concordato la dottrina italiana si
coagula attorno a due linee di pensiero: una accentua la continuità, l’altra le svolte
o addirittura le fratture.
Nascita del “Diritto Concordatario”
• Ma c’è un altro momento di non poco peso, senza il quale non possiamo
comprendere gli orientamenti della dottrina e giurisprudenza degli anni ’50 e ’60 e
riguarda la nascita e un certo sviluppo del cosiddetto diritto concordatario, da leggersi come strumento di raccordo tra il diritto ecclesiastico e il diritto canonico. Si
tratta di una precisa fase della cultura giuridica italiana, fase che precede quell’altra
in cui nel ventennio ‘50-’70 si assiste – come vedremo – alla cosiddetta costituzionalizzazione delle norme concordatarie. Dopo che con la sovranità del popolo organizzato a Stato, il diritto canonico perse l’ultima funzione residuale pubblica di
legittimazione del potere del principe e il diritto ecclesiastico dello Stato risultò indispensabile quale strumento per contrastare i privilegi conquistati nel tempo dalla
Chiesa, il diritto concordatario costituì la rappresentazione del tentativo di riportare il diritto statuale – laicizzatosi durante la lotta anticlericale – nel grembo della
Chiesa, innestandolo nell’ordinamento canonico.
• La svolta avviene con l’art. 7, che segna dal punto di vista giuridico la trasformazione dell’autolimitazione della potestà legislativa statale da internazionale (pacta
sunt servanda) in costituzionale. Il rilievo interno prevale su quello internazionale e le
norme che regolano il fenomeno religioso assurgono al rango di articoli della Costituzione, anche se l’art. 7 è preceduto dall’impegno politico ma non giuridico (peraltro non rispettato) di rivedere i Patti del Laterano. Le forze di opposizione incominciarono a farsi interpreti in Parlamento di queste istanze di revisione già dal 1948:
nella seduta del Senato del 21 ottobre di quell’anno, il sen. Lussu presentò un ordine
del giorno in tal senso. Nello stesso anno, richiamando direttamente la dottrina, Aldo Checchini vide nell’art. 7, 1 della nuova Costituzione la solenne affermazione del
principio separatista”, mentre Pietro Agostino d’Avack rilevava la inopportunità della
costituzionalizzazione dei Patti senza previe modifiche e aggiornamenti.
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Giovanni Battista Varnier
Ancora nel 1964, invece, la Corte di Cassazione, conservando oltre ogni limite
un indirizzo già percorso dal 1948, resta arroccata nel sostenere il principio che: “i
Patti Lateranensi sono stati recepiti nell’ordinamento costituzionale della Repubblica in tutto il loro contenuto, sì che deve essere ritenuto che le disposizioni contenute nei Patti stessi hanno lo stesso valore e la stessa efficacia che avrebbero se
fossero state incluse nella Carta Costituzionale… Non è ipotizzabile, quindi, in relazione alle disposizioni dei Patti Lateranesi l’insorgere di una questione di legittimità costituzionale, così come non sarebbe concepibile che venisse sollevata una
questione di costituzionalità di una delle norme della Costituzione nei confronti di
un’altra”.
Gli anni Cinquanta e Sessanta
• Alla fine degli anni quaranta Cesare Magni, commentando il volume di Arturo Carlo Jemolo Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni (Torino, Einaudi,
1948), sottolinea il fatto che il Maestro concluda “con un esame del senso ‘antirisorgimentale’ che avrebbero i maggiori partiti odierni in Italia e i princìpi informatori dell’attuale vita pubblica italiana, con la realizzazione di uno Stato guelfo a
cento anni dal crollo delle speranze neo-guelfe”.
Indubbiamente quella che per Jemolo fu solo una intuizione, fotografava una
realtà di politica ecclesiastica destinata a perdurare per un ventennio, trovando sostegno non solo nella dottrina, ma nella giurisprudenza e nella prassi amministrativa. Il 27 agosto 1953 fu firmato nel Palazzo Apostolico del Vaticano il Concordato
tra la Santa Sede e la Spagna, dove si afferma di regolare le reciproche relazioni in
conformità con la legge di Dio e la tradizione cattolica della Nazione spagnola. I riflessi in dottrina di quell’accordo e di una Chiesa intesa come società giuridica perfetta e della supremazia del diritto canonico su quello dello Stato (perché in caso di
contrasto deve prevalere lo spirituale sul temporale) sono particolarmente evidenti
e ispirati dal manuale di Alfredo Ottaviani o dai molti interventi – non soltanto
nelle pagine della Civiltà Cattolica – del gesuita Salvatore Lener (anche Giuseppe
Dossetti in sede di Assemblea costituente aveva sostenuto che solo la Chiesa cattolica si presenta come ordinamento originario e in senso tecnico non si poteva riconoscere come originario neppure l’ordinamento ebraico).
Le interpretazioni giuridiche
• Se dalle pagine de «Il Mondo» e di «Rinascita» le forze laiche si dividono –
da un lato radicali e liberali in polemica con i comunisti a proposito della disinvolta scelta di Togliatti sull’art. 7 – i giuristi sono interessati alle interpretazioni esten-
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Giovanni Battista Varnier
sive o restrittive dell’Accordo del 1929 che danno luogo ai cosiddetti privilegi concordatari (un lungo percorso collega le esenzioni fiscali in favore della Chiesa cattolica negli anni della ricostruzione agli esiti della vicenda dell’Istituto Opere di
Religione (IOR) fino ad oggi). Tuttavia è il matrimonio canonico con effetti civili
(impropriamente definito concordatario) che segna il vertice interpretativo della
pur notevole dottrina italiana. Rileggendo la collezione della rivista «Il Diritto ecclesiastico» dal 1929, non occorre un esame approfondito per accorgersi di come il
tema ricorrente sia quello delle interpretazioni del Concordato, per quanto riguarda il primo luogo la disciplina matrimoniale e poi, in subordine, quello degli enti
ecclesiastici, trascurando le garanzie di libertà, nonostante la Convenzione del
1950 per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
• Il trentesimo anniversario dei Patti del 1929 presenta sul piano politico l’esaurirsi del centrismo e l’avvio dell’apertura a sinistra, ma è la vicenda matrimoniale che da un lato frena la riforma e dall’altro rende necessari interventi maggiormente incisivi, nonostante che – formalmente – la richiesta decisiva di revisione
del Concordato si ebbe a proposito del carattere sacro dell’Urbe. Intanto si esaurisce, anche generazionalmente (penso a Vincenzo Del Giudice e al suo fortunato
manuale), quella spinta propulsiva che definisco l’enfasi della Conciliazione, che
segnò le sorti del nostro diritto ecclesiastico dagli anni ’30 agli anni ’60, poco influenzati “dall’intermezzo” costituzionale.
Marginali risultano le istanze di revisione di cui si fece interprete il pontefice,
ricevendo il 14 novembre 1964 l’ambasciatore d’Italia mentre è sul finire degli anni Sessanta, ad un ventennio da quel 1947 che vide la discussione alla Costituente
sull’inserimento nella Carta dei Patti del Laterano, che l’esigenza di un’armonizzazione delle norme concordatarie sembrò irrinunciabile e apparve possibile una timida revisione, mentre nel centenario del 20 settembre Pietro Piovani osservava
che: “Dentro lo Stato italiano, la Chiesa, a un secolo da Porta Pia, mantiene posizioni eccezionali: forse neppure la conservazione del potere temporale orizzontale
avrebbe potuto assicurarglielo”.
Gli anni Settanta tra istanze di abrogazione e di revisione
• La vicenda del divorzio nel nostro Paese ha una lunga storia di tentativi
bloccati e di legami con le situazioni politiche. Allorché incominciò a delinearsi
una maggioranza parlamentare a sostegno dei progetti tendenti a disciplinare i
casi di scioglimento del matrimonio, la Santa Sede – preoccupata degli effetti civili del matrimonio “concordatario” – chiese al governo italiano di iniziare trattative per giungere ad un’interpretazione dell’art. 34 del Concordato, mentre i
cattolici italiani iniziarono a protestare contro l’istituto del divorzio nella sua in-
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Giovanni Battista Varnier
terezza e la Democrazia cristiana ottenne in Parlamento il varo delle norme sul
referendum.
Immediatamente dopo l’approvazione della legge 1° dicembre 1970, n. 898 si
ebbe la richiesta della sua totale abrogazione a mezzo referendum e la consultazione, che come si ricorderà avvenne tre anni dopo, allorché il divorzio era entrato
senza traumi nel costume degli italiani, fece assumere alle parti toni aspri e vide i
credenti divisi nel rispettare le indicazioni di voto della gerarchia ecclesiastica. Gli
articoli di una legge tecnicamente non esemplare, i quali avrebbero potuto trovare
spazio nella più organica riforma del diritto di famiglia, ricevettero una sorta di
consacrazione dalla volontà popolare e la data del 12 maggio 1974 evidenziò la
graduale acquisizione di una coscienza laica da tempo in atto nella maggioranza del
Paese.
Contemporaneamente si determinò il superamento di quella stagione nella
quale anche sul piano scientifico per un cattolico italiano era difficile sfuggire alle
insidie del clericalismo, con interpretazioni filo-clericali che si potevano riscontare
in dottrina e in larghi settori della giurisprudenza e della prassi amministrativa e si
determinò altresì un ampliamento delle aree di libertà, che fece sembrare anacronistici tanti privilegi e il mantenimento di gran parte della legislazione anteriore al
1948. Accanto a chi pensava a qualche adeguamento di ordine formale, si fece strada l’ipotesi di lasciare cadere in desuetudine le norme concordatarie, potendo contare anche sul ruolo di supplenza svolto dalla Corte costituzionale. Infatti, proprio
a partire da quegli anni, la Corte, intaccando per la prima volta la materia concordataria con la definizione dei “principi supremi dell’ordinamento costituzionale”
(sentenza n. 30 del 1971), sembrò volersi assumere il compito di comporre le disarmonie tra i princìpi supremi della Carta costituzionale e il dettato delle norme
concordatarie. Fu una svolta che portò la Consulta ad affermare che l’articolo 7
della Costituzione, giacché “riconosce allo Stato e alla Chiesa cattolica una posizione reciproca di indipendenza, non può avere la forza di negare i princìpi supremi
dell’ordinamento costituzionale dello Stato”.
Lo sviluppo della Dottrina ecclesiastica
• Gli anni Settanta furono, in assoluto la stagione più vivace per la dottrina ecclesiaticistica italiana, che con i suoi interventi influenzò in misura rilevante anche
le vicende della Spagna. Soprattutto sono ricordati due convegni, a cui parteciparono giuristi di diverse discipline, che si svolsero a Siena nel 1972 e nel 1980. Il
primo incontro, che prese avvio dalla proposta di revisione costituzionale presentata alla Camera dei deputati il 23 febbraio 1972 dall’on. Lelio Basso per modificare
gli articoli 7-8 e 19 della nostra Carta, costituì un punto di riferimento per la dottrina ecclesiasticistica italiana. In quel convegno, alle due relazioni di apertura di
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Anna Ravà e di Pietro Rescigno si contrappose quella di Orio Giacchi, che rappresentò l’ultima organica difesa del sistema concordatario minacciato dalle ipotesi di
lasciare cadere in desuetudine le norme concordatarie.
A partire da quegli anni fu in particolare la Corte costituzionale che, intaccando per la prima volta la materia concordataria, sembrò volersi assumere il compito
di comporre le disarmonie tra i princìpi supremi contenuti nella Carta e il dettato
delle norme del Concordato, mentre la raccolta di firme per il referendum abrogativo, la proposta di lasciar cadere le norme del 1929 come “foglie secche”, il disegno di legge di revisione costituzionale avanzato da Lelio Basso animarono il dibattito giuridico e quello politico, mentre scompariva la visione della Conciliazione
intesa come situazione a favore di una sua lettura esclusivamente come evento e il
clima generale risulta talmente differente rispetto al passato che la Santa Sede non
può non recepire le istanze di una profonda revisione.
Il referendum del 1974
• Se il referendum del 1974 fu un momento di svolta nella politica e nella sociologia religiosa non mancò di interessare la dottrina giuridica italiana e, ad indicazione di quanto tale dibattito fu costruttivo in ordine alle soluzioni successivamente adottate, ricordo negli anni 1974-75 una discussione che, dalle pagine della
Nuova Antologia, congiunse in una ideale tavola rotonda alcuni dei più autorevoli
studiosi italiani. Lo scambio di opinioni, aperto all’indomani del 12 maggio da
Giovanni Spadolini, vide gli interventi di Pietro Agostino d’Avack, Arturo Carlo
Jemolo, Francesco Margiotta Broglio e Paolo Barile e venne concluso il 10 marzo
1975 in un incontro fiorentino sul tema: Matrimonio, famiglia, Concordato, svoltosi presso la Facoltà di Scienze Politiche “Cesare Alfieri”. Oggetto di fondo fu quello
di come sciogliere il nodo del Concordato, perché a fronte della soluzione di una
disapplicazione ripetuta delle norme concordatarie, oppure di porre la Chiesa cattolica su di un piano di effettiva parità rispetto alle altre confessioni, attraverso l’elaborazione di una normativa comune per tutte le confessioni simile a quella prevista dall’art. 8 della Costituzione, si contrapponevano le visioni di una revisione
profonda del Concordato del 1929 oppure di una revisione parziale e comunque
tale da non toccare i punti maggiormente controversi.
• Volendo richiamare soltanto quanto allora espresso da Francesco Margiotta
Broglio, questi, pur ritenendo che la migliore soluzione sarebbe rappresentata dalla
modifica dell’art. 7 della Costituzione (così da renderlo compatibile con i principi
generali contenuti nell’art. 3), ma parimenti conscio della scarsa percorribilità parlamentare di un simile percorso, prospettò che una ipotesi soddisfacente avrebbe
potuto “essere individuata nella stipulazione di un nuovo accordo con la S. Sede
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che abbia la forma e la sostanza di un ‘concordato quadro’, di un protocollo, cioè
composto da pochissime, chiare norme generali e fondamentali”, mentre per tutte
le altre materie “un sistema di intese tra lo Stato e la Conferenza Episcopale Italiana
potrebbe garantire un agile collegamento ed un rapido, efficace aggiornamento
della legislazione ecclesiastica”. Poco più tardi fu ancora il medesimo studioso ad
interrogarsi a proposito di revisione costituzionale o revisione del Concordato lateranense, mentre la dottrina impegnata nella tutela degli interessi della Chiesa abbandonava la tesi della costituzionalizzazione dell’accordo del 1929 per la difesa
sostanziale dell’istituto concordatario e un giurista cattolico con venature liberali,
quale il Condorelli, delinea gli inconvenienti del sistema separatista.
Il progetto preliminare di revisione
• Il dibattito trovò ulteriore alimento dopo che il 21 novembre 1976, con
una lettera a firma di Guido Gonella, Arturo Carlo Jemolo e Roberto Ago, venne
trasmesso al presidente del Consiglio dei Ministri on. Giulio Andreotti il “Progetto preliminare di revisione del Concordato redatto dalla commissione GonellaCasaroli”. Contemporaneamente, settembre 1976, intervenne una commissione
di giuristi, nominati dal consiglio delle Comunità israelitiche italiane, presentando un Pro-memoria sulla revisione del Concordato, in cui si pone l’attenzione sul
fatto che: “sono parecchie le norme dei patti lateranensi, che, come largamente riconosciuto dalla dottrina, hanno creato discriminazioni a base religiosa tra i cittadini come riflesso delle posizioni di privilegio fatte alla Chiesa cattolica e alle sue
istituzioni”.
In una stagione felice per interventi e convegni, assistiamo ad una ulteriore trasformazione della conformazione ideologica del diritto ecclesiastico italiano nato
dall’adattamento alla nostra realtà (religiosamente omogenea ma politicamente divisa dallo scontro con il papato), il diritto ecclesiastico germanico frutto del pluralismo confessionale. La dottrina ecclesiasticistica italiana, dopo un saldo esordio
laicista, sfociata nel confessionismo e (senza essere mai partiticamente connotata)
alimentata da tutte e due le opposte correnti, si riorienta verso un neo laicismo radicale.
Nell’ottobre 1981, nel corso di un convegno, un fine giurista quale fu Francesco Finocchiaro, ebbe ad annotare che: “il nostro diritto ecclesiastico è andato effettivamente evolvendosi in un modo da attenuare la sua impronta confessionista
pur dimostrando però di considerare il sentimento religioso non soltanto come
qualcosa di non indesiderabile ma addirittura come uno dei beni costituzionalmente rilevanti e pertanto degno di essere tutelato e favorito quale valore dello spirito umano e come fattore di sviluppo sociale e non più strumentalizzandolo a fini
propri dello Stato”.
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La revisione del 1984: uno spartiacque?
• Nel 1984 l’Editore Giuffré pubblicò un volume affidato alle opposte visioni
di Piero Bellini e Attilio Nicora da titolo significativo: Le due sponde. Morte e resurrezione dei concordati. Dopo una energica potatura, l’albero concordatario è tornato a fiorire; una favorevole e unica coincidenza politico-parlamentare ne consentì la
riscrittura, ma lo spirito è diverso: nel 1929 prevalse la conciliazione nazionale dopo
le lacerazioni risorgimentali e i massacri della grande guerra, nel 1984 il perseguimento del bene comune, la collaborazione sul terreno sociale, il consociativismo politico. Se la chiave di volta della nuova intesa è focalizzata nel sistema di cooperazione per il perseguimento del bene comune e non, quindi, nella realizzazione della laicità dello Stato, la riforma concordataria – toccando anche il Trattato – apre diversi
problemi tecnici e lascia irrisolto il nodo della riserva di giurisdizione in campo
matrimoniale.
• Con l’avvenuta revisione si rianima il dibattito che questa volta verte su temi
completamente diversi rispetto al passato: le questioni di cui si parlava prima della
revisione vengono abbandonate e ne sorgono di nuove. Così se negli anni Settanta
l’attenzione era stata su come sciogliere il nodo del Concordato, cioè come riformare il patto del 1929 rafforzato dall’art. 7 della Costituzione, negli anni Ottanta
la discussione si incentra su come interpretare il nuovo accordo di Villa Madama
nei settori della scuola e del matrimonio. Siamo in presenza di stagioni differenti,
nella prima delle quali prevale la tutela della libertà religiosa (il singolo schiacciato
dall’istituzione concordataria) nella seconda appaiono in evidenza le regolamentazioni di ordine collettivo (enti e beni ecclesiastici).
• In questo quadro di politica ecclesiastica ci si può chiedere come si mosse la
dottrina ecclesiasticistica italiana di fronte alla riforma? Nel 1984 nacque una nuova rivista che dal titolo (Quaderni di diritto e politica ecclesiastica) richiama il legame tra diritto e politica: è solo una spia delle miriadi di pubblicazioni che arricchiscono il panorama culturale del tempo, mentre anche l’antica testata Il Diritto ecclesiastico ebbe in quell’anno un numero di pagine doppio rispetto alle annate precedenti. Ricordiamo le discussioni a proposito della cosiddetta ora di religione: la
bibliografia raccolta da Sergio Lariccia relativa al dibattito su scuola, insegnamento, istruzione nei rapporti tra Stato e confessioni religiose raccoglie, relativamente
al biennio 1985-86 ben 386 titoli.
Nella realtà italiana il nodo libertà religiosa e scuola, per la mancanza di un vero pluralismo scolastico e di una scuola autenticamente libera (come pure per la
presenza religiosa nella scuola pubblica), assume una valenza del tutto unica nell’esperienza giuridica dell’Occidente. A questo si affianca il voluto equivoco della riserva di giurisdizione, che sembra più che altro un tributo pagato agli ultimi no-
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stalgici della società perfetta, perché ormai anche i giuristi di formazione cattolica
prendono atto dell’esistenza di due modelli di matrimonio (civile e religioso) che
vanno per loro conto e non possono più essere raccordati come dopo il 1929.
Come sappiamo, a fare da apripista furono le sentenze n. 16 e 18 del 1982 con
cui la Corte costituzionale “riformava” il matrimonio concordatario, applicando i
principi supremi dell’ordinamento costituzionale e l’ordine pubblico italiano in
rapporto alla giurisdizione ecclesiastica sul matrimonio concordatario e l’accordo
del 1984 non fece che recepire questo intervento.
• Ben più che l’ora di religione, che fu quasi una nuova battaglia per il divorzio, gli scenari più interessanti sono rappresentati dalla trasformazione degli enti
ecclesiastici civilmente riconosciuti, dalla qualifica giuridica degli istituti per il sostentamento del clero (con il tramonto della funzione risarcitoria della congrua e
l’affermazione della collaborazione dello Stato con le confessioni religiose), la creazione degli Istituti di Scienze religiose. Rilevante è l’attenzione della dottrina,
espressa in primo luogo dal Feliciani, sulla posizione della CEI e le conseguenze
della sua attività, mentre si trascura di considerare il venire meno del ruolo istituzionale dei vescovi residenziali (che nel nostro ordinamento, a mio avviso, spetta
soltanto all’ordinario castrense).
La normativa fiscale risulta inquadrata da un nucleo ristretto di studiosi, attenti a considerare come essa costituisca uno strumento per indagare gli orientamenti
della politica ecclesiastica dello Stato, mentre con la disciplina pattizia dei beni culturali di interesse religioso nasce una nuova materia mista; fu Giuseppe Casuscelli
nel 1977, allora professore incaricato di diritto ecclesiastico italiano e comparato
nell’Università di Messina, a gettare un fascio di luce su problemi nuovi o solo negletti quali patrimonio artistico ecclesiastico, enti di assistenza e istruzione, beni
della Chiesa. Altro ambito nuovo – che necessita di interventi normativi – è quello
del volontariato e se ne rese interprete il presidente della Repubblica nell’indirizzo
di saluto al pontefice nell’occasione della visita di Stato del 4 ottobre 1985.
Il sistema di collaborazione diffusa
• Negli anni Novanta gli interessi della dottrina sono attratti dalla ricerca di
un equilibrio tra diritto pattizio e diritto comune, dai problemi dei movimenti religiosi emergenti e poi dalla compatibilità delle norme del diritto islamico con
quelle dell’Occidente e dei simboli religiosi, come il crocifisso, che da oggetto di
culto assume quello di matrice culturale comune. Il problema dei simboli religiosi
abbraccia tutta la società europea, ma non quella statunitense, e in Italia trova alimento in una lettura, che interessa l’esposizione del crocifisso e i dubbi interpretativi relativi alla necessità della tutela penale del sentimento religioso, tutela vista
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come limite alle libertà di coscienza, specialmente dopo le sentenze della Corte costituzionale del 1989 sul principio di laicità. Una nuova laicità giacobina sembra
coinvolgere solo i simboli della tradizione cristiana, depotenziando il concetto stesso di laicità a mera forma, mentre è completa l’accettazione delle rappresentazioni
dei nuovi idoli.
• Questo scaturisce da una visione distorta del Protocollo addizionale, che in
relazione all’articolo 1 dell’Accordo, afferma che: “si considera non più in vigore il
principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica
come sola religione dello Stato italiano”.
A parte il fatto che se la religione cattolica non è più la sola religione dello Stato
italiano, si può paradossalmente intendere che ci siano altre religioni di Stato, l’affermazione ha determinato una serie di interpretazioni a cascata, le quali, in una
civiltà dell’immagine come la presente, si sono indirizzate sui simboli piuttosto che
sul ruolo pubblico delle istituzioni religiose. Una innocente recita scolastica viene a
violare la laicità dello Stato, mentre risulta accettato per inerzia il ruolo istituzionale dell’ordinario diocesano che, non più sottoposto a giuramento, ormai rappresenta soltanto un ministro di culto riconosciuto.
• Il 6 dicembre 1978, nel presentare in Senato la terza bozza di revisione del
Concordato, il presidente del Consiglio ebbe ad affermare, commentando la fine
della “religione di Stato”, che: “È questa una esplicita abrogazione del confessionismo
di Stato, nel quadro dello specifico e ribadito riconoscimento della laicità dello Stato e
delle uguali libertà di tutte le confessioni religiose”.
Le aperture al “nuovo”
• Gli anni che seguono l’accordo sono segnati da una trasformazione del nostro ordinamento: dopo la contrapposizione tra società civile e società religiosa, a
cui ha fatto seguito il rinnovato sistema pattizio, ora ci si avvia ad una collaborazione diffusa, mentre i problemi emergenti fanno sembrare ormai vecchia l’intesa di
Villa Madama. Uno strumento per sua natura fragile, quale il concordato, che raccorda due parti diverse una spirituale e l’altra temporale, fotografa la realtà del momento in cui viene stipulato ed è costretto a disciplinare mondi che non mutano in
modo sincronico. I contraenti non lo ignorano e l’articolo 13, 2° comma degli Accordi prevede che: “Ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra la Chiesa cattolica e lo Stato potranno essere regolate sia con nuovi accordi tra le due Parti sia con intese tra le competenti autorità dello Stato e la CEI”.
Ma, nonostante siano trascorsi venti anni da quel 3 giugno 1985, allorché –
con lo scambio degli strumenti di ratifica – entrò in vigore il nuovo patto tra Italia
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e Santa Sede e l’avvio delle intese con le confessioni diverse dalla cattolica, la riforma della disciplina del fenomeno religioso nell’ordinamento italiano è rimasta incompiuta, anche se nei fatti ha assunto una connotazione di organicità e, proprio a
breve distanza dalla soluzione pattizia e dalle nuove forme di intesa con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, assistiamo alla riscoperta, anche per ragioni
contingenti, di una legislazione comune per il fenomeno religioso.
• Anche l’esperienza dei negoziati con le confessioni, che ci portò ad ipotizzare
una stagione dalle cento intese, mostra i propri limiti e, con l’omologazione delle
richieste, sembra ormai tramontata la paventata proliferazione dello strumento
pattizio. Resta significativa, come elemento di novità, la legge 20 maggio 1985, n.
222, “Disposizioni sugli enti e beni ecclesiastici e per il sostentamento del clero
cattolico”; ancora una volta il problema del denaro, mascherato dalle finalità sociali piuttosto che religiose, viene ad interessare la Chiesa cattolica ma anche gli evangelici, spiazzati di fronte al fiume di risorse dell’8 per mille e ora impegnati a riconquistare posizioni. Che si tratti di un sistema vantaggioso per le confessioni è testimoniato proprio dal fatto che anche quelle che furono inizialmente critiche nei
confronti della soluzione introdotta, nello spazio di un decennio e non senza contorcimenti, hanno finito con l’accettarlo, chiedendo di parteciparvi.
• Nella regolamentazione del fenomeno religioso – affermano Salvatore Berlingò e Giuseppe Casuscelli nel loro apprezzato codice – cresce “sopra tutto e a dismisura” la normativa di diritto comune e diversi studiosi avvertono la necessità di
una “ridefinizione delle regole di convivenza” tra le fonti. Il sistema delle fonti che
disciplinano il fenomeno religioso è indubbiamente sbilanciato tra fonti bilaterali e
unilaterali e siamo così in presenza di un’altra stagione in cui la soluzione pattizia
occupa soltanto un certo spazio nella definizione del rapporto tra coscienza e legge.
Il presente, rispetto all’impianto del diritto concordatario del dopo 1929, considera collaterale la risposta concordataria, mentre continuano a mutare le istanze del
civis-fidelis e alcuni temi invecchiano ancora prima di trovare una definizione normativa. Frattanto tra revisione lunga e legislazione diffusa sono mutati i temi di
politica ecclesiastica e tutti possono prendere atto dell’affievolirsi, pur negli evidenti limiti dell’attuale politica ecclesiastica italiana, del dibattito culturale a proposito
di concordato, intese e disegno di legge sulla libertà religiosa e dello spostarsi dell’attenzione su temi trasversali, non strettamente concordatari. Fenomeno nuovo
del presente riguarda il fatto che la dottrina è orientata nella ricerca delle questioni
aperte nella disciplina del fenomeno religioso, piuttosto che nell’applicazione delle
norme concordatarie. Questo fa sì che il quadro che è sotto i nostri occhi risulta
complesso e rilevanti elementi di novità sono costituiti dalla fine della Repubblica
dei partiti, dalla riforma del titolo V della Costituzione italiana, con istanze di un
federalismo auspicato nei programmi e contrasto nei fatti.
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Epilogo
• Mi sono sforzato di mettere in luce una ideale continuità in tanti settori della dottrina ecclesiasticistica per meglio sottolineare che è ormai finito quello Stato
da cui promana gran parte della politica e della legislazione, perché è entrata in crisi la formulazione stessa del concetto di sovranità, a cui dette vita lo Statuto di Carlo Alberto. È tramontato quel patto che portò alla monarchia nazionale, cioè unitaria, che nel disegno di fondo, attraverso l’accentramento burocratico e la leva militare resse anche negli anni della Repubblica. Con la costruzione dell’Unione Europea e il superamento dello Stato nazionale non solo è superata l’ottica interpretativa di tutta la legislazione ecclesiasticistica italiana, che si estende con continuità
dalla legge delle Guarentigie in poi, ma siamo in presenza di una pagina nuova per
lo Stato e per il suo diritto. Non c’è più quello Stato che i giuristi costruirono tra
Ottocento e Novecento e se la Costituzione del 1948 prevede per i rapporti con le
confessioni religiose un’ottica interordinamentale, oggi, che la funzione legislativa
appannaggio del potere centrale non risulta assoluta come nel passato, il dibattito
che appassiona la dottrina riguarda l’ambito e i limiti della materia pattizia.
• Questa situazione presenta non poche analogie con quella degli anni Settanta
intorno all’esigenza di ricercare una nuova politica ecclesiastica per costruire i rapporti con le confessioni religiose. La fonte concordataria regola soltanto una parte
della disciplina giuridica del fenomeno religioso e non è senza significato il fatto che
le competenze di quelli che un tempo furono detti gli affari di culto, passati negli
anni Trenta dal Ministero di Grazia e Giustizia a quello dell’Interno, spettino sempre più alla Presidenza del Consiglio e interessino per i risvolti legati all’immigrazione e alla bioetica e (mentre l’Europa interviene in questi campi) c’è chi propone una
authority per la libertà religiosa in Italia. Non può stupire che la dottrina trascuri la
tematica pattizia, perché gli ecclesiasticisti risultano maggiormente attratti dalle
problematiche emergenti, trovandovi un terreno di incontro interdisciplinare con
giuristi di altre discipline (civilisti, costituzionalisti, comparatisti).
• Se volgo indietro lo sguardo non sono per nulla sicuro della bontà delle antiche opzioni: incontriamo oggi, sul cammino del diritto ecclesiastico italiano, tante
“foglie secche”, mentre altre, ritenute morte, sono invece rinverdite e ricollocate sull’albero delle norme concordatarie. Risulta doloroso concludere che, purtroppo, la
dottrina ha perduto i pochi strumenti per proporre soluzioni alle odierne tensioni
religiose; infatti siamo in una condizione generale – che quindi non riguarda soltanto le odierne tensioni – nella quale, e non è la sola, appare trascurata dal legislatore.
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Il finanziamento delle Chiese in Italia
Il finanziamento delle Chiese è riscontrabile un po’ in
tutti gli ordinamenti, anche se il confronto tra i diversi
sistemi può sembrare difficile. Ad esempio, un confronto può farsi tra il nostro sistema dell’8 per mille e
quello della c.d. tassa ecclesiastica presente nei Paesi di
lingua tedesca, Germania, Austria, parte della Svizzera, perché entrambi sono collegati all’organizzazione
fiscale dello Stato e coinvolgono i cittadini-contribuenti. Ci sono naturalmente notevoli differenze, perché il meccanismo previsto dalla Legge italiana
222/1985 si fonda su un principio democratico ‘aperto’, sulla volontà del contribuente che può destinare la
propria quota virtuale a prescindere dall’appartenenza
confessionale, così come può optare a favore dello Stato. Invece, la base del sistema tedesco è l’appartenenza
confessionale e ad esso ci si può sottrarre soltanto con
le dimissioni formali dalla ‘propria’ Chiesa. Si può discutere sui pregi e sui vantaggi dell’uno e dell’altro
meccanismo, ma la comparazione può essere utilmente effettuata.
IL FINANZIAMENTO DELLE CHIESE
ELEMENTI DI CONFRONTO
IN ALTRI ORDINAMENTI.
Più difficile è il raffronto con sistemi nei quali non esiste
l’otto per mille, non figura cioè una forma di tassazione diretta o indiretta a carico dei cittadini, e che tuttavia prevedono finanziamenti più o meno consistenti a favore delle Chiese. In questi casi occorre tener presente sia la tradizione nazionale che è alla base di ciascuna normativa, sia la specificità degli strumenti economico-patrimoniali di cui le confessioni religiose fruiscono.
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
CARLO CARDIA
Università
di Roma Tre
≈
“Il finanziamento
pubblico non è più
elargito soltanto
per le esigenze
tipiche delle
confessioni
religiose… ma
anche per finalità
sociali,
umanitarie,
culturali…”
≈
101
Carlo Cardia
L’esperienza anglosassone
• Un esempio prezioso ci viene dall’esperienza anglosassone, in particolare da
quella statunitense. Questa tradizione si è sempre fondata su una valorizzazione
delle attività privatistiche sconosciuta allo Stato europeo di matrice illuministica.
Ne è derivato un meccanismo di esenzione fiscale tra i più ampi e favorevoli, che
ha legittimato la diffusione (e il sostegno giuridico e finanziario) di strutture private confessionali nel campo della scuola, dell’assistenza e di altre attività sociali. Il
confronto con il nostro sistema è asimmetrico, ma certamente negli USA le confessioni religiose sono paghe di un rapporto tra pubblico e privato che le favorisce e
non le relega ad una marginalità sociale. È noto che “l’esenzione dalle tasse è tuttora il più fermo privilegio delle confessioni religiose in America. La validità costituzionale di tali leggi non è stata posta in dubbio nemmeno in Stati aventi costituzioni assai esplicite nell’escludere ogni possibile aiuto economico dello Stato alle
Chiese”.
• Un caso particolarissimo è quello della Gran Bretagna nel quale si mischia la
tradizione anglosassone e quella delle Chiese di Stato del Nord Europa, e su cui è
uscito di recente un prezioso lavoro di ricognizione relativo soprattutto alla Chiesa
anglicana. In Inghilterra, dove pure non esiste un esplicito finanziamento statale,
la Chiesa anglicana è strutturata ancora oggi su base beneficiaria, non avendo subito (in quanto Chiesa ufficiale) una spoliazione radicale come è avvenuto in altri
Paesi europei nel corso dell’Ottocento. La soddisfazione delle esigenze della Chiesa
è garantita da due concorrenti fattori. Da un lato una tradizione di partecipazione
finanziaria dei fedeli molto radicata nelle abitudini inglesi. Dall’altro, la costituzione di una sorta di Holding finanziaria (i Church Commissioners), cioè di un ente giuridico pubblico “che gestisce le proprietà della Chiesa sotto forma di trust” allo scopo di sostentare il clero e provvedere alle altre esigenze confessionali. Lo studio appena citato rileva che “dare uno sguardo ai bilanci di questo organismo è sufficiente per comprendere la grande varietà degli investimenti, il grande numero di proprietà detenute e la quantità dei ricavi netti annui”. E ricorda ancora che nella scelta degli investimenti i Church Commissioners non sono legati a nessuna istanza
etica, tanto che “la Chiesa d’Inghilterra ha sempre investito in compagnie in Sud
Africa durante l’apartheid e nell’industria delle armi”. Questo fattore ha creato nel
tempo disagio e dissenso, al punto che si è dovuto provvedere ad una riforma che
evitasse gli investimenti più disinvolti e scandalosi. Tuttavia la riforma non ha investito il sistema nel suo complesso, ma soltanto il fatto che l’organismo competente della gestione finanziaria deve indicare i criteri guida per una corretta gestione etica dei patrimoni.
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Carlo Cardia
Il sistema francese
• Numerose singolarità si rinvengono anche in Francia, forse il Paese più vicino al separatismo ottocentesco. Esistono in primo luogo specifiche forme di finanziamento diretto, rappresentate dagli oneri che lo Stato francese si accolla per i servizi di assistenza religiosa garantiti nelle strutture pubbliche. Tuttavia, il più solido
e rilevante compromesso nel Paese del separatismo è costituito da un benevolo rapporto tra scuola pubblica e scuola privata, con la presenza di un’ampia rete scolastica privata, al 90 per cento cattolica, riconosciuta e finanziata dallo Stato. A stare a
questi esempi, i più lontani dalla nostra esperienza, si scorge agevolmente che, al di
là degli specifici meccanismi, il finanziamento delle Chiese segue strade diverse,
deriva dalle rispettive tradizioni nazionali, e presenta singolarità che bisogna saper
cogliere.
Nei Paesi protestanti
• Questa osservazione è ancora più valida se si guarda al resto del continente
europeo, dove esistono sistemi di finanziamento più vicini e comparabili con il
nostro. Merita menzione anzitutto la tradizione dei Paesi protestanti dell’Europa
del nord dove il carattere di Chiesa ufficiale riconosciuto alle rispettive confessioni protestanti ha permesso allo Stato di mantenere il personale ecclesiastico,
garantire il sostegno dei servizi di assistenza religiosa nelle strutture pubbliche, e
spesso finanziare la rete scolastica di ispirazione confessionale. Più conosciuta è
la tradizione dei Paesi di lingua tedesca (Germania, Austria, parte della Svizzera),
ove da diversi decenni esiste il meccanismo della tassazione obbligata, in base alla
quale le Chiese riconosciute ricevono i proventi di una imposizione fiscale gestita dallo Stato. Infine, nei Paesi latini a maggioranza cattolica, il tradizionale sistema di sostegno ai benefici poveri, previsto esclusivamente per la Chiesa cattolica, sta lasciando progressivamente il posto ad un finanziamento fondato sulla
scelta dei cittadini e imperniato su una quota del gettito annuale dell’imposizione fiscale.
Sino a poco tempo addietro, c’era in Europa un buco nero. Quello dei Paesi
comunisti dove le Chiese, espropriate dei loro beni (con l’unica eccezione, forse,
della Polonia), erano alla mercè della discrezionalità amministrativa dei poteri pubblici che lesinavano loro qualche seminario, o Istituto di teologia, alcuni edifici di
culto, perfino le suppellettili sacre, per negare poi tutto il resto. Si poteva dire, paradossalmente, che le Chiese erano finanziate dallo Stato, visto che tutto era dello
Stato. Sostanzialmente erano alla fame. La fine dei regimi totalitari in tutto l’est
europeo ha fatto rinascere il passato, ha inventato un presente nuovo, ha messo in
cantiere mille e mille cose diverse.
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Carlo Cardia
Polonia, Croazia, Slovenia e Paesi Baltici
• Dalla Polonia alla Croazia, dalla Slovenia ai Paesi baltici, un po’ dovunque le
Chiese, a cominciare da quella cattolica, ricevono finanziamenti da tutte le parti.
Qualche volta cercando, con scarso successo, di prefigurare un sistema analogo al
nostro 8 per mille. Più spesso con la previsione di sostegni finanziari per le attività
sociali, assistenziali, caritative. Ma anche nell’area orientale, in particolare in Russia e in Romania, tanti rivoli finanziari convergono verso le Chiese, a cominciare
da quelle dell’ortodossia, quasi a significare che una parentesi storica si è chiusa e
che ora si torna ragionare sui bisogni della società e delle sue componenti, comprese quelle confessionali.
Fattori storici, tradizioni e condizioni politiche
• È difficile trarre da questa pluralità di esperienze l’indicazione di linee direttrici omogenee. Nei singoli ordinamenti si mischiano fattori storici e tradizioni antiche, compromessi politici e sperimentazioni provvisorie. Però si possono considerare acquisiti due elementi. In primo luogo, il superamento del principio vetero-separatista per il quale lo Stato non può in alcun modo contribuire ai bisogni economici delle confessioni religiose. Tale principio è stato attuato rigorosamente per un
certo periodo soltanto dall’ordinamento francese, e per un più lungo tratto dagli ordinamenti dell’est europeo di ispirazione comunista. Questi ultimi sono naufragati
sul finire del secolo scorso ed hanno lasciato il posto ad un variegato mosaico di
scelte che si sono ricollegate alle esperienze maturate in Europa nel corso del tempo.
• In secondo luogo si può rilevare che, pur restando ferme le specifiche scelte
dei vari ordinamenti, un po’ dovunque in Europa è prevalso quell’atteggiamento
più favorevole alla religione ed alle Chiese che è stato ed è proprio dell’esperienza
statunitense, formalmente separatista ma sostanzialmente molto attenta nel concedere a tutte le confessioni religiose un eguale trattamento di favore.
• Da questo punto di vista è interessante osservare che nei tempi più recenti
Nicolas Sarkozy, ministro dell’Interno francese, ha sottoposto a severa critica la tradizione separatista di Francia ed ha auspicato il superamento della Legge del 1905
proprio sul punto specifico e qualificante del finanziamento delle Chiese. In modo
specifico, Sarkozy ha affermato che resta “da regolare una questione, che non è né
congiunturale né episodica, quella del finanziamento delle grandi religioni di Francia. (…) Ammettiamo senza ipocrisia che ci sia una contraddizione tra la volontà
di riconoscere le religioni come un fattore positivo nella società e quella di sottrarla
alle influenze straniere, negando completamente loro ogni forma di finanziamento
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Carlo Cardia
pubblico e pretendendo di trattarle in parità”. Aggiunge Sarkozy che in concreto
occorre che il finanziamento riguardi la costruzione degli edifici di culto. Le agevolazioni fiscali per i fedeli che finanziano la propria chiesa di appartenenza, nonché
la formazione del clero.
L’ESPERIENZA ITALIANA, DALLO STATO LIBERALE AL CONCORDATO DEL 1984
• In un orizzonte di sistemi così diversi, l’esperienza italiana ha un posto particolare, avendo vissuto la triplice esperienza del separatismo ottocentesco, poi del
regime concordatario del 1929, oggi quella dello Stato laico sociale. Elemento comune a queste tre esperienze è che in nessun momento lo Stato unitario ha interrotto i finanziamenti alla Chiesa cattolica, mentre li ha estesi nel più recente passato anche ad altre confessioni religiose.
È opportuno muovere da un punto qualificante che illumina il sistema nel suo
insieme. L’Italia appartiene a quella famiglia di ordinamenti che ha operato nell’Ottocento una scelta di fondo a favore delle strutture pubbliche, e a discapito di
quelle private-confessionali. I motivi di questa scelta sono noti. Di fronte alla posizione dominante della Chiesa cattolica a tutti i livelli (economico-patrimoniale,
nell’istruzione e nell’educazione, nella beneficenza ed assistenza) lo Stato non poteva che strutturarsi in modo autonomo, con istituzioni e uffici autonomi, con una
propria scuola, con proprie strutture assistenziali.
Senonché, questo è il carattere distintivo dell’esperienza italiana, l’Italia ha
operato questa rivoluzione della modernità senza concedere nulla all’estremismo di
derivazione illuministico-francese. Senza cioè imporre alcuna reformatio Ecclesiae, e
senza mai escludere del tutto la presenza della Chiesa cattolica dalle strutture pubbliche
soprattutto scolastiche. Il separatismo italiano ha dato vita ad una scuola pubblica
non nemica della religione, ed ha al contempo ostacolato la formazione di una rete
scolastica (ed assistenziale) confessionale per evitare che questa potesse divenire realmente concorrenziale con quella dello Stato.
Naturalmente, le strutture private confessionali sono sempre esistite, e sono
oggi in leggera espansione, ma in Italia non hanno mai raggiunto livelli quantitativi e qualitativi paragonabili a quelli di altri Paesi, anche ad ordinamento laico o separatista. Invece, il finanziamento pubblico si è indirizzato, nel solco della tradizione napoleonica, a favore del clero basso, col sistema delle congrue, e dell’edilizia di
culto sotto molteplici forme.
Generazioni ed educazione cattolica
• La radice di questo sistema sta nello stesso periodo liberale quando, con una
scelta che io ritengo molto saggia, la scuola elementare (cioè l’unica vera scuola di
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Carlo Cardia
massa dell’epoca) non è mai stata laicizzata del tutto, perché vi si è mantenuto l’insegnamento cattolico seguito dalla stragrande maggioranza delle famiglie italiane,
e quando si è affermato il sostegno ai benefici meno ricchi, già inaugurato dalla legislazione napoleonica. In particolare la Legge Coppino del 15 luglio 1877, e le
successive interpretazioni che ne ha dato il Consiglio di Stato, nonché il Regolamento del 1908, lasciavano ai Comuni decidere se nelle scuole elementari dovesse
essere impartito l’insegnamento cattolico. Nei fatti, la stragrande maggioranza dei
Comuni ha costantemente optato per l’attivazione dell’insegnamento religioso, ed
ha così mantenuto questo cordone ombelicale tra l’educazione delle nuove generazioni e la millenaria tradizione cattolica.
Al tempo stesso, interpretando l’attività pastorale del clero come una attività rilevante socialmente, l’ordinamento italiano ha avviato la prassi del sostegno ai benefici poveri introducendo le c.d. congrue con l’intento di andare incontro alle esigenze del clero basso. In aggiunta a questo vero finanziamento della Chiesa, altre
leggi particolari sovvenivano alle esigenze religiose della popolazione attraverso il
sostegno dell’edilizia di culto e l’assunzione dell’onere di alcune forme di assistenza
religiosa nelle strutture pubbliche.
• Il sistema si è poi è sviluppato con il Concordato del 1929 che ha confessionalizzato ampiamente la scuola pubblica sino alle soglie di quella universitaria, ed ha mantenuto rafforzandolo il sostentamento del clero. Tuttavia, anche
nel contesto di un più generale favore per la Chiesa cattolica, non è venuta meno la diffidenza dello Stato verso le strutture scolastiche confessionali. Le quali
pur essendosi lievemente incrementate sono rimaste ad un livello fortemente
minoritario rispetto alla rete scolastica pubblica. In questo modo, il grande
compromesso con la Chiesa si è definitivamente stabilizzato. La Chiesa, se posso dire così, è rimasta appagata della presenza cattolica nella scuola pubblica ed
ha rinunciato a creare una rete scolastica propria, concorrenziale con quella statale e degli enti locali.
Il meccanismo dell’8 per mille
• Di questa tradizione, di questo grande compromesso, è figlio il meccanismo
dell’otto per mille. Con il quale si sono convogliati in una unica voce i diversi rivoli del finanziamento pubblico (congrua, edilizia di culto, altri capitoli minori del
bilancio dello Stato), e si sono operate due significative svolte: si è eliminato una
volta per tutte il privilegio per la Chiesa cattolica estendendo il finanziamento ad
altre confessioni religiose; si è superato il sistema della dazione diretta di denaro
pubblico sottoponendo il quesito sull’an e sul quantum alla scelta dei cittadini, in
particolare (per ovvie esigenze) dei contribuenti.
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Carlo Cardia
Il nuovo sistema innova drasticamente i meccanismi del finanziamento, ma
non si allontana dalla tradizione italiana, costantemente favorevole a sovvenire alle
esigenze del culto, se non sul punto essenziale di estendere tale favore anche alle
confessioni diverse dalla cattolica. In questo orizzonte lo Stato italiano ha voluto
prevedere due flussi finanziari, uno derivato dalle offerte volontarie deducibili annualmente (entro il tetto di 2 milioni di vecchie lire) dall’IRPEF, l’altro collegato
all’8 per mille della massa finanziaria del gettito annuale complessivo IRPEF sul
quale si esercita l’opzione dei cittadini-contribuenti. L’opzione è multipla, nel senso che può riguardare tanto la Chiesa cattolica, o una delle confessioni che sino ad
oggi hanno stipulato l’Intesa con lo Stato ed hanno accettato di entrare nel sistema
di finanziamento, oppure lo Stato; ciascuno di questi soggetti, compresi lo Stato, è
tenuto ad utilizzare le somme pervenutegli dall’8 per mille per determinati scopi.
Naturalmente, il contribuente può non scegliere nessuna di queste possibilità ed
astenersi dal voto, con la conseguenza però che le somme risultanti dalle scelte non
espresse non rientrano nell’erario (come pure sarebbe stato logico) ma vengono distribuite anch’esse tra i vari soggetti in proporzione alle scelte espresse.
Il motivo per il quale sono stati previsti due flussi finanziari, ed è stata prevista
la redistribuzione delle quote derivanti dalle scelte non espresse, è di natura squisitamente politica. Non essendo possibile prevedere quale tipo di accoglienza il nuovo sistema avrebbe avuto da parte dei cittadini, si è ritenuto utile e opportuno garantire le confessioni religiose nel caso in cui la partecipazione fosse stata molto
scarsa per uno dei due flussi, anche in considerazione del fatto che dal sistema dipendeva la garanzia del sostentamento del clero cattolico.
LE SPECIFICITÀ DEL NUOVO SISTEMA DI FINANZIAMENTO DELLE CHIESE
DEL 1984-85. OFFERTE VOLONTARIE. ATTIVITÀ CARITATIVE E UMANITARIE
• Oggi esistono gli strumenti necessari per verificare il funzionamento del sistema. Essi sono costituiti dai rendiconti che le confessioni religiose inviano annualmente al Ministero dell’Interno circa l’utilizzazione effettiva delle somme loro
pervenute, e i dati relativi al sostentamento del clero (o dei ministri di culto). E dagli atti delle Commissioni paritetiche triennali istituite dal Governo per verificare,
con le singole confessioni, l’andamento del sistema anche al fine di proporre eventuali modifiche dei relativi meccanismi normativi.
La prima verifica, assai agevole, è relativa alle offerte volontarie deducibili fiscalmente, tema sul quale la dottrina e i commentatori si sono soffermati molto
poco nel corso degli anni. La scarsa attenzione a questa novità è abbastanza comprensibile se non altro perché l’innovazione è andata incontro ad un sostanziale fallimento. Per quanto riguarda i dati relativi alla Chiesa cattolica si registrano livelli
molto bassi, perché dall’ultima rilevazione annuale si ricava un livello nazionale di
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offerte volontarie di Euro 19.036.118,00. Anche per alcune altre confessioni, ma
non per tutte, il sistema delle offerte volontarie si mantiene a livelli bassi, e comunque non veramente competitivi con il flusso derivante dall’8 per mille. Una conferma di questa tendenza la troviamo nell’esperienza delle Comunità ebraiche. Le
quali hanno in un primo tempo rifiutato l’8 per mille, chiedendo invece di elevare
il tetto delle oblazioni volontarie deducibili a 7.500.000. Ritenevano che la tradizione ebraica di contributo obbligatorio alla comunità di appartenenza avrebbe garantito un livello alto di contributo volontario. Ciò non è avvenuto, e dopo pochi
anni, l’Unione ha chiesto, e ottenuto, di partecipare a pieno titolo al sistema binario di finanziamento insieme alle altre confessioni.
• Quali le ragioni di questo fallimento. Non è facile (e forse nemmeno possibile) individuarle con precisione. C’è chi sostiene che le Chiese, a cominciare da quella cattolica in particolare, hanno fatto poco o niente per pubblicizzare e incentivare
le offerte volontarie. Forse c’è del vero, ma io ritengo che la ragione di fondo sia
un’altra. Ed è che è illusorio pensare di cambiare una tradizione antica con un tratto
di penna, o con un articolo di legge. Gli italiani sono prodighi di offerte volontarie,
purché l’oblazione avvenga nel rapporto diretto con la propria chiesa, o comunità di
appartenenza. Questa disponibilità viene meno quando l’offerta è diretta ad un ente
astratto (come può essere l’ICSC), ed è effettuata con un versamento alla posta simile al versamento del canone della TV. Siamo su un terreno nel quale l’elemento
psicologico conta molto, e conta ancora di più quella stratificazione di comportamenti, di abitudini, che con il tempo si interiorizza e diviene tradizione.
• Si può rinvenire una conferma di questa interpretazione nel fatto che gli unici casi in cui il flusso finanziario delle offerte deducibili ha dato buoni risultati riguardano quelle confessioni protestanti di minoranza che, già di loro, avevano una
tradizione di contribuzione volontaria. Il caso più evidente è quello dell’UCEBI
per la quale la contribuzione volontaria si è stabilizzata nel tempo su una media di
circa 500.000 Euro: per i Luterani la media si aggira attorno ai 160.000 Euro; per i
pentecostali sui 450.000 Euro; per gli avventisti sui 4 milioni di Euro.
Più complessa la verifica sul secondo flusso finanziario, sulla ripartizione cioè
dell’8 per mille del gettito complessivo IRPEF e sull’utilizzazione delle relative
somme da parte delle confessioni religiose. Come noto i testi pattizi delineano una
tipologia differenziata di destinazione delle somme che pervengono alle Chiese. Si tratta di una differenziazione che dipende dalle scelte operate dalle singole confessioni,
alle quali in linea di massima lo Stato si è adeguato, ma con alcune limitazioni che
traspaiono dai testi pattizi.
Una opzione di fondo da parte dello Stato è quella di voler garantire in primo
luogo la condizione del clero cattolico e, più in generale, dei ministri di culto, in
sintonia con un orientamento generale di politica ecclesiastica che, abbiamo visto,
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risale ai primi tempi dello Stato unitario. Ed effettivamente si ritrova questa finalità o in modo primario per la Chiesa cattolica, o limitatamente alla utilizzazione
delle erogazioni volontarie deducibili per qualche altra confessione. In ogni caso,
per quasi tutte le confessioni è stabilito che gli assegni corrisposti ai ministri di culto per il loro sostentamento sono equiparati ai soli fini fiscali al reddito di lavoro
dipendente.
Le finalità sociali del finanziamento pubblico
• Dentro questa differenziazione di destinazione si rinviene una delle più spiccate singolarità del sistema che non ha ricevuto sino ad oggi la dovuta attenzione a
livello dottrinale e culturale. Il finanziamento pubblico non è più elargito soltanto
per le esigenze tipiche delle confessioni religiose (sostentamento del clero, edilizia di culto, fini istituzionali), come poteva considerarsi logico in una concezione tradizionale
della laicità, ma anche per finalità sociali, umanitarie, culturali, che di per sé non sono
esclusive delle confessioni ma possono essere perseguite da ogni altro soggetto giuridico,
compreso lo Stato.
Qui sta, a mio avviso, un elemento di novità e di originalità molto forte rispetto alla tradizione italiana e alle tendenze che si rinvengono in altri ordinamenti
giuridici. Un elemento non scontato, non ovvio, perché lo Stato non è affatto tenuto a versare denaro pubblico alle confessioni perché queste lo utilizzino in attività sociali, umanitarie, o caritative che dir si voglia. Certamente è nella tradizione
delle Chiese intraprendere attività umanitarie, ma non era nelle aspettative ecclesiastiche il sostegno finanziario pubblico per sostenere queste attività.
Si può comprendere questa scelta soltanto se ci si pone nell’ottica dello Stato
sociale moderno, più in particolare se si tiene presente la tendenza maturata in Europa negli ultimi decenni di abbandonare quella diffidenza verso il privato, e le iniziative dei privati, che era propria dello Stato ottocentesco, e di aprire attraverso
una pluralità di strumenti giuridici (enti no-profit, volontariato, integrazione tra
pubblico e privato) ad una forte legittimazione di tutti i soggetti laici o confessionali nell’intraprendere attività socialmente utili.
• Di qui una considerazione di carattere sistemico. Il nuovo sistema di finanziamento delle confessioni religiose è nell’immediato debitore, pur in modo differenziato, alle esperienze tedesca e soprattutto spagnola, almeno per quanto riguarda l’8 per mille. Però, in una prospettiva di maggior respiro si può dire che esso ha
anticipato quell’ondata liberalizzatrice che dagli anni ’90 in poi ha portato lo Stato
a sostenere in tanti modi le attività sociali, di promozione sociale, etica, culturale,
ambientale che prima erano ristrette in spazi ordinamentali angusti. E d’altronde
non è un caso che il sistema delle deducibilità delle erogazioni volontarie (mutuato
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Carlo Cardia
dall’esperienza anglosassone) subito dopo il Concordato e le Intese sia andato
estendendosi a dismisura. Si pensi che con il D.L. del 14 marzo 2005, n. 35, convertito in Legge del 14 maggio 2005, n. 80 è stata consentita la deducibilità a fini
IRPEF e IRPEG delle oblazioni a favore di ONLUS, e delle associazioni di promozione fino al livello di 70.000 Euro annui.
Addirittura il meccanismo dell’8 per mille è stato ricopiato allo scadere del
2005, quando la legge finanziaria ha riservato il 5 per mille del gettito IRPEF per
finanziare attività ed enti di volontariato e di promozione sociale. In definitiva, il
sistema di finanziamento delle Chiese è divenuto con il trascorrere del tempo parte
integrante del nostro ordinamento, anticipatore di tendenze che si vanno estendendo ad altri settori della vita sociale.
L’UTILIZZAZIONE DELL’8 PER MILLE. VARIANTI NORMATIVE, SCELTE CONFESSIONALI
DIFFERENZIATE.
• Sul punto specifico dell’8 per mille, la prima considerazione da fare è che,
per iniziativa delle stesse confessioni, il sistema si è venuto uniformando fortemente, in primo luogo sul piano normativo. Inizialmente solo alcune confessioni partecipavano alla ripartizione dell’8 per mille, e soltanto alcune fruivano del c.d. meccanismo delle scelte non espresse. In breve tempo pressoché tutti i culti hanno chiesto di partecipare ad entrambi questi benefici.
In primo luogo gli ebrei, abbandonando l’esclusività delle contribuzioni volontarie con un tetto di deducibilità più alto, hanno chiesto e ottenuto nel 1996 di
fruire dell’8 per mille e delle scelte non espresse. In secondo luogo, la Chiesa Valdese in due tappe successive ha chiesto e ottenuto prima di partecipare al sistema
del finanziamento pubblico, nel 1993-94, poi nel 2004 anche al meccanismo delle
scelte non espresse; l’Intesa su questo punto è già stata elaborata e la relativa Legge
di approvazione è all’esame delle Camere. In questo senso, è un po’ curiosa quella
polemica interconfessionale che imputa alla Chiesa cattolica di fruire delle scelte
non espresse. E lo è ancor più, quando ad attivarla è proprio una confessione che
ha da poco ottenuto, su sua richiesta, di partecipare allo stesso beneficio.
Due sole eccezioni, che io definirei valorose se non addirittura eroiche, si rinvengono in questo panorama complessivo. Quella dei Pentecostali delle ADI che
hanno sempre rifiutato per motivi di principio di partecipare alla ripartizione delle
scelte non espresse. E quella dei Battisti che non hanno mai voluto fruire del finanziamento pubblico dell’8 per mille. Proprio queste confessioni sono quelle non
hanno mai attivato polemiche interconfessionali.
• Dal panorama normativo deduciamo in primo luogo che ciascuna confessione
utilizza il finanziamento per finalità diverse. Ed è interessante osservare che proprio
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quella che ho definito poco fa una singolarità del sistema italiano – l’erogazione di denaro pubblico per attività sociali ed umanitarie – ha invece riscosso grande successo.
Mentre i Pentecostali utilizzano le somme percepite esclusivamente per attività sociali
e umanitarie, i Valdesi destinano il flusso dell’8 per mille ad attività sociali e culturali,
analogamente a quanto fanno gli Avventisti. Altri, come i Luterani e gli Ebrei, prevedono una varietà di destinazioni del finanziamento pubblico, a fini di culto, istituzionali, culturali. Abbastanza scarsa l’utilizzazione per il sostentamento dei rispettivi ministri di culto, cui sono destinati per il solito i proventi delle offerte deducibili.
Va tenuto presente che tutte le confessioni acattoliche, senza alcuna eccezione,
hanno ripetutamente dichiarato che il sistema di finanziamento pubblico le soddisfa pienamente, con l’unica richiesta (anch’essa pressoché generale) di alzare il tetto
della deducibilità che è rimasto al livello originario, cioè dei due milioni di vecchie
lire. Ed effettivamente la richiesta è più che legittima, sia in termini assoluti sia in
termini relativi. Dal 1985 ad oggi, la politica di sgravio fiscale per gli enti che svolgono attività socialmente meritorie si è andata sviluppando proprio alzando i livello delle oblazioni deducibili (cfr. par. 3). Non c’è ragione, quindi, perché da tali
sviluppi siano escluse proprio le confessioni religiose.
Più complessa l’analisi dell’utilizzazione dell’8 per mille da parte della Chiesa
cattolica. Più complessa per ragioni quantitative, data la crescita del flusso finanziario di cui nel tempo ha beneficiato la Chiesa. Ma anche per ragioni qualitative, dal
momento che si è posto il problema della proporzione tra la finalità primaria, quella
del sostentamento del clero, e le altre finalità di carattere sociale e umanitario.
Diciamo subito che la quantità diviene qualità. Se, per ipotesi, il flusso finanziario fosse stato di poco superiore allo stretto indispensabile per il sostentamento
del clero, la valutazione delle altre destinazioni sarebbe stata di scarso significato.
Invece, le entrate dell’8 per mille hanno ormai superato per la Chiesa cattolica i
900 milioni di Euro, e sembrano destinate a crescere in virtù dell’espansione dell’area impositiva e della restrizione dell’area di evasione. Il raggiungimento di un livello così elevato ha fatto sì – è questo il dato macroscopico – che la finalità primaria, il sostentamento del clero, è stata ampiamente soddisfatta, mentre sono residuate ingenti somme disponibili per gli altri scopi.
Le questioni aperte
• Sono sorte così alcune questioni discusse nell’ambito delle commissioni di
verifica del sistema di finanziamento, e che restano aperte in relazione al prossimo
futuro. La prima questione è relativa al sostentamento del clero per come è stato
interpretato e realizzato dalla CEI. È noto che dal punto di vista sistemico il nuovo
sistema di sostentamento del clero ha pienamente funzionato, sia nel senso che
(per merito di una alacre attività della CEI) è stato realizzato con tutti i supporti
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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Carlo Cardia
materiali e informatici necessari, sia nel senso che la finalità primaria dell’8 per
mille è stata ampiamente realizzata. I problemi e le controversie nell’ambito del
clero sono stati ridotti al minimo, se non del tutto superati, e le preoccupazioni
originarie anche di settori ecclesiastici che temevano una qualche precarietà remunerativa sono oggi del tutto fugate.
• Ciò che, invece, ha provocato perplessità è il rapporto che si è consolidato
tra lo stanziamento dell’8 per mille a favore del clero e gli stanziamenti per altre finalità. Il fatto che le somme utilizzate per il sostentamento del clero non superano
attualmente i 319 milioni di Euro, cioè poco più di un terzo del flusso finanziario
complessivo dell’8 per mille, è stato valutato in modo problematico. Ci si è chiesti,
infatti, se la CEI non debba in qualche modo far lievitare le somme destinate al sostentamento del clero per fornire una maggiore soddisfazione ai sacerdoti, e soprattutto, per renderlo più sicuro per il futuro.
• Nell’ambito delle commissioni di verifica dell’8 per mille, sono state avanzate richieste e suggerimenti in relazione all’aumento della remunerazione soprattutto per il clero giovane, al finanziamento di assicurazioni suppletive per i sacerdoti,
a garantire servizi per le case canoniche, a formare un consolidato a favore
dell’I.C.S.C. in vista di bisogni o necessità future. Si è, in altri termini, richiamata
l’originaria finalità dell’8 per mille che, in particolare per la Chiesa cattolica, era diretto a garantire la categoria clericale nei confronti di ogni difficoltà che potrebbe
presentarsi con il passare del tempo.
Queste richieste di parte governativa hanno trovato buona accoglienza in ambito ecclesiastico, ma anche qualche resistenza. In particolare, l’ipotizzato (anche
modico) aumento della retribuzione del clero viene visto non senza preoccupazione poiché si ritiene che una remunerazione troppo alta non sia opportuna per un
impegno, come quello sacerdotale, che deve mantenersi saldo sul principio del servizio e, se si può dire così, della sua volontarietà. Quindi, i suggerimenti di parte
statale sono stati accolti ma con moderazione.
L’ampiezza delle risorse ha posto l’ulteriore problema della loro distribuzione
per le altre finalità previste dalla legge che, ai sensi dell’articolo 37 della L. 222 del
1985, sono costituite dalle esigenze religiose della popolazione, finalità caritative a
favore della collettività nazionale e dei Paesi del terzo mondo. Infatti, stando all’ultimo rendiconto, se un terzo dell’8 per mille è destinato al sostentamento del clero
(Euro 319.500.000), quasi la metà è destinato ad esigenze di culto e pastorali (Euro 437.027.892), mentre il rimanente, cioè quasi il 20 per cento, è destinato agli
interventi caritativi.
• Anche in questo caso la parte governativa ha fatto presente due esigenze. Da
un lato che le risorse per le esigenze di culto siano utilizzate sempre più ampiamen-
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Carlo Cardia
te. E servano anche a frenare, e poi far cessare, il fenomeno dei ticket d’ingresso nelle
chiese aperte al culto che appare contrastante con elementari esigenze religiose e
pastorali e con la normativa italiana sulla chiese aperte al culto pubblico. Una seconda richiesta di parte statale ha riguardato invece la proporzione che dovrebbe
esistere a netto vantaggio delle attività caritative, rispetto ad altre destinazioni, e
che in qualche momento sembra essere stata sacrificata. Va naturalmente ricordato
che importanti e numerosi progetti caritativi sono stati realizzati sia in ambito nazionale che internazionale, e questi sono stati nel tempo fortemente incrementati
proprio su sollecitazione di parte governativa. Tuttavia, il divario tra la misura degli
interventi umanitari e il complesso di risorse disponibili resta significativo.
• Ad entrambe le richieste ha corrisposto una forte disponibilità della CEI. In
particolare, sul problema della gratuità dell’ingresso nelle Chiese la parte ecclesiastica ha convenuto trattarsi di una questione da risolvere invertendo la tendenza in
atto da alcuni anni. Ha ricordato che esistono da tempo delle disposizioni canoniche che dovrebbero limitare al massimo una pratica che deve rimanere eccezionale,
e che tuttavia occorre proseguire, anche attraverso una indagine specifica delle singole situazioni, perché si mantenga ferma la tradizione cattolica della apertura e disponibilità delle Chiesa alla comunità dei fedeli. Altrettanto, sulla questione dell’incremento delle destinazioni a finalità caritative, la CEI ha fatto presente che nel
corso degli anni le somme utilizzate per tali scopi sono state in crescente aumento,
e che importanti progetti sono stati realizzati sia sul territorio nazionali sia in Paesi
diversi dal nostro, e che si proseguirà su questa strada.
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
113
Oggi
Cattolicesimo italiano e futuro del Paese *
Non è obiettivo di queste pagine fornire un’analisi
dell’attuale situazione italiana, e ancor meno azzardare previsioni, di solito abbastanza improbabili, sul
nostro futuro. Cercheremo piuttosto di individuare
– senza alcuna ambizione di completezza – alcune linee lungo le quali il cattolicesimo italiano, nella sua
multiforme realtà, può dare un contributo al cammino della nazione.
CARD. CAMILLO
RUINI
Presidente della CEI
La questione dell’etica pubblica
• Iniziamo facendo riferimento all’anno 2005: per la
Chiesa e i cattolici italiani si è trattato senza dubbio di un
anno particolarmente intenso e, possiamo aggiungere, di un
anno in cui l’Italia nella sua globalità ha fortemente percepito la sua “anima” e il suo “fondo” cattolici. Ciò è avvenuto
soprattutto con l’aggravarsi della malattia e poi con la morte
e le esequie di Giovanni Paolo II, seguite dalla rapida elezione di Benedetto XVI e dal riversarsi su di lui, con spontanea
continuità, dell’affetto popolare che era cresciuto intorno al
suo Predecessore. È stata, questa, una straordinaria esperienza di unità per il nostro popolo, come del resto – pur con ovvie gradazioni e differenze – quasi per l’umanità intera, compresa la sua grande parte non cattolica.
• Un’altra circostanza significativa dell’anno 2005, sebbene di natura assai diversa, è stata il referendum sulla legge
per la procreazione assistita. Esso ha rappresentato un forte
motivo di impegno e di unità per i cattolici italiani e al contempo di incontro e convergenza con significativi rappresentanti della cultura laica. Ha anche contribuito però a far
emergere una nuova e certamente non desiderabile fase di
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
≈
“… religione e
scienza le due
prospettive
valoriali
maggiormente in
grado di plasmare
il futuro, in un
periodo nel quale
l’individuo e la
sua soggettività
hanno ricuperato
il centro della
scena”
≈
117
Card. Camillo Ruini
tensione nei rapporti con altri laici, soprattutto sul piano politico e mediatico,
mentre nella realtà concreta del Paese una simile difficoltà sembra di gran lunga
meno presente.
• Nella prospettiva del contributo che i cattolici possono dare all’Italia nei
prossimi anni, è importante comunque riflettere su queste problematiche, dato che
esse, al di là delle vicende contingenti, appaiono destinate ad acquisire un rilievo
crescente, non solo in Italia e non solo in relazione alla Chiesa cattolica, e già presentano aspetti nuovi e profondamente diversi rispetto alle forme in cui si ponevano tradizionalmente le questioni dei rapporti Stato-Chiesa e della laicità. Attualmente infatti i veri motivi di contrasto non riguardano più, se non in via del tutto
secondaria e per così dire “di risulta”, il contenzioso classico tra Chiesa e Stato in
quanto istituzioni, e le loro rispettive competenze: queste materie hanno trovato
ormai degli assetti largamente condivisi e sostanzialmente stabili, sebbene diversi
nei singoli Paesi a seconda della storia e della realtà di ciascuno di essi.
• Quelle che invece stanno emergendo in maniera prepotente sono le questioni che fanno riferimento all’area della soggettività personale e delle norme pubbliche entro le quali occorre in qualche modo inquadrarla. L’approccio che ha trovato
la sua formulazione classica già con Ugo Grozio nel 1625, secondo il quale le norme fondamentali del diritto conserverebbero la loro validità “etsi Deus non daretur”, perché fondate nella natura umana, ha infatti esaurito ormai da tempo la sua
efficacia storica, come risulta dal progressivo venir meno, nel corso del secolo XX,
di quella larga coincidenza materiale e contenutistica tra etica pubblica civile e morale cristiana che era a lungo sopravvissuta all’affermarsi dell’autonomia degli Stati
rispetto all’autorità ecclesiastica. Del resto lo stesso fondamento teoretico della formula di Grozio è entrato in crisi non da oggi, con la contestazione sempre più radicale del concetto stesso di “natura umana” e quindi di diritti naturali. Già alla fine
dell’800 F. Nietzsche pone di fatto un’alternativa totale all’“etsi Deus non daretur”:
per lui infatti la conseguenza della morte, o più espressivamente dell’“uccisione” di
Dio, è la trasformazione di tutti i valori, il venir meno di ogni precedente punto di
riferimento.
Libertà individuale e “diritti di libertà”
• In concreto è diffusa, e tende ad affermarsi come unica valida nello spazio
pubblico, la posizione secondo la quale la libertà individuale e i “diritti di libertà” costituiscono il valore fondamentale che misura tutti gli altri, con la conseguente esclusione di ogni vera o presunta discriminazione ai danni di qualcuno. Questo dovrebbe essere pertanto l’unico criterio regolatore dell’etica pubbli-
118
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Card. Camillo Ruini
ca, o almeno di quella parte di essa che si esprime in norme giuridicamente vincolanti, mentre non potrebbe essere ammesso, a livello pubblico, alcun riferimento a ciò che è bene o male in se stesso, ma soltanto alla valutazione delle conseguenze, utili o dannose, dei nostri comportamenti: un’illustrazione assai penetrante di questa situazione e delle sue radici e implicazioni è stata fatta dall’allora
Cardinale Ratzinger nella relazione tenuta a Subiaco poco prima della sua elezione al Pontificato (cfr. “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”, ed. Cantagalli, pp. 29-79).
• Si comprende quindi facilmente come questa libertà individuale che non discrimina, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, tenda ad escludere o sottomettere ogni altra posizione, che può essere lecita, sempre a livello pubblico, soltanto finché rimane subordinata e non in contraddizione rispetto a un tale criterio relativistico. È questo il vero motivo di contrasto non solo con ogni pretesa di valenza pubblica di un’etica di ispirazione cristiana, o di altra matrice religiosa, ma anche con un’etica che si richiami a un proprio oggettivo fondamento
umanistico. In un tale dibattito è dunque scarsamente efficace, perché non tocca il
fondo del problema, richiamarsi al fatto che le norme alle quali cerchiamo di conservare una valenza pubblica, pur essendo state formulate all’interno della tradizione cristiana, esprimono aspetti che valgono per l’uomo in quanto tale e promuovono il suo bene autentico: resta in piedi infatti la discriminante decisiva, che quelle
norme non si sottometterebbero al criterio relativistico.
• Prima di allargare lo sguardo a una problematica più ampia, entro la quale
possano intravedersi non solo le vie per superare l’approccio relativistico, ma soprattutto i modi per rispondere in forma positiva alla domanda circa il contributo
dei cattolici al cammino dell’Italia, vorrei avanzare una proposta, che può suonare
abbastanza ovvia, ma che ha il merito di superare, a livello pratico, lo stallo generato dalla contrapposizione tra i sostenitori e gli avversari dell’approccio relativistico
in materia di etica pubblica, senza obbligare né gli uni né gli altri a recedere dall’agire secondo i propri convincimenti. Si tratta cioè di affidarsi, anche in questi ambiti, al libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti democratici pure quando
non possiamo condividerli. Così già, fortunatamente e nella sostanza, avviene di
fatto, in un Paese democratico come il nostro, ma è bene che tutti ne prendiamo
più piena coscienza, per stemperare il clima di un confronto che prevedibilmente si
protrarrà assai a lungo, arricchendosi di sempre nuovi argomenti. I fautori del relativismo continueranno a pensare che in certi casi siano stati violati i “diritti di libertà”, mentre i sostenitori di un approccio collegato all’essere dell’uomo continueranno a ritenere che in altri casi siano stati violati diritti fondati sulla natura, e
perciò antecedenti ad ogni umana decisione, ma non vi sarà motivo di accusarsi reciprocamente di oltranzismo antidemocratico.
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È appena il caso di aggiungere che, pur all’interno dell’alternativa fondamentale tra queste due concezioni dell’etica pubblica, esiste una molteplicità di posizioni
sui singoli problemi concreti, che non si presta ad essere inquadrata entro schemi
prefissati.
Allargare gli spazi della razionalità
• Mi sono soffermato piuttosto a lungo sulla questione dell’etica pubblica perché essa ha certamente un suo oggettivo e grande rilievo, e anche perché non sarebbe realistico evitarla, interrogandoci oggi sul contributo dei cattolici al cammino
dell’Italia. Sono però più che fondate le preoccupazioni riguardo ai limiti e ai danni che comporterebbe un appiattirsi su tali problematiche. L’etica pubblica stessa,
del resto, non sta mai da sola: essa rimanda anzitutto all’etica dei comportamenti
vissuti, alle scelte quotidiane – di per sé libere e al contempo molteplicemente condizionate – delle persone, delle famiglie, dei vari gruppi sociali. Ma anche l’ambito
dell’etica preso nella sua interezza non è isolabile e non si regge in alcun modo da
solo: rimanda piuttosto sia alle concezioni di fondo sull’uomo e sulla realtà che improntano una cultura, sia, e ancora più profondamente, al mistero dell’esistenza
personale, a quella dimensione nella quale l’uomo ha a che fare con il Mistero originario. Sarebbe davvero grave se proprio i credenti in Cristo dessero anche solo
l’impressione di mettere tra parentesi questa dimensione.
Gli spazi della razionalità
• Un compito al quale Benedetto XVI spesso ci richiama, ad esempio nel discorso del 25 novembre 2005 all’Università Cattolica del Sacro Cuore, è quello di allargare gli spazi della razionalità. Quella forma di razionalità che possiamo denominare
scientifica e funzionale, per la quale è razionalmente valido soltanto ciò che, direttamente o indirettamente, è sperimentabile e calcolabile, ha certo una sua legittimità e
necessità nell’ambito scientifico-tecnologico e costituisce un grande e fondamentale
fattore di sviluppo, ormai a livello planetario. Se dimentica però il proprio carattere
di scelta metodologica e pretende di costituire l’unica forma di conoscenza davvero
razionale della realtà contraddice quel canone e quel limite che essa stessa si è giustamente imposta e rende in concreto razionalmente non decidibili, anzi non proponibili, le questioni del bene e del male morale, e più fondamentalmente del senso e del
destino dell’uomo e dell’universo, in ultima istanza la questione di Dio.
• In particolare a proposito dell’uomo una simile restrizione della razionalità
comporta inevitabilmente che il soggetto umano sia razionalmente conoscibile so-
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lo in quanto venga per così dire “misurato”, attraverso qualche forma di indagine
sperimentale, e che in tal modo si perda di vista proprio il soggetto in ciò che gli è
specifico, cercando invece di ricondurre l’uomo all’interno della serie degli oggetti
naturali. Particolarmente indicative, in questo contesto, sono le direzioni delle ricerche sui rapporti mente-cervello, sulle questioni della coscienza e dell’autocoscienza, come anche sul linguaggio umano, a confronto con quello attribuito ad altri animali.
•
È evidente d’altronde l’intima coerenza che unisce tra loro la posizione del relativismo etico, la restrizione della razionalità all’ambito di ciò che è sperimentabile e
calcolabile e – a livello contenutistico – la riduzione dell’uomo ad uno degli oggetti della natura. Insieme a questa intima coerenza non è difficile però percepire un
curioso paradosso, e finalmente un’autentica contraddizione interna: infatti ridurre l’uomo a un prodotto della natura implica inevitabilmente la negazione della
sua reale libertà e della sua stessa autentica razionalità, e quindi anche la messa in
discussione dei suoi “diritti di libertà”.
Elementi e stimoli capaci di futuro
• Prendere atto degli elementi di criticità più profondi, e alla fine più influenti, del contesto socio-culturale nel quale ci muoviamo non deve indurre però ad essere ciechi o indifferenti verso altri aspetti, di segno ben diverso, che sono a loro
volta presenti e che anzi sembrano essere quelli più nuovi e meglio capaci di futuro. Stimola a prestar loro fiduciosa attenzione anzitutto Papa Benedetto XVI, ad
esempio nel discorso del 19 novembre alla Conferenza sul genoma umano promossa dal Pontificio Consiglio per la pastorale della salute, dove ha messo in rilievo
che il secolarismo radicale “non soddisfa più gli spiriti maggiormente consapevoli
ed attenti” e che “nelle popolazioni di lunga tradizione cristiana rimangono presenti semi di umanesimo non raggiunti dalle dispute della filosofia nichilista, semi
che tendono … a rafforzarsi quanto più gravi diventano le sfide”.
• In concreto, quella convergenza tra cattolici, laici e credenti di altre confessioni che in Italia è diventata particolarmente visibile in occasione del referendum
sulla procreazione assistita, e che ha rappresentato una conferma fattuale delle parole aggiunte a braccio da Benedetto XVI al suo discorso del 30 maggio all’Assemblea della CEI, “non lavoriamo per l’interesse cattolico ma sempre per l’uomo creatura di Dio”, non è certo limitata al nostro Paese e si verifica anche su terreni diversi da quello dell’etica pubblica. Particolarmente significativo e incoraggiante è il
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fatto che le grandi domande sull’uomo, sulla vita, sulla totalità dell’universo interessano e coinvolgono con forza crescente proprio coloro che più sono impegnati
nella ricerca scientifica, perché l’avanzare delle scienze stimola a porre problemi
che debordano dai canoni metodologici delle scienze stesse.
La cultura dell’evoluzione
• Al riguardo una questione di speciale rilievo è quella dell’evoluzione, non solo perché intorno ad essa si è sviluppato oggi un nuovo dibattito scientifico-teologico, ma soprattutto per l’importanza che essa ha nella cultura del nostro tempo, e
anche per le precisazioni epistemologiche che essa richiede e consente. Già Pio XII
nell’Enciclica Humani generis aveva ammesso, a determinate condizioni, libertà di
discussione sulla “ipotesi” evoluzionistica, mentre Giovanni Paolo II, nel messaggio del 24 ottobre 1996 alla Pontificia Accademia delle Scienze, affermava che
“nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell’evoluzione una
mera ipotesi” bensì appunto una teoria – o più esattamente delle teorie, diverse anche per le filosofie a cui fanno riferimento – che si è “progressivamente imposta all’attenzione dei ricercatori, a seguito di una serie di scoperte fatte nelle diverse discipline del sapere”: resta comunque fermo che lo spirito dell’uomo non può essere
ricondotto alla materia.
•
• Non è certo il caso di fare dei passi indietro rispetto a queste precisazioni di
Giovanni Paolo II. Bisogna però essere lucidamente attenti a quella filosofia, o visione del mondo, a cui spesso la teoria dell’evoluzione viene collegata e della quale
diventa veicolo di diffusione, fino a proporsi come la spiegazione scientifica – almeno potenziale – di tutto il creato o, secondo le parole del Cardinale Ratzinger
nel libro Fede Verità Tolleranza (ed. Cantagalli, pp. 187-192), come “una specie di
«filosofia prima» che rappresenta per così dire l’autentico fondamento della comprensione razionale del mondo”, al di là della quale “le ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose non siano più lecite o necessarie”, con la chiara conseguenza che non rimane alcuno spazio per un’Intelligenza creatrice.
Evoluzione e “intelligenza creatrice”
• A una simile proiezione filosofica e ateistica dell’evoluzionismo è senz’altro
giusto opporre anzitutto che essa deborda, costitutivamente, dall’ambito e dai canoni della ricerca scientifica. È possibile però fare anche un passo ulteriore e oggi si
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tenta di compierlo, seguendo due vie che occorre tenere accuratamente distinte. Una
di esse cerca di individuare nei viventi alcune strutture complesse non suscettibili di
essere spiegate con i meccanismi dell’evoluzione, che richiederebbero quindi un disegno intelligente. Non sono ovviamente in grado di pronunciarmi sulla fondatezza
scientifica di tali posizioni; a livello metodologico esse, nella misura in cui intendano
concludere direttamente a un’Intelligenza creatrice, sembrano incorrere nella medesima obiezione di sconfinamento dai canoni della ricerca scientifica che si deve opporre all’interpretazione ateistica dell’evoluzionismo; il loro eventuale merito può essere
piuttosto di contribuire al progresso della scienza, facendo emergere interrogativi cui
le teorie attualmente diffuse non siano in grado di dare risposta.
• L’altra via non si riferisce a singole questioni scientifiche ma si colloca fin dall’inizio a livello filosofico, interrogandosi sulle condizioni di possibilità dell’intero sviluppo della razionalità scientifica e individuandole, dal punto di vista dell’oggetto conosciuto, nell’intelligibilità dell’universo, a sua volta ultimamente non spiegabile se
non riconducendo a un’Intelligenza creatrice l’universo stesso (si può vedere in proposito anche il mio piccolo libro Le ragioni della fede, ed. Paoline, pp. 57-76).
Vivere senza prescindere da Dio
• Benedetto XVI nell’udienza generale di mercoledì 9 novembre, attraverso
un commento di grandissimo respiro al Salmo 135 (136), ha mostrato tutta la portata che hanno per la fede cristiana queste problematiche: riferendosi alle parole
sorprendentemente attuali di un Padre della Chiesa del IV secolo, San Basilio il
Grande, il Papa ha affermato che oggi sono più numerosi di allora quanti “tratti in
inganno dall’ateismo, ritengono e cercano di dimostrare che tutto sia privo di guida e di ordine, come in balia del caso”, ed ha aggiunto: “il Signore con la Sacra
Scrittura risveglia la ragione che dorme e ci dice: all’inizio è la Parola creatrice …
questa Parola – che ha creato questo progetto intelligente che è il cosmo – è anche
amore. Lasciamoci, quindi, risvegliare da questa Parola di Dio; preghiamo che essa
rischiari anche la nostra mente, perché possiamo percepire il messaggio del creato
– iscritto anche nel nostro cuore –, che il principio di tutto è la Sapienza creatrice,
e questa Sapienza è amore, è bontà: «La sua misericordia rimane in eterno»”.
• Queste parole di Papa Benedetto esprimono sinteticamente quanto egli ha
elaborato attraverso decenni di riflessione teologica, nella quale l’opposizione al relativismo e al materialismo non prende mai la forma di un assolutismo della ragione, di un chiuso razionalismo. Fa corrispondere invece all’unità in Dio creatore di
sapienza e amore libero e gratuito l’intimo nesso di ragione, amore, rivelazione e
grazia, nel nostro aprirci al mistero di Dio.
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• In concreto, proprio riguardo all’alternativa fondamentale tra Intelligenza
creatrice e interpretazione materialistica dell’evoluzionismo, l’allora Cardinale Ratzinger riconosce che “il pensiero filosofico stesso qui giunge al suo limite” (Fede Verità Tolleranza, p. 191): a livello filosofico pertanto “il Logos … all’origine di ogni
cosa rimane, più che mai, l’ipotesi migliore, benché sia un’ipotesi … che esiga da
parte nostra di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile” (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, p. 123).
L’evidenza di Dio
• Più in generale, nemmeno ai nostri giorni l’evidenza di Dio è stata eliminata, “ma va riconosciuto che essa, più che mai, è resa irriconoscibile dalla violenza
che il potere e il profitto esercitano su di noi”. Permane e si accentua cioè quella
tensione tra l’apertura interiore dell’anima umana a Dio e l’attrazione più forte dei
bisogni e delle esperienze immediate che attraversa la storia intera. Da solo pertanto l’uomo, pur non essendo capace di sbarazzarsi completamente di Dio, non ha
nemmeno la forza di mettersi concretamente in cammino verso di Lui, “non è in
grado di chiarire completamente la strana penombra che grava sulla questione delle realtà eterne”: Dio stesso deve prendere dunque l’iniziativa di rivolgersi all’uomo
e di venirgli incontro, perché possa sorgere in noi una vera relazione con Lui (cfr.
ivi, pp. 123-124). È profonda la consonanza tra questi pensieri e ciò che scrive l’Apostolo Paolo nella Lettera ai Romani, cap. 1, 16-32 e anche cap. 7.
Proprio in questo contesto il cardinale Ratzinger, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile di quest’anno, avanza, nella sua “qualità di credente”, “una proposta ai laici”: quella di sostituire all’ormai storicamente consunto “etsi Deus non daretur” l’assioma inverso: “anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di
Dio dovrebbe comunque cercare di vivere e indirizzare la sua vita veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse. Questo è il consiglio che già Pascal dava agli amici non
credenti; è il consiglio che vorremmo dare anche oggi ai nostri amici che non credono. Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano
un sostegno e un criterio di cui hanno urgentemente bisogno” (ivi, pp. 60-63).
La “sana” e “positiva” laicità dello Stato
• Su simili basi trovano il loro pieno significato e la loro autentica motivazione
le espressioni a favore di una “sana” e “positiva” laicità dello Stato formulate da Benedetto XVI in occasione della sua visita al Presidente della Repubblica, e poi più
ampiamente nel messaggio al Presidente del Senato per il convegno su libertà e lai-
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cità svoltosi nell’ottobre 2005 a Norcia: in virtù di una tale laicità “le realtà temporali si reggono secondo norme loro proprie, alle quali appartengono anche quelle
istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essere stesso dell’uomo. Tra queste istanze, primaria rilevanza ha sicuramente quel «senso religioso» in cui si esprime l’apertura dell’essere umano alla Trascendenza”.
• Nel momento stesso in cui si propone ai laici di vivere “come se Dio ci fosse”
emerge nella sua radicale serietà la vocazione e missione dei credenti di inverare la
loro fede nella loro concreta e quotidiana esistenza. Interpella dunque ogni credente in Cristo la testimonianza del Beato Charles de Foucauld: “Come credetti che
c’era un Dio, compresi che non potevo far altro che vivere per Lui solo”.
• Non dobbiamo mai dimenticare, anzitutto, che la nostra fede in Dio e il nostro vivere per Lui hanno origine dalla rivelazione di Dio, dal libero dono che Dio
fa di se stesso a noi. La parola “rivelazione”, che purtroppo nella cultura attuale ha
perso per lo più il suo genuino significato biblico e teologico, sta ad indicare, prima ancora che la Scrittura come parola di Dio nella quale la rivelazione si è espressa, l’atto stesso con cui Dio si mostra e si comunica a noi. Del concetto di rivelazione fa sempre parte pertanto il soggetto che la riceve: dove infatti nessuno percepisce la rivelazione, nulla viene svelato, nessuna rivelazione è realmente avvenuta.
Perciò la comunità credente, in concreto il popolo di Israele nell’Antico Testamento e la Chiesa, il nuovo popolo di Dio, nel Nuovo Testamento, è costitutivamente
implicata e coinvolta nella rivelazione stessa, con la sua risposta di fede e di vita secondo la fede.
• A Colonia, nella Giornata Mondiale della Gioventù, Benedetto XVI ha spiegato ai giovani come, per accogliere il Dio che si rivela a noi in Gesù Cristo crocifisso e risorto, sia necessario lasciarsi sorprendere da Lui, cambiare le nostre idee
umane su Dio e sull’uomo, comprendere che il potere e il modo di agire di Dio sono diversi da quelli degli uomini, e in specie dei potenti del mondo. Tutto ciò ha la
sua realizzazione più alta e la sua sorgente dinamica nel mistero dell’Eucaristia: con
le parole pronunciate sul pane e sul vino nel cenacolo Gesù anticipa la propria
morte, “l’accetta nel suo intimo e la trasforma in un’azione di amore”. È questa la
trasformazione sostanziale, la sola in grado di suscitare un processo di trasformazioni il cui termine ultimo è la trasformazione del mondo, fino a che Dio sia tutto
in tutti (cfr. 1Cor 15,28). Questa stessa trasformazione fondamentale, che avviene
quando il pane e il vino diventano il corpo e il sangue di Cristo, esige e produce
anzitutto la trasformazione nostra. Quel corpo e quel sangue sono infatti dati a noi
affinché noi veniamo trasformati a nostra volta: veniamo cioè uniti a Cristo e al Padre e diventiamo così realmente capaci di sottometterci a Dio, di fare di Lui la misura del nostro vivere, con un atto che non ci estranea da noi stessi, ma ci libera in
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funzione della più intima verità del nostro essere; in concreto, ci rende capaci di
amore, di dedizione e di perdono, in compagnia e a imitazione di Gesù Cristo.
• Queste parole di Benedetto XVI a Colonia non possono essere ridotte ad
una, per quanto ottimamente articolata, esortazione spirituale. Al contrario, soltanto prendendole davvero sul serio nella realtà del nostro agire personale e comunitario – pur appesantito da tante spinte che ben conosciamo e che vanno in senso
contrario – è possibile non lasciarsi dettare dalle logiche di questo mondo la nostra
agenda quotidiana, privata e pubblica, i modi di pensare, i comportamenti e le
scelte.
Il bisogno di un “Ethos” più umano
In concreto, come abbiamo bisogno di una razionalità più larga, rispetto a
quella soltanto scientifica e funzionale, così, e forse maggiormente, abbiamo bisogno di un ethos più autenticamente umano rispetto a quello che può offrire una
teoria evoluzionistica elevata a interpretazione ultima della realtà. Un tale ethos
evoluzionistico non può non avere infatti la sua struttura portante nel modello della selezione, e quindi nella lotta per la sopravvivenza, nell’adattamento riuscito e
nella vittoria del più forte. Vi può essere in tutto ciò un’apparenza di grande realismo, ma ben poco di moralmente persuasivo e appagante; ben poco di utile a ciò
di cui l’umanità ha oggi maggiormente bisogno: un’etica della pace, dell’andare oltre il proprio interesse particolare – di persone, di nazioni o di categorie –, finalmente un’etica dell’amore concreto del prossimo.
• Nella prospettiva cristiana, al contrario, il primato del Logos, e quindi di una
razionalità più larga, si identifica con il primato dell’Amore da cui tutto ha origine,
e quindi di un ethos che ha il suo centro nel duplice comandamento dell’amore di
Dio e del prossimo. Nei primi secoli della sua storia il cristianesimo ha convinto e
si è diffuso “grazie al legame della fede con la ragione e grazie all’orientamento dell’azione verso la caritas, la cura amorevole dei sofferenti, dei poveri e dei deboli, al
di là di ogni differenza di condizione sociale” (J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza,
p. 183). Pur nella profonda diversità delle situazioni storiche, questo è anche oggi,
nella sostanza, il grande compito che sta davanti ai discepoli di Cristo: un compito
nel quale i cristiani laici (uso qui la parola “laici” nel suo significato ecclesiale e teologico) hanno un ruolo essenziale e determinante.
• Per i cristiani tutti, ma certamente in modo specifico per i laici, vale l’appello
con cui l’allora Cardinale Ratzinger concludeva la sua relazione del 1° aprile 2005
a Subiaco: “Ciò di cui abbiamo soprattutto bisogno in questo momento della storia so-
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no uomini che, attraverso una fede illuminata e vissuta, rendano Dio credibile in questo mondo. La testimonianza negativa dei cristiani che parlavano di Dio e vivevano
contro di Lui, ha oscurato l’immagine di Dio e ha aperto la porta all’incredulità. Abbiamo bisogno di uomini che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la
vera umanità. Abbiamo bisogno di uomini il cui intelletto sia illuminato dalla luce di
Dio e a cui Dio apra il cuore, in modo che il loro intelletto possa parlare all’intelletto
degli altri e il loro cuore possa aprire il cuore degli altri. Soltanto attraverso uomini che
sono toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini” (L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, pp. 63-64).
• Ernesto Galli della Loggia, in un intervento apparso sul «Corriere della Sera»
del 31 ottobre 2005, coglieva nella religione e nella scienza le due prospettive valoriali maggiormente in grado di plasmare il futuro, in un periodo nel quale l’individuo e la sua soggettività hanno ricuperato il centro della scena. Una simile valutazione appare in buona misura condivisibile: ritengo però, e soprattutto mi auguro,
che queste due prospettive, pur nella loro indubbia diversità, non siano destinate a
contrapporsi sistematicamente e possano trovare invece una reale e non forzata
complementarietà, tenendo insieme il valore perenne della persona creata a immagine di Dio, affermato dal cristianesimo, e quelle in certo senso illimitate potenzialità di progresso che la scienza assicura proprio in virtù dell’apertura illimitata al
vero e al bene iscritta nell’intimo del nostro essere.
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I principi “non negoziabili” della Chiesa
fra laicità e concordato
Il 30 marzo, e dunque nella imminenza delle elezioni
in Italia, Benedetto XVI, parlando ai parlamentari del
Partito popolare europeo ha definito principi non negoziabili il valore della vita umana, la famiglia e il diritto dei genitori alla educazione dei figli.
È affermazione di grande rilievo culturale e morale e, a
mio avviso, assai consolante che vi siano in politica
principi non negoziabili, che vi sia cioè, anche nella
politica, qualcosa che non è soggetto alla legge dello
scambio, al “negozio” appunto, per il quale si dà una
cosa in cambio di un’ altra.
PIETRO SCOPPOLA
Università di Roma
La Sapienza
≈
Un alto richiamo
• Mi sembra importante raccogliere il significato universale di questa affermazione di Benedetto XVI che dovrebbe vedere unite tutte le coscienze sensibili ai valori morali:
sarebbe ben triste una società in cui affermazioni del genere
non risuonassero più!
Che il Papa, ricevendo i parlamentari del Partito popolare europeo, abbia indicato fra i principi non negoziabili
quelli che riguardano appunto la vita umana, la famiglia e il
diritto dei genitori alla educazione dei figli mi sembra d’altra
parte assolutamente normale, per non dire scontato.
Purtroppo scontate erano anche le reazioni nelle quali da
destra, come, in senso opposto, da parte di esponenti radicali, di quelle affermazioni di principio del Papa si è tentata
una utilizzazione elettorale: così per far solo un esempio gli
esponenti di quella stessa Lega che a suo tempo promosse un
rito paganeggiante sulle acque del Po hanno inneggiato alle
affermazioni del Papa e le hanno usate polemicamente contro l’Unione, nel cui programma sono giunti a vedere una
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
“… si delinea la
disponibilità ad
uno statuto di
rapporti fra lo
Stato e la Chiesa
che colloca anche
gli eventuali
conflitti in uno
spazio
convenzionale
superando così il
rischio dello
scardinamento
dei principi
costituzionali
che regolano
il sistema”
≈
129
Pietro Scoppola
“beffa delle radici cristiane dell’Europa”. Dal lato opposto, se la Bonino, con maggiore sensibilità, ha preso atto “con qualche soddisfazione” delle parole del Papa, non è
mancato chi, per una esasperata affermazione di identità e con rara insensibilità al clima preelettorale, ha denunciato l’incompatibilità fra gli ipotetici privilegi riconosciuti alla Chiesa dal Concordato del 1984 e i suoi interventi nella politica italiana.
Si sono elusi così aspetti essenziali delle affermazioni del Papa. Si è lasciato in
ombra il limpido richiamo, nel suo discorso, alla realtà integrata e “polifonica” del
continente europeo che può essere arricchita dalla tradizione cristiana.
L’Europa è una realtà polifonica proprio perché profondamente segnata da una
tradizione cristiana dialetticamente intrecciata con una tradizione di cultura laica.
Questo intreccio rappresenta a sua volta un dato non negoziabile, nel senso che è
una realtà con la quale non si può fare a meno di misurarsi. Anche la storia, a suo
modo, non è negoziabile.
L’Europa “polifonica”
• Questo significa che quei principi non negoziabili devono vivere ed esprimere tutta la loro potenzialità in un contesto democratico, misurandosi con diverse
culture e con diverse visioni del mondo. La condizione storica in cui l’Europa oggi
vive di diffusa secolarizzazione e di pluralismo culturale e religioso, la sua realtà
“polifonica” appunto, chiama i cattolici al massimo impegno su quei principi affermati dalla Chiesa ma non garantisce e spesso non consente che essi siano tradotti
fedelmente in leggi degli stati e della comunità europea.
Fra i dati non negoziabili che una lunga storia ha prodotto vi è il principio della laicità dello Stato. Vale la pena di riflettere su questo dato storico entro il quale le
affermazioni di principio formulate dal Papa sono chiamate ad operare.
Il Papa stesso ha riconosciuto valido, al momento del suo incontro con il presidente Ciampi, il principio della laicità anche se con l’aggiunta di un aggettivo di
non facile interpretazione: la “sana” laicità.
È una nozione, quella della laicità, che sembrava definita e sostanzialmente
condivisa, ma che, da ultimo, ha dato luogo a polemiche e incertezze.
La nozione della laicità
• La nozione sostanzialmente condivisa era quella di una laicità le cui radici
erano da ricercare nella tradizione cristiana e nella distinzione fra la sfera del sacro e
la sfera del potere politico, una distinzione che aveva favorito da un lato il dualismo istituzionale e una costante tensione dialettica tra Stato e Chiesa, dall’altro la
stessa laicizzazione della politica, la sua de-sacralizzazione, come disse Max Weber.
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Pietro Scoppola
Certo l’applicazione di questa fondamentale distinzione, fra la sfera del religioso e quella del civile, era stata tutt’altro che lineare: aveva assunto nella cultura illuministica accenti critici nei confronti delle sue stesse origini cristiane e negli Stati
cattolici era stata apertamente osteggiata dalla Chiesa.
In un processo storico quanto mai complesso e articolato due concezioni, due
esperienze della laicità erano state messe a fuoco ed assunte in definitiva come modelli: l’esperienza francese e l’esperienza anglosassone, in particolare americana.
Nel modello americano la laicità è garantita da una norma di valore costituzionale: il primo emendamento alla Costituzione del 1787, approvato nel 1791, stabilisce il divieto al Congresso di legiferare in materia di religione, fissando così una
netta distinzione fra i due ambiti religioso e politico. Ma la distinzione e la incompetenza dello Stato non impediscono che la religione abbia un rilievo pubblico.
• L’esperienza rivoluzionaria francese risente invece profondamente della concezione di Rousseau il quale, come si sa, nel Contratto sociale definisce il cristianesimo come una religione “bizzarra” la quale “dando agli uomini due legislazioni, due
capi, due patrie, li sottomette a doveri contraddittori, e impedisce loro di poter essere nello stesso tempo devoti e cittadini”. In questa visione il fondamentale dualismo della concezione cristiana è messo in discussione: si pongono anzi le premesse
per concepire la laicità come una ideologia di Stato e per dar vita a forme di religione civile, si preannunciano i moderni totalitarismi.
In Europa permane a lungo l’ambiguità fra una laicità intesa come neutralità
dello Stato e una laicità come ideologia di Stato. Proprio in ragione di questa ambiguità la parola non compare nella costituzione italiana del ’48, nella quale anzi vi è
un ulteriore elemento da sottolineare: la Costituzione riconosce (art. 7) la libertà
religiosa non solo come libertà individuale di coscienza ma come libertà istituzionale della Chiesa “indipendente e sovrana nel suo ordine”.
La Chiesa, dal suo canto, nel documento del Concilio Vaticano II, Dignitatis
humanae pone su solide basi i valori di libertà di coscienza, che sono il fondamento
di ogni concezione democratica, ed esplicitamente fonda la laicità sul principio di
incompetenza dello Stato in materia religiosa.
Così nella riflessione teologica come in quella della cultura giuridica è maturata in Italia una concezione della laicità che ricupera molti elementi di quella esperienza americana fondata sulla idea della incompetenza dello Stato da un lato e del
riconoscimento del ruolo della religione dall’altro.
Stato e principio di laicità
• Questa concezione della laicità ha avuto una solenne sanzione giuridica nella
sentenza n. 203 del 1989 della Corte costituzionale nella quale si afferma: “Il prin-
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Pietro Scoppola
cipio di laicità, [...] implica non indifferenza dello Stato di fronte alle religioni, ma
garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo culturale e religioso”; e più avanti “l’attitudine laica dello Stato-comunità,
[...] si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini”. La successiva giurisprudenza della Corte pur con notevoli oscillazioni si è
mossa su questa linea.
Questo era sostanzialmente il punto raggiunto dal dibattito sulla laicità nel nostro Paese.
Che cosa ha rimesso in discussione il concetto di laicità? Indicherei due motivi:
il primo di portata più generale, il secondo legato agli sviluppi della politica italiana negli ultimi decenni.
Il motivo di carattere più generale è rappresentato dal riemergere sulla scena del
fattore religioso, che in una società multietnica e multiculturale, quando assume forme fondamentaliste o integraliste, può diventare motivo di profonda lacerazione.
Il caso danese
• Pensiamo all’episodio del giornale danese che ha pubblicato vignette satiriche su Maometto. La laicità dello Stato e la libertà di stampa possono consentire
che si offenda un sentimento religioso condiviso da milioni di uomini? Direi proprio di no: la libertà ha un limite nel rispetto della libertà altrui; la laicità dello Stato, come l’abbiamo definita, non esclude anzi implica il rispetto del sentimento religioso. Questo non toglie che la reazione del mondo islamico sia stata sproporzionata. Dunque la laicità vuole senso di misura, ma anche la difesa della propria
identità religiosa esige equilibrio e spirito di tolleranza.
Il problema si fa più grave quando tradizioni religiose o costumi diversi dai nostri propongano o impongano pratiche, come ad esempio l’infibulazione, incompatibili con il rispetto della dignità della donna: pratiche del genere non possono
essere coperte dal principio di laicità, dal rispetto cioè che lo Stato deve a diverse
culture e tradizioni; qui deve prevalere il rispetto dei fondamentali principi del nostro ordinamento che hanno a loro cardine la dignità della persona umana. Ma vi
possono essere situazioni in cui non è facile distinguere e occorre che il principio di
laicità e perciò di libera espressione di diverse fedi e tradizioni religiose sia applicato con saggezza ed equilibrio.
• Il problema si complica quando di fronte alle manifestazioni, ad esempio,
del fondamentalismo islamico il richiamo alla tradizione cristiana viene assunto
strumentalmente per negare o ridurre gli spazi di una possibile convivenza; talvolta
esponenti della cultura laica si pongono alla testa di questo richiamo al cristianesimo, tutto dettato da fini politici: sono i cosiddetti atei devoti. Una espressione per
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Pietro Scoppola
la verità ambigua perché rischia di comprendere in una unica categoria di valenza
sostanzialmente negativa anche non credenti sinceramente interessati alla esperienza cristiana e alla sua presenza nella storia.
Il rischio è quello gravissimo di una deriva verso contrapposizioni di civiltà o di
religioni che, intrecciate con i mille interessi economici sempre presenti sullo scenario mondiale, possono alla fine creare le premesse di conflitti di dimensioni planetarie.
È di fronte a questo rischio reale, anche se ancora non incombente, che Benedetto XVI ha lanciato nella sua prima e enciclica il messaggio inequivocabile che
“Dio è amore” e che non si può perciò, in suo nome, giustificare nessun conflitto o
guerra di civiltà.
La laicità in Italia
• Il secondo elemento che rende più delicato il discorso sulla laicità è tutto italiano.
La Democrazia cristiana ha svolto per molti anni il ruolo di una mediazione fra
la Chiesa e la politica e ha cercato di far valere, sul piano della vita pubblica e della
legislazione, per quanto possibile, esigenze e valori cristiani. Ma oggi quel partito
non c’è più ed ecco allora cha la Chiesa italiana sembra aver scelto la via di un intervento in presa diretta nella politica formulando giudizi e direttive di comportamento sui singoli temi fino a suggerire l’astensione in un referendum come quello
sulla procreazione assistita.
Non sembra vi siano impedimenti a questi interventi sul piano strettamente
giuridico, ma è inevitabile che questi interventi nel cuore stesso dei processi legislativi in corso suscitino reazioni in nome della laicità dello Stato e della distinzione
di competenze.
• D’altra parte giova alla Chiesa diventare soggetto attivo del dibattito politico
al prezzo di una inevitabile polemica o la sua influenza non sarebbe più efficace e
duratura ad un livello non direttamente politico ma culturale e pastorale? In sostanza la democrazia consente alla società di esprimersi liberamente; la legge in un
sistema democratico riflette quello che esiste nella società. Se si vuole incidere realmente e stabilmente sugli equilibri che, a livello legislativo, si formano in un sistema democratico, occorre lavorare alla base della società condizionandone le dinamiche in profondità. Occorre soprattutto rifornire per così dire la democrazia di
quelle riserve e tensioni etiche di cui ha urgente bisogno e che da sola non è in grado di darsi. Non dovrebbe essere questo il compito primario della Chiesa piuttosto
che quello di un intervento in presa diretta sulla vita politica e sulla attività legislativa?
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Pietro Scoppola
Rapporto gerarchia e laicato
• La questione coinvolge la vita interna della Chiesa e in particolare il rapporto fra gerarchia e laicato: chi abbia presente il capitolo IV della II parte del famoso
documento conciliare Gaudim et spes sa che tocca precisamente ai laici cattolici e
non alla gerarchia la responsabilità di una diretta partecipazione alla vita politica,
nella consapevolezza che, in una società complessa come quella attuale, largamente
secolarizzata, la dinamica propria del sistema democratico, che rispecchia tutti gli
orientamenti presenti nella società, ha reso e rende impossibile che i valori cristiani
trovino sempre fedele espressione nelle leggi dello Stato.
• Ecco dunque che il tema della laicità investe in questo caso la vita interna
della Chiesa e si arricchisce di un altro e suggestivo aspetto: quello che era il problema della autonoma responsabilità di un partito politico diventa oggi problema
di coscienza di ogni credente.
La questione non è dunque di limiti giuridici all’intervento della Chiesa, ma di
coerenza ai principi che la Chiesa stessa ha fissati. A poco serve la polemica sullo
sconfinamento di campo dell’autorità ecclesiastica.
• E neppure basta il richiamo formale e alla fine nominalistico al fondamentale primo comma dell’articolo 7 della nostra Costituzione: “lo Stato e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani”. Quella norma ha molte
implicazioni: implica anzitutto il riconoscimento del rilievo del fatto religioso a livello istituzionale ed esclude perciò un suo riconoscimento come mero fatto di coscienza; esclude di conseguenza una concezione della laicità “alla francese”; evoca
piuttosto il modello americano in cui la religione è fattore essenziale per la costruzione del tessuto etico che fonda la democrazia. Per altro verso quell’articolo non
dice nulla – e non poteva farlo senza contraddirsi – per quanto riguarda la competenza sulle competenze, e cioè su chi, in caso di contrasto deve decidere sulle rispettive sfere di competenza, e lascia dunque alle parti stesse il compito di definire i
rispettivi ambiti, il che esige un clima di collaborazione se si vuole evitare che i
conflitti mettano in crisi il principio stesso che ispira quella norma costituzionale.
Di fatto è a un principio di collaborazione che il concordato del 1984 si richiama,
rendendo così esplicita una esigenza implicita nel sistema.
Il ruolo dei politici
• Tocca dunque ai soggetti politici indicare come intendono attuare questo
principio di collaborazione e come gestire eventuali situazioni di conflitto. La questione si è fatta più complessa negli ultimi anni di fronte a problemi che coinvolgo-
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Pietro Scoppola
no valori “non disponibili” dall’una o dall’altra parte, come accade ad esempio
quando, in tema di aborto, si trovano a fronte il richiamo al valore della vita da un
lato e alla libertà di scelta della donna dall’altro.
Se vale il principio, cui sopra si faceva cenno, di un sistema di rapporti fra lo
Stato e la Chiesa che esige un clima di collaborazione per la definizione dei rispettivi ambiti, una politica ecclesiastica illuminata dovrebbe prima di tutto tenere ben
distinti i valori dagli interessi. In concreto non si possono mettere sullo stesso piano la richiesta della collocazione nei ruoli statali degli insegnanti di religione o l’esenzione dall’ICI e la intransigente difesa del valore della vita umana.
• Quando gli interessi vengano proposti in termini non coerenti con i principi
di uguaglianza e di laicità dello Stato la difesa di questi principi potrà essere tanto
più ferma quanto più ci si sia mostrati attenti, sensibili e dialoganti di fronte a
quanto la Chiesa propone come valore. Quel che la Chiesa propone come valore
deve, nel nostro sistema, essere sempre oggetto di attenta valutazione. La indiscutibile competenza dello Stato in campo legislativo, in nome della quale si contestano
spesso gli interventi della Chiesa, non cancella il nesso che sempre esiste fra profilo
etico e profilo legislativo: certo il punto di vista del giudizio etico è diverso da quello del politico, il peccato è altra cosa dalla violazione della legge, ma questa distinzione fondamentale per lo Stato moderno non rende irrilevante l’etica nella vita
pubblica. La distinzione non è reciproca irrilevanza. Di qui la necessità del dialogo
e del confronto tutte le volte che si affrontano temi che, sia pure da punti di vista
diversi, investono la competenza dei due poteri.
• E quando certi valori sono proposti come non disponibili, il sistema di rapporti cui abbiamo fatto cenno sopra esige, mi sembra, che se ne prenda atto senza
la pretesa di squalificarli o schiacciarli sotto la logica del principio opposto della
laicità dello Stato e della sua competenza, considerato anch’esso non disponibile, e
della sua sovranità in campo legislativo. Le due posizioni devono convivere e confrontarsi nel reciproco rispetto lasciando che la decisione, mai definitiva e irrevocabile, sia affidata alle dinamiche proprie della democrazia.
Le aperture della Chiesa
• La Chiesa, ha espresso valori e interessi ma ha anche di recente offerto segni
di apertura. Mi riferisco ad esempio alla prolusione del Cardinale Ruini il 2 dicembre 2005, al VII Forum del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana,
nella quale ha proposto di superare lo stallo che si può produrre nel caso di inconciliabili contrapposizioni affidandosi «al libero confronto delle idee, rispettandone
gli esiti democratici pure quando non possiamo condividerli», e ha aggiunto di
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Pietro Scoppola
considerare «abbastanza ovvia» questa pratica della democrazia in paesi come l’Italia. Non mi sembra che nessuna voce di parte laica si sia levata per riconoscere il
progresso oggettivo che questa posizione rappresenta rispetto alla tante volte ripetuta affermazione del primato dei valori rispetto a qualunque pronuncia di una
maggioranza.
In quelle parole del presidente della CEI si delinea la disponibilità ad uno statuto di rapporti fra lo Stato e la Chiesa che colloca anche gli eventuali conflitti in
uno spazio convenzionale superando così il rischio dello scardinamento dei principi costituzionali che regolano il sistema. Ma questo presuppone che ogni sforzo
preliminare sia fatto per trovare un terreno di intesa e che quando l’intesa è impossibile le due posizioni si riconoscano reciprocamente legittime dal punto di vista di
un sistema democratico e soggette al controllo delle dinamiche interne al sistema
medesimo.
Dunque il carattere non negoziabile di certi valori rimane integro per il cattolico impegnato in politica, ma rimane integra per lui anche la realtà storica. La sfida,
alla quale i costituenti cattolici seppero rispondere egregiamente nel 1946, è quella
di esprimere quei valori non negoziabili in termini culturalmente aderenti ai dati
non negoziabili della storia.
Mi pare che il discorso di Benedetto XVI esiga una profonda riflessione sulle
condizioni attuali della presenza cattolica in Europa e nel nostro paese, ben al di là
delle utilizzazioni strumentali che negano in radice le forti immagini di ciò che
non è negoziabile e di una Europa polifonica. Con tutte e due le realtà che queste
immagini evocano il cristiano deve misurarsi.
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Laicità e “pace religiosa”
nei rapporti tra Chiesa e Stato
Come ogni stagione storica, anche quella attuale è
frutto di complesse stratificazioni depositate dal tempo, per descrivere le quali, alcuni risalgono molto indietro. Recentemente, Gaetano Quagliariello ha proposto un confronto con l’età risorgimentale, scrivendo
che non è più applicabile la formula proposta da Cavour nel 1861: “Libera Chiesa in libero Stato”, perché
il rigido separatismo liberale dell’Ottocento oggi non
è più praticabile. In realtà, la formula cavouriana non
era rigidamente separatista – avrebbe dovuto esserci
una “e” al posto dell’“in”: “Libera Chiesa e libero Stato” –, così come non fu solo influenzata dal protestantesimo ginevrino o dal cattolicesimo liberale belga, come spesso si è ripetuto. “Libera Chiesa in libero Stato”
nacque nel contesto risorgimentale e in relazione ad
uno specifico problema italiano: la presenza del papa
all’interno del territorio del nascente Stato italiano. La
formula fu coniata nel contesto di una complessa trattativa diplomatica, l’ultimo e più impegnativo tentativo intrapreso nel 1859 e il 1861 per giungere ad una
conciliazione tra Pio XI e lo Stato italiano, attraverso
la rinuncia del papa al potere temporale. In questo
senso la formula cavouriana, pur presupponendo la fine dell’ Ancien Régime e una netta distinzione tra
Chiesa e Stato, in sintonia con la cultura liberale del
tempo, aveva un orientamento conciliazionista piuttosto che rigorosamente separatista.
AGOSTINO
GIOVAGNOLI
Università Cattolica
di Milano
≈
“Nei suoi
orientamenti di
fondo, la Chiesa
continua a
puntare sulla
conciliazione con
l’Italia, anche se è
inevitabile che
sia spinta a
sviluppare un
rapporto più
diretto con la
società italiana”
≈
Conciliazionismo, conciliatorismo e Conciliazione
• Indubbiamente, il fallimento di quelle trattative e il
successivo dissidio tra Chiesa e Stato non sono stati senza
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Agostino Giovagnoli
conseguenze. Prevalsero i toni aspri del contrasto e della polemica, con l’affermazione, da una parte, dell’intransigentismo cattolico e, dall’altra, del laicismo anticlericale. Da parte della S. Sede maturò una sfiducia profonda verso la classe dirigente liberale che guidava lo Stato italiano, ma – gradualmente – la Chiesa abbandonò anche la nostalgia dell’Ancien Régime. Nell’ottica intransigente, l’istituzione
ecclesiastica smise di rivolgersi a “principi cristiani”, peraltro sempre più rari, affidandosi piuttosto all’azione del laicato cattolico fedele sul piano sociale e politico a
difesa degli interessi cattolici. Tuttavia, la spinta per una conciliazione tra Chiesa e
Stato non è mai scomparsa del tutto e, sotterraneamente, ha attraversato tutte le fasi della storia unitaria, senza costituire perciò un “merito” particolare del fascismo,
la cui identità totalitaria ha dovuto piegarsi a tale spinta non senza prezzi. Pur senza negare il contingente scambio di interessi o la convergenza tra diverse forme di
autoritarismo che favorirono la Conciliazione del 1929, non va dimenticato che fu
portata a termine da un papa il quale, pur critico verso lo Stato liberale, era profondamente legato al conciliatorismo risorgimentale. Il nesso da lui tante volte sottolineato fra Trattato e Concordato – simul stabunt, simul cadent – esprimeva la convinzione che le vere garanzie per l’indipendenza della S. Sede e la libertà del Papa
riposassero non tanto nel vincolo di un legame giuridico quanto nella volontà
profonda del popolo italiano.
Alle origini del “patto” tra Chiesa cattolica e Italia repubblicana
• Malgrado il “plebiscito” organizzato dal fascismo all’indomani dei Patti Lateranensi, la Conciliazione fu soprattutto un accordo di vertice. Durante la guerra,
invece, la spinta “conciliazionista” assunse una ben più ampia dimensione popolare, quando si delineò quella che Andrea Riccardi ha chiamato la “nazione cattolica”
e cioè un modo nuovo di guardare al rapporto tra la Chiesa e l’ Italia condiviso tanto da cattolici quanto da laici. Nel corso delle drammatiche vicende belliche, si instaurò un nuovo rapporto tra la Chiesa e una società italiana sempre più consapevole degli esiti disastrosi del fascismo e dell’inaffidabilità delle istituzioni nazionali,
a cominciare dalla monarchia. Guardando con fiducia all’istituzione ecclesiastica,
molti italiani – anche laici – si riconobbero nella tradizione cattolica e compirono
un percorso inedito dall’aspirazione alla pace all’adesione alla democrazia. In questo contesto maturò una novità davvero storica nell’atteggiamento della Chiesa
verso l’Italia: per la prima volta dall’inizio della storia unitaria, la Chiesa abbandonò un atteggiamento puramente difensivo nei confronti di quest’ultima e, dopo
aver lungamente temuto dall’ Italia, cominciò invece ad intervenire in suo favore.
Ciò avvenne, anzitutto, in sede di tutela internazionale degli interessi italiani, che
gli stessi italiani non erano in grado di difendere a causa della loro condizione di
aggressori e sconfitti (Di Nolfo). Si stabilì così un patto non scritto tra Chiesa cat-
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Agostino Giovagnoli
tolica e società italiana che ha prodotto effetti prolungati nel tempo, sino alla dissoluzione degli equilibri post-bellici con il profondo cambiamento dello scenario
internazionale dopo il 1989. È soprattutto a tale “patto” che occorre fare riferimento per comprendere continuità e discontinuità nei rapporti tra Chiesa e Stato tra le
origini della Repubblica e il momento attuale.
Per quanto riguarda la discontinuità, è indicativa la sorte di un’espressione tra
le più eloquenti di quella stagione: lo scritto, Perché non possiamo non dirci
cristiani, di Benedetto Croce di cui è nota la severa critica della Chiesa cattolica e
degli atteggiamenti antiliberali di questa. L’apertura crociana verso il cristianesimo
– anzi verso la “rivoluzione cristiana” alle origini della civiltà europea – venne colta
da parte cattolica e Alcide De Gasperi, pur dissentendo da molti giudizi del filosofo napoletano, dialogò con la tradizione liberale di cui Croce era interprete, anche con concrete conseguenze sul terreno politico. Allora, molti laici rimproverarono Croce per quello che sembrò addirittura un “cedimento” alle ragioni dei credenti. Oggi invece, colui che potrebbe essere indicato come l’antesignano del dialogo tra cattolici e liberali viene praticamente ignorato dai sostenitori di tale dialogo: i cosiddetti “teocons” italiani. Nel 1942-43, infatti, Croce sottolineava con sincera convinzione le radici cristiane del pensiero liberale inteso come “religione della libertà”, quale fondamento di un mondo nuovo senza dittature e guerre. Invece,
oggi i laici che cercano il dialogo con i cattolici, si autodefiniscono “teocons” e
prendono le distanze – almeno in parte – dalla tradizione della laicità, insistendo
soprattutto sulla convergenza tra valori religioni e orientamenti conservatori, per
l’affermazione di un’identità occidentale contrapposta ad altre identità. Malgrado
somiglianze superficiali, insomma, le ragioni e le possibilità di dialogo tra cattolici
e liberali differiscono oggi profondamente da quelle del dopoguerra, perché il clima è profondamente cambiato ed è venuta meno quella potente reazione di rifiuto
della guerra – e delle sue implicazioni autoritarie – che unì allora la società italiana.
Gli aspetti giuridici
• Più complesso, appare invece il bilancio per quanto riguarda gli aspetti giuridici del rapporto tra Stato e Chiesa in Italia, come mostra la loro contestazione negli ultimi anni, seppure da parte di forze minoritarie. Apparentemente, nel clima
antifascista dell’immediato dopoguerra sarebbe stato logico, sul piano politico, far
pagare alla Chiesa l’accordo con Mussolini. Molti hanno visto, perciò, nella costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi soprattutto un’eredità della stagione precedente. Indubbiamente, il regime fascista introdusse negli Accordi del 1929 elementi antidemocratici, inconciliabili con i principi della Costituzione repubblicana: si radica qui la radice profonda della revisione del 1984, in cui è anche possibile vedere un tardivo adeguamento dei rapporti Stato-Chiesa ai principi della de-
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mocrazia. Tuttavia, sarebbe riduttivo vedere nell’art. 7 della Costituzione solo l’influenza dell’eredità fascista, ancora viva nell’Italia del dopoguerra, trascurando la
novità che maturò tra guerra e dopoguerra, quando la Chiesa maturò – agli occhi
di molti italiani – “meriti” che superavano di gran lunga la “colpa” dell’accordo con
Mussolini. La spinta più forte alla Costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi
venne in realtà dalla saldatura tra Chiesa e società italiana che scaturì dalla guerra.
Non a caso, in sede di Assemblea Costituente, la spinta ad inserire nella legge
fondamentale della Repubblica l’affermazione di uno stretto rapporto con la Chiesa cattolica, fu raccolta dai due maggiori partiti italiani, la Dc e il Pci, entrambi
guidati da gruppi dirigenti antifascisti, seppure estranei alla tradizione dell’anticlericalismo risorgimentale. Il più clamoroso riconoscimento del ruolo rivestito allora
dalla Chiesa nella società italiana venne, com’è noto, dal voto comunista a favore
dell’articolo 7 della Costituzione repubblicana. Ci fu già allora chi, come Giovanni
Battista Montini, previde che i comunisti avrebbero ampiamente sfruttato quel sostegno, come è poi avvenuto. Malgrado l’evidente strumentalità della scelta allora
compiuta, va tuttavia ricordato che quel voto ha segnato l’inizio del coinvolgimento del Pci nella difesa “della pace religiosa”, poi proseguita nel corso di tutta la storia repubblicana, segnando in profondità anche la parabola di questo partito. Benché meno clamorosa, ancora più importante fu l’azione della Dc a sostegno dell’art. 7: in Aula, il suo impianto giuridico fu presentato da Dossetti e il suo significato politico fu illustrato personalmente da De Gasperi.
Guardando all’impegno di comunisti e democristiani in sede costituente, appare evidente che la scomparsa delle principali forze politiche sostenitrici del rapporto tra Stato e Chiesa fondato allora – e ancora determinanti per l’Accordo del
1984 che, come si è detto, rappresentò il tardivo adempimento di un’esigenza posta già dalla Costituzione del 1948 – ha introdotto un importante elemento di discontinuità. Rispetto al dopoguerra, infatti, non sono scomparsi solo gli uomini e
le donne che furono protagonisti di quella stagione, ma anche le forze politiche
che l’animarono e ne custodirono successivamente l’eredità; non si sono dissolte
solo le tradizioni politico-culturali di quel tempo, ma si sono anche incrinate le ragioni di fondo dell’intesa profonda tra Chiesa e società italiana cementata dalla
guerra e raccolta dalle principali forze popolari del tempo. Nessuna formazione
scaturita dall’eredità del Pci ha mantenuto, nella propria identità politica, la vocazione a garantire la pace religiosa in Italia. Si spiega così la possibilità – impensabile
negli anni settanta – da parte di un gruppo minoritario come i radicali di egemonizzare un ampio schieramento di sinistra nel referendum sulla fecondazione assistita. Conseguenze ancora più rilevanti ha avuto la scomparsa della Dc e anche a
questo proposito il referendum del 2005 appare illuminante: se fosse stato ancora
presente il partito che si assunse la responsabilità politica di guidare il referendum
del 1974 sul divorzio e quello successivo sull’aborto, la Presidenza della CEI non
avrebbe assunto il ruolo che ha invece svolto nella battaglia sulla legge riguardante
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la fecondazione assistita. In questo senso, quelle che ad alcuni sono apparse forme
di ingerenza della Chiesa nella politica italiana vanno messe in diretta relazione
con la scomparsa dei principali garanti della pace religiosa in Italia.
Chiesa e Stato dopo la Dc
• Un aspetto molto importante emerge da confronto tra il presente e il momento fondativo della storia repubblicana. Riguarda il rapporto tra Chiesa e Democrazia cristiana. Agli occhi della prima, infatti, l’importanza storica della seconda oltrepassava largamente l’apporto di questo partito per l’inserimento dei Patti
Lateranensi nella Costituzione. Ancor più del Partito Popolare, la Dc si è collocata
nel solco del tradizionale impegno del laicato italiano in difesa del papa e della
Chiesa, proiettato però su una dimensione nuova e ben più ampia: con il passaggio
dall’opposizione al governo, cominciò allora l’esperimento storicamente inedito
della guida del paese da parte di una classe dirigente cattolica. Si sanava così, radicalmente, il dissidio risorgimentale tra Chiesa cattolica e classe dirigente italiana,
rimasto vivo per tutto il periodo liberale e non del tutto superato neanche dopo
l’avvento del fascismo, malgrado l’accordo del 1929: anche allora, infatti, il papa –
come si è detto – attraverso lo stretto legame fra Trattato e Concordato espresse un
perdurante scetticismo nei confronti delle classi dirigenti italiane, pur ritenendo
quella fascista più affidabile della precedente classe dirigente liberale. Non a caso,
la Chiesa non rimase prigioniera dei buoni rapporti stabiliti – tra alti e bassi – con
il fascismo e prese poi le distanze dalle scelte internazionali del fascismo che stavano conducendo il paese alla rovina. Nel dopoguerra, invece, proprio da dove erano
venuti tanti problemi per la S. Sede, si insediò una nuova classe dirigente, composta da coloro che provenivano dalle file dell’associazionismo radicato nella difesa
degli “interessi cattolici”: alla costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi si affiancò così la garanzia, per certi versi ancora più importante, di una guida della cosa pubblica italiana in mani “sicure”. Ma la Chiesa non guardò alla Dc solo in una
logica difensiva: il suo sostegno a questo partito fu visto da parte ecclesiastica anche come un modo di proseguire l’impegno a favore dell’Italia. Anche grazie a questo sostegno, la Dc ha ripreso la strada aperta dal Partito Popolare, impegnandosi
in un’azione politica che oltrepassava largamente gli interessi cattolici.
Per l’istituzione ecclesiastica, la fine di questo partito ha rappresentato la scomparsa di un interlocutore collaudato. La Chiesa, però, non è tornata allo status quo
ante per quanto riguarda il rapporto con lo Stato italiano. Malgrado il venir meno
di una classe dirigente cattolica alla guida del paese, infatti, la Chiesa non è tornata
alle posizioni che aveva prima della Dc, non è tornata cioè alla diffidenza di un
tempo verso chi guida lo Stato italiano. Dopo il 1994, scomparso un partito dichiaramene “cattolico”, la Conferenza episcopale italiana ha assunto posizioni uffi-
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Agostino Giovagnoli
ciali di equidistanza rispetto a tutte le forze politiche italiane. Ma, da parte dell’istituzione ecclesiastica non sono emerse nuovamente le antiche manifestazioni di distacco, disinteresse o ostilità nei confronti dello Stato o della classe dirigente italiana. Ipotizzare una simile eventualità potrebbe apparire superfluo, tanto la Chiesa
appare lontana da atteggiamenti ottocenteschi. Vale però la pena di sottolineare tale distanza non solo per ribadire che – storicamente – è sempre impossibile il ritorno a situazioni del passato, ma anche per mettere in evidenza la mancanza di intenzioni o tentativi in questo senso da parte cattolica.
Il percorso della “Seconda Repubblica”
• Per chiarire la situazione attuale, è importate sottolineare che le novità degli
ultimi anni sono venute anzitutto da parte italiana. Senza che ce ne rendessimo
conto, la dissoluzione del sistema politico nei primi anni novanta ha incrinato anche le basi dello stretto accordo tra Stato e Chiesa emerso tra guerra e dopoguerra.
La cosiddetta “Seconda Repubblica”, distaccandosi dall’orizzonte fondativo dell’Italia repubblicana e in particolare da un rifiuto morale prima ancora che politico
del fascismo, ha messo inconsapevolmente in discussione anche il patto ricostruttivo post-bellico, animato dal rifiuto della guerra e di cui la Chiesa fu interprete e
garante. Non a caso, come si è visto, i recenti tentativi teocons di stabilire nuovi
rapporti tra Chiesa e laici hanno fondamenti diversi, mentre scomparsi Dc e Pci
non ci sono più forze politiche che portino nel loro dna la difesa intransigente della pace religiosa. Tutto ciò ha fatto emergere un’incertezza di fondo nei rapporti tra
Stato e Chiesa in Italia e molte scelte compiute dall’istituzione ecclesiastica negli
ultimi anni – qualunque giudizio se ne voglia dare – costituiscono anzitutto reazioni ad una nuova situazione creata da altri. In particolare, la scomparsa della Dc ha
imposto alla CEI un ruolo pubblico maggiore del passato, ma non si può rimproverare ai vescovi di aver cercato questa situazione: com’è noto, essi si sono attirati
molte critiche proprio per aver difeso ad oltranza l’unità dei cattolici intorno a
questo partito. Emerge qui una contraddizione di molti laici, in primo luogo dei
radicali, che negli anni ’70 animarono un vivace dibattito sulla “questione democristiana” ed ora finiscono paradossalmente per lamentarsi – pur senza riconoscerlo
– delle conseguenze derivanti dalla scomparsa della Dc. Senza un progetto storico
complessivo sulla collocazione della Chiesa cattolica nella società italiana e sugli
strumenti giuridico-politici per garantirla, l’affermazione del principio di laicità e
l’insistenza sui rispettivi limiti di Chiesa e Stato rischiano di restare mere rivendicazioni di principio.
Riconoscere che la Chiesa non ha preso per prima l’iniziativa ma ha piuttosto
reagito ad una situazione nuova creata da altri è importante per capire il suo attuale
atteggiamento verso l’Italia, passaggio necessario anche per chi vorrebbe limitare
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Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Agostino Giovagnoli
l’attuale impegno ecclesiastico nella politica italiana. Proprio la prospettiva storica
permette tra l’altro di notare che tale impegno si colloca all’interno di limiti precisi
che la stessa istituzione ecclesiastica ha scelto di porsi: come si è detto, la Chiesa non
ha revocato – come si è visto nella difficile transizione italiana degli anni novanta –
il suo impegno a favore dello Stato italiano, per tornare all’ostilità di un tempo. Gli
interventi del card. Ruini – anche in questo caso, indipendentemente dal giudizio
che se ne voglia dare – sono andati in questa direzione, come pure l’indicazione del
metodo democratico, nel VII Forum del Progetto Culturale della Conferenza episcopale italiana, quale strumento ultimo per decidere sulle questioni controverse. A
distanza di oltre un decennio, anche la scelta di sostenere fino in fondo la Dc appare
in una luce diversa, non tanto come un disperato attaccamento ad mondo ormai in
via disfacimento, quanto come la premessa di un atteggiamento “amichevole” pure
nei confronti dell’Italia post-democristiana. Nei suoi orientamenti di fondo, infatti,
la Chiesa continua a puntare sulla conciliazione con l’ Italia, anche se in un momento di relativa freddezza con la classe dirigente italiana è inevitabile che sia spinta a
sviluppare un rapporto più diretto con la società italiana.
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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Ripensare la laicità:
la sfida del pluralismo religioso
L’odierno dibattito sulla laicità presenta alcuni profili
nuovi che lo differenziano nettamente da quello che si
era svolto in Europa tra le rivoluzioni borghesi di metà
Ottocento e la prima guerra mondiale. Allora l’oggetto del contendere era costituito da questioni assai concrete, quali la proprietà ecclesiastica, l’insegnamento
della religione a scuola, l’introduzione del matrimonio
civile: la rivendicazione di laicità si inquadrava nel
processo di affermazione dell’indipendenza e della superiorità dello Stato liberale rispetto alla Chiesa. Oggi
si discute di simboli e ci si divide attorno ad argomenti come il crocefisso, il velo, il riferimento a Dio nei
preamboli delle Costituzioni, la libertà di satira in materia religiosa. Ma dietro a questi temi, apparentemente meno corposi di quelli ottocenteschi, è facile intravedere la questione centrale dell’identità, di cui i simboli sono la manifestazione.
Il problema
• Il tema dell’identità si lega a quella della laicità attraverso due anelli.
Il primo è costituito dal progressivo disfacimento dell’orizzonte – in senso lato cristiano – che aveva per lungo tempo fornito i punti di riferimento a gran parte della popolazione europea. Il processo di individualizzazione, avviato alcuni secoli or sono dalla Riforma protestante e motore per
lungo tempo del progresso economico dell’Europa, intacca
oggi il nucleo di valori etici e culturali condivisi che è comunemente ritenuto indispensabile per una convivenza sociale
pacifica e ordinata. L’indebolimento di questo nucleo identitario pone la domanda, già segnalata anni fa da Bökenförde,
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
SILVIO FERRARI
Università di Milano
≈
“Una laicità
che rinunci alla
pretesa
di proclamare
le verità ultime
ed accetti il
proprio ruolo
– modesto ma
fondamentale –
di permettere
agli uomini
di ricercarle
ed affermarle
è ciò di cui oggi
abbiamo bisogno”
≈
145
Silvio Ferrari
dei presupposti su cui si basa la legittimità dello Stato laico e liberale: quando non
sono più evidenti le fonti pre-politiche a cui può attingere in materia di valori lo
Stato laico, la neutralità assiologica è l’unica opzione che gli resta aperta?
Il secondo anello che unisce laicità a identità è stato saldato, negli ultimi decenni, dall’insediamento in Europa di comunità di persone provenienti da diverse
parti del mondo: ciascuna di esse è portatrice di una identità collettiva che si alimenta di differenti tradizioni culturali, etniche, linguistiche e religiose. La molteplicità di queste esperienze comunitarie interpella la laicità dello Stato da un nuovo
punto di vista, connesso ma non identico al precedente: in questo caso, infatti,
non vengono in gioco soltanto i fondamenti della laicità ma anche i suoi confini, la
capacità dello Stato laico di tracciare “distinzioni inclusive” in grado di definire
uno spazio politico aperto verso l’esterno.
Dalle osservazioni svolte fino ad ora risulta chiaramente che il rapporto tra Stati e religioni non esaurisce più il discorso sulla laicità, che ha assunto dimensioni
più vaste e interessa ormai il modo e gli strumenti con cui lo Stato si pone di fronte
al problema delle diversità culturali, etniche, linguistiche che attraversano la propria popolazione. Ciò non significa, però, che la religione sia emarginata dall’odierno dibattito sulla laicità. Al contrario.
Religione e identità collettiva
• Da alcuni decenni le religioni sono inaspettatamente divenute una forza
capace di coagulare attorno a sé imponenti identità collettive e di configurare
spazi di appartenenza che travalicano i confini del “religioso” e investono ambiti
tradizionalmente riservati (almeno nella tradizione occidentale) alla cultura, all’etica o alla politica. Il processo di deprivatizzazione della religione era stata dapprima segnalato da Gilles Kepel in seno al mondo islamico e poco dopo analizzato da José Casanova con una serie di riferimenti interni al mondo cristiano, dall’America latina alla Polonia: allargando lo sguardo ad Israele o all’India si ha la
conferma della dimensione planetaria di questo fenomeno, che va ben al di là di
un semplice sfruttamento della religione a fini politici. Dopo il declino delle
grandi ideologie secolari, le religioni sembrano infatti essere rimaste le sole a saper parlare “il linguaggio pubblico delle politiche di identità” e – nonostante le
fragilità e le ambiguità interne segnalate da più parti – a saper fornire una chiave
interpretativa della realtà ed un senso di appartenenza a persone schiacciate da
un mercato dove vige la legge del più forte (come ha sottolineato in un recente
saggio Guido Rossi), deluse da un diritto che ha rinunciato al tentativo di assicurare la giustizia (è la conclusione cui perviene Natalino Irti scrivendo di nichilismo giuridico) e spaventate da un progresso scientifico e tecnologico incapace di
darsi regole etiche.
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Il nuovo ruolo giocato dalle religioni (per così dire) “in trasferta”, cioè al di
fuori del campo tradizionalmente loro assegnato, ha posto in crisi i sistemi di regolazione delle diverse sfere sociali in cui è articolata l’attività umana: essi erano infatti stati predisposti per disciplinare differenze religiose che si inscrivevano all’interno di un orizzonte etico-culturale comune e sostanzialmente condiviso. Il pluralismo religioso non è una novità in Europa che per secoli è stata divisa tra ortodossi,
cattolici e protestanti, con linee di frattura che in molti casi correvano all’interno
dei confini di uno stesso Stato: ma, per quanto profonde e conflittuali, queste divisioni si collocavano all’interno di un ambito definito dal riferimento agli stessi testi
sacri (l’Antico e il Nuovo Testamento) e allo stesso corpus interpretativo originario
(la Patristica). Per questa ragione il modo di concepire il rapporto tra uomo e donna, tra cittadino e Stato, tra religione e politica – pur diverso nel mondo protestante, in quello cattolico e in quello ortodosso – non ha mai raggiunto una soglia di
reciproca incompatibilità e ha permesso di sviluppare, al di là delle differenze religiose, un sentimento di cittadinanza comune che sta alla base del processo di unificazione europeo. Naturalmente non sono mancate, nel panorama europeo, comunità religiose che erano portatrici di progetti più o meno alternativi: ma gli ebrei
vennero rapidamente posti di fronte alla scelta tra persecuzione ed assimilazione
mentre i musulmani, dopo l’espulsione dalla Spagna, sono stati relegati in una regione periferica del Vecchio Continente. Non sono neppure mancate, nella storia
dell’Europa, correnti di pensiero secolare, che hanno preso forza con l’illuminismo: ma una volta giunte al potere con le rivoluzioni borghesi e liberali di metà
Ottocento, esse hanno secolarizzato – senza cancellarli – i modelli e gli istituti culturali ereditati dalla tradizione cristiana. Basta ripercorrere la storia del diritto di
famiglia italiano per rilevare che lungo tutto l’Ottocento e buona parte del Novecento esso replica, con poche innovazioni, l’ideale familiare che aveva preso forma
nei secoli precedenti: il matrimonio che, come ha scritto Orio Giacchi, era nato sui
ginocchi della Chiesa, vi resta per lungo tempo anche dopo che essa aveva cessato
(almeno formalmente) di rappresentare la guida della società europea.
Pluralismo religioso, etico, culturale
• Soltanto di recente il pluralismo religioso dell’Europa si trasforma in pluralismo etico e culturale: dapprima, in forma più epidermica, con l’irruzione dei cosiddetti nuovi movimenti religiosi, che importano concezioni della vita e della natura tratte dalle filosofie e dalle religioni orientali; poi, in maniera più massiccia, in
seguito all’immigrazione musulmana, che introduce tradizioni e stili di vita significativamente differenti da quelli praticati dalla maggioranza degli europei; infine a
causa della de-cristianizzazione di strati sempre più consistenti della popolazione,
ormai compiutamente emancipati dall’orizzonte culturale tracciato dalla religione
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dei loro padri (come mostrano le più recenti trasformazioni del diritto matrimoniale di alcuni paesi europei).
Questo nuovo amalgama di pluralismo religioso, etico e culturale definisce in
termini nuovi il dibattito contemporaneo sulla laicità. Esso non ruota più attorno
al solo perno della dialettica tra Stato e Chiesa ma deve fare i conti con la frammentazione etica e culturale alimentata non soltanto da un “individualismo atomizzante (largamente previst[o] e in certa misura mess[o] in conto dai teorici dello
stato liberale)” ma anche dalla divisione della società “in comunità parziali, alcune
delle quali a sfondo etnico-culturale o religioso. E mentre il primo aspetto (l’individualismo) si limita ad affievolire il senso di partecipazione alla vita collettiva, favorendo forme di egoismo senza tuttavia provocare vere e proprie crisi di “lealtà”, il
secondo aspetto (il comunitarismo) innesca il pericolo latente di fedeltà alternative, capaci di contrastare il vincolo di lealtà principale all’autorità statuale”.
L’intreccio di queste due componenti dà la misura della complessità delle questioni riassunte sotto l’etichetta ingannevolmente semplice di laicità. La prima domanda che si impone è la seguente: la laicità dello Stato è uno strumento adeguato
per governare“l’ethos diviso dei cittadini” e garantire il contesto giuridico indispensabile per una convivenza che rispetti il pluralismo senza cadere nell’anarchia
delle regole? Ma a questa domanda (che è provocata dall’individualismo crescente
della società contemporanea) se ne aggiunge ora una seconda, motivata dallo sviluppo delle tendenze comunitaristiche: la laicità dello Stato ha la capacità di scaldare il cuore dei cittadini, di creare un vincolo di solidarietà in grado di competere
con le lealtà particolari e di neutralizzarne le spinte centrifughe? E, tanto nel primo
quanto nel secondo caso, di quale laicità stiamo parlando?
Il campo di gioco: i principi di ragionevolezza e democrazia
• È facile comprendere che non vi può essere una sola risposta a queste domande: ciascun paese infatti si sforza di elaborare le soluzioni più rispondenti alla propria storia e tradizione. Prima di esaminare alcuni di questi tentativi è però bene individuare i confini entro cui ognuno di essi deve collocarsi per poter concorrere alla
formazione di una risposta che abbia la pretesa di valere per l’intera collettività.
Il campo di gioco, infatti, non è neutro ma è definito da due coordinate fondamentali che tutti gli attori sociali (inclusi quelli a carattere religioso) debbono rispettare. La prima esclude che possano venire accolte, come elemento della discussione pubblica attraverso cui si giunge ad una decisione vincolante per l’intera comunità, argomentazioni basate su un riferimento diretto ed esclusivo alla volontà
divina. Non è possibile, per esempio, motivare la propria opposizione ad aborto o
eutanasia soltanto affermando “Dio lo vuole”: è necessario giustificare questa opposizione attraverso un ragionamento che motivi la propria scelta in termini di ri-
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spetto della vita umana e di benefici per l’intera collettività, accettando su questo
terreno di confrontare e bilanciare le proprie posizioni con quelle contrarie. La preferenza per l’una o l’altra soluzione può essere ispirata da convinzioni religiose o
ideali ma esse rimangono sullo sfondo: il dibattito pubblico orientato alle scelte
politiche può essere condotto soltanto sulla base di regole comprensibili ed accettabili all’intera collettività, composta da persone di differenti convinzioni e fedi religiose. La necessità di garantire la partecipazione di tutti al processo da cui nascono
le decisioni che vincolano tutti richiede di organizzare il dibattito attorno ad argomentazioni che tutti possano riconoscere in base al corretto uso della propria ragione.
Una volta esaurita la fase della discussione pubblica, la regola che riscuote l’adesione della maggioranza deve essere accettata da tutti. Ciò significa che una legge
che consenta l’aborto o l’eutanasia deve essere rispettata, una volta che sia stata democraticamente approvata, anche da coloro che ritengono aborto ed eutanasia un
male (fermo restando, ovviamente, il loro diritto a cercare di modificare questa legge, utilizzando a tutti i mezzi consentiti in democrazia, ed a ricorrere all’obiezione
di coscienza, portandone se necessario la responsabilità).
Questo è il principio generale. Ma l’esperienza storica ha mostrato che anche le
democrazie possono impazzire e ha suggerito di introdurre alcuni correttivi al funzionamento troppo meccanico del principio di maggioranza. Il più importante di essi
nasce dall’idea che esistono diritti (e probabilmente doveri) che non possono essere
decisi a maggioranza ma debbono essere riconosciuti a tutti gli uomini per il solo fatto di essere uomini. Questo postulato sottrae alla regola della maggioranza il riconoscimento di alcuni diritti universali (per esempio il diritto alla vita umana) ma non la
loro applicazione concreta (per esempio stabilire, in ogni paese, se la pena di morte
costituisce in se stessa una violazione di questo diritto). Benché non manchino voci
critiche, i diritti fondamentali dell’uomo costituiscono il limite più efficace ai pericoli di degenerazione della democrazia e all’imporsi di una dittatura della maggioranza
potenzialmente in grado di disconoscere qualsiasi diritto della persona.
Si tratta di un campo di gioco assai largo e tale deve restare. Ma definire queste
coordinate non è inutile: esse infatti costringono tutte le istanze particolari a esprimere le proprie specificità in termini più generali e assicurano la parità delle armi
tra le varie proposte in competizione. È stato acutamente rilevato che, accettando
queste regole, le religioni trasformano il proprio messaggio da un’affermazione
universale di una verità particolare in un’affermazione particolare di una verità universale. Ma ciò non significa censurare la pretesa di verità e di assolutezza che è
propria di ciascuna religione bensì regolare la dialettica, nell’ambito della società
civile, di queste differenti pretese: “soltanto all’interno di democrazie laiche le religioni possono, anche in sede civile, tanto non abdicare alle proprie pretese di assolutezza quanto far sì che questa continua contesa avvenga su un piano di uguaglianza e a vantaggio del bene comune”.
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La religione civile statunitense
• Una volta chiarite le regole del gioco, è possibile tornare ai tentativi di dare
risposta alle domande formulate al termine del primo paragrafo.
Si è soliti dire che, nel mondo occidentale, questi tentativi sono riconducibili a
due ideal-tipi fondamentali, la religione civile nord-americana e la laicità europea.
Benché si tratti di una semplificazione grossolana, poiché tanto la prima quanto la
seconda si esprimono in forme così differenti da risultare in alcuni casi sovrapponibili, questa distinzione può servire per introdurre il discorso.
Sarebbe ingiusto negare che l’idea di religione civile (di cui si può discutere la
perdurante vitalità) abbia avuto un ruolo importante nel dare unità ad una popolazione di origine assai composita come quella statunitense. E sarebbe parimenti
stolto omettere di segnalare i limiti di questa stessa concezione (manifestati dalle
ricorrenti tensioni che essa ingenera in alcune comunità cristiane di minoranza, nei
gruppi religiosi più lontani dallo spirito ebraico-cristiano in essa implicito e soprattutto nelle correnti agnostiche e atee) ed il peso che essa ha avuto nello sviluppare
quell’approccio etico-teologico alla politica che è divenuto manifesto – fin nel linguaggio – durante le presidenze di Reagan e di Bush. Ma non è questo il punto. Bisogna infatti chiedersi se questa nozione di religione civile elaborata negli Stati
Uniti abbia qualche chance di svolgere un utile ruolo in Europa, come è stato qualche volta ipotizzato.
Le mie perplessità nascono dall’importanza che, nel determinare l’impronta
del diritto ecclesiastico statunitense, hanno avuto due fattori: da un lato il pluralismo confessionale che, fin dal secolo XVII, ha impedito l’identificazione dei pubblici poteri con una religione di maggioranza; dall’altro la diffidenza verso lo Stato,
insita nelle stesse vicende che hanno portato all’emigrazione dall’Europa dei padri
pellegrini, che ha limitato lo sviluppo dell’amministrazione pubblica in molti settori e ha indotto tutte le confessioni religiose ad assumere moduli organizzativi di
stampo privatistico.
• Queste due caratteristiche rendono difficile l’esportazione in Europa del
modello statunitense. La storia europea non è infatti contraddistinta dal pluralismo confessionale ma dalla prevalenza, in ciascuno Stato, di una o al massimo due
religioni che hanno potentemente contribuito a fornire i paradigmi, i riti e gli ideali attorno a cui si è formata l’identità nazionale. Una religione civile di stampo statunitense – caratterizzata da un Dio impersonale in cui tutti (dal musulmano all’indù al filosofo kantiano) debbono potersi riconoscere – troverebbe i suoi primi
avversari proprio in queste confessioni religiose, che ben difficilmente sarebbero
disposte a far getto della propria funzione storica di fonti etiche della convivenza
civile: non è un caso, per fare un esempio, che la Chiesa cattolica abbia dato battaglia per inserire nel preambolo della costituzione europea un riferimento alle radici
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cristiane dell’Europa e non (come sarebbe stato probabilmente più facile) a Dio o
alla religione.
Questa ostilità delle grandi religioni fa il paio con quella delle correnti più secolari dell’opinione pubblica europea, convinte che la religione civile à l’americaine
funzionerebbe in Europa come il cavallo di Troia per ampliare sempre più l’influenza delle confessioni religiose sulla sfera pubblica, celando sotto l’etichetta di
religione civile la rivendicazione per il cristianesimo (a livello europeo) e per il cattolicesimo (a livello italiano) di fornire le linee direttrici dell’etica pubblica.
In secondo luogo, l’apparato statale svolge un ruolo qualitativo e quantitativo
più rilevante nei paesi europei che negli Stati Uniti, caricandosi di compiti – si
pensi all’educazione, alla sanità, all’assistenza e previdenza sociale – che in questi
ultimi sono largamente lasciati ai privati. In questo contesto il secolare intreccio di
interessi e competenze tra Stati e religioni che caratterizza l’Europa rende difficile
ipotizzare una decisa sterzata verso il separatismo istituzionale di Stato e Chiesa
che è l’altra faccia della religione civile degli Stati Uniti.
Come si è già ricordato, l’accettazione di elementi religiosamente connotati in
alcuni momenti e profili della vita pubblica è bilanciata negli Stati Uniti dalla cura
(talvolta esasperata) posta nell’evitare che la pubblica amministrazione possa favorire una religione rispetto a un’altra oppure “religion over irreligion”. Ciò ha condotto ad escludere forme di sostegno statale alle religioni che sono invece comuni
in molti paesi europei, dal finanziamento pubblico delle confessioni religiose all’insegnamento della religione nelle scuole dello Stato. Ma questa scelta – che ha
un impatto relativamente limitato negli Stati Uniti, dove il settore privato è decisamente più forte di quello pubblico – avrebbe invece effetti emarginanti in Europa,
dove la scuola, la sanità e molti altri luoghi centrali della vita associata sono ancora
largamente in mano pubblica. Un conto è proibire l’insegnamento della religione
nelle scuole pubbliche in uno Stato dove la maggior parte delle scuole è privata, un
altro conto è imporre la stessa proibizione in paesi dove il sistema scolastico è a prevalenza pubblica. Importare la concezione statunitense di religione civile implicherebbe per molti paesi europei (tra cui l’Italia) procedere ad una laicizzazione delle
istituzioni pubbliche che né le Chiese né gli Stati sembrano disposti ad introdurre.
Il cristianesimo come religione civile europea
• L’impossibilità di trapiantare in Europa l’esperienza della religione civile
americana ha indotto alcuni studiosi, uomini politici ed esponenti delle Chiese cristiane ad indicare più o meno esplicitamente una diversa strada, quella di fare del
cristianesimo la religione civile dell’Europa. A loro giudizio, per “garantire, nell’attuale società libera e democratica i fondamenti morali della convivenza e in ultima
analisi una comune visione del mondo”, è necessario rifarsi al patrimonio del cristianesimo: questo infatti ha ancor oggi la capacità di “alimentare, in un’ottica non
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confessionale ma pienamente rispettosa della libertà religiosa e della distinzione tra
Chiesa e Stato, una visione della vita e alcuni fondamentali valori etici che forniscano le basi dell’identità delle nostre nazioni”.
Questo progetto – che ha preso forma in occasione del dibattito sulla costituzione
dell’Unione europea e sull’opportunità di inserire nel suo preambolo un riferimento
alle radici ebraico-cristiane dell’Europa – merita più attenzione di quella che gli è solitamente dedicata. Esso infatti trova un punto di forza nel fatto, rilevato da più d’un
sociologo, che la crescente secolarizzazione della vita privata dei cittadini europei non
sembra incidere sul riconoscimento alla religione di un valore di civiltà. Anzi, il dato
più interessante di queste analisi sociologiche sta proprio nella dimostrazione che l’apprezzamento della valenza culturale ed identitaria della religione è in aumento: molti
europei mostrano un significativo attaccamento ai simboli religiosi cristiani anche
quando non osservano più i precetti di questa religione e non si annoverano tra i suoi
fedeli. Ma in tal modo il ruolo storico giocato da una religione particolare cessa di essere semplicemente la premessa per disciplinare i rapporti tra lo Stato e quella religione e diviene l’orizzonte culturale ed etico a cui il legislatore statale deve ispirarsi nello
svolgimento di tutta la sua attività, dal diritto di famiglia a quello della scuola.
L’intento di questo progetto è chiaro: la proclamazione, nel preambolo o nel
testo di una legge dello Stato, della sua ispirazione cristiana intende rafforzare l’identità culturale europea, nella convinzione che “senza un senso collettivo, senza
l’adesione ad una fede, senza un credo comune – dunque, senza un fondamento
morale – una società si indebolisce, scolora, perisce”. Quali sono le obiezioni e le
riserve che esso ha suscitato?
È evidente che questa strada, per essere percorsa fino in fondo, comporta alcuni difficili passaggi. Il primo consiste nel raggiungere un sufficiente livello di unità
tra le Chiese cristiane, superando per esempio i contrasti che hanno gravemente
incrinato le relazioni tra Chiesa cattolica e Chiese ortodosse; il secondo implica la
capacità di mantenere aperto il dialogo con la cultura di ispirazione laica e secolare,
rinunciando a chiusure intransigenti e condanne senza appello. Senza attraversare
con successo questi delicati crocevia, è improbabile che il cristianesimo possa presentarsi come la religione civile di tutti gli europei.
Ma al di là di queste difficoltà esistono due obiezioni di fondo. Una di esse ha
natura socio-politica. Non vi è dubbio che il cristianesimo costituisca il riferimento etico centrale e sia in grado di “scaldare i cuori” di una parte della popolazione
europea, non limitata ai fedeli delle Chiese cristiane. Ma, anche lasciando da parte
le voci critiche che all’interno di queste si sono levate, resta comunque una parte
altrettanto importante che non si riconosce in questo disegno: in un’Europa destinata a divenire religiosamente sempre più pluralistica, il tentativo di fondare un’etica condivisa sui valori cristiani può risultare troppo poco inclusivo.
In secondo luogo – e questa volta il problema è concettuale – è possibile chiedersi se un riferimento normativo al cristianesimo non introduca una terza coordi-
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nata che delimita il campo di gioco e ne esclude proposte e progetti che, pur rispettando i principi di ragionevolezza e democrazia, siano estranei alla tradizione cristiana. Se non si vuole svuotarlo di significato, il riferimento alla eredità cristiana
implica necessariamente un orientamento che conduce a privilegiare, nelle scelte
del legislatore statale, le soluzioni maggiormente in linea con questa tradizione religiosa: questo esito è pienamente legittimo, ma solo al termine di un processo di selezione in cui tutti i concorrenti si muovano in condizioni di parità, senza che ad
uno di essi sia riconosciuta per legge una posizione di vantaggio.
La laicità europea
• Alla religione civile americana ed alle sue varianti viene spesso contrapposta
la laicità europea. Questa espressione evoca in realtà qualcosa che non c’è: per
quanto sia in corso un processo di avvicinamento dei diversi sistemi di relazione tra
Stato e Chiesa, resta difficile parlare di laicità dello Stato in paesi dove il sovrano è
al tempo stesso il capo della Chiesa o una legge qualifica una religione come dominante. La costruzione di un discorso pubblico che prescinda, almeno tendenzialmente, da riferimenti e simboli religiosi ha acquistato uno spessore giuridico soltanto nei paesi che fanno parte del “blocco confessionale cattolico” (Portogallo,
Spagna, Francia, Belgio, Italia) e in alcuni che appartengono alla “cintura multiconfessionale” che lo circonda (l’Olanda, per esempio): ed anche entro questi limiti la laicità dello Stato presenta articolazioni e deviazioni molto evidenti.
In relazione a questi paesi la differenza con gli Stati Uniti può essere sintetizzata con la seguente affermazione: la religione civile statunitense, nelle sue diverse
correnti, ha svolto la funzione di porre in evidenza “the nexus of the political order
to the divine reality”; la laicità europea, anch’essa articolata in molte e differenziate
versioni, è servita invece a sottolineare l’indipendenza di queste due sfere.
Al di là di questa affermazione assai generale è difficile andare, senza introdurre
almeno una distinzione tra due tendenze che percorrono la laicità europea. Esse
non possono venire identificate con una specifica tradizione culturale né costituiscono il modello di laicità proprio di uno o di un altro paese: rappresentano invece
linee di forza trasversali che, in misura diversa, contribuiscono a configurare la laicità di ciascuno Stato.
La laicità come religione civile dell’Europa
• Si è già ricordato che religione civile è una nozione polisema: essa può significare anche la sacralizzazione di simboli e concetti secolari, attorno a cui si organizza la vita della società civile. La laicità non è sfuggita a questo destino: anch’essa
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è stata concepita e costruita come principio e valore universale, in grado di inglobare e riconciliare i particolarismi dei diversi gruppi sociali.
I sostenitori di questa idea di laicità intendono l’identità di un popolo o di una
nazione come condivisione di alcuni valori universali e astratti capaci di abbracciare tutti i cittadini a prescindere dalle loro appartenenze religiose, culturali, etniche
o razziali: libertà, uguaglianza, tolleranza sono i principi attorno a cui si costruisce
la cittadinanza. Questi principi sono riassunti nella laicità che, per usare le parole
di Chirac, si trova “au cœur de notre identità républicaine”.
Questa concezione della laicità implica un certo grado di “déconnexion du citoyen de ses appartenances”, che restano tendenzialmente confinate nella sfera privata, e soprattutto il bando di ogni particolarismo culturale e religioso dallo spazio
pubblico. In questa prospettiva lo Stato laico assume i caratteri di una casa comune
a tutti i cittadini, in cui essi possono entrare e sentirsi a proprio agio proprio perché è priva di qualsiasi segno distintivo particolare, che la contraddistingua come
appartenente ad una religione, una cultura, una etnia specifica: è la laicità, ha dichiarato un primo ministro francese, che “permet à la France de ne pas être une
juxtaposition de communautés”. Da qui all’affermazione che Stato laico significa
Stato neutro di fronte ad ogni convinzione o religione il passo è breve: la neutralità
delle istituzioni pubbliche è il presupposto che consente al cittadino – qualsiasi fede o convinzione professi – di identificarsi con lo Stato.
Sarebbe un errore (e lo si è già detto) considerare questa concezione di laicità
l’appannaggio di una sola nazione. Essa è sottesa alla legge francese sul velo islamico, ma anche alle norme che impongono il matrimonio civile obbligatorio in Germania e in altri paesi, alla sentenza della Corte costituzionale italiana sul giuramento decisorio o a quella sul Refah Partisi della Corte europea di Strasburgo: ciò
che accomuna queste fattispecie, apparentemente eterogenee, è la scelta a favore di
una regola generale, applicabile in forma indifferenziata a tutti i cittadini, pur
quando sarebbe possibile un’altra opzione (previsione di una pluralità di forme
matrimoniali, formule di giuramento, tipi di abbigliamento) che, in se stessa, non
viola il principio di uguaglianza.
Questa forma di laicità si afferma più facilmente quando può fare riferimento
ad un’esperienza forte di condivisione dei valori universali posti a fondamento dell’identità nazionale (la Rivoluzione francese, in un certo periodo storico anche il
Risorgimento italiano), può avvalersi di uno “Zeitgeist” fiducioso nelle capacità
della ragione di imporre le proprie regole su scala planetaria (il progresso della
scienza tra Ottocento e Novecento; il riconoscimento dei diritti dell’uomo dopo la
seconda guerra mondiale) e può svilupparsi in un contesto sociale organizzato attorno al rapporto Stato-individuo, senza lasciare troppo spazio a corpi e società intermedie.
Non sembra che questi caratteri conservino oggi la forza di cui avevano goduto
in passato e ciò potrebbe spiegare perché questa concezione della laicità appaia
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“fredda” e scarsamente capace di creare legame sociale e solidarietà tra i cittadini.
Pochi oggi si sentirebbero di sottoscrivere l’opinione di Condorcet, secondo cui il
bene pubblico è necessariamente riconosciuto e rispettato dal popolo quando esso
sia stato affrancato dall’ignoranza e dalla superstizione attraverso l’opera dell’istruzione liberatrice.
Al di là di questo limite, l’aspetto più problematico della concezione ora descritta è quello di pensare alla laicità come ad un “punto di osservazione, al di sopra
di tutte le tradizioni e teologie, dal quale qualcuno super partes possa decidere”: ne
consegue la tendenza a interpretare la laicità come un programma che lo Stato ha il
dovere di imporre sulla società, in modo da realizzare quella “abolition de toute
mise en tutelle de la conscience humaine” in cui si sostanzia “le processus d’émancipation laïque”. Di qui la facilità con cui si scivola nella rivendicazione di “autonomie du politique et de la société civile à l’égard des normes religieuses et philosophiques particulières”, trascurando che – in una visione non totalitaria della laicità – questa rivendicazione può riguardare soltanto lo Stato e le sue istituzioni,
non la società e neppure la politica.
La laicità come regola del pluralismo sociale
• La laicità può però essere interpretata anche in maniera differente, meno debitrice delle ascendenze ottocentesche di questa nozione e più attenta alla complessità della società contemporanea.
Questa seconda interpretazione della laicità non nega i valori universali da cui
muove la prima, ma ne sottolinea da un lato la generalità (che lascia ampio spazio
alle loro traduzioni particolari) e dall’altro la possibilità di applicazioni differenziate: in tal modo lo spazio pubblico viene organizzato in maniera maggiormente pluralistica così da limitare i casi in cui i cittadini sono costretti a rinunciare a manifestarvi le proprie credenze e appartenenze. Anzi, questa idea di laicità poggia sulla
convinzione che soltanto l’apertura al particolare possa creare un sentimento di fiducia nelle virtù della laicità stessa: in questa prospettiva il cittadino si trova a proprio agio nella casa comune rappresentata dallo Stato laico esattamente perché vi
ritrova i simboli e i segni della propria tradizione particolare, accanto a quelli di altre tradizioni. Non è la laicità in se stessa a scaldare il cuori dei cittadini, ma la libertà che essa garantisce a ciascuno di essi di affermaree i valori in cui crede. La laicità non viene quindi definita in termini di contenuti o di programma ma piuttosto di metodo: essa si risolve in una “attitudine aperta ed estensiva che offra un
equo sostegno alla libertà religiosa di tutte le confessioni”. Anziché rappresentare
un complesso di valori universali, la laicità individua la strada e lo strumento che
permette ai valori particolari di ciascuna comunità di fede e di convinzione di contribuire a comporre il quadro dei principi comuni a tutta la comunità statale. Si
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tratta dell’idea di laicità che anima i sostenitori dell’insegnamento di più religioni
nella scuola (in luogo di nessuna religione o di una sola religione), della possibilità
di regimi di alimentazione differenziata nelle mense delle istituzioni pubbliche, di
reparti distinti per religione nei cimiteri; che, di fronte all’alternativa secca tra
esposizione del crocefisso nell’aula scolastica o assenza di qualsiasi simbolo religioso, è incline ad esplorare la possibilità di esporre simboli di religioni e concezioni
della vita diverse.
Più che nei risultati (che in taluni casi coincidono) questa tendenza si differenzia dalla precedente nell’approccio: essa infatti muove da un atteggiamento simpatetico verso il pluralismo organizzativo e normativo emergente a livello sociale ed è
disposta a fargli spazio finché non urta chiaramente contro i valori indisponibili su
cui è basata la convivenza civile.
Due sono i pericoli insiti in questa concezione di laicità pluralistica: da un lato
la sua degenerazione in un comunitarismo che frammenti la compagine sociale e
faccia prevalere la fedeltà al gruppo di appartenenza sul vincolo di cittadinanza;
dall’altro la difficoltà di gestire un modello che esige continue mediazioni per tradurre in norme il punto di equilibrio tra universale e particolare ritenuto soddisfacente dalla comunità dei cittadini.
Queste due concezioni della laicità si intrecciano e combinano, in forme e misura differenti, all’interno delle scelte politiche e giuridiche di ciascuno Stato europeo: la questione quindi non è quella di scegliere l’una o l’altra ma di trovare un
punto di equilibrio tra entrambe. Un rapido esame delle sentenze della Corte costituzionale può servire per illustrare la direzione che questa ricerca ha preso nel
nostro paese.
Quale laicità per l’Italia?
• Il punto di partenza è costituito dalla decisione del 1989 che, definendo la
laicità dello Stato un principio supremo dell’ordinamento costituzionale, ne offre
una prima definizione. La laicità, afferma la Corte costituzionale, esclude tanto la
confessionalità dello Stato quanto una “astratta ed ideologizzata” estraneità e ostilità verso le religioni e richiede che lo Stato si ponga “al servizio di concrete istanze
della coscienza civile e religiosa dei cittadini”, assicurando “la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
Questa definizione, per quanto iniziale, indica una direzione. La Corte non intende la laicità come “un paradigma dotato di valenza autonoma, cui uniformare i
rapporti tra la sfera civile e quella religiosa” ma come “un portato dell’architettura
costituzionale” definito dagli articoli 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione. Essa
quindi non individua un contenuto proprio della laicità – la separazione tra Stato e
Chiesa, la neutralità dello Stato e via dicendo – ma la concepisce come un princi-
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pio aperto, il cui carattere principale è l’attitudine a recepire le istanze della società
civile e religiosa: lo Stato laico non elabora un proprio programma di disciplina ed
organizzazione della società ma accoglie le proposte e richieste che da essa provengono. Il proprium della laicità si riduce quindi alla garanzia del pluralismo e, in
particolare, della libertà religiosa. I limiti di questa definizione sono abbastanza
evidenti, ma importa sottolineare che questa concezione della laicità ha il merito di
porre subito in chiaro il nesso che la lega al pluralismo sociale, fissando un indirizzo che viene mantenuto in molte decisioni successive.
Considerando gli esiti a cui giunge nel suo complesso la giurisprudenza della
Corte costituzionale mi pare prenda forma una “via italiana” alla laicità. Essa muove da una concezione molto moderna della laicità, intesa come principio regolatore
degli scambi tra una società pluralistica e le istituzioni statali: all’interno di questo
ampio orizzonte, la distinzione tra ordine politico e religioso funziona come elemento di specificazione del principio di laicità quando vengono in gioco fedi religiose e concezioni della vita, cioè elementi che – radicati nella coscienza individuale – appartengono “ad una dimensione che non è quella dello Stato e del suo ordinamento giuridico” e vanno quindi rispettati nella loro alterità ed irriducibilità.
La combinazione di questi due elementi esclude che la distinzione tra gli ordini
sia concepita come una cortina impenetrabile e impermeabile: il “muro della separazione” di cui parlano gli americani viene costruito con materiali porosi, che lasciano filtrare all’interno delle istituzioni statali (non la totalità ma) una parte dei
simboli, delle regole, delle fedeltà, delle appartenenze – insomma, dei valori particolari – che contraddistinguono la società religiosa e, viceversa, impongono a quest’ultima il rispetto (non di tutte le norme che lo Stato produce per regolare l’organizzazione della società civile ma) di quella parte di regole che è imprescindibile
per garantire la convivenza e la pace sociale.
Legami sociali e forti valori
• Lo spirito dei tempi, dominato dalla logica dello scontro delle civiltà, spinge
a rifondare il legame sociale su valori forti capaci di riscuotere la partecipazione
emotiva (più ancora che l’adesione intellettuale) della maggioranza dei cittadini
europei: ma la competizione tra cristianesimo e laicità per assumere il ruolo di perno della religione civile dell’Europa non porta necessariamente ad escludere dal
gioco l’uno o l’altra. Le analisi dei sociologi e dei giuristi mostrano che la reintroduzione di riferimenti al cristianesimo nelle leggi e nelle istituzioni pubbliche può
andare di pari passo con la laicizzazione (rectius: secolarizzazione) della vita privata,
frutto di un processo di individualizzazione delle scelte personali che è iniziato
molti decenni or sono e non mostra segni di stanchezza. La scissione del binomio
tra secolarizzazione della vita privata e laicizzazione della vita pubblica che aveva
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Silvio Ferrari
contraddistinto la maggior parte degli ultimi due secoli sembra essere il primo approdo della post-modernità.
L’una e l’altra prospettiva non sono prive di limiti. Il cristianesimo come religione civile rischia di non “vedere” e non saper interpretare il pluralismo di fedi e
di convinzioni che caratterizza l’Europa contemporanea; la laicità come religione
civile rischia a sua volta di non capire le ragioni profonde del ritorno del religioso
sulla scena pubblica e di ricorrere a mezzi illiberali (velo islamico docet) per combatterlo.
Per questa ragione entrambi gli scenari richiedono un principio regolatore in
cui, a mio parere, sta il vero significato e la vera utilità della laicità. Essa in primo
luogo impone le forme di ragionevolezza e democraticità in cui deve essere calato
qualsiasi discorso pubblico; poi evita che, attraverso una sorta di spoil system, lo
Stato e le sue istituzioni vengano aggiudicate a una sola verità, trasformando i pubblici poteri in strumenti “per formulare in modo uniforme le appartenenze ultime,
le credenze e le preferenze dei cittadini”. Senza escludere che esista una verità, lo
Stato laico dichiara la propria incompetenza ad accertarla e lascia questo compito
di definizione e proposizione dei valori “ultimi” ad una serie di “agenzie” (tra cui le
chiese) che agiscono in regime di pluralismo e da cui la legislazione statale può essere influenzata (in proporzione alla recezione di quei valori nel corpo sociale) ma
non “sequestrata” (nel senso che non può identificarsi con alcuno di quei sistemi di
valori). Una laicità che rinunci alla pretesa di proclamare le verità ultime ed accetti
il proprio ruolo – modesto ma fondamentale – di permettere agli uomini di ricercarle ed affermarle è ciò di cui oggi abbiamo bisogno.
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Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Per una laicità “deliberativa”
Se le autorità secolari venissero poste «a servizio» di
quelle ecclesiastiche – scriveva Salvemini – «i peccati
diventerebbero delitti» e si scambierebbe il diritto di
consigliare i fedeli e magari di condannarli al fuoco
eterno, «ma nell’altra vita», con quello di fare le leggi
che valgono per tutti. Di qui l’impegno per una rigorosa «secolarizzazione delle istituzioni politiche» (cfr.
Opere, vol. V, Milano 1966, p. 906).
• È una tesi che riassume in effetti un lungo processo, le
cui radici, nell’Europa cristiana, vanno cercate nelle antiche
contese fra Chiesa e Impero e poi, soprattutto, nell’esperienza sanguinosa delle guerre di religione. Le diverse fedi possono convivere in un unico spazio di cittadinanza e sotto un
unico sovrano, a condizione che vengano “privatizzate”.
Locke escludeva la tolleranza per i cattolici, oltre che per
gli atei, proprio per l’impossibilità di procedere nei loro confronti ad una tale neutralizzazione, dato il vincolo dell’obbedienza al papa, prima che al re.
Laicismo e Laicità
• Vi sono sempre state, tuttavia, almeno due interpretazioni di questa secolarizzazione, che sono poi la filigrana della fin troppo abusata distinzione fra laicismo e laicità. Per la
prima le “ragioni” della fede sono intransigentemente destinate alla “invisibilità” pubblica, insieme alle pratiche e ai
simboli di appartenenze tutte ugualmente irrilevanti sulla
scena della politica e delle istituzioni. È l’idea di quella
uguaglianza puramente e interamente civile che la Francia
rivoluzionaria trasformò in una religione appunto civile.
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
STEFANO SEMPLICI
Università di Roma
Tor Vergata
≈
“… tenere insieme
due valori
complementari:
il rispetto
del principio di
uguaglianza …
e il metodo
deliberativo
come attività
consapevole
di discussione
e ponderazione
dei problemi
di interesse
pubblico…”
≈
159
Stefano Semplici
Clermont-Tonnerre, nel 1789, proponeva in questo senso all’Assemblea nazionale
una tesi senza chiaroscuri: «agli ebrei come nazione tutto va negato, agli ebrei come
individui tutto va concesso» (cit. da G. Sadun Bordoni, L’ordine infranto, Torino
2004, p. 173).
• Non è questa, però, l’unica possibilità. La stessa esperienza italiana ha dimostrato come sulla definizione dei valori “costituzionali” fondamentali possano convergere con successo vocabolari e tradizioni anche di matrice religiosa, che in quanto tali
definiscono una cultura di sfondo condivisa e contribuiscono alla pari, se non
addirittura in misura dominante, alla costruzione delle istituzioni della democrazia. Come ha ben evidenziato Charles Taylor, inoltre, la pregiudiziale esclusione
della religione dall’elenco delle sorgenti “legittime” dei valori condivisi può facilmente apparire come l’esorbitante pretesa di una «lobotomia spirituale», una discriminazione che avviene di fatto in nome e per conto di credenze «metafisiche»
rivali e non «come un semplice atto di protezione e controllo dei confini di una
sfera pubblica comune e indipendente» (Modes of secularism, in Secularism and its
critics, a cura di R. Bhargava, Oxford 1998, p. 36). Anche un autore come Habermas apre al contributo delle grandi tradizioni religiose per sostenere il programma
politico di una nuova «solidarietà post-nazionale» basata sull’universalità dei diritti
umani. Fanno bene, dunque, a preoccuparsi i garanti della distinzione “laicamente” non negoziabile fra i peccati e i delitti? In che modo, se ve n’è uno, questo “ritorno in pubblico” della religione può essere vissuto come una risorsa per la democrazia e non come un debordare “incontinente” oltre i limiti della consapevolezza
che pensiero critico e istituzioni politiche secolarizzate non sono per questo necessariamente irreligiose o addirittura antireligiose?
I valori transitivi della religione
• Su un punto, probabilmente, il consenso è più facile. Non è più “in nome di
Dio” che si fanno le leggi, ma l’esperienza religiosa, in tanto in quanto esperienza di
comunità e spinta ad un riconoscimento di dignità e di bisogni sul presupposto
“morale” della fratellanza, può continuare a trasmettere «valori e fiducia al sistema
politico democratico» (P. Donati, Pensare la società civile come sfera pubblica religiosamente qualificata, in Multiculturalismo e identità, a cura di C. Vigna e S. Zamagni,
Milano 2002, p. 98) sull’asse di una trascendenza aperta e dunque intrinsecamente
plurale. Non è in questione, in altri termini, l’autonomia della politica dalla religione e, con essa, l’idea moderna di Stato. Nel secolo appena trascorso, tuttavia, si è definitivamente consumata l’illusione che la sintesi appunto politica delle differenze
potesse ritrovare il volto di una sintesi organica, della rousseauiana volontà generale.
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Stefano Semplici
La religione, anche nel cono d’ombra dei totalitarismi, ha mantenuto il senso
della laicità della politica come consapevolezza del suo limite, dello scarto insuperabile fra storia e giustizia, che mantiene la tensione alla seconda senza chiudere le
forme della prima nella rigidità dei fondamentalismi di ogni genere. E questo la religione può continuare a fare: conservare la promessa del bene (comune) e anticiparne la realizzazione nella forma simbolica del rinvio e in quella pratica della testimonianza, anche di principi morali liberamente offerti per una possibile condivisione. Non è però a questo livello che nascono le difficoltà. Esse si pongono per
quello che Rawls definisce l’esercizio dell’idea di «ragione pubblica» in senso stretto, cioè nel «foro politico pubblico» in cui operano legislatori, giudici, membri dell’esecutivo e altri funzionari dello Stato. È nei tribunali e nei parlamenti, per quanto la questione si proponga in termini molto diversi in Europa e negli Stati Uniti,
che la pronuncia del nome di Dio e soprattutto l’utilizzazione delle “ragioni” della
fede non appaiono “politicamente corretti”. Hic Rhodus, hic salta.
La progressiva erosione di un nucleo di moralità sostanziale della quale di fatto
“non si discute” è di per sé un fattore di rischio per il cosiddetto “capitale sociale”:
apre nuove opportunità, ma anche faglie di tensioni prima sconosciute. Cresce
continuamente l’orizzonte delle ragioni altre, che per il fatto di essere tali non possono semplicisticamente essere liquidate come cattive ragioni. Tanto più in un paese come il nostro, dove più recente è l’impatto di un pluralismo forte e della conseguente divaricazione di valori e stili di vita, che costringe anche il cattolicesimo a
ripensare il suo ruolo e i modi della sua presenza.
Rapporto verità e coscienza
• Il Concilio aveva riconosciuto che «la città terrena, a ragione dedicata alle
cure secolari, è retta da propri principi», rigettando però con forza, insieme alla
semplicistica gerarchizzazione del temporale rispetto allo spirituale, «l’infausta dottrina, che si sforza di costruire la società senza tenere alcun conto della religione»
(Lumen Gentium, 36). Si pongono subito due problemi, la cui soluzione è affidata
a un equilibrio difficile. Il primo è il rapporto fra la Verità e la coscienza, ineludibile nel contesto di una cultura segnata in profondità dal primato della soggettività e
del principio di autodeterminazione. La Dignitatis humanae, per esempio, affermava senz’altro che l’uomo è «tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività» la coscienza e non può mai essere obbligato ad agire contro di essa, ma richiamando subito il fedele «all’obbligo grave di conoscere la verità, da Lui ricevuta, sempre meglio, di annunciarla fedelmente, di difenderla con fierezza» (nn. 3 e 14). Ci sono,
come si esprime la Gaudium et Spes, alcuni «costitutivi» dell’uomo, fra i quali in
primo luogo la sua intelligenza, ma anche la capacità di scoprire «una legge che
non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire» (nn. 14-16). La stessa auto-
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Stefano Semplici
nomia del temporale non è di conseguenza incondizionata. Il Catechismo della
Chiesa cattolica, citando appunto la Lumen Gentium e, attraverso essa, la celebre distinzione di Maritain, conferma l’invito ai laici a distinguere tra i diritti e i doveri
che loro incombono in quanto fanno parte della Chiesa e quelli che loro competono «in quanto membri della società umana», aggiungendo però che nulla, anche in
questo ambito, «può essere sottratto al dominio di Dio» (n. 912).
• Proprio in Umanesimo integrale, d’altra parte, il riconoscimento del pluralismo nei modi di concepire il senso della vita e le forme del comportamento avviene sotto il segno della mera tolleranza, necessaria solo «per evitare mali più grandi»:
è alla «perfezione del diritto naturale» che resta orientata «la struttura giuridica
pluriforme della città» (Umanesimo integrale, Roma 1980, p. 201). Il cristiano,
inoltre, sa che ci sono questioni nelle quali lo spirituale raggiunge il temporale, perché ne va del «bene» stesso di quest’ultimo. Anche qui egli agisce «proprio in quanto cristiano e in tale misura impegna la Chiesa» (ibi, p. 312). Nella cultura cattolica
rimane forte la presenza di un orientamento in senso lato (gius)naturalistico, che si
sottrarrebbe all’accusa di confessionalismo proprio per la sua evidenza razionale.
La stessa teorizzazione dei diritti umani universali – si sostiene – dimostra come vi
sia una dimensione “ontologica” indisponibile e inviolabile, che la si riconosca o
meno ancorata al progetto di Dio sull’uomo. E questo spiega perché il confronto
polemico con i “laicisti” possa talvolta assumere il tono di una contesa sul corretto
uso della ragione, reclamato vigorosamente da entrambe le parti.
Il confronto tra uguali
• La prospettiva cambia, tuttavia, se si accetta l’idea che le questioni morali,
pur avendo a che fare con l’essere, con la “natura” dell’uomo, non sono ad essi “riducibili” e si caricano per questo di una specifica responsabilità, per la quale non si
tratta più di tollerare la differenza (col rischio di ritrovarsi, prima o poi, semplicemente tollerati…), bensì di riconoscerla sul piano di un confronto fra uguali. Le
opzioni sembrano allora raccogliersi intorno a due modelli principali.
Il primo corrisponde ad una strategia di “traduzione”, “condivisione” e “deistituzionalizzazione”. L’identità politica ha bisogno di un éthos intessuto di solidarietà
e di valori comuni, soprattutto per arginare l’egemonia della razionalità economica
univocamente interpretata secondo il paradigma neoliberista, la cui conseguenza
può essere la liquidazione appunto della politica come forma regolatrice autonoma
dello spazio pubblico dei bisogni e degli interessi.
I sistemi democratici, in altri termini, hanno bisogno di una quotidianità
“spessa” di vissuto condiviso, perché la razionalità delle procedure non genera da
sola quel patriottismo nel quale Hegel aveva esplicitamente riconosciuto il «senti-
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Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Stefano Semplici
mento politico fondamentale» (Filosofia del diritto, § 268). È questo sentimento
che nutre la «fiducia» del cittadino nelle istituzioni e nella loro capacità di garantire
il suo bene insieme a quello degli altri. Ed è per questo – aggiunge significativamente Hegel – che la religione «autentica» non può entrare in polemica con lo Stato, ma anzi lo integra e sostiene «per la profondità del sentimento», ottenendone in
cambio aiuto e protezione (ibi, § 270).
La religione viene deprivatizzata “per amor di patria”, anche per vie interne al
pensiero laico e liberale, quando l’orchestra di Ronald Dworkin non può più essere
accettata come compiuta metafora dell’agire politico. L’esempio è noto. Dworkin
fa propria l’idea di una unit of agency, di una comunità politica il cui buon funzionamento è “sentito” e quindi “voluto” dai singoli cittadini come elemento costitutivo della loro vita, ma questa condivisione si limitata rigorosamente all’insieme
delle decisioni legislative, esecutive e giudiziarie e alle procedure che le regolano,
così come l’intenzione cooperativa di un gruppo di musicisti si esaurisce nella corretta esecuzione di un brano e nessuno si interessa della loro vita sessuale privata,
nessuno chiede loro di agire sessualmente seguendo un unico spartito (cfr. La comunità liberale, in Comunitarismo e liberalismo, a cura di A. Ferrara, Roma 2000,
pp. 195-228).
La politica pervasiva
• Il problema è che la politica e le sue scelte incidono sulla vita di ciascuno
non in modo parziale e settoriale, ma pervasivo, plasmandone non solo le prospettive di benessere, ma anche l’educazione e le opportunità di sviluppare la sua personalità secondo modelli (si pensi solo al tema della famiglia) che non sono mai
“moralmente” indifferenti. Per Hegel era interesse dello Stato che ogni cittadino
appartenesse ad una comunità religiosa, «una qualsiasi». Non c’è ovviamente bisogno di arrivare a tanto per riconoscere nella religione una di quelle «ragionevoli»
visioni comprensive del bene che sostengono la ricerca politica della giustizia a partire dalla «cultura di sfondo» di una società (Rawls), o uno dei possibili interfaccia
culturali dell’esigenza di rendere storicamente visibile ed efficace il paradigma universalistico dei diritti umani (Habermas).
Questa strategia non è però esente da ambiguità. Proprio Habermas introduce
una sorta di «onere ermeneutico aggiuntivo» a carico dei cittadini credenti, che
devono tradurre le loro ragioni, condividendo questo sforzo con i non credenti, in
argomenti accessibili a tutti. Un primo rischio, insomma, è quello che il credente
e lui soltanto debba comunque essere sottoposto alla prova del “setaccio” per poter difendere “in pubblico” i suoi valori, come se proprio l’esito delle grandi utopie secolari non avesse dimostrato che la prestazione ermeneutica richiesta a queste tradizioni «non è minore di quella richiesta ai più devoti cattolici» (A. Ferrara,
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Stefano Semplici
La religione entro i limiti della ragionevolezza, in «Parolechiave», n. 33, 2005: Laicità, pp. 130-1).
• L’imperativo metodologico della condivisione persegue inoltre il mantenimento di quel vincolo di solidarietà e fiducia che evita la creazione di veri e propri
“stranieri in patria” attraverso la ricerca di un minimo comun denominatore fra i
valori espressi da una società libera e pluralista. Questo meccanismo si inceppa inevitabilmente quando il conflitto si apre su temi che fanno parte della riserva “non
disponibile” di una tradizione. Si può, in questo caso, salvare la “patria” insieme alla propria coscienza? Nel suo ultimo libro-intervista su La democrazia dei cristiani
(Roma-Bari 2005), anche Pietro Scoppola parla della patria come «momento più
intimo, più profondo dell’appartenenza» (p. 64) e guarda ad una Chiesa che «cessa
di essere parte ed è ispiratrice di valori di convivenza per tutti» (p. 89).
Questo valore «per tutti», però, implica una doppia limitazione, coerente con
l’assunto che l’elemento essenziale del cristianesimo sarebbe da riconoscersi nella
«scelta intima e personale di fede di cui è parte indissolubile anche una sana riserva
nei confronti dell’ostentazione e della mobilitazione» (p. 133). La fede – potremmo dire – deve essere il più possibile “deistituzionalizzata”, ma ciò non comporta
solo la rinuncia alla difesa in via prioritaria dei «cosiddetti interessi cattolici»: la capacità di contribuire alla ricostituzione delle riserve etiche delle democrazie richiederebbe infatti un atteggiamento meno insistente anche sulle «questioni di immediata rilevanza etica» (p. 209). Lo stesso Scoppola ribadisce d’altro canto in queste
pagine i suoi forti dubbi in merito alla legge sull’aborto, mettendo in guardia proprio dal rischio di un «vuoto etico» e dalla tendenza della maggioranza degli italiani a non voler essere inquietati «da problemi morali e di principio» (p. 149). Si può
allora proporre un’alternativa davanti ai punti di rottura che si presentano insanabili, proprio perché riguardano ciò che non si è facilmente disposti a “privatizzare”?
I valori della democrazia “deliberativa”
• La democrazia «deliberativa» si è sviluppata come tentativo di tenere insieme
due valori considerati complementari: il rispetto del principio di uguaglianza come
riconoscimento della pari dignità di tutti i punti di vista e appunto il metodo deliberativo come attività consapevole di discussione e ponderazione dei problemi di
interesse pubblico (cfr. J.S. Fishkin, La nostra voce. Opinione pubblica e democrazia,
una proposta, Venezia 2003, pp. 58-82). Si badi bene: il deliberare non coincide, in
questa prospettiva, semplicemente con il voto che “fissa” una decisione, bensì con
l’intero processo che porta a quella decisione, recuperando cioè il significato aristotelico della proaíresis come calcolo e riflessione (cfr. Etica nicomachea, 1112 a). Si
tratta, evidentemente, di una procedura per venire a capo di incertezze e questioni
164
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Stefano Semplici
controverse, della quale sono disponibili diverse versioni. Nel caso dello stesso Fishkin e di Ackermann, per esempio, prevale la fiducia che attraverso questo metodo del confronto le preferenze degli attori coinvolti possano essere riplasmate, se
non addirittura modificate, in modo da renderle elementi coerenti di una volontà
che possa essere di tutti. Intesa in questo senso, anche una più o meno lunga riflessione “deliberativa” contribuisce a consolidare via rationis il legame che abbiamo
definito “patriottico” fra i cittadini e, soprattutto, vale come cautela pedagogicamente feconda nei confronti di una troppo rapida identificazione fra la democrazia
e il “fatto” del voto, che dovesse saltare la “qualità” di quest’ultimo, le condizioni di
trasparenza, informazione e competenza critica nelle quali esso è maturato. È proprio l’idea della «sovranità popolare come procedura» ad offrire anche per Habermas «un concetto normativo di sfera pubblica» coerente con il suo carattere aperto
e pluralista (cfr. Morale, diritto, politica, Torino 1992, pp. 81-203). La definizione
di «democrazia deliberativa» proposta dall’ultimo Rawls è invece parzialmente diversa, perché in essa residua comunque un potenziale dissenso: il fine ultimo può
non essere la condivisione, ma più umilmente la convivenza, sulla linea di una tradizione decisamente liberale piuttosto che rousseauiana.
La concezione della convivenza
• I punti qualificanti di questa concezione appaiono i seguenti: 1) in presenza
di contrasti che coinvolgono elementi costituzionali essenziali o questioni di giustizia di base è indispensabile che vengano garantite «occasioni pubbliche per una
discussione ordinata e seria» (Un riesame dell’idea di ragione pubblica, in Il diritto
dei popoli, Torino 2001, p. 186); 2) le forme di ragione pubblica ragionevoli e dunque ammissibili «sono sempre numerose» e fra esse, con la concezione discorsiva
della legittimità proposta da Habermas, possono rientrare «le teorie cattoliche del
bene comune e della solidarietà, se sono espresse in termini di valori politici» (ibi,
pp. 189-90); 3) l’opinione della maggioranza «è diritto legittimo», ma questo significa soltanto che tutti la debbono considerare vincolante, non che tutti la debbono riconoscere come «la più ragionevole o la più appropriata» (ibi, p. 183). Cosicché, per esempio, i cattolici non perdono «la facoltà di continuare a proporre argomenti contrari al diritto di aborto» (tema sul quale anche la posizione di Rawls è
soggetta a significative oscillazioni), proprio perché quella che lo regola è una legge
della maggioranza (che si rispetta) e non della ragione (pubblica), che non sempre
può condurre a un accordo generale. Semmai arricchisce la comprensione reciproca, «anche quando raggiungere un accordo è impossibile» (ibi, pp. 226-7).
• In questi casi, peraltro necessariamente limitati, in una laicità deliberativa
può probabilmente operare senza reticenze e a testa alta anche il laico cristiano che
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
165
Stefano Semplici
rimane “fiero” senza prepotenza dei suoi valori e della sua identità come possibili
orientamenti di senso anche di quella ragione pubblica e non solo della sua fede
privata. Il Cardinale Ruini, in un passaggio estremamente incisivo della sua Prolusione al VII Forum del Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana,
svoltosi a Roma il 2 e 3 dicembre del 2005, ha proposto di superare lo stallo che si
può produrre fra visioni contrapposte affidandosi «al libero confronto delle idee,
rispettandone gli esiti democratici pure quando non possiamo condividerli», aggiungendo di considerare «abbastanza ovvia» questa pratica della democrazia in
paesi come l’Italia. L’ovvio, forse, deve ancora consolidarsi in abitudine e costume
politico. In ogni caso, la ricerca di un ampliamento e approfondimento della razionalità nella direzione dell’universale, mentre alimenta la disponibilità alla mediazione possibile, fin dove essa è possibile, non elimina completamente le occasioni
in cui una visione del bene comunque ragionevole e democratica rende “parte” e
divide. Non si tratterà allora di un cedimento fideistico o di una invasione di campo, ma di un onesto contributo al pluralismo sul campo che è di tutti e del quale si
accetta e si vuole che vengano democraticamente segnati i confini, anche i confini
fra ciò che è indifferente e ciò che si giudica illecito, fino al limite dell’assolutamente intollerabile.
• Una convergenza “deliberativa” è possibile. Le «buone ragioni» alle quali si
riferiva oltre mezzo secolo fa Stephen Toulmin interrogandosi «sul posto della ragione nell’etica» non sono infatti l’alternativa alla testimonianza, ma il suo naturale
modo d’essere quando essa si propone come ispiratrice di un’etica pubblica. Mettendo così tutti al riparo, sempre per usare le parole del Cardinale Ruini, da ogni
strumentale e inutile accusa di «oltranzismo antidemocratico».
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La democrazia come luogo
della ricerca della verità
Nel dibattito dai toni spesso incandescenti sul rapporto tra democrazia e verità aleggia il fantasma della violenza della seconda sulla prima. Se la disputa intorno
alla verità – così si pensa – si trasferisce sul terreno del
confronto democratico, allora quest’ultimo viene inquinato in radice oppure viene reso impossibile. Stare
in democrazia con pretese di affermazione della verità
sarebbe come partecipare a un banchetto nascondendo sotto la cintola un pugnale che, appena l’atmosfera
si riscalderà, verrà inevitabilmente brandito per colpire chi non ci piace. Insomma, secondo una simile rappresentazione, la verità va senz’altro deposta nell’anticamera della democrazia come luogo di relazione pubblica, per poi magari – se ci si tiene – essere recuperata
a proprio uso e consumo in sede privata.
Un dibatttito aperto
• Occorre precisare subito che la verità di cui qui si intende parlare non è la verità che appartiene semplicemente
al campo della teoria, ma coinvolge anche l’ambito dell’agire
e quindi incorpora in sé una visione del bene. Si può senz’altro concedere che, a rigore, qualcosa può essere riconosciuto
come vero senza essere apprezzato come buono, ma si deve
ammettere che si dà anche un uso diffuso della intercambiabilità di vero e di bene. Pertanto, al là del rinvio dotto alla
tradizione filosofica secondo la quale verum et bonum convertuntur e alle sue ascendenze nel pensiero classico, anche
nel linguaggio quotidiano si esprime molto spesso la coincidenza di vero e di buono. In modo eminente, si tende a
identificare una vita “vera” con una vita “buona”, apprezzabile complessivamente sotto il profilo delle idee che la gui-
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FRANCESCO TOTARO
Università
di Macerata
≈
“Un orizzonte di
verità non piegato
a esigenze
di parte, perciò da
tutti partecipabile,
può dare respiro a
una laicità senza
lacerazioni ed
esclusioni”
≈
167
Francesco Totaro
dano e sotto il profilo delle azioni che ne seguono. Quindi, è constatabile la propensione a far discendere da una certa concezione del vero una corrispondente
concezione del bene.
Tutto ciò non comporta problemi fino a quando si dà una concezione omogenea del vero e, di conseguenza, del buono. In questo caso l’unico problema è la valutazione della coerenza tra l’uno e l’altro. Ma quando le concezioni del vero divergono o sono almeno diverse, proprio in ragione del fatto che alla visione del vero si
associa una visione del buono o del bene può nascere il timore che chi detiene una
determinata visione del vero sia portato a pretendere una conseguente pratica anche da parte di coloro che a tale visione non aderiscono. La questione è cruciale
poiché investe i modi della relazione sociale e, specialmente, della convivenza politica, minacciando il pluralismo sia intraculturale sia interculturale. Sulle ceneri di
un pluralismo negato o ridotto a pura facciata si insedierebbe invece la durezza delle rispettive difese identitarie, con il predominio dell’identità di fatto più forte.
• Se la professione del vero comprensivo di uno stile di vita appare sempre gravida di sbocchi conflittuali, la difesa efficace rispetto al pericolo stesso è sembrata
consistere nella bonifica della sfera pratica a carattere relazionale dalla contaminazione con una qualsiasi affermazione di verità. In definitiva, poiché la verità finisce
con l’essere sempre la verità di qualcuno, mentre l’ambito della pratica politica deve essere inclusivo di tutti, allora occorre preservare quest’ultima dalle insidie della
prima. La democrazia va allora depurata dalla passione della verità o, meglio, va tutelata dal corto circuito tra convinzione nella verità e bene della convivenza. Se si
mette da parte la disputa sulla verità, ci si può intendere più facilmente sulle cose
da fare.
Questo discorso assume il suo massimo spessore di concretezza se si assume la
verità come verità religiosa. In essa il vero – a prescindere dal fatto che sia oggetto
di una rivelazione per fede prima ancora o più ancora che il prodotto di un’acquisizione argomentativa – è legato inestricabilmente con una dimensione pratica. Per
tale motivo, il messaggio religioso è un messaggio totale, poiché un annuncio da riconoscere ‘in verità’ si protende in azioni senza delle quali il suo contenuto non
può essere soddisfatto. La verità religiosa esige sempre l’incarnazione nella vita, dove il vero e il bene si intrecciano strettamente in ordine alla ‘salvezza’.
Stato moderno e laicità
• Ora, sul piano della vicenda storica della verità, si deve riconoscere che sono
state proprio le guerre di religione patite in seno al cristianesimo occidentale a ispirare, per contraccolpo, l’idea di una verità sopra le parti sottratta all’intolleranza
provocata dai contenuti determinati della fede che, anche a causa del loro uso stru-
168
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Francesco Totaro
mentale ad opera dei poteri temporali, si ponevano come escludenti le interpretazioni diverse. Si possono rimproverare gli eccessi di razionalismo astratto propri
dell’illuminismo ma non si può negare che l’idea di una ragione universale sottratta al conflitto delle fedi abbia generato frutti positivi anche per le fedi stesse. In
modo speciale tale idea ha contribuito a recuperare l’incompatibilità originaria tra
fede cristiana e teocrazia politica che di recente è stata rivendica da Joseph Ratzinger (Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, Cinisello Balsamo, 2004, p. 86 s.) e
che persuasivamente può essere considerata la matrice prima della visione secolare
e laica dello Stato.
Lo Stato moderno, nel suo processo di affrancamento da ipoteche teocratiche,
si è però evoluto lungo due direttrici. La prima di esse, non certo virtuosa, ha portato alla pretesa dello Stato medesimo di rivestirsi di caratteri totalitari degenerati
in vera e propria statolatria. Su questa via la laicità del potere politico è stata contraddetta dal soffocamento sistematico delle libertà personali e collettive. L’assolutizzazione dello Stato secolare, quando si è imposta, ha anzi comportato mali peggiori di quelli rimproverati alle espressioni del potere teocratico, dal momento che
il suo arbitrio non poteva essere frenato da principi trascendenti. Lo Stato stesso si
è infatti rappresentato come divinità terrena.
La direttrice virtuosa dello Stato moderno si è invece incarnata nella forma democratica dello Stato, che ha dato un’interpretazione della propria laicità non con
esiti di sacralizzazione secolare della sfera politica, ma, al contrario, con la preoccupazione di emanciparla il più possibile da condizionamenti provenienti da ipoteche religiose particolari. Su tale preoccupazione si è innestato lo schema della dualità tra la sfera pubblica, che è in grado di fare spazio a logiche con valenza universale grazie a un dibattito partecipabile da tutti, e una sfera privata, nella quale si
possono coltivare convinzioni che debbono rispettare una sorta di clausola di ‘non
invasione” dell’ambito pubblico.
In tale quadro, la demarcazione sopra ricordata solo nei casi estremi viene fatta
osservare con misure costrittive, normalmente si affida piuttosto alla virtù richiesta
al buon cittadino di autolimitarsi quanto a pretese che, a causa del loro carattere
pubblicamente ‘stonato’, suonerebbero come dogmatiche e, per questo motivo,
improntate a scarsa laicità. Laico, allora, qui viene a coincidere con ‘universale’ e
religioso con ‘particolare’; pertanto essere laici significa saper leggere il segnale di
divieto di una invasione di campo riprovevole dal punto di vista di un’etica imparziale della cittadinanza, mentre essere religiosi denota in proposito uno stato di
analfabetismo. All’insegna del “religioso ma laico” – nelle posizioni del liberalismo
classico – ci si spinge comunque a concedere che ci possano essere uomini religiosi
capaci anche di essere laici nonostante il loro essere religiosi. Si tratta spesso di una
concessione condizionata e sospettosa, soprattutto nei confronti delle espressioni
religiose più fortemente istituzionalizzate: è noto che John Locke, ritenuto il padre
del principio moderno di tolleranza, lo considerava inapplicabile per i cattolici.
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Francesco Totaro
Pertanto l’uomo religioso, quanto più dipendente da fedeltà istituzionali, non è
naturaliter laico o diciamo che non lo è fino a prova contraria. La sua laicità va
messa cioè alla prova. È evidente che in questa visione la laicità del ‘religioso’ è
un’ipotesi, mentre la laicità dell’uomo non religioso è una tesi. Da tutto ciò deriva
una presunzione di minorità della laicità esercitata dal religioso, anche perché si sospetta che egli non riuscirà mai a recidere il cordone ombelicale che lo lega a fedeltà non politiche. Una schietta laicità – la ‘libertà del laico’ – esigerebbe il non
essere “di nessuna chiesa”, per riprendere il titolo di un fortunato pamphlet di Giulio Giorello (titolo che riecheggia la sofferta dichiarazione di rifiuto del conformismo religioso messa dallo scrittore ‘cattolico dissidente’ Heinrich Böll sulla bocca
di Hans Schnier, infelice protagonista del romanzo Opinioni di un clown).
V’è di più. Nella sua stessa autorappresentazione, il religioso laico si ritiene costretto a vivere in una situazione lacerata o di sdoppiamento: per essere laico deve rinunciare a essere religioso. O è laico o è religioso. Questo sdoppiamento, ai livelli
meno apprezzabili, spiega anche condotte non certo lodevoli di disinvolta rinuncia ai
valori religiosi – cosa affatto diversa dalla ponderazione della loro condivisibilità – e
di altrettanto disinvolta acquiescenza a una laicità deteriore praticata cinicamente.
Le sfide alla democrazia procedurale
• La depurazione dello Stato laico dai contenuti esigenti e condizionanti della
religione gli ha progressivamente procurato un alone di neutralità e di imparzialità
che ha coinciso con la sua dimensione assiologica specifica. Grazie a queste credenziali è stato anche possibile accrescere la sua rappresentatività in ordine a classi sociali in precedenza marginali o subalterne, le quali, nelle forme del welfare, si sono
avvantaggiate della estensione del sistema di tutela e di promozione dei diritti. Nella sua migliore performance lo Stato democratico, come arbitro super partes, è diventato la sede permanente di assorbimento dei conflitti grazie ad accordi convenienti tra parti altrimenti a rischio di urto frontale. Ma proprio nella prestazione di
efficienza riguardo alla capacità di assorbire ogni conflitto nell’alveo del contratto la
democrazia imbocca la china della sua riduzione a funzione procedurale. Di conseguenza, le sfuggono come eccedenti la metabolizzazione procedurale quei conflitti
di nuova generazione che portano sulla scena istanze non contrattabili e non scomponibili lungo la faglia pubblico-privato.
I conflitti concernenti l’interpretazione della dignità del vivente e, più in generale, della persona non sembrano suscettibili di una gestione relativizzante che
scorpori ciò che si può consentire nell’ambito pubblico da ciò che è relegabile nel
privato. Nelle questioni attinenti al vivere e al morire l’etica pubblica, traducibile
in deliberazioni legislative, si trova a dover inglobare per forza di cose aspetti esistenziali che coinvolgono l’intero della persona e la sua capacità di discernere, se-
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Francesco Totaro
condo verità, criteri di vita buona complessiva. Altrettanto si può dire riguardo alle
questioni legate ai temi dell’identità culturale, dove sono profili di vita complessivi
a chiedere riconoscimento pubblico. I limiti della democrazia ridotta a dibattito
pubblico formale sono emersi infatti in modo virulento a seguito dell’impatto con
soggetti provenienti da contesti culturali in cui l’ambito pubblico non è contrapposto a quello privato e le strutture istituzionali non sono sganciate da pretese di
realizzazione del vero e del bene. Se non ci fermiamo a esorcizzare genericamente il
fenomeno come fondamentalismo o integralismo religioso, ci rendiamo conto del
fatto che abbiamo a che fare con portatori di motivazioni esistenziali a cui si attribuisce valenza di assolutezza. È possibile l’addomesticamento di tali ‘eccessi’ culturali adottando le uniche strategie che una democrazia ad impronta formale-procedurale si ritrova in grado di maneggiare? Finora esse sono consistite prevalentemente nell’arte di anestetizzare le differenze nel tentativo di condurle nell’alveo di
una neutralità assiologica dove possano essere controllate grazie a una assennata
conversione al relativismo dei valori. Ma ritenere di contenere espressioni esistenziali dettate da valori assoluti, e sostenute da convinzioni di verità sostanziale, con
una terapia di riduzione relativistica è proprio il rimedio più adeguato? Oppure si
tratta di una strategia dilatoria ed evasiva? Non sarebbe piuttosto il caso di non
ignorare la terribile sfida che alla ‘nostra’ democrazia viene dall’esigenza di inclusione di nuovi cittadini estranei alla pratica delle istituzioni formali?
Democrazia e ricerca condivisa della verità
• Tale insieme di questioni non può essere affrontato con gli attrezzi di uno
Stato laico inteso come indifferente ai valori in gioco. Non è ovviamente il caso di
attribuire allo Stato democratico un’etica propria a livello sostanziale. Senza che si
cada in una posizione etica dello Stato in quanto tale, il suo compito non potrà essere però quello di anestetizzare e di neutralizzare i punti di vista a confronto e in
competizione. Piuttosto lo Stato democratico dovrà curare sempre più le condizioni affinché, dal confronto delle posizioni, emerga di volta in volta quella che è più
capace di interpretare le istanze di vita buona offrendo i criteri per decisioni il più
possibile adeguate alla verità della cosa in questione.
Tutto ciò esige di ripensare la democrazia non come spazio dell’indifferentismo
e del relativismo etico, bensì come luogo di ricerca condivisa della verità per la convivenza tra persone. Come è possibile una tale rappresentazione della democrazia
evitando, d’altro canto, pretese o imposizioni aprioristiche di verità?
Ciò non è possibile senza un ripensamento radicale della verità (comprensiva
del bene) nel suo profilo relazionale. Si tratta di riconoscere la relatività o incompiutezza di ogni acquisizione del vero e del bene rispetto alla loro pienezza. Relatività, con tutta evidenza, non significa relativismo; significa piuttosto riconoscere
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Francesco Totaro
che le acquisizioni sulla via sia del vero sia del bene non permettono a nessuno di
attribuirsene la pienezza. L’affermazione di relatività nasce dalla consapevolezza del
limite, essa non incoraggia però nessuna deriva rinunciataria rispetto al compito di
perseguire il vero e il bene.
Di qui derivano risvolti applicativi in ordine al rispetto delle posizioni diverse
che sono sempre in gioco nella democrazia e, quindi, in ordine al rispetto della democrazia stessa. Verso di essa si può professare un rispetto a valle, accettando con
lealtà i risultati delle sue procedure deliberative anche quando sanciscono punti di
vista in rapporto ai quali le proprie posizioni sono messe – almeno temporaneamente – in minoranza. Il rispetto dei risultati, a seguito di un confronto dignitoso tra le
posizioni diverse, è il presupposto di una pax politica motivata dal ravvisare nella
violenza il male peggiore e più grave in comparazione ai costi dovuti al sacrificio
(provvisorio) delle proprie posizioni. Quando, nella sua Prolusione al VII Forum del
progetto culturale del 2-3 dicembre 2005, il card. Camillo Ruini, dopo avere evocato la contrapposizione tra i sostenitori e gli avversari dell’approccio relativistico in
etica pubblica, ha sostenuto che «si tratta di affidarsi, anche in questi ambiti, al libero confronto delle idee, rispettandone gli esiti democratici pure quando non possiamo condividerli» (Pro manuscripto, p. 4), ha enunciato una regola di saggezza politica democratica imperniata sul principio del rispetto vicendevole.
La valorizzazione dei diversi
• Ora, a un’etica pubblica del rispetto delle opinioni concorrenti si possono
aggiungere gli elementi di un’etica della valorizzazione dei diversi e tra i diversi che
rischiari anche a monte le condizioni positive del confronto democratico? Nella risposta a questa domanda ci preme sottolineare che a nostro avviso, nonostante le
apparenze, non è una visione relativistica di indifferenza delle posizioni in gioco a
meglio garantire il riconoscimento reciproco della loro dignità; e nemmeno la dichiarazione di agnosticismo riguardo al vero e al bene. Il riconoscimento di dignità
è possibile se l’intenzionamento del vero e del bene viene inteso come approssimazione ad essi da parte di interpretazioni diverse e finanche opposte nei contenuti,
ma convergenti nel tentativo di dare la massima realizzazione possibile alle esigenze
dell’umano. Ciò non elimina il contrasto delle prospettive diverse, ma induce a riconsiderarlo in un’ottica cooperativa e non di gioco a somma zero, dove la posta in
palio diventa per forza di cose la distruzione del nemico.
Avvalorare la prospettiva di verità e di bene presente nelle diverse posizioni ha
delle conseguenze rilevanti anche per le argomentazioni addotte a favore delle rispettive ragioni, le quali saranno chiamate a essere il più possibile comprensive del
punto di vista altrui, mediando altresì i principi di riferimento ultimo con le riflessioni emergenti dall’analisi del contesto storico. Praticare il dibattito democratico
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Francesco Totaro
come una espressione molteplice, sebbene non indifferenziata, del vero e del bene
può fornire inoltre motivazioni forse più sostanziali all’atteggiamento di rispetto
dei risultati delle decisioni, inevitabilmente sempre parziali e segnate da divergenza
ma, insieme, sempre riconducibili a una ricerca di convergenza perseguibile con
eguale dignità.
Verità e laicità
• Jürgen Habermas, recentemente, ha chiaramente avvertito la necessità di
una integrazione etica delle procedure deliberative della democrazia se, anche come cittadini, vogliamo continuare a intenderci come «esseri che agiscono e giudicano in termini morali» (Il futuro della vita umana, trad. it. Torino 2002, p. 71).
Egli ha sinteticamente formulato un programma universalistico post-metafisico e
post-religioso nei termini seguenti: «Dopo che le immagini metafisiche e religiose
del mondo persero il loro aspetto universalmente vincolante, noi (o la maggior
parte di noi) non siamo diventati affatto cinici freddi o relativisti indifferenti. Pur
convertendoci a un tollerante pluralismo ideologico, ci siamo sempre attenuti al
codice binario del giudizio morale: o giusto o falso (abbiamo voluto attenerci). Abbiamo convertito le pratiche del mondo di vita e della comunità politica armonizzandole sui postulati della morale razionale e dei diritti umani, in quanto questi
postulati mettono a disposizione dell’esistenza umana una base comune in grado
di andare al di là delle differenze ideologiche» (Ivi, p. 74).
La connessione tra democrazia e vincoli etici che Habermas vuole valorizzare
dà però per assodato che l’immagine metafisica e religiosa del mondo non possa
fornire un paradigma di razionalità in grado di dare senso alle pratiche deliberative
della democrazia. Certamente queste ultime possono giovarsi, a livello di contenuti particolari, della riserva di buoni sentimenti e di buone azioni che derivano dalle
tradizioni di solidarietà incorporate in tale immagine, una volta però che si sia rinunciato alla sua valenza di comprensione complessiva del mondo.
A questo punto, qualcuno potrebbe obiettare che la rivendicazione della validità dell’immagine metafisica e religiosa del mondo sia solo un puntiglio cerebrale
di chi si attarda su posizioni premoderne e quindi obsolete. A ben vedere, però, in
tale immagine, oltre che apprezzabili disposizioni etiche, viene offerta una idea di
verità che oggi può essere decisiva per approfondire il carattere non relativistico
della democrazia e, al tempo stesso, per non esporla al saccheggio degli assolutismi
assiologici. Ci limitiamo a una insinuazione: non è forse il riferimento della democrazia alla verità a poter rappresentare il punto di appoggio più adeguato e al superamento del relativismo e alla relazione non distruttiva tra assoluti? Un’impostazione come quella habermasiana dovrebbe almeno confrontarsi con una tale ‘ambizione’, prima di dichiararla teoricamente obsoleta.
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Francesco Totaro
Non è però questo il luogo per sviluppare un siffatto confronto teorico. Vorremmo invece planare, finalmente, sul tema della laicità. L’orizzonte ‘veritativo’ o
di prospettivismo veritativo, quale quello che abbiamo tentato di indicare, può forse
gettare una luce nuova sull’idea di laicità, al fine di riconsiderarla come ambito di
una ricerca comune di razionalità a partire da posizioni ugualmente degne.
In tanto è possibile muoversi verso un orizzonte di verità in quanto esso sia
pensabile senza esclusioni e senza ipoteche aprioristiche. A ben vedere, la posizione
di laicità, in generale ma in modo particolare nell’ambito politico, sta in piedi oppure cade nella misura in cui si ammette o si rifiuta un terreno di razionalità o di
ricerca razionale rispetto al quale nessuno presuma di essere in una posizione privilegiata e nemmeno prevenuta. Si conta se, nell’affrontare i nodi della convivenza
democratica, si offre la soluzione con le ragioni migliori a suo favore. Una tale persuasione è alla base non solo della opportunità ma anche della necessità, da parte
del credente, di pronunciarsi sulle cose del mondo, e specificamente sulle cose del
mondo della polis, con gli stessi diritti e con gli stessi doveri del non credente. Altrettanto, una tale persuasione dovrebbe essere alla base del rispetto che, nelle cose
politiche, dal non credente si può chiedere al credente. Insomma, in politicis le responsabilità e le capacità sono le medesime per credenti e non credenti e questo
fronte comune è il fronte della laicità, quali che sia il retroterra dal quale esso attinge e quale che sia la diversità delle motivazioni ultime.
Ora, è proprio questo terreno comune a rischiare oggi il misconoscimento o,
peggio, un riconoscimento improprio. Infatti, nel dibattito attuale, si afferma sempre più la tendenza ad assegnare le parti a priori, cadendo in forme curiose di relativismo non consapevole. Un’analisi spregiudicata potrebbe mostrarci che un autoproclamantesi antirelativista come Marcello Pera è convinto che «nessuno crede
più ai fondamenti “ultimi” o si sogna più le “essenze”», mentre ciò che essenzialmente lo preoccupa «è l’incapacità o l’impotenza ad agire» dell’Occidente (M. PeraJ. Ratzinger, Senza radici, Milano, p. 20). Perciò, la questione della verità si riduce
a una questione di potenza. Ai credenti toccherà insomma la funzione di farsi portatori di valori a vantaggio della identità forte dell’Occidente e, se essi non saranno
a questo disponibili, saranno tacciati di codardia relativistica.
Un orizzonte di verità non piegato a esigenze di parte, perciò da tutti partecipabile, può invece dare respiro a una laicità senza lacerazioni ed esclusioni.
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Democrazia e riconoscimento dell’altro
Mi si consenta di muovere dalla citazione (l’unica che
farò) di uno scrittore e uomo politico francese del novecento, Léon Blum: «Qualsiasi società che pretenda di
assicurare agli uomini la libertà deve cominciare col garantire loro l’esistenza».
La prima parte della frase ha a che fare con un’iniziativa, con la scelta di fare o di non fare qualcosa per l’altro. Invece la seconda parte, proposta quale condizione della prima, ha a che fare con il riconoscimento dell’altro. Si deve cominciare col garantirgli l’esistenza:
cioè si deve prendere atto, anzitutto, dell’esistenza dell’altro, in quanto è la sua stessa esistenza che chiama a
un determinato atteggiamento verso di lui. Dunque,
non si tratta, semplicemente, di fissare un criterio per
regolare i rapporti con l’altro, o di decidere, in modo
discrezionale, che cosa siamo disposti a concedergli,
ma si tratta di riconoscere l’altro nella dignità che gli
deriva dall’esistere come essere umano. Credo che sia
questo, oggi, il nodo cardine della sfida culturale concernente la tutela dei poveri.
Riconoscere l’altro significa garantirne l’esistenza
• Ciò premesso, vorrei incentrare la mia riflessione su
un’analisi critica del modello di giustizia – quello fondato
sulla nozione di reciprocità – che troppo spesso, nella nostra
cultura, diamo per scontato. Un modello di carattere formale: è giusto agire negli stessi termini in cui l’altro agisce verso
di me.
La logica della reciprocità informa molti aspetti delle nostre relazioni giuridiche e, in genere, della nostra vita: informa ampiamente il diritto civile e più ancora quello penale, i
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LUCIANO EUSEBI
Università Cattolica
di Milano
≈
“… Chi è l’altro?
L’altro non è
un avversario,
l’altro non è
il competitore;
l’altro è colui
di cui io ho
bisogno per essere
autenticamente
me stesso.”
≈
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Luciano Eusebi
rapporti economici, anche i nostri atteggiamenti privati. È il modello della bilancia, che non richiama l’equilibrio, bensì implica che se c’è del bene io agisca secondo il bene e se c’è del male io agisca secondo il male.
Questo modello presuppone che il rapporto con l’altro necessiti sempre di un
giudizio nei suoi confronti: per stabilire un rapporto con l’altro, prima ancora di
essere entrato in sintonia con lui, prima ancora di conoscerlo, lo devo giudicare.
Perché sulla base del giudizio che darò dell’altro, agirò nei suoi confronti: in maniera giusta, in termini di reciprocità.
• Tale assunto di fondo incide profondamente nella nostra vita, benché ordinariamente non ci si pensi. Se il mio rapporto con l’altro si fonda su un giudizio, e
se voglio giudicare prima di aver stabilito un rapporto solidaristico (potremmo dire
simpatetico) con l’altro, sarà pressoché inevitabile cogliere nell’altro degli aspetti
negativi, perché ciascuno di noi è comunque portatore di aspetti negativi. Se, pertanto, la giustizia è reciprocità ed è così facile, prima di aver stabilito una relazione
umana, cogliere nell’altro qualcosa di negativo, sarà facilissimo fare di ciò un alibi
per agire in termini di chiusura – in termini antitetici a logiche di solidarietà – nei
confronti dell’altro. Posto al centro il giudizio, non sarà difficile trovare appigli per
agire negativamente verso un altro individuo.
In un simile contesto mai potrebbe venire in considerazione una presa d’iniziativa in termini di accoglienza (in termini di carità nella pienezza del suo significato) verso l’altro che sia giuridicamente rilevante. Se giustizia è reciprocità, fare il
primo passo non può avere valore giuridico. Al massimo, è carità (nel senso debole
del termine); è filantropia, buonismo (secondo il neologismo irridente che abbiamo coniato negli ultimi anni). Non è diritto, non è giustizia. Perché di giustizia si
dovrebbe parlare solo dopo aver giudicato l’altro e aver elaborato una prassi di reciprocità comportamentale nei suoi confronti. Che mi hanno fatto di bene i poveri della terra perché sia diritto dei poveri ottenere da parte mia un atteggiamento di riconoscimento, di promozione umana in loro favore? Agire in tal senso costituirebbe al più, in quest’ottica, un’iniziativa stimabile, religiosa, filantropica,
umanitaria.
• Ma c’è un esito ancor più drammatico. Se pretendo di giudicare l’altro prima
di conoscerlo, non solo sarà facile trovare in lui aspetti di negatività, ma sarà facile
inchiodarlo ad aspetti di negatività che non dipendono minimamente da una sua
colpa (per quanto simile concetto necessiterebbe, ovviamente, di uno specifico approfondimento). Se non conosco l’altro, diventerà agevole ricondurlo a un’immagine che io mi faccio di lui del tutto autonoma da ciò che egli, a sua volta, abbia
scelto di fare per rapportarsi a me. Perché, ad esempio, capita spesso che si dia a
priori un giudizio negativo dell’immigrato? Non lo conosci, personalmente non ti
ha fatto nulla, eppure lo giudichi in rapporto al ruolo che gli assegni.
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Giudizio e pregiudizio
• Questa pretesa di giudicare l’altro prima ancora di aver stabilito un rapporto
con lui sfocia, dunque, nel dare rilievo ad aspetti che attengono esclusivamente alla
rappresentazione che io mi faccio di un dato individuo: lo considero qualcosa di
positivo o di negativo per me? È l’alternativa dinanzi alla quale si pone Caino. Chi è
l’altro che vive al mio fianco, chi è Abele? Caino non ha stabilito alcuna relazione
con lui, ma lo oggettivizza in un ruolo ben determinato: lo avverte come un limite
alla dilatazione del suo io, come un avversario, un nemico. E ne trae le conseguenze, salvo scoprire, poi, che in tal modo ha colpito anche se stesso.
• In un’ottica di questo genere è naturale istituire la logica della competizione.
Se i rapporti si fondano su un giudizio, soppeserò l’altro in rapporto ai miei interessi. E se la mia tensione etica è scarsa, l’altro sarà valutato con riguardo a esigenze
personali, di ordine essenzialmente materiale, che di etico hanno ben poco. E allora l’altro diventerà automaticamente un avversario, un competitore. Caino è molto
lineare: lo elimina. Ma ci sono dei modi meno diretti per non farsi carico del fratello, per dire: non lo conosco. Ed ecco che allora nella nostra cultura, sovente, si concede qualcosa all’altro solo se è così lontano che non costa nulla farlo; se non è un
volto che si pone dinanzi a me e mi chiama a un impegno personale. Ove la vita sia
intesa come una competizione, perché dovrei contribuire a rendere l’altro un competitore più forte? Quanto è triste sentire insegnanti in buona fede i quali dicono:
«io creo uno spirito competitivo in aula, perché devo pur preparare i ragazzi alla
realtà della vita». Questa logica della reciprocità che fa dell’altro un competitore,
un avversario, entra dunque nei gangli più profondi della nostra cultura.
• Costruito il rapporto con l’altro sul giudizio, la prospettiva di cui abbiamo
parlato finora resta chiusa all’autocritica: non ci sarà mai consapevolezza della corresponsabilità rispetto al destino dell’altro e alle condizioni per cui l’altro si trova a
essere quello che è. Siamo disposti, per esempio, ad avvertire corresponsabilità circa le condizioni di fondo che spingono all’immigrazione facendo sì che tante persone cerchino di realizzare – talora anche in maniera disordinata, lo possiamo ammettere – quella che però è una speranza di vita che noi diamo per scontata quando riflettiamo sul nostro personale futuro?
Il ruolo della competizione
• In questo contesto chiuso all’autocritica, che diviene un contesto conservatore in quanto non si fa carico delle condizioni in cui si collocano le altrui vicende
esistenziali, giungiamo addirittura a esasperare il ruolo della competizione (della
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contrapposizione) come se fosse in sé un valore positivo. Giungiamo addirittura a ritenere che nei rapporti più intimi (pensiamo ai rapporti di coppia o ai rapporti genitori-figli) il meglio si produca s’è c’è una «sana» dose di conflittualità, se si alimenta una tensione che garantisca il reciproco equilibrio, senza cedimenti: quante
volte abbiamo sentito dire che in fondo è proprio dalla gestione del conflitto che
scaturiscono le relazioni migliori! È un riflesso dell’idea tutta hegeliana secondo cui
le cose vanno avanti per reciproche opposizioni: più confliggiamo, più siamo in
grado di affermare noi stessi nel rapporto con l’altro, più ci garantiamo che la sintesi fra le nostre esigenze personali e le esigenze dell’altro ci sia vantaggiosa.
• Quante risorse umane mandiamo al macero nei rapporti personali, di coppia, di quartiere, di lavoro, tra genitori e figli, perché abbiamo teorizzato che il meglio deriverà dalla massima affermazione delle nostre ragioni contro l’altro, e non
dall’ascolto attento di lui: non certo per dargli ragione se ragione non ce l’ha, ma
per rispettarlo nella sua dignità, così da rendere possibili la comprensione e il dialogo. Quante volte abbiamo ritenuto che la competizione non sia altro che una sorta
di maieutica naturale idonea a far prevalere il migliore. Ma un conto è se sto discutendo del concorso per un primariato ospedaliero, dove la valutazione delle qualità
è presidio di rispetto del principio di uguaglianza e della dignità umana; un conto
sono altri rapporti, nel cui ambito affidarsi alla competizione vuol dire far dipendere le scelte non da fattori eticamente significativi, ma dalla forza dei competitori:
non prevale il migliore, prevale il più scaltro, quello con meno scrupoli. Non c’è
una sorta di automatismo selettivo che, esclusa la fatica della definizione di regole
etiche, valorizzi i migliori, a meno di non identificare a priori i vincenti con i buoni e i perdenti con i meno buoni.
Democrazia e distribuzione della ricchezza: da percorso europeo
a modello mondiale?
• Tutto questo ha esiti pluridisciplinari tutt’altro che marginali. Il diritto penale, la materia di mia specifica competenza, ne costituisce l’applicazione in certo
modo paradigmatica. Nel suo orizzonte, infatti, si considera da millenni scontato
che la dinamica sanzionatoria, pur quando se ne auspichino effetti risocializzativi,
sia chiamata a riprodurre per analogia, in danno del suo autore, il livello di gravità
del male costituito dal fatto illecito. Di fatto, ci aspettiamo effetti positivi di prevenzione, in altre parole del bene, dalla minaccia e dall’applicazione di un male: e le
mitigazioni di tale idea portante (sospensione condizionale, sanzioni sostitutive,
misure alternative, ecc.) sono percepite più come concessioni a istanze umanitarie
o di mera deflazione penitenziaria che non come strumenti rilevanti in senso preventivo. Ma la prevenzione è qualcosa di molto più complesso rispetto alla logica
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intimidativa e neutralizzativa. Essa ha a che fare non tanto con meccanismi di forza, meccanismi che trattano l’altro come un corpo da spaventare o da neutralizzare,
bensì con la capacità dell’ordinamento giuridico di farsi rispettare per convinzione,
cioè di creare le condizioni, anche attraverso il momento sanzionatorio, perché il
precetto normativo sia accolto per scelta.
Dunque, una prevenzione efficace e stabile non dipende dal timore (del resto,
non si può intimidire un terrorista suicida), ma dal consenso. Non dimenticando
che nulla rafforza l’autorevolezza del messaggio di una norma giuridica trasgredita
più del fatto che proprio il trasgressore prenda le distanze dal pregresso comportamento illecito, così da attestare nel contesto di provenienza una libera e riconquistata adesione alle regole fondamentali della convivenza civile. Nulla rafforza di più
il diritto e maggiormente destabilizza le organizzazioni criminali di una persona
davvero recuperata dopo la commissione di un reato: di una persona, cioè, non
programmaticamente esclusa dalla società, ma aiutata secondo percorsi intelligenti
a mettere in discussione, anche attraverso l’impegno riparativo, esperienze di non
libertà e di frattura con se stesso e con gli altri, il che la rende testimone particolarmente credibile delle ragioni dell’ordinamento giuridico.
• Eppure, tutto questo è ampiamente trascurato dalla sensibilità sociale. Perché un approccio al problema della criminalità diverso da quello consueto costa a
tutti qualcosa, dato che impone di non sentirsi a priori i giusti e di aprirsi a profili
di corresponsabilità (anche accettando taluni oneri indispensabili per contrastare
l’incidenza dei fattori che favoriscono la criminalità). Non può dimenticarsi, del
resto, che il nostro sistema penale seleziona una popolazione penitenziaria composta per gran parte di outsider sociali, facendo credere all’opinione pubblica che ciò
sia necessario a una buona prevenzione: il che distoglie, tra l’altro, dall’attenzione
per le molte condotte illecite poste in essere in settori diversi da quelli della criminalità comune, violazioni i cui effetti diretti o indiretti sono non di rado molto
gravi e che necessiterebbero di un contrasto assai più credibile, mediante sanzioni
incidenti sugli interessi economici coinvolti.
• La visione della giustizia come reciprocità si manifesta evidente anche nei
rapporti internazionali. Quante volte abbiamo sperimentato negli ultimi anni la
politica del domino, cioè la politica che prende in considerazione, applicando e
provocando ritorsioni, solo l’ultimo anello della catena in un dato contesto problematico, eludendo una descrizione obiettiva di tutti i fattori in gioco. In tal modo,
di fronte a una realtà in cui obiettivamente si esprime del male, si ritiene giocoforza rispondere secondo la medesima lunghezza d’onda: qualificando utopisti coloro
che chiedono di interrogarsi e di intervenire sulle precondizioni remote di date situazioni. Certo, guardare più in là dell’ultimo anello della catena nei rapporti internazionali, a sua volta, costa, perché impone di domandarci, per esempio, se sia-
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Luciano Eusebi
mo disposti a condividere, a rendere fruibile in termini sostanziali, il prodotto più
prezioso della stessa cultura occidentale, cioè il riconoscimento dei diritti dell’uomo a tutti gli individui che compongono la compagine umana.
La democrazia sostanziale
• Siamo disposti a ripetere sul piano planetario quel percorso il quale negli ultimi due secoli in Europa ha consentito che alla democrazia si associasse per milioni di
persone la speranza di partecipare in maniera effettiva alla distribuzione della ricchezza? Questa avventura che è stata percorsa con fatica e non senza contraddizioni
nel vecchio continente dovrebbe diventare un’avventura del mondo intero. Siamo
disposti, in altre parole, a far nostro un concetto di democrazia sostanziale, secondo
cui non solo ciascuno vota, non solo ciascun paese ha un seggio all’ONU, ma ciascun individuo della terra può far valere i suoi diritti di fronte a tutti gli altri individui della terra? C’è disponibilità a rendere spendibili i diritti dell’uomo in una prospettiva sovrannazionale? In concreto: se si dice a un malato dell’africa sub-sahariana
che il suo diritto alla salute, sancito dalle leggi del suo paese al pari di quanto avviene
in qualsiasi paese del mondo, è spendibile solo all’interno del sistema giuridico-sociale di quel paese, tale diritto potrebbe risultare privo di qualsiasi spessore tangibile.
La sfida della democrazia sostanziale è, dunque, se quel diritto alla salute possa divenire spendibile, pur con le necessarie mediazioni organizzative o culturali, rispetto
all’intera comunità umana: come non ritengo tollerabile che un bambino di qui possa morire se può essere guarito, altrettanto intollerabile dovrebbe essere per me che
un bambino dell’Africa subsahariana o un qualsiasi membro dell’umanità non venga
guarito se può essere guarito. Simile sfida, tuttavia, non è perseguibile nell’ottica di
una giustizia intesa come reciprocità, che non è una giustizia del riconoscimento dell’altro, né presuppone opzioni morali. Quest’ultima, piuttosto, consente di perpetuare relazioni politiche internazionali che mettono in conto logiche di contrapposizione, conflitto o ritorsione, trascurando i soggetti più deboli, vale a dire i soggetti
che non assumono rilievo ai fini di rapporti economicamente significativi.
• Non mancano riflessi di una tale concezione della giustizia sul piano delle
ordinarie relazioni politiche: davvero è la migliore forma di democrazia quella che
impone di dividere anche il più piccolo dei nostri villaggi in fazioni contrapposte,
ritenendo che il bene comune possa essere perseguito al meglio attraverso la dinamica (e spesso l’esasperazione) dello scontro? Non si tratta certamente di perorare
visioni qualunquistiche o di non considerare che nulla è stato pensato di meglio
del modello democratico parlamentare per gestire la convivenza civile: ma non è
forse riduttivo che il contenuto sostanziale dei problemi in gioco – dei problemi
sociali, economici, internazionali – resti così spesso in secondo piano rispetto alla
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strategia e alla tattica della contrapposizione? Non dovremmo privilegiare le questioni sostanziali, ponendole al centro del dibattito politico?
• Nello stesso ambito economico, un’ottica competitiva priva di contrappesi
produce il rischio di un indebolimento dei sistemi giuridici di tutela, che pure sono stati costruiti attraverso secoli di impegno. Potrebbe infatti realizzarsi, tra i diversi contesti economici operanti nell’ambito internazionale, un’assimilazione ai livelli di tutela più bassi. Vi è il pericolo, in altre parole, che, invece di portare progressivamente i paesi emergenti a riprodurre i nostri livelli di tutela sociale, si determini negli stessi paesi occidentali una marcata erosione di quei livelli sull’altare
della rincorsa degli altrui livelli di produttività e dell’abbattimento dei costi. Dovremmo riconoscere, invece, che gran parte dei paesi emergenti mai sarebbero in
grado di sostenere i costi dei nostri sistemi interni di tutela. Ma la strada non può
essere quella di rinunciare ai diritti umani: si tratta, semmai, di creare le condizioni
per uno sviluppo dei paesi emergenti che possa consentire loro di applicare i principi dello stato sociale, evitando nel contempo che le chances di sviluppo dei paesi
più poveri siano frustrate da nostre barriere protezionistiche.
• Da ultimo, sul piano dei rapporti interpersonali il modello che fa corrispondere l’atteggiamento verso l’altro al giudizio che si dà del medesimo finisce per generare quella che potremmo definire una mentalità eugenetico-abortistico-eutanasica:
prima ti giudico, giudico se considerarti qualcosa di buono o di qualcosa di negativo per me, e se ti giudico come qualcosa di negativo sono disposto a eliminarti dall’orizzonte della mia vita. Salvo scoprire, poi, di aver fatto un autogol esistenziale.
Come attesta l’esperienza psicologica, quando ci poniamo nell’ottica di un giudizio
che manifesta il nostro timore dell’altro e la nostra disponibilità alla sua emarginazione, ci ritroviamo impoveriti e avvertiamo di non avere realizzato noi stessi.
• Ciascuno, infatti, percepisce nel suo intimo che la vita si realizza attuando
una testimonianza di bene proprio dinanzi alle situazioni difficili, che manifestano
profili di negatività: l’amore parte sempre da una situazione di carenza, è sempre
una sorta di spasimo, di scatto, che io pongo in essere quando una sfida, non di rado pregnante di dolore, mi interpella (perché proprio a me, perché quella malattia,
quell’incontro, quel figlio, quella situazione di lavoro?) o quando mi lascio interpellare dal dolore altrui e me ne faccio carico. Mi accorgo di essere autenticamente
me stesso e di agire in senso costruttivo sul piano sociale se, di fronte a una situazione negativa (al male), testimonio ciò che è radicalmente altro rispetto alla sua
negatività, ponendo in gioco tutte le risorse della mia professionalità, della mia intelligenza, della mia capacità di accoglienza. In un modo che resti aperto al dialogo, così da far riflettere sul fallimento che provochiamo a noi stessi tutte le volte in
cui non rispondiamo al male con il coraggio di un’iniziativa secondo il bene.
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Visione religiosa della giustizia
• La stessa prospettiva religiosa offre del resto una visione della giustizia assai
diversa da quella fondata sull’idea di reciprocità: una visione che ha il suo compimento, e il suo fondamento, in Gesù, secondo premesse peraltro già presenti nell’Antico Testamento e condivisibili dalle grandi religioni monoteistiche. Il libro
della Genesi ci dice innanzitutto, nelle sue prime pagine, che, nonostante la morte
e la sofferenza, Dio ha creato l’essere umano per la vita. Nella logica di Dio c’è la
pienezza della vita, ma tu Adamo, tu Eva, mille volte al giorno patisci una tentazione: quella secondo cui uscendo dalla logica di Dio, mangiando del frutto dell’albero del bene e del male, chiamando per te bene ciò che per te è intrinsecamente male,
diventeresti come Dio e saresti felice.
• Il racconto biblico ci dice che Adamo si ritrova nudo: la trasparenza fisica che
è segno di comunione nel matrimonio diventa segno di separazione con Eva. Adamo non sperimenta la sua realizzazione: si ritrova impoverito, frustrato, fallito, come a ben vedere noi ci ritroviamo falliti quando coltiviamo la logica dell’egoismo.
Dunque: non c’è una pena che renda male ciò che Adamo ha fatto; noi riteniamo
spesso (è tipico della nostra cultura) che fare il male sarebbe in realtà bene, sarebbe
bello, gratificante (oh, se si potesse prescindere dalle remore morali!): ma poi ci sono
i giudici, ci sono i tribunali, e c’è il tribunale di Dio. La Bibbia segue un’altra prospettiva: il male non è male perché c’è una pena (altrimenti sarebbe un bene), il male è male perché non ti realizza, perché se tu rimani nella logica del male sei fallito. E
la giustizia di Dio è la giustizia di chi viene a cercarti nella tua situazione di fallimento esistenziale, tracciando nuovamente, per te, una strada. La giustizia emerge come
cammino di liberazione. Il peccato è stato un’esperienza di non libertà, ma c’è una
libertà da riconquistare: la tua liberazione si realizza quando dinanzi al male – dinanzi al male incolpevole (alla constatazione della sofferenza dell’altro) e perfino dinanzi al tuo male colpevole, alla tua colpa, al tuo peccato – tu non rimani inerte, ma
fai un progetto di bene, aderendo alla logica di Dio, che è amore.
• La giustizia si rivela pertanto non come reciprocità, ma come progettazione
secondo il bene dinanzi al male. Gesù non è un autolesionista, non sale sulla croce
desiderandola, ma accogliendola; dice: Padre, se è possibile allontana da me questo
calice, ma non farò un passo indietro nella testimonianza dell’amore; in altre parole: sia fatta la Tua volontà (che è l’amore) anche se questo richiederà la piena spendita di me stesso. Ciò che si manifesta salvifico non è la pena, non è la croce, non è
il patibolo: è l’abbandono alla logica dell’amore, la scelta del mettersi in gioco dinanzi al male, anche se negli altri potrà esserci incomprensione. Lo scandalo della
croce, e della risurrezione, sta in questo: perfino se agli occhi degli uomini apparirai uno sconfitto, come tanti che nel corso della storia hanno seguito Gesù possono
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sembrare degli sconfitti, in Dio c’è pienezza di vita, nell’amore c’è la pienezza della
vita, cioè la vita vera. Mentre se tu difendi i cento o più anni possibili della tua vita
senza mai rendere disponibile secondo amore tale vita, senza mai mettere in gioco
ciò che hai ricevuto, ti ritrovi con un fallimento esistenziale.
• Questo modello della giustizia, almeno per certi aspetti, non è rimasto
ignoto all’elaborazione giuridica moderna. C’è stato anche un percorso laico che
ha costruito la giustizia in maniera diversa dalla reciprocità, elaborandone la nozione di cui si parla nelle dichiarazioni dei diritti dell’uomo e nelle carte costituzionali: quella di una giustizia non già della reciprocità, ma del riconoscimento
dell’altro. L’altro, in questo senso, è portatore di diritti perché ha dignità umana e
se ha dignità umana, al di là di qualsiasi giudizio che di lui venga dato, chiama
ogni essere umano a uno stile comportamentale verso di lui che sia idoneo a promuovere tale dignità. Simile modello di giustizia, come già si accennava, rappresenta il miglior prodotto della stessa cultura occidentale, salvo il fatto che siamo
stati troppo poco disposti a condividerlo. Il terzo mondo non ci rimprovera di
aver sbagliato nell’elaborazione di quel modello: ci rimprovera, piuttosto, di aver
applicato assai più ampiamente nei rapporti coi poveri l’altro modello relazionale
– fondato sull’idea di reciprocità e non sul riconoscimento dell’altro – che la nostra storia porta con sé.
Convivenza sociale e sensibilità etica
• Ciò apre alla riflessione su uno snodo culturale cardine per la convivenza sociale contemporanea.
Il secondo modello della giustizia, quello fondato sul riconoscimento dell’altro,
è un modello che presuppone una sensibilità etica. Il baricentro è nell’altro. Una
volta che ti ho riconosciuto, ne derivano conseguenze per il mio comportamento
verso di te. E sono conseguenze che non decido io, ma che risultano connaturate
all’essere dell’uomo: che riconosco come istanze di carattere morale. Non è un caso
che la nostra Costituzione quando nei suoi primi articoli parla dei diritti dell’uomo dichiara che la repubblica li riconosce (non li istituisce, non li concede, non li
crea, non li decide). L’altro è riconosciuto come portatore di diritti. Ci si muove, in
quest’ottica, nell’ambito di esperienza morale che orienta al discernimento del bene, vale a dire di ciò che corrisponda alla dignità umana.
Il primo modello, invece, è individualistico, il baricentro è in chi giudica, così
che ben difficilmente il giudizio rifletterà istanze morali: io giudico e decido che
cosa ti spetta. Un modello, quest’ultimo, che trova di fatto supporto nelle posizioni orientate al soggettivismo radicale, secondo le quali non avrebbe senso alcuno
interrogarsi su dimensioni oggettive di bene, suscettibili di essere riconosciute.
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• La possibilità di riconoscimento e di tutela dell’altro appare legata, pertanto,
alla capacità di tenere viva la consapevolezza per cui è sulla dimensione etica che
devono costruirsi la convivenza civile e il dialogo tra i diversi approcci filosofici, religiosi o, in genere, culturali: attraverso il riconoscimento della tua realtà esistenziale, io prendo atto che tu sei, che non puoi essere cosificato quale mero oggetto di
un giudizio, che resti indefettibilmente un interlocutore, cioè un tu che per il solo
fatto di vivere costituisce un appello a che si agisca eticamente (e non in termini di
mera reciprocità) nei suoi confronti.
Centralità dell’Etica
• Rivendicare la centralità dell’etica non significa in alcun modo, peraltro,
porsi in discontinuità con la costruzione della società democratica, laica e pluralista degli ultimi due secoli. Va infatti rammentato, a tal proposito, che il passaggio
dallo Stato assoluto allo Stato democratico non è affatto avvenuto attraverso il disconoscimento dell’etica. Tanto che le rivoluzione francese, prima di arrivare alla
ghigliottina, e precedentemente quella americana formularono ben note dichiarazioni dei diritti umani. Che cosa dunque si voleva con quel passaggio? Si rivendicava che non vi fosse più un’autorità precostituita che definisse regole valide per tutti
secondo esigenze di parte: in altre parole, si rivendicava che al discernimento rilevante sul piano giuridico dei capisaldi etici sui quali fondare la convivenza civile
potessero concorrere tutte le componenti sociali e, tendenzialmente, tutti i cittadini. È su quest’idea che si fonda la sfida delle costituzioni e in genere della convivenza democratica: sono diversi i percorsi personali e culturali, ma i problemi
umani ci accomunano e da percorsi diversi saremo in grado di effettuare, almeno
su alcune esigenze fondamentali, affermazioni etiche condivise. Oggi questa prospettiva da molti è revocata in dubbio, in favore di un altro concetto del pluralismo
democratico: quello secondo cui esso implicherebbe ammettere a priori che di un
bene in sé non sia possibile parlare.
• Fino a ieri discutevamo, magari in maniera accesa, perché volevamo convincere i nostri interlocutori di aver colto meglio di loro che cosa dovesse ritenersi bene. Si dava infatti per scontato, da parte di tutti, che un bene da riconoscere vi fosse. Oggi, invece, si ritiene non di rado che non valga nemmeno la pena discutere,
posto che, una volta esclusa la proponibilità stessa di un’idea del bene in senso oggettivo, A e non-A risultano egualmente sostenibili. E, in tal caso, l’unico criterio
di riferimento, per qualsiasi tipo di decisione, diviene l’espressione corretta sul piano procedurale della volontà (il che nei rapporti intersoggettivi riporta qualsiasi
scelta al modello contrattuale).
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I contenuti della libertà
• Ma una riflessione sulla libertà che sia avulsa dai contenuti della libertà è una
riflessione che schiaccia i deboli. E se si assottigliano troppo gli ambiti in cui, secondo la sfida dialogica del metodo democratico, si assumono insieme alcune decisioni di rilievo intersoggettivo finiscono per prevalere le ragioni della forza. La sensibilità cristiana, d’altra parte, ha sempre tenuto in grande considerazione il concetto di libertà (si rammenti un ben noto simbolo elettorale dell’impegno politico
di ispirazione cristiana): ma lo ha fatto nella chiara consapevolezza che la libertà,
sul piano individuale e su quello sociale, rimanda alla responsabilità morale delle
scelte. Democrazia, allora, è altresì quel sistema in cui si ha il coraggio di decidere
qualcosa insieme. Essa esige di prenderci così sul serio da riconoscere che ci sono
problemi i quali ci accomunano, che c’è un destino comune e che, dopo l’ascolto,
dobbiamo saper prendere alcune decisioni. La democrazia non è quel sistema in
cui questioni di rilievo fondamentale nei rapporti interpersonali possono essere lasciate alla mera sfera contrattuale.
• Ne costituisce un riflesso anche l’impegno recentemente profuso per favorire
il discernimento sociale circa i quesiti oggetto dei referendum sulla legge n.
40/2004. I nodi fondamentali in gioco erano in effetti due: se si dovesse riguardare, per la prima volta, il sussistere della sequenza esistenziale umana in una data fase (quella precoce) come mero materiale biologico, così da escludere la riferibilità
ad essa dei diritti umani, e se del pari il riscontro precoce, ma a vita già iniziata, di
anomalie geneticamente riscontrate potesse implicare la negazione dei medesimi
diritti. Sono nodi di spessore immane (si pensi, per esempio, al rilievo loro dedicato da un filosofo laico come Jürgen Habermas), i quali hanno a che fare col tema
cardine della nostra riflessione: il riconoscimento dell’altro. Riconoscimento che va
riconnesso all’esistenza stessa della vita di un individuo umano e non può dipendere, come abbiamo visto, da un giudizio, in questo caso riferito alle capacità o alle
qualità che l’individuo sia in grado di esprimere, o lo sia nell’una o nell’altra fase
della sua esistenza.
Nella stessa prospettiva, un altro tema paradigmatico di carattere biogiuridico
è dato dall’atteggiamento nei confronti della sofferenza e della malattia. Una volta
esclusa la non doverosità di un accanimento terapeutico correttamente inteso (che
sussiste quando siano palesemente sproporzionate le menomazioni e le sofferenze
indotte da una terapia rispetto ai benefici ipotizzabili), va detto che la tendenza a
spostare il baricentro della riflessione dal profilo oggettivo (quando sussiste una terapia sproporzionata) a quello soggettivo (deciderai tu stesso quando tirarti indietro, quando e come morire, con una decisione vincolante nel rapporto col medico)
nasconde tra l’altro, dietro apparenze umanitarie, rischi enormi proprio dal punto
di vista della tutela dei soggetti più deboli. Possiamo forse dimenticare, come atte-
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sta la letteratura psicologica, che l’espressione di un desiderio formale di rinuncia
alle terapie fuori dai casi di c.d. accanimento terapeutico rimanda a un bisogno più
profondo, di accoglienza, di non abbandono, rappresentando una protesta implicita del malato rispetto alla mancata attuazione di adeguate cure palliative e di un valido supporto psicologico? Possiamo dimenticare che, nel momento in cui si ammette il passo indietro anche ove non sussista un contesto di accanimento, viene a
configurarsi una pressione indiretta fortissima nei confronti del malato e dei suoi
congiunti? Nessuno ti obbliga, ma perché – date le tue condizioni, data l’irreversibilità della tua patologia – pretendi ancora un gravoso impegno medico a tuo favore? Perché non scegli di farti indietro?
• Il fatto è che oggi possiamo garantire a lungo vita e qualità di vita anche
quando non si può guarire, come possiamo garantire il c.d. diritto di non soffrire
anche nell’ambito di patologie gravi. Ciò, tuttavia, ha costi notevoli ed esige scelte
di fondo sull’utilizzazione delle risorse e sulle priorità che il sistema economico sia
chiamato a soddisfare. Vogliamo dunque privilegiare il consumismo più sfrenato e
più funzionale a esigenze economiche immediate, o vogliamo che i beni siano utilizzati al fine di promuovere al meglio ciò che è autenticamente umano? Nessuno
dirà mai che prestare cura, oltre certi livelli, ai sofferenti non più economicamente
significativi costa troppo. Sarà molto più facile, con un apparente messaggio di libertà, proporre al malato l’immagine surrettizia di una medicina oltranzista, che
non opera per il suo bene e per lenire le sue sofferenze, ma congiura per farlo soffrire maggiormente: ottenendo, in tal modo, una rinuncia spontanea alle terapie.
Si tratta di una problematica che evidenzia in modo efficace come non sia sufficiente richiamarsi alla libertà per consolidare la democrazia: del resto, colui che
aspira a essere libero non potrà non domandare, prima o poi, di essere aiutato a
scegliere bene, cioè a scegliere ciò che più autenticamente realizza la sua libertà e
quella degli altri. Un interrogativo ineludibile che non è solo personale, ma investe
l’intera comunità civile e, pertanto, risulta coessenziale alla democrazia.
Cristiani e democrazia
• Ciò richiede che in ambito ecclesiale venga ulteriormente approfondito il tema della presenza dei cristiani nei contesti democratici: affinché anche quando non
sia facile, o non sia contingentemente possibile, tradurre sul piano delle scelte normative ciò che avvertiamo corrispondere a una piena attuazione dell’istanza morale,
quest’ultima possa essere resa chiaramente percepibile nella società e le decisioni democraticamente assunte possano risultare, comunque, le migliori possibili.
Lo dobbiamo a una realtà umana della quale siamo chiamati a essere partecipi
e corresponsabili, anche dinanzi a Dio: si tratta, soprattutto, di individuare i pro-
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blemi etici in gioco e di renderne cosciente l’opinione pubblica, evitando che siano
elusi (come troppo spesso è avvenuto, per esempio, circa i profili cardine della dottrina sociale).
• Di certo non possiamo rifugiarci nel privato, nemmeno in quello di un’alta testimonianza della carità; appare necessario, piuttosto, elaborare una teoria della presenza nelle realtà terrene che investa, soprattutto, i modi attraverso i quali realizzare le
finalità di fondo. Affermata l’esigenza che credenti impegnati in diverse formazione
politiche condividano e valorizzino le istanze etiche irrinunciabili per il cristiano, si
tratta infatti di riflettere, soprattutto, sui criteri attraverso i quali agire nel quadro del
pluralismo sociale per creare i presupposti di un accoglimento pratico di tali istanze.
Tenendo conto del fatto che oggi il dialogo è per molti aspetti più difficile che nel
passato in quanto deve avvenire non soltanto con chi è disponibile alla condivisione
di assunti etici da diversi percorsi umani e culturali, ma anche con chi propone visioni etiche radicalmente diverse, se non addirittura la negazione dell’etica.
Queste prospettive, peraltro, non sarebbero coltivabili se non vi fossero forme
diffuse di testimonianza concreta della carità, quale presupposto per un contributo
davvero credibile alla costruzione di rapporti sociali senza emarginazione e povertà.
• Da un lato, dunque, è irrinunciabile una costante testimonianza della carità,
in qualsiasi contesto politico o sociale. Dall’altro, dev’essere salda la consapevolezza
di un servizio da rendere alla costruzione, con tutti gli esseri umani, delle c.d. realtà
terrene, vale a dire alla definizione dei criteri necessari a impedire il riproporsi o il
perpetuarsi delle strutture di peccato.
Come credenti, si resta membri di una comunità umana più vasta di quella ecclesiale, nei confronti della quale, secondo quanto ci dicono l’esemplificazione del
sale e del lievito e l’antica lettera a Diogneto, dobbiamo almeno tentare di essere
fermento. La passione per la società di cui siamo parte e dalla quale non possiamo
estraniarci è secondo Dio. Il Signore ci chiederà conto se la società in cui ci ha posto sarà stata capace di riconoscere l’umanità del debole e, su tale base, di comprendere che solo un atteggiamento conforme all’intrinseca dignità di ogni individuo
umano è autenticamente giustizia: se avrà saputo essere una società umile, che prima di discutere dei diritti dell’altro, della libertà che sia da assicurargli, è disposta a
riconoscere ogni altro perché esiste, e pertanto come titolare dell’aspirazione a ricevere e a testimoniare amore.
Chi è l’altro? L’altro non è un avversario, l’altro non è il competitore; l’altro è
colui di cui io ho bisogno per essere autenticamente me stesso.
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Rubriche
POLITICA INTERNAZIONALE a cura di Mario Giro
191
RICERCHE a cura di Andrea Bixio
197
RELIGIONI E CIVILTÀ a cura di Agostino Giovagnoli
201
IL CORSIVO a cura di Giorgio Tupini
204
NOVITÀ IN LIBRERIA a cura di Valerio De Cesaris
208
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
189
Politica internazionale
a cura di Mario Giro
Un anno che si apre: dati per riflettere
• Il 2006 si apre con una serie di rapporti sullo Stato del mondo, editi dalle
grandi agenzie ONU e da un certo numero di istituzioni private. I dati non sono
confortanti.
Accanto al protrarsi della povertà al Sud del mondo, che riguarda circa 2 miliardi di persone, l’allarme è lanciato anche per l’aumento della misera nel Nord.
La UE stima a 72 milioni i cittadini europei dei 25 stati membri che sono sotto la
linea della povertà relativa, calcolata in meno del 60% del reddito pro capite medio europeo. Negli USA la povertà è passata dal 12,5% della popolazione nel 2003
al 12,7% nel 2004, cioè a 37 milioni di poveri con un aumento di 1,1 milioni. I
primi dati sul 2005 sono ancor più allarmanti: pare sia stata sfondata quota 40 milioni. La vera sorpresa dei dati americani è che, per la prima volta da anni, sono in
aumento anche i “poveri di razza bianca non ispanici”, segno che le conseguenze
della disuguaglianza economica iniziano a mordere le classi medie considerate meno vulnerabili.
La crisi più grave è innegabilmente quella del Sud, malgrado negli ultimi cinque anni (ossia dal Vertice del Millennio) molti siano stati gli impegni presi dall’Occidente a favore dei paesi in via di sviluppo. La forbice della disuguaglianza
continua ad allargarsi.
La crisi alimentare, prevista da mesi per l’Africa Occidentale e Australe, si è
puntualmente verificata. In Niger, Malawi, Kenya e nord Mozambico sono in pericolo centinaia di migliaia di vite. Gli esperti denunciano che, senza rapidi aiuti,
la fame in Africa aumenterà e colpirà severamente i più deboli: oltre 38 milioni di
bambini soffriranno di malnutrizione nel 2025 se il trend negativo non viene arrestato. Già oggi muoiono ogni ora 1200 bambini a causa delle conseguenze della
povertà. Per dare un’idea dell’ordine di grandezza del problema, si pensi che su
650 milioni di bambini in età scolare nel mondo, 103 non possono accedere all’istruzione in nessun modo, e tra questi 58 milioni sono bambine, di cui il 38%
africane.
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La povertà non è senza conseguenze: nel 2010 si prevedono 50 milioni di rifugiati ambientali (sono 25 milioni), senza contare cioè i rifugiati dovuti alle guerre o
crisi etnico-politiche. La gente continua a spostarsi in cerca di un avvenire migliore. Vista la bassa qualità della vita e la mancanza di sbocchi professionali, i quadri
dei paesi poveri di numerosi settori emigrano in Occidente, impoverendo ancor
più i paesi d’origine. Il British Medical Journal quantifica in 23.000 i medici e gli
infermieri che ogni anno lasciano l’Africa diretti in Europa. Vi sono più dottori
etiopici a Chicago che in Etiopia; più medici malawiani a Manchester che nel loro
paese. Questo brain drain dei poveri (se ne sapeva qualcosa per il settore informatico), è favorito dai paesi europei “importatori”, che preferiscono rivolgersi a personale straniero a buon mercato, contravvenendo anche le regole della “preferenza
comunitaria” che impongono di cercare prima all’interno dei 25 stati membri.
L’emigrazione da Sud verso Nord non rappresenta tuttavia soltanto una perdita
secca per i paesi di partenza: le rimesse degli africani ammontano ufficialmente a 4
miliardi di dollari annui (dati 2002), ma alcuni osservatori stimano che la cifra reale sia molto più alta. Di sicuro c’è che in totale i migranti nel mondo mandano a
casa circa 240 miliardi di dollari USA, denaro che si sposta da Nord a Sud.
Un’altra ferita tra i due emisferi è rappresentata dai sussidi agricoli, su cui tanto
si dibatte ad ogni appuntamento internazionale. Le ONG britanniche recentemente hanno criticato il Governo di Blair per non essersi opposto, malgrado la volontà messa in campo di aiutare l’Africa, agli ultimi accordi commerciali che non
sembrano risolvere tale annosa questione. Ogni anno le sovvenzioni all’agricoltura
di UE, USA, Canada e Giappone fanno perdere al Sud del mondo circa 72 miliardi di dollari, un’enormità se messi a confronto con i circa 69 miliardi di dollari di
aiuto pubblico allo sviluppo. Per avere un’idea di cosa rappresentano i sussidi agricoli per l’Europa dei 25, si pensi che il bilancio UE del 2005 ammontava a 106 miliardi di Euro (cioè 1% del PIL dei paesi membri). Di tale somma l’agricoltura rappresenta ben il 42,6%, mentre le politiche regionali il 36,4%, il funzionamento
dell’amministrazione il 5,4%, le azioni esterne in genere il 4,5% e la politica della
crescita il 7,8%.
Ma le guerre diminuiscono?
• Uno dei temi più studiati dagli esperti di questioni internazionali è quello
dei conflitti. Il 2006 si apre con due ricerche su tale argomento che fanno un certo
rumore. Secondo le conclusioni degli autori, i conflitti sarebbero in drastica diminuzione.
Il Centre for International Development and Conflict Management dell’Università del Maryland, pubblica una vasta ricerca sull’argomento che copre gli anni
dal 2001 al 2005, in cui si conclude che le guerre sarebbero progressivamente diminuite. Gli autori notano che l’anno del massimo numero di conflitti è il 1991,
con 47 guerre, dopodiché il numero non fa che diminuire: 39 nel quinquennio
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’91-95; 32 nel ’96-2000; 25 nel quadriennio 2001-2004. Il rapporto sostiene che
una ragione per la diminuzione del numero dei conflitti sta nell’aumento dei paesi
democratici: le democrazie sono passate da circa 38 nel 1977 a 88 oggi, mentre le
dittature sono scese da 90 a 29.
Tuttavia, a leggere il rapporto integralmente, si può osservare che gli autori
tengono a parte due categorie di conflitti, senza considerarli attivi: i conflitti “contenuti” (contained cioè sospesi, sporadici, a bassa intensità), e i conflitti settled
(letteralmente: “sistemati”), cioè “conflitti repressi” o dove uno ha vinto o regolati
per via negoziale. Queste due ultime categorie, mentre hanno ben poca incidenza
nel periodo 1950-1990 (in tutto 6 contained e 8 settled in 40 anni), ne hanno
molta di più nei 13 anni successivi (1991-2004). Per tale periodo, infatti, gli autori
indicano ben 23 conflitti contained e 20 settled.
In conclusione si può dunque affermare che quella che aumenta dalla fine della
Guerra fredda, è la categoria dei “conflitti sospesi o contenuti”, guerre che si trascinano e non terminano, localizzate soprattutto in Africa. Leggendo i dati nella loro
interezza, si può notare che le cose non sono poi mutate di molto: una trentina gli
Stati in conflitto o grave crisi (che corrisponde circa al numero reale delle guerre);
attorno alla cinquantina gli Stati a rischio e con fenomeni di violenza.
Il secondo rapporto è del Centro per l’Human Security, creato dai governi canadese, britannico, svedese, norvegese e svizzero. Si tratta quindi di un rapporto
sostanzialmente nord-europeo, che utilizza dati di base norvegesi. Anche in questo
caso gli autori sottolineano la diminuzione dei conflitti: da 52 nel 1991 alla trentina del 2003. Anche in Africa ci sarebbe diminuzione, che inizia però solo nel
2002. Il rapporto critica polemicamente ciò che considera: “miti, originati dai media e propagati o ribaditi dalle organizzazioni internazionali e dalle Ong”, come ad
esempio che il numero dei conflitti sia in crescita continua, che le vittime siano al
90% civili, che il numero dei genocidi sia in crescita, che negli anni ’90 vi siano
stati 5 milioni di morti a causa delle guerre, che vi siano 300.000 bambini soldati
nel mondo ecc. Al contrario secondo gli autori, il numero dei conflitti sarebbe sceso del 40% dall’inizio degli anni ’90; i genocidi e massacri di massa scesi dell’80%;
i trasferimenti di armi diminuiti del 33% (dal 1990 al 2003); la media dei morti in
battaglia scesa del 98% per cento dal 1950 (1950: 38.000 vittime per battaglia;
2002 solo 600); infine i putsch militari sarebbero scesi del 60% dal 1963 al 2004.
Gli autori nordeuropei se la prendono vigorosamente con i media che esagerano i dati e le ONG che li divulgano dopo averli manipolati. Inoltre gli autori insistono molto sulla mancanza di dati certi. Tuttavia le conclusioni di questo secondo
rapporto vengono parzialmente inficiate dal fatto che i loro dati escludono a priori
dal conteggio delle guerre (e delle loro conseguenze) i conflitti tra attori non statuali, cioè i conflitti interni, interetnici, ecc. Gli stessi autori ammettono che, se si
contassero anche tali conflitti, la cifra totale salirebbe dalle 32 guerre censite nel
2002 a 66; dalle 20 del 2003 a 51 ecc. Verso la fine, lo stesso rapporto ammette: “il
fatto che le guerre finiscono, non significa necessariamente che le cause sottostanti
siano state prese in esame. Una recente relazione del governo britannico sostiene
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che la decrescita dei conflitti è dovuta alla loro soppressione o contenimento, piuttosto che alla loro risoluzione”. Anche sul terrorismo l’opinione degli autori è critica: non si tratta – secondo loro – del maggior pericolo globale perché negli ultimi
30 anni ha ucciso meno di 1000 persone l’anno.
Si possono rilevare le contraddizioni dei due rapporti sulle guerre, soprattutto
se si tiene conto che le fonti sui dati reali variano molto di criteri e tipo di raccolta.
Sul numero delle vittime di guerra sono disponibili dati molto divergenti: ad esempio nel 2002 la forchetta varia da 19.000 vittime alle 170.000, a secondo della fonte utilizzata.
Inizio d’anno inquieto per Medio Oriente e Balcani
• La malattia del Primo ministro israeliano Ariel Sharon apre uno scenario
inaspettato per il Medio Oriente. Il “vecchio leone” non si riprende da un grave ictus, lanciando sulla scena politica un poco conosciuto successore, Ehud Olmert,
già vice premier. La nuova creatura politica di Sharon, il partito centrista Kadima,
traballa ma regge. Shimon Peres conferma il suo abbandono del Labour e il sostegno al nuovo Premier.
Olmert si trova subito a dover affrontare la crisi delle elezioni palestinesi e la
vittoria di Hamas, secondo elemento inatteso, gravido di conseguenze pericolose.
Al Fatah, malgrado l’appoggio del Presidente Abu Mazen, non riesce più ad imporsi ad un popolo palestinese stanco di corruzione e di politique politicienne. L’abbandono unilaterale della striscia di Gaza ha rafforzato il potere dei leader fondamentalisti, più vicini alla popolazione e meno coinvolti negli scandali legati agli
aiuti internazionali.
Tuttavia la vittoria di Hamas pone sul tavolo un problema politico di prima
grandezza: come continuare a collaborare con un governo la cui componente essenziale non riconosce Israele? In poche settimane gli USA tagliano i fondi e anche
le relazioni con il nuovo esecutivo. L’Europa segue una strada simile ma con prudenza e ad una velocità ridotta. Contatti di vario tipo s’intessono, anche con Israele. Secondo molti osservatori, Hamas non è tanto un movimento fondamentalista
quanto nazionalista: si scommette sul fatto che sia possibile ottenere dai suoi leader
un atteggiamento pragmatico per proseguire il dialogo.
La crisi latente con l’Iran sulla questione nucleare e i sommovimenti libanesi,
non facilitano certo un quadro già scosso dal protrarsi dell’instabilità irachena. Baghdad è infiammata dalla lotta fratricida tra sunniti e sciiti: la distruzione della
Moschea d’oro di Samarra crea un fossato difficilmente colmabile. Gli attentati si
moltiplicano. Un possibile attacco americano alle centrali nucleari iraniane sembra
non del tutto malvisto – dicono gli esperti – da numerosi governi arabo-sunniti,
preoccupati dal rafforzamento dell’ “arco sciita” che, con Iran e Irak, comprende
anche l’Hezbollah libanese e il nord-est saudita.
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• La “crisi delle vignette” mette in luce – se ancora fosse necessario – che i governi arabi non sono in grado di governare la piazza, stabilmente in mano alle opposizioni islamiste. I movimenti radicali approfittano dell’occasione per inscenare
proteste contro i paesi europei. Per alcune settimane non sembra possibile frenare
l’ondata di sdegno popolare e la sua manipolazione da parte dei fondamentalisti.
L’episodio di Bengasi, in cui restano uccise 11 persone durante le manifestazioni di
protesta davanti al consolato italiano, rimane circoscritto anche perché il leader libico Gheddafi vi scorge un tentativo interno di indebolirlo. Nella corsa alla legittimazione popolare, i governi arabi sono costretti a rincorrere le frange più estreme.
Le proteste durano circa un mese per placarsi quasi improvvisamente, ma il segnale
lanciato è stato chiaro.
In marzo Olmert ottiene la sua personale legittimazione popolare con la vittoria alle legislative israeliane. Tuttavia Kadima non riesce a raggiungere il numero di
seggi che le erano attribuiti quand’era ancora attivo Sharon. Si dovrà andare ad una
riedizione della coalizione con il Labour del sindacalista Amir Peretz, che si è ben
difeso e ha mantenuto i seggi precedenti. Il vero perdente è il Likud di Netanyahu,
che passa a quarto partito superato anche dai nazionalisti di Liebermann che raccoglie i voti degli immigrati russi.
• Anche i Balcani i primi mesi del 2006 sono segnati dalla scomparsa di leader
storici. Tra gennaio e marzo muoiono sia il presidente degli albanesi Ibrahim Rugova che l’ex capo dei serbi, Slobodan Milosevich. Gli ex nemici, accomunati ora
dalla scomparsa, lasciano dietro a loro incertezze e problemi irrisolti.
Rugova muore a pochi giorni dall’inizio dei negoziati di Vienna sullo status finale del Kosovo. Gli succede il pacato Fatmir Sejdiu, un intellettuale francofono
che è stato consigliere del Presidente dell’LDK e anche suo vice. La temuta lotta tra
capi del partito non è avvenuta, anche se la leadership della delegazione kosovara ai
colloqui di Vienna viene data all’ex capo dell’UCK (l’esercito di liberazione del
Kosovo) e leader del PDK, Hashim Thaçi, non molto amato dagli occidentali che
sommessamente gli rimproverano violazioni dei diritti umani durante la guerra del
’99. Già l’ex primo ministro kosovaro Ramush Haradinaj, anch’egli una volta comandante dei ribelli armati, ha dovuto subire l’ostracismo internazionale, chiamato a presentarsi davanti al tribunale dell’Aja. Tuttavia il suo posto è stato occupato
dal generale Agim Ceku, già ufficiale dell’esercito croato durante la guerra di Bosnia e protagonista della vittoria contro i serbi delle Krajne. Anche Ceku è stato all’origine della creazione dei reparti militari dell’UCK e ha combattuto nel 99. I
tempi sono cambiati e i giovani capi dell’UCK stanno mettendo un’ipoteca sul futuro nuovo Stato mentre, orfani del carismatico Rugova, i vecchi dirigenti dell’LDK non sembrano in grado di opporvisi.
Milosevich lascia dal canto suo un vuoto soprattutto tra i sostenitori del tribunale speciale per la ex-Jugoslavia: non averlo potuto processare (assieme alla strenua autodifesa condotta in aula dell’ex leader serbo), lascia un gusto amaro in bocca a chi ha creduto nella funzione della giustizia internazionale. Certo è che fino ad
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oggi non sono state molte le condanne definitive del Tribunale. La morte di Milosevich scatena una ridda di voci a Belgrado, proprio mentre il governo è alle prese
con i delicati colloqui di Vienna e il futuro referendum in Montenegro. Né il Presidente Boris Tadic né il Primo ministro Voislav Kostuniça sono in grado di proporre all’opinione pubblica serba l’ipotesi politica di rinunciare a tali territori, nemmeno in cambio di solide compensazioni. La tensione interna in Serbia può aumentare nei prossimi mesi e si prevede una forte ripresa di attivismo da parte del
partito ultranazionalista di Voislav Seselj. Di conseguenza la comunità internazionale si prepara a decidere unilateralmente sullo status definitivo del Kosovo.
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Ricerche
a cura di Andrea Bixio
Gli esiti della regolarizzazione della legge Bossi-Fini
nelle regioni meridionali e nel resto d’Italia
Intervista al Prof. Vincenzo Cesareo (*)
di Fedele Fornaro (**)
F.C. Lo studio presentato si orienta alla ricostruzione degli esiti della regolarizzazione di lavoratori extracomunitari immigrati conseguente all’applicazione della legge
n. 189 del 2002 (la cd. “legge Bossi-Fini”), con particolare riferimento analitico al
contesto delle regioni meridionali. Ne deriva la profilazione di un quadro descrittivo
articolato e sistematico, corroborato dall’impiego di un campione statistico rilevante e
significativo. Con riguardo specifico al secondo volume della ricerca (intitolato “Vecchi
e nuovi volti della presenza migratoria in Italia”), in quali tratti distintivi ritiene di
poter rintracciare le caratteristiche peculiari della condizione occupazionale e socio-economica del lavoratore immigrato regolarizzato nel Mezzogiorno d’Italia?
V.C. Le rilevazioni effettuate (aggiornate al 1° luglio 2005) consentono di considerare come – con riguardo peculiare ai lavoratori immigrati regolarizzati che risiedono nelle regioni meridionali ricadenti nell’ambito dell’Obiettivo 1 – i settori
preferenziali di occupazione corrispondano, almeno in via tendenziale, ai comparti
dell’agricoltura (48,2% del totale dei presenti) e dei servizi domestici (assistenza
domiciliare agli anziani non autosufficienti e collaborazioni familiari, per una percentuale pari al 21,0%). Sotto questo specifico angolo visuale, il contesto meridionale si distingue esplicitamente rispetto all’area nord-occidentale del paese, dove
prevale l’applicazione dei lavoratori immigrati regolarizzati allo svolgimento di
mansioni afferenti ai comparti dell’edilizia (42,1%), dell’industria e delle diverse
articolazioni del terziario. Se il rilievo percentuale dell’impiego di manodopera
straniera nel comparto agricolo meridionale permette di focalizzarne un’area importante di inserimento lavorativo, la variegatezza del panorama socio-economico
sotteso alla dimensione dell’immigrazione regolarizzata non consente, per conver-
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so, di enucleare e definire paradigmi schematici ed esaustivi di ricostruzione della
consistenza quantitativa e qualitativa della condizione sociale del lavoratore extracomunitario immigrato (sollecitando, invece, il confronto problematico con una
serie di indici e tipologie diversificati, suscettivi di una migliore comprensione del
corrispondente tessuto di complessità). Ciò nondimeno, pare significativo osservare come la componente femminile dell’immigrazione, ancor più se irregolare, rimanga segregata in un contesto lavorativo, in cui aumentano sia i rischi della soggezione a regole non scritte riguardanti compiti da svolgere, orari di lavoro e remunerazioni, che le vischiosità di dispiegamento di processi virtuosi di mobilità professionale e sociale. Possono, inoltre, rinvenirsi rilevanti distinzioni territoriali (rispetto al totale nazionale: il 30% per il Mezzogiorno d’Italia, il 18% per il Centronord) in ordine alle rispettive quote percentuali di immigrati privi di titolo di studio, applicati allo svolgimento di mansioni lavorative dissimulate nel sistema dell’economia sommersa (il cd. “lavoro nero”).
F.C. Quali sono le vie privilegiate di accesso al lavoro degli immigrati nei diversi
contesti socio-economici di riferimento? Nella relazione comparativa tra le province
meridionali e quelle centro-settentrionali, a questo specifico riguardo, prevalgono profili di analogia e corrispondenza ovvero linee di marcata discontinuità?
V.C. Con particolare riguardo al confronto comparativo tra le province settentrionali e le regioni meridionali, direi che possono considerarsi prevalere significativi profili di analogia e corrispondenza in ordine alle modalità preferenziali di accesso degli immigrati al mercato del lavoro: appare predominante, infatti, il ricorso
a ricerche informali di lavoro connotate dall’intervento ausiliativo di amici, parenti
e connazionali (45% del totale nazionale), mentre il 17% del campione intervistato dichiara di utilizzare reti relazionali di conoscenze italiane (nelle aree meridionali si rivela, peraltro, marginale il ricorso alle organizzazioni pubbliche e private istituzionalmente orientate a favorire l’incrocio di domanda e offerta di lavoro).
F.C. Tra le dimensioni implicate dall’impiego rispettivo dei termini “regolarizzazione” e “sanatoria”, sembrano ricorrere peculiari differenze sostanziali, laddove la divaricazione semantica pare accompagnarsi all’evocazione di filosofie politiche e legislative esplicitamente distinte. In quale accezione, dunque, possiamo parlare di “finalità
di regolarizzazione” con riguardo alla legge Bossi-Fini?
V.C. Convengo con l’opportunità di segnalare la netta distinzione di filosofie
legislative evocata dall’impiego dei termini “regolarizzazione” e “sanatoria” (pur allusivi di pratiche ricadenti all’interno della medesima procedura, finalizzata all’ottenimento di validi titoli di soggiorno in forma successiva al momento dell’ingresso in Italia di cittadini extracomunitari). Più in dettaglio, i provvedimenti di regolarizzazione sembrano inscriversi in un orizzonte inclusivo, favorente percorsi di
ingresso definitivo del soggetto nella legalità (mediante la previsione – oltre al per-
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messo di soggiorno ed alla cancellazione della rilevanza giuridica della pregressa
condizione di illegalità – di una serie di oneri orientati alla promozione della sua
stabile integrazione sociale). Le sanatorie, all’opposto, non valorizzano l’inserimento della condizione dell’immigrato in una prospettiva di legalità, limitandosi all’apprestamento di garanzie temporanee in ordine alla legittimità del soggiorno,
senza risolvere le questioni critiche collegate alla sua futura preservazione. Per queste ragioni, sembra ragionevole sostenere che la riforma in discorso possa denotare
sufficienti finalità di regolarizzazione, nella misura in cui la concessione del titolo
di soggiorno – subordinata alla stipula di un contratto di lavoro – offre all’immigrato extracomunitario più significative opportunità di consolidare la propria condizione giuridica alla scadenza del permesso.
F.C. Con la ricerca, si propone, tra l’altro, una lettura problematica della concezione legislativa dello straniero come lavoratore ospite e temporaneo (gastarbeiter): in che
misura la disciplina legislativa introdotta con la legge n. 189/2002 denota tratti di incoerenza con la ratio e gli effettivi contenuti della legge? Quale grado di adeguatezza
può riconoscersi alla rigidità dell’impianto normativo vigente rispetto al rilievo delle
spiccate segmentazione e flessibilizzazione dei rapporti d’impiego?
V.C. Direi che, effettivamente, l’analisi giuridica della disciplina legislativa in
argomento possa denotare la ricorrenza di taluni nodi problematici, corrispondenti, per esempio, alla previsione di concedere ai regolarizzati permessi di soggiorno
di durata annuale (costringendoli all’interno di una sorta di percorso procedurale
permanente) e di vincolarne il rinnovo, per i domestici, alla permanenza del rapporto di lavoro originario. Senza dubbio, si rischia, in questo senso, l’ingenerazione dell’impressione di connotare la regolamentazione della presenza lavorativa degli stranieri extracomunitari in termini di concezione ospitale e di necessità temporanea (scaturenti dal bisogno di colmare vuoti produttivi determinatisi per l’indisponibilità di corrispondente manodopera autoctona). Queste considerazioni non
escludono, d’altra parte, che la normativa abbia garantito condizioni di semi-stabilità agli immigrati regolarizzati. Rimangono aperte, tuttavia, le questioni interrogative involgenti la difficile congruenza della normativa vigente con un mercato
del lavoro fortemente segmentato come quello italiano, dove cresce la spinta verso
la flessibilizzazione dei rapporti d’impiego e ricorrono frequenti i passaggi tra le
condizioni del lavoro, della disoccupazione e del lavoro informale.
F.C. Dove si rinvengono, in termini territoriali, i tassi più elevati di irregolarità
degli immigrati extracomunitari e quali sono le ragioni di tali peculiarità geografiche?
V.C. Indubbiamente, i tassi più elevati di presenza irregolare di immigrati extracomunitari si rinvengono nelle regioni del Mezzogiorno d’Italia (secondo una
percentuale rilevata di soggetti privi del permesso di soggiorno pari al 27% dei presenti, significativamente maggiore rispetto al dato del 17% quale cifra di riferi-
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mento per le regioni centro-settentrionali). La ragione principale di tale divaricazione percentuale e delle correlative peculiarità geografiche sembrerebbe consistere
nelle rilevanti difficoltà di assorbimento, inclusione e mantenimento nei circuiti
della regolarità lavorativa da parte di consistenti frazioni del sistema meridionale
della produzione di beni e servizi.
F.C. Accanto ai risultati positivi prodotti da tale “grande regolarizzazione”, emergono irrisolte alcune questioni relative alla gestione complessiva del fenomeno migratorio. Le regolarizzazioni straordinarie possono condurre, in effetti, non soltanto alla produzione di problematiche stratificazioni legislative, ma anche alla diffusione di una
immagine tendenziale di cedevolezza dell’ordinamento, suscettiva del potenziale richiamo di nuovi ingressi clandestini. Quali potrebbero essere le ragioni della mancata
previsione ordinamentale di un meccanismo ordinario di regolarizzazione, che non richieda la reiterazione periodica di misure straordinarie?
V.C. Ritengo di poter osservare come il centrale punto dolente di tali dinamiche legislative risieda proprio nel carattere straordinario dei provvedimenti adottati. Il legislatore sembra, in altri termini, non metabolizzare l’idea per la quale i flussi migratori siano, ormai, diventati fenomeno irriducibile e strutturale. Nel confronto dell’esperienza italiana con quella straniera, si percepisce, in forma nitida e
sensibile, il valore anche simbolico della mancata previsione ordinamentale di un
meccanismo ordinario di regolarizzazione, che sia complementare o, addirittura,
alternativo rispetto ai provvedimenti straordinari. E proprio tale ardua, inadeguata
presa di coscienza dell’ineludibilità del confronto legislativo con il fenomeno migratorio pare condurre alla stratificazione di interventi normativi periodici, potenzialmente sensibili alle peculiarità della contingenza politica, ma non integralmente appaganti in termini sostanziali di integrazione sociale, ma anche nella prospettiva del dispiegamento di circuiti adeguati finalizzati all’ulteriore riconoscimento
della cittadinanza nazionale.
* Professore ordinario
Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
** Professore a contratto
Università degli Studi di Cassino
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Religioni e Civiltà
a cura di Agostino Giovagnoli
Ricordo di Giorgio Rumi
• Non sembri improprio ricordare Giorgio Rumi in questa rubrica dedicata a
Religioni e Civiltà. Malgrado le apparenze, infatti, gli studi e le ricerche di Rumi
andavano ben al di là di un limitato orizzonte di provincia. Ha infatti indagato
ampiamente sulla storia della Lombardia, interpretandola come un crocevia importante della vicenda europea. Le sue conoscenze di questa storia risalivano indietro nel tempo, alla ricerca delle radici antiche della vocazione internazionale di
questa terra. Ma lo interessava in particolare il periodo austriaco e, definendosi ironicamente “austriacante”, confessava la contraddizione di sentirsi attratto da quel
grande mondo multinazionale e multireligioso, benché convinto della positività
del Risorgimento e dell’ Unità italiana. Pur comprendendo quella che egli chiamava questione settentrionale, era lontano da rozzi sensi di superiorità verso i meridionali. Amava Milano e le sue istituzioni, soffriva se l’una o le altre non si accorgevano di lui e lo trascuravano, negli ultimi anni è stata una delle poche voci capaci
di interpretare i malesseri e le contraddizioni della “capitale morale”. Ma non era
tenero con il suo mondo lombardo e in particolare con Milano, cui rimproverava
di non aver mai saputo o voluto oltrepassare confini cittadini o regionali, assumersi
responsabilità più ampie, esprimere una classe dirigente davvero nazionale, per una
sorta di dedizione ossessiva agli “affari”.
• Rumi infatti legava i suoi studi ad un senso di responsabilità civile che ne
ispirava giudizi e posizioni. Ed è questo un secondo importante motivo per ricordarlo su «Civitas». È noto che l’aristocrazia risorgimentale, milanese e lombarda,
fedele al papa e, insieme, sinceramene patriottica ha rappresentato uno dei suoi temi preferiti. Collocandola nell’ottica del lungo periodo, ha capito e interpretato,
con finezza e indulgenza, la versione intransigente del cattolicesimo lombardo, attivo e laborioso, ma in questa tradizione non si riconosceva pienamente. Nel tempo, il conciliatorismo ottocentesco dei “suoi” lombardi è diventato per lui una
chiave anche per capire e giudicare il tempo presente. Come loro, cercava di avere
un senso forte dell’istituzione ecclesiastica, raro anche tra i cattolici, e un senso alto
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dello Stato, non frequente neppure tra i laici. Rumi si riconosceva nella definizione
di moderato, ma capiva i “comunisti” e non era un conservatore, come molti lo
hanno accusato di essere ed altri avrebbero voluto che fosse. Il suo moderatismo,
peraltro, non aveva nulla a che fare con il clerico-fascismo, il filo-fascismo o il postfascismo, anche se non amava la retorica antifascista ed era refrattario alle posizioni
ideologiche.
• Rumi se ne è andato in punta di pedi, con grande discrezione, con lo stile
che gli era proprio. Il vuoto che lascia non è solo culturale: è anzitutto la sua umanità che rimpiangono acutamente i suoi allievi e molti con loro. Chi ha collaborato
con lui conosce il suo rispetto per le posizioni altrui e per approcci anche divergenti. Negli ultimi mesi, consapevole della sua grave malattia, ha dedicato molto del
suo tempo (sempre più breve) e delle sue residue energie (sempre più preziose) a favore di coloro verso cui si sentiva responsabile: non voleva che la sua morte “danneggiasse” nessuno, in particolare le persone più giovani e in collocazioni precarie.
Questa capacità di guardare oltre i limiti della propria esistenza, questo voler aiutare chi sarebbe vissuto dopo di lui è espressivo di una generosità discreta, ma radicata in motivazioni profonde. Dietro il suo riferimento continuo al mondo “perduto” dell’aristocrazia, quasi un vezzo dietro cui talvolta si nascondeva, si mischiavano la fiducia del credente e un senso laico delle responsabilità etiche.
• La sua umanità, le sue inclinazioni, i suoi orientamenti si sono intrecciate
strettamente con i suoi interessi scientifici e il suo percorso di ricerca. Laureato in
Università Cattolica, è stato allievo di Ettore Passerin d’Entreves, con cui condivideva origini aristocratiche e nostalgie cattolico-liberali. Con qualche dispiacere,
egli ricordava che non gli era stato possibile continuare i suoi studi nell’Ateneo dove era stato studente e tra gli studiosi cattolici di storia contemporanea si è trovato
talvolta isolato. Anche nelle università dove ha insegnato, non è stato sempre apprezzato, anche se negli ultimi anni ha goduto – nell’Università di Milano – di stima, simpatia e affetto. È stato forse troppo liberale per essere amato da un certo
mondo cattolico e troppo guelfo per essere accettato pienamente dai laici.
• Forse il capitolo più singolare della sua parabola è stato quello dell’incarico
di consigliere della RAI. Lo ha accettato, malgrado fosse molto lontano dal mondo
televisivo, convinto che la RAI dovesse svolgere pienamente la sua funzione di servizio pubblico. Ciò che più lo ha colpito negativamente di questa esperienza è stata
la logica di partito che ispirava gran parte dei dibattiti e delle decisioni cui egli era
chiamato a partecipare. Malgrado i molti “avvisi” ricevuti da coloro che ne avevano
sostenuto la nomina, non ha mai seguito le istruzioni che gli venivano dal “principe”, come egli diceva alludendo ai poteri esterni che dominavano l’azienda. Rumi
ha deluso i suoi sponsor: a causa dell’indipendenza mostrata nel servire l’interesse
pubblico, la carica di consigliere di amministrazione della RAI non è stata per lui
premessa di ulteriori prestigiosi incarichi.
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Finita in anticipo questa esperienza, è tornato senza rimpianti agli studi e all’università. Qui, sorpreso dalla malattia, non si è sottratto alla “cognizione” della sua
malattia come di un “disastro irrimediabile”, ma l’ ha guardata con l’ironia di sempre: “fai, fai, e d’ improvviso ti dicono mi spiace, è finita”. Queste parole, di una
sua intervista di poche settimane fa, si riferivano ad altri, ma forse Rumi, pronunziandole, pensava anche a sé.
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Il “Corsivo”
a cura di Giorgio Tupini
Scientismo bigotto
Alcuni anniversari darwiniani hanno attivato lo zelo dei soliti bigotti dello scientismo.
È singolare come il pensiero di Darwin – o meglio, una certa sua interpretazione –
sia stato salutato da oltre un secolo e mezzo come il riscatto e la rinascita dell’ateismo, la
tomba della religione. L’ateismo dei pochi rispetto al sentimento religioso dei più non
aspettava altro per puntellarsi.
E così un noto ultrà manifesta sul «Sole-24 ore» tutta la sua allergia per “le ammorbanti chiacchiere intorno al nulla imposte dai detrattori del darwinismo” e sentenzia che gli “anti-darwinisti italiani sono quattro poveretti, scientificamente e accademicamente”; che “non ci si può aspettare che le religioni riconoscano che la loro esistenza dipende dal fatto sperimentalmente provato (sic) che la nostra specie ha sviluppato,
sotto la pressione della selezione naturale e per migliorare le interazioni sociali, una capacità particolarmente sofisticata di autoingannarsi”.
In termini più controllati, ma non meno perentori, Cavalli-Sforza ha affermato
che la “selezione naturale ha permesso l’origine della vita” e che l’uomo è frutto dell’evoluzione “culturale” (dello scimpanzè?).
Da parte sua la RAI non è stata da meno nel suo servizio pubblico! Il 27 marzo
scorso Giorgio Zanchini, conduttore del “Baco”, si faceva banditore entusiasta del
darwinismo compiuto, della sua “svolta epocale”, della fine di Dio, dell’uomo casuale
mentre i suoi intervistati, tra cui un naturalista, annunciavano il “congedo del pensiero
moderno dalla fede in Dio” (ma non l’aveva già incautamente profetizzato Nietzsche
oltre un secolo addietro?). E un povero e incerto “Don Carlo” invitato a dire la sua, dava una zaffata di par condicio alla trasmissione.
Potremmo continuare con questo tipo di citazioni, ma già quelle addotte sono sufficienti a illuminare una vena minoritaria ma pertinace, che reagisce con arroganza e
saccenza alla pacatezza di tanti scienziati (tre su quattro si dichiarano credenti), alle
attestazioni popolari di religiosità, al tramonto dell’ateismo dall’ex impero sovietico alle
Americhe. Ma tralasciando questi dati macro, che andrebbero elaborati per comprenderli meglio, val la pena di riepilogare brevemente i termini dell’ambigua storia del
darwinismo.
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Darwinismo datato e progressi scientifici
Gli studiosi sanno che il pensiero di Darwin non è stato sempre coerente. Nella
sua opera fondamentale, “L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale”,
egli stesso espresse qualche dubbio sulla dimostrabilità del suo principio fondamentale
secondo il quale la selezione naturale, la legge del più forte, avrebbe determinato l’origine delle specie in base a un processo lentissimo, plurimillenario fatto di piccoli,
minimi, graduali passi. Se infatti così fosse andata la storia dell’evoluzione, si sarebbero dovute trovare nei reperti fossili tracce delle specie intermedie – i famosi anelli
mancanti! – attestanti le graduali trasformazioni. Invece tali evidenze paleontologiche difettavano ed egli stesso si trovò di fronte a specie nuove, non evolute da precedenti specie, che chiamò “mostruosità o altre variazioni di strutture profonde e repentine”. Affermò dunque che se la paleontologia non riuscisse a dare dimostrazione delle forme intermedie, ne deriverebbe un serio colpo alla sua teoria, ma espresse – e la
ripetè spesso – la convinzione che prima o poi quelle prove sarebbero venute. Non sono ancora venute.
È giusto notare che Darwin, in quel libro, è molto meno apodittico di quanto vogliano far credere i suoi epigoni attuali. “La nostra ignoranza delle leggi della variazione è profonda”. L’afflato finale dell’Origine è lirico, quasi religioso: “Così dalla
guerra della natura, dalla carestia e dalla morte segue direttamente l’effetto più stupendo che possiamo concepire, cioè, la produzione degli animali più elevati”. “Vi è
certamente del grandioso in queste considerazioni sulla vita e sulle facoltà di essa, che
furono in origine impresse dal Creatore in poche forme o forse in una sola; e nel pensare che, mentre il nostro pianeta si aggirava nella sua orbita, ubbidendo alla legge immutabile della gravità, si sviluppavano da un principio tanto semplice, e si sviluppano
ancora, infinite forme, sempre più belle e meravigliose”. Sembra un riconoscimento del
“disegno intelligente”!
Il timbro cambia nella “Discesa dell’uomo”, dove riaffiorano, a nostro avviso, le
inclinazioni atee del giovane Darwin – testimoniate dai suoi famosi taccuini – e prevale ormai l’influenza dei suoi amici negatori del Creatore come T. H. Huxley, che già
prima di lui, nel “Posto dell’uomo nella natura”, aveva proclamato la discendenza
scimmiesca dell’uomo. E altrettanto afferma ora Darwin.
Un suo fedele ma prudente sostenitore, Giuseppe Montalenti, nella sua prefazione
all’ “Origine” in versione italiana, di fronte all’obiezione dei critici che nessuno degli
argomenti di Darwin è una vera e propria inconfutabile prova, ammette: “Si tratta di
indizi più che di prove”. E aggiunge: “Appena usciti i libri di Darwin, molti socialisti
e comunisti esultarono, perché vedevano in questa dottrina una teoria scientifica che
conduceva all’ateismo e alla soppressione delle classi sociali”. “Dal classismo al razzismo…che nella teoria darwiniana ha cercato una sua giustificazione scientifica”. Lo
sanno bene le vittime del razzismo nazionalsocialista.
La crisi profonda del darwinismo ebbe un tentativo di svolta attorno al 1920
quando si cercò di rimediare alle lacune evidenti in materia molecolare e genetica con
la teoria sintetica, che acquisiva i dati dalle più recenti ricerche in quei campi per l’i-
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niziativa di discepoli come Haldane, Fisher, Wright, Crick, Mayr, ecc. La nuova teoria non abbandona però il filone ateo, la credenza nelle lente, graduali microevoluzioni, e si oppone alle speciazioni improvvise e repentine. È questo un principio importante, e forse dirimente, nella disputa continua, che un secolo dopo Darwin si è arricchita delle conoscenze sul DNA e sul RNA e ha metabolizzato le tesi sul caso e la necessità dell’angosciato Monod.
È importante rilevare che la scienza ha potuto accertare la mancanza di mutazioni da molto tempo che cioè, come dicono Hardey e Weinberg, una popolazione mantiene inalterata la propria struttura genetica per innumerevoli generazioni, in contrasto
con le vetere supposizioni del naturalista britannico. D’altra parte, dai dati della
scienza, dalle diverse osservazioni della natura e dalle indicazioni più aggiornate della paleontologia si evince l’importanza della macroevoluzione e cioè di una evoluzione
trasformatrice delle specie – e di classi, e di ordini superiori – che agisce per salti, per
meccanismi rapidi come la speciazione e la neotonia. Sono considerazioni, che investono ormai da vicino l’apparizione dell’uomo sulla scena del cosmo.
L’assordante ripetizione della circostanza che l’uomo e lo scimpanzè condividono il
98% del genoma non è sufficiente per identificare l’uomo con le scimmie superiori,
tante sono le diversità qualitative, spirituali, morali, intellettive, culturali. Nessuna
sinfonia beethoveniana, nessuna scultura michelangiolesca, nessuna Divina Commedia, nessun dizionario o scoperta scientifica portano la firma di una scimmia.
Attenderci risposte precise dalla scienza sulla discesa dell’uomo sarebbe pretesa eccessiva. Sono comunque interessanti le conclusioni di un gruppo interdisciplinare composto da genetisti, paleontologi, chimici, antropologi, specialisti di storia e biologia dei
Primati, di varia nazionalità e religione (“Working group on: Recent Advances in the
Evolution of Primatie”, Pontificia Academia Scientiarum). Nelle conclusioni si delinea l’orientamento che 3 o 4 milioni di anni fa sarebbe emersa tra i Primati una
chiarissima (striking) tendenza evolutiva che ha condotto all’attuale Homo sapiens.
Sempre quelle conclusioni danno atto che alcuni aspetti rimangono irrisolti quali, ad
esempio, il momento preciso della divergenza e quindi dell’apparizione dell’uomo,
“Noi riconosciamo apertamente che c’è uno spazio per le differenze di opinione sulla
formazione delle specie e sul meccanismo della mutazione evolutiva. Ciò nonostante,
“noi siamo convinti che l’abbondanza di documentazioni (mass of evidence) pone al
di là di ogni seria disputa il concetto della discesa divergente dell’uomo da altri Primati”.
Tra tante divergenze, dunque, emerge almeno una convergenza di documentazioni e di convinzioni: l’autonoma comparsa dell’uomo sulla terra. E, francamente, costatare che ciò ci toglie di dosso un po’ di odore di stalla non dispiace.
Sulla stessa linea del “Working group” è una intensa ricerca condotta dalla University of Louisiana raccolta nel libro “Folk Physics for Apes” (Oxford, 2000) che mette in luce “le spettacolari differenze mentali” esistenti tra gli uomini e le scimmie e che
sfida direttamente le osservazioni di certa scienza e di certa opinione pubblica, che
amano pensare alle somiglianze senza approfondire le diversità.
206
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Intolleranza e timidezza
Dunque la scienza obiettiva non segue la metafisica atea, in cui si rifugiano gli intolleranti della retroguardia darwiniana.
Armando Massarenti, sempre sul «Sole-24 ore», ci indica come uno degli autori più
autentici e fascinosi di quella retroguardia Richard Dawkins. Lo conosciamo, lo conosciamo. “L’orologiaio cieco”, uscito dalla sua penna, è un libro di metafisica annunciato
come libro di scienza. Scrive infatti l’autore che il suo “non è un trattato scientifico imparziale” e che anzi “lungi dall’essere obbiettivo è stato scritto con una passione che in
un periodico scientifico accademico potrebbe suscitare commenti sfavorevoli”. Comprendiamo poi come il suo libro abbia davvero poco a che fare con la scienza quando
esprime “la piena soddisfazione intellettuale”, che la teoria di Darwin gli dà per la possibilità di adottare un punto di vista ateo. Ci rattristiamo che tanto ingegno si abbassi
all’intolleranza quando non sopporta il dialogo con chi non la pensa come lui. Perfino
gli esponenti del cladismo trasformato – che non accettano a occhi chiusi la discendenza
ramificata dell’albero di Darwin – gli causano vera sofferenza. Due di loro, Nelson e
Platnick dell’“American Museum of Natural History” di New York, hanno scritto – addirittura (sic) commenta Dawkins – che il darwinismo è una teoria che è stata messa
alla prova e trovata falsa. Discute di tanta audacia finché può. Ma poi non ce la fa più
e conclude: “ora farei meglio a uscire e andare a zappare il giardino”. Il lettore giudicherà da sé. Rimane la difficoltà di capire la natura e la ragione di questa speculazione
atea. Perché si ha paura di Dio? Perché tanta insistenza sull’animalità dell’uomo?
E vorremmo aggiungere: perché c’è tanta timidezza, quasi un complesso di inferiorità nel nostro Paese di tanti credenti verso questi sapientissimi?
È così difficile pensare e sostenere che l’evoluzione è la continuazione della Creazione? Se è una carenza di aggiornamento, occorre provvedere perfino tra i teologi e gli uomini di cultura cristiani.
Pur distinguendo il piano della religione da quello delle “scienze profane”, il Vaticano II ha invitato a una migliore conoscenza di queste ultime. Il grande Papa polacco
e l’attuale Pontefice tedesco sono stati e sono su questa linea. E nelle circa 380 Università e istituzioni cattoliche superiori dell’America, nelle 159 delle Filippine, nelle 144
dell’India molti programmi di insegnamento sono molto più aggiornati, formativi e
fortificanti di quanto siamo abituati a pensare.
Siamo di fronte a un problema complesso, che merita riflessione e approfondimento.
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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Novità in libreria
a cura di Valerio De Cesaris
Mondo
«Novità in libreria» propone per questo numero di «Civitas» un percorso bibliografico sui temi della laicità e del rapporto tra Stato e religioni, attraverso brevi schede di
alcuni libri pubblicati negli ultimi anni.
Geminello Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari 2005,
192 pp., € 12,00
Il volume raccoglie «quattordici voci autorevoli unite dal rifiuto di ogni integralismo»: Remo Bodei, Carlo Galli, Francesco Remotti, Vincenzo Ferrone, Francesco
Margiotta Broglio, Tullio De Mauro, Claudio Magris, Pietro Scoppola, Andrea Riccardi, Khaled Fouad Allam, Anna Foa, Ida Dominijanni, Umberto Veronesi. Come
spiega Preterossi nell’introduzione al volume, il tentativo è quello di rivendicare «in
modo critico e spassionato, le ragioni della laicità». I laici sono qui considerati tutti
coloro che «rifiutano di fondare la politica, le istituzioni, la convivenza civile su basi
teologiche, fideistiche». L’esigenza di una difesa delle ragioni dei laici deriva da un
reiterato «uso politico della religione, volto a delegittimare l’eredità della cultura laica
moderna e i suoi portati storici». Bodei difende quindi l’etica laica, che non è necessariamente relativistica; Riccardi, riprendendo il celebre saggio di Benedetto Croce,
Perché non possiamo non dirci cristiani, spiega «perché non possiamo non dirci laici», e
pur senza negare le possibili «discordie» tra le ragioni del laico e quelle del credente,
pone l’accento sul necessario dialogo; Margiotta Broglio tratta la laicità dello Stato
italiano, mentre Scoppola affronta il tema «cristianesimo e laicità». Si tratta di riflessioni di grande attualità, certamente utili per approfondire i temi della laicità e del
rapporto tra religione, politica e vita pubblica del paese.
Gaetano Quagliariello, Cattolici, pacifisti, teocon. Chiesa e politica in Italia dopo la
caduta del muro, Mondadori, Milano 2006, 194 pp., € 17,00
208
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Il volume si apre con un’ampia Overture – più di un’introduzione, meno di una
trattazione sistematica – dedicata ai cattolici nello Stato post-unitario, con particolare attenzione al “mancato” incontro con i liberali sul terreno dei valori per la prevalenza della tematica Stato–Chiesa secondo un’impostazione concordataria. Nel
testo, Quagliariello sviluppa un’analisi della collocazione politica dei cattolici dopo
la fine della loro unità politica nella Dc, con particolare attenzione all’impegno di
Giovanni Paolo II e del card. Ruini per una ripresa del ruolo pubblico dei cattolici
nella società italiana. L’autore, pur apprezzando tale impegno, segnala un limite in
entrambi: il primo non si sarebbe svincolato dalla contraddizione rappresentata
dall’apertura al dialogo interreligioso (soprattutto con l’islam), fino a scivolare in
derive pacifiste, e il secondo sarebbe stato troppo incline ad accordi di vertice “neogentiloniani” tra Chiesa e potere politico. Libero da entrambi questi limiti, appare
invece a Quagliariello Benedetto XVI, a suo giudizio in piena sintonia con i teocons italiani.
Giuliano Amato, Vincenzo Paglia, Dialoghi post-secolari, Marsilio, Venezia 2006,
110 pp., € 7,50
Nelle società «post-secolari», secondo la definizione di Habermas, cresce il bisogno di Dio e del mistero. La convinzione che le religioni sarebbero state spazzate
via dalla secolarizzazione è ormai alle spalle, tanto che molti osservatori parlano già
da tempo di rinascita del religioso, sulla scia dell’ormai classico La revanche de Dieu
di Gilles Kepel. Al tempo stesso nelle nostre società emergono sfide nuove, con le
quali ciascuno è chiamato a confrontarsi: le potenzialità quasi illimitate della scienza, che aprono grandi prospettive di progresso ma che necessitano di essere governate in maniera intelligente, le questioni etiche legate al rispetto della vita e della
dignità umana, le esigenze di sicurezza e i diritti di libertà che talvolta sembrano
inconciliabili. Giuliano Amato e Vincenzo Paglia, entrambi “esperti” di dialogo,
ragionano sulla necessaria alleanza tra fede e ragione, per l’affermazione di un nuovo umanesimo nel XXI secolo. I loro «dialoghi post-secolari» sono densi di spunti
importanti per comprendere meglio il nostro tempo, in cui, come afferma Paglia,
c’è bisogno «che fede e ragione, religione e scienza, riprendano a camminare assieme nel rispetto delle reciproche competenze».
Elisabetta Ambrosi (a cura di), Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia
nel XXI secolo, Marsilio, Venezia 2005, 190 pp., € 10,00
Il relativismo è bello? Per molti, la difesa dell’identità cristiana dell’Europa e la
lotta al relativismo – sia esso culturale, religioso o “etico” – sono divenuti negli ultimi anni importanti cavalli di battaglia. Se il mondo è nel caos, se c’è incertezza nel
presente e presumibilmente ve ne sarà nel futuro, la causa, almeno dal punto di vi-
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
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sta “occidentale”, sarebbe da ricercarsi principalmente nel relativismo. D’altro canto, il tema dell’identità – che sia possibilmente un’identità forte – è molto in voga
di questi tempi. Il libro curato da Elisabetta Ambrosi si pone in un’altra prospettiva: raccoglie le riflessioni di numerosi studiosi di filosofia, italiani e americani, che
pongono interrogativi e tentano di dare delle risposte su pensiero e società nel XXI
secolo, con una rivalutazione che diviene persino, nel saggio di Enzo Di Nuoscio,
un «elogio del relativismo». C’è infatti una prima parte del libro che pone sotto accusa il relativismo e una seconda parte, ben più corposa, che lo difende. Che si
condividano o meno le tesi degli autori, Il bello del relativismo contiene contributi
di indubbio interesse, utili alla riflessione non soltanto per filosofi o studiosi di filosofia.
Giulio Giorello, Di nessuna Chiesa. La libertà del laico, Raffaello Cortina Editore,
Milano 2005, 76 pp., € 7,50
L’agile libretto di Giorello è un attacco al «progetto dei teo-con» che, combattendo il relativismo, metterebbe a repentaglio la libertà della ricerca e le garanzie
dei diritti dell’individuo. A suo avviso, il “laico” dovrebbe non soltanto reagire alle
“incursioni” della religione nella sfera politica, ma passare al contrattacco, soprattutto quando la società appare minata da una corrosiva “presunzione di infallibilità” di alcuni. Dalle pagine di Giorello però non risulta chiaro chi sia il “laico”, al
di là della spiegazione etimologica del greco laikos, ovvero “popolare, volgare”, ma
anche “profano”, con un rimando al termine laos, “popolo”. Il “laico” di cui parla
l’autore appare naturalmente contrapposto al credente, per convinzioni e obiettivi,
e la riflessione sembra polarizzarsi eccessivamente: il credente è troppo identificato
con le posizioni teo-con, il laico, sul versante opposto, diviene il custode delle libertà individuali e della tolleranza nei rapporti umani. Nel complesso, si ha l’impressione di un pamphlet con alcuni passaggi marcatamente polemici. Di contro il
libretto di Giorello, ricco di citazioni e di riferimenti a numerosi filosofi europei, è
di piacevole lettura.
Giovanni Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, Bruno Mondadori, Milano
2005, 210 pp., € 19,00
I temi della bioetica appaiono sovente molto complessi e, come accade in altri
campi, di fronte alla complessità si rischia talvolta di affidarsi a comode semplificazioni. È la parabola di chi finisce per stigmatizzare l’etica cattolica come contraria
al progresso scientifico, o di chi, sul versante opposto, rifiuta sui temi della bioetica
qualsiasi dialogo, affidandosi ad un’intransigente chiusura. Fornero sottolinea innanzitutto che esistono delle differenze sostanziali tra bioetica cattolica e bioetica
laica, e che proprio per questo il confronto è non solo utile, ma necessario. L’autore
210
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
parla persino di una “costrizione” alla coesistenza e al dialogo, tra due posizioni diverse. La bioetica cattolica è incentrata sulla «sacralità della vita», mentre la bioetica laica insiste sulla «qualità della vita». Bisogna quindi prendere atto di questa dicotomia, che è reale, e poi procedere sulla via del dialogo, perché la bioetica sia pienamente pensata e vissuta da tutti come una scienza al servizio della vita.
Edoardo Tortarolo, Il laicismo, Laterza, Roma-Bari 1998, 132 pp., € 7,23
Il piccolo libro di Tortarolo è un utile strumento per conoscere l’evoluzione del
laicismo nei secoli dell’età moderna e contemporanea. Con chiarezza, l’autore sottolinea l’importanza della dimensione storica di un fenomeno che, tante volte appiattito sui dibattiti del presente, rischia di apparire a-storico o, nel migliore dei casi, un prodotto del secolo dei Lumi e della Rivoluzione francese. Il laicismo, che si
contrappone a ogni forma di confessionalismo e di integralismo e, soprattutto nei
paesi cattolici, di clericalismo, ha invece radici più antiche. Tra gli aspetti evidenziati vi è la distinzione tra morale e religione: la prima è indipendente dalla seconda, così come la sfera politica è indipendente da quella religiosa. L’analisi dell’autore si sofferma anche sulla componente laica del liberalismo italiano, che ebbe una
parte importante nel processo di unificazione nazionale. Il laicismo, anche in Italia, “nazione cattolica”, ha percorso la storia, fino alle polemiche attuali – che talvolta appaiono infinite – sull’articolo 7 della Costituzione.
AA.VV., Europa laica e puzzle religioso, Marsilio, Venezia 2005, 198 pp., € 9,90
Numerosi politici e intellettuali riflettono in queste pagine sul significato e sull’incidenza del fattore religioso nell’Unione Europea. L’interrogativo su quale sia il
ruolo della fede in Europa non trova una risposta univoca, ma nei vari interventi
ricorre l’idea che si vada via via affermando una religiosità individualistica, con
meno presenze nelle chiese ma con maggiore visibilità mediatica. Una sorta di «fede senza vincoli», che forse diviene sempre più simile – almeno nelle forme espressive – al modello neoprotestante statunitense. Al tempo stesso l’Europa unita è
chiamata a confrontarsi con l’islam, che per almeno due buoni motivi deve essere
inteso come realtà interna e non soltanto esterna: l’immigrazione di milioni di musulmani nei paesi europei e il processo di adesione alla UE della Turchia, che, pur
se con estrema lentezza, va avanti. La questione centrale diviene quindi l’identità
dell’Europa e il ruolo delle religioni per definirla. Su questi temi si confrontano in
questo libro, tra gli altri, Giuliano Amato, Bronislaw Geremek, Romano Prodi e
Olivier Roy.
Laura Paoletti (a cura di), L’identità in conflitto dell’Europa. Cristianesimo, laicità, laicismo, il Mulino, Bologna 2005, 212 pp., € 18,00
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La prima parte del volume curato da Laura Paoletti propone un confronto tra alcuni “casi” nazionali: italiano, tedesco, francese e statunitense, ovvero sui diversi modelli di laicità affermatisi in questi paesi. In differenti contesti storici e culturali, il termine “laicità” ha assunto significati sensibilmente diversi, ed esprime quindi un concetto che difficilmente può essere utilizzato in maniera universale, per indicare una
data organizzazione dei rapporti tra Stato e Chiesa che sia cioè universalmente intesa.
Si tratta di una tesi opposta a quella di altri studiosi, ad esempio di Guy Coq e del
suo La laïcité principe universel. L’analisi comparativa appare peraltro interessante
perché mostra i caratteri originali dell’esperienza italiana, fortemente segnata dalla
presenza del papato. Il “filo rosso” del libro – che nella seconda parte raccoglie alcuni
interventi sulla funzione laica della religione – è l’accento posto sul carattere conflittuale dell’identità, laddove il conflitto non coincide però con la guerra. È l’idea,
espressa nella prefazione al volume, che «pensare il conflitto sia un modo di costruire
la pace». Si tratta quindi, per gli autori, di riconoscere che tra cristianesimo e laicità
esiste una «conflittualità strutturale, ma feconda e non distruttiva».
Guy Coq, La laïcité principe universel, Éditions du Félin, Paris 2005, 302 pp.,
€ 18,95
Concludiamo la rubrica sulla laicità con un libro in francese, pubblicato in occasione del centenario della legge di separazione tra Stato francese e Chiesa. La laïcité – termine francese difficilmente traducibile, che esprime la particolarità dell’esperienza d’oltralpe – è qui considerata un elemento fondamentale della democrazia: «La loi symbolique de notre laïcité, celle de 1905, a manifesté une étonnante
capacité à moduler les rapports entre la République et les religions. Nous estimons
qu’elle est forte d’une espèce de nécessité historique et que, du coup, la laïcité ellemême apparaît de plus en plus comme consubstantielle à la démocratie». Per l’autore, il principio di laicità supera i confini storici e geografici in cui ha preso forma
e non deve quindi essere considerato valido soltanto per l’Europa o il mondo occidentale. Al contrario, può essere esteso a tutto il mondo come principio ineludibile
per l’affermazione di sistemi politici pienamente democratici. In tal senso, la laïcité
è un «principio universale». D’altro canto, l’articolo 2 della Costituzione della Repubblica francese del 1958 recita: «La Francia è una Repubblica indivisibile, laica,
democratica e sociale». Come ha notato Jean-Dominique Durand, la parola «laica»
precede le parole «democratica» e «sociale», come se questi attributi derivassero
proprio dalla laicità. Le argomentazioni di Guy Coq esprimono quindi un sentire
francese che trova espressione anche nella Costituzione. Nel suo La laïcité principe
universel, l’autore affronta anche il delicato tema della separazione tra politica e religione nell’islam, sostenendo che anche nei paesi islamici la modernità e la democrazia non potranno affermarsi compiutamente a prescindere dalla laïcité.
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Nomi citati
Acerbi, A. 29
Ackermann, 165
Acquaviva, G. 50, 56, 60, 85
Agim Ceku 195
Ago, R. 65, 95
Allam, K.F. 208
Amato, G. 85, 209, 211
Ambrosi, E. 209, 210
Amir Peretz 195
Andreatta 85
Andreotti, G. 50, 65, 70, 71, 77, 83-85, 95
Arfé, G. 85
Arias 35
Astorri, R. 12
Bachelet, V. 75
Baggio 29
Ballestrero, A. 20, 24, 25, 28
Barile, P. 83, 94
Barsotti, D. 22
Bartoletti 23, 83, 84
Basso, L. 47, 49, 93, 94
Bellini, P. 96
Benedetto XVI 117, 120, 121, 123-126,
129, 133, 136, 209
Benelli 35
Berlingò, S. 99
Berlusconi, S. 85
Bianchi, E. 21
Bodei, R. 208
Bökenförde 145
Bolgiani, F. 24
Bó´ll, H. 170
Bonino, E. 130
Bufalini, P. 63, 85
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Buttiglione, R. 26
Caianiello 55
Calati, B. 21
Cardia, C. 12, 32
Casaroli, A. 28, 29, 35, 37, 65, 83, 95
Castellano 19
Casuscelli, G. 97, 99
Cavalli-Sforza 204
Ciampi, C.A. 130
Colombo, G. 20
Condorcet 155
Condorelli 95
Congar, Y. 78
Coq, G. 212
Corral, C. 31, 33, 42
Cossiga, F. 85
Craxi, B. 12, 28, 45, 47, 49, 50-60, 62-64,
76, 77, 82-85, 89
Crick 206
Croce, B. 81, 139, 208
D’Alema, M. 85
Dalla Torre, G. 12
Darwin, C. 204-207
Dawkins, R. 207
de Foucauld, C. 125
De Gasperi, A. 19, 61, 64, 66, 139, 140
Dell’Acqua, 82
De Lubac, H. 78
De Luca 21
De Martino, E. 22
De Mauro, T. 208
De Mita, C. 85
De Rosa, G. 22, 23
213
Del Giudice, V. 92
Di Nola, A.M. 23
Di Nolfo 138
Di Nuoscio, E. 210
Dominijanni, I. 208
Dossetti, G. 17, 91, 140
Dupront, A. 20, 23
Durand, J.D. 212
Dworkin, R. 163
Enrico IV di Francia 81
Eusebi, L. 14
Evolo, N. 21
Fabbri, F. 52
Fanfani, A. 20, 55, 56
Feliciani 97
Ferrari, S. 14
Ferri 49
Ferrone, V. 208
Finetti, U. 56
Finocchiaro, F. 95
Fisher 206
Fishkin, J.S. 164, 165
Foa, A. 208
Galli della Loggia, E. 127
Galli, C. 208
Gandolfo, E. 84
Garibaldi, G. 60
Gasparri, 34, 36
Gava, A. 83
Gedda, L. 19
Gentile, G. 90
Geremek, B. 211
Gheddafi, M. 195
Giacchi, O. 94, 147
Giovagnoli, A. 13
Giovanni Paolo I 52, 75
Giovanni Paolo II 12, 17, 24, 25, 27-33, 36,
37, 43, 75, 86, 117, 122, 209
Giovanni XXIII 17, 22, 23
Gismondi, P. 67
Giuffré 74, 96
Giussani, L. 18, 22, 26
Gonella, G. 12, 45, 65, 67-78, 83, 95
Grozio, U. 118
Guarnieri, R. 21
214
Habermas, J. 160, 163, 165, 173, 185, 209
Haldane 206
Haradinaj, R. 195
Hardey 206
Hegel, G.W.F. 162, 163
Hollerbach, 36
Huxley, T.H. 205
Impagliazzo, M. 21
Irti, N. 146
Jemolo, A.C. 17, 35, 65, 67, 73, 75, 77, 81,
83, 84, 91, 94, 95
Kepel, G. 146, 209
Kostuniça, V. 196
La Malfa, U. 45, 83
Lariccia, S. 96
Lami Starnuti, E. 48
Leone XIII 78
Levi, C. 86
Liebermann 195
Locke, J. 159, 169
Lubich, C. 22
Luciani, A. 57
Lussu 90
Magni, C. 91
Magrassi, M. 20, 27, 28
Magris, C. 208
Mancini, P. 47
Manziana 19
Marchesi, C. 47
Marchetti Selvaggiani 18
Margiotta Broglio, F. 12, 33, 56, 94, 208
Maritain, J. 17, 78, 162
Martini, C.M. 21, 26, 28, 29
Massarenti, A. 207
Mayr 206
Mazen, A. 194
Milosevich, S. 195, 196
Monod 206
Montalenti, G. 205
Monticone, A. 26, 29
Montini, G.B. 18-20, 22, 33, 140
Moro, A. 20, 45, 46, 75, 83-85
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Mussolini, B. 82, 89, 139, 140
Nannini, F. 83
Natoli, A. 58
Nazarena, 21
Nelson 207
Nenni, P. 45-48, 54, 58, 61, 62, 83, 84
Netanyahu, B. 195
Nicora, A. 96
Nietzsche, F. 118, 204
Olmert, E. 194, 195
Oreja, M. 35
Orlando, V.E. 67, 78
Ottavini, A. 22, 91
Paglia, V. 209
Paoletti, L. 211, 212
Paolo VI 17-20, 22, 24, 28, 30, 33, 34, 75,
83, 84
Pappalardo, S. 20
Pascal, B. 124
Passerin d’Entreves, E. 202
Pellegrino, M. 20, 24
Pera, M. 174
Peres, S. 194
Pio XI 22, 33, 137
Pio XII 19, 20, 22, 33, 75, 82, 122,
Piovani, P. 92
Platnick 207
Poletti, U. 20, 24, 30
Pompei, G. 35, 36, 83, 84
Preterossi, G. 208
Prodi, R. 85, 211
Punzo, M. 12
Quagliariello, G. 137, 208, 209
Ratzinger, J. 119, 122, 124, 126, 169, 174
Ravà, A. 94
Rawls 161, 163, 165
Remotti, F. 208
Rescigno, P. 94
Riccardi, A. 12, 138, 208
Riva, C. 37, 84
Rossi, G. 146
Rossi, P. 67
Rousseau, J.J. 131
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
Roy, O. 211
Ruffilli, R. 75
Rugova, I. 195
Ruini, C. 13, 24, 30, 135, 143, 166, 172,
209
Rumi, G. 201-203
Sacco, C. 32
Sadun Bordoni, G. 160
Saltini, Z. 22
Sandri, G. 21
Sarkozy, N. 104, 105
Scalabrino 86
Schnier, H. 170
Scola, A. 26
Scoppola, P. 13, 24, 26, 164, 208
Sejdiu, F. 195
Semplici, S. 5, 14, 159
Seselj, V. 196
Sharon, A. 194, 195
Silvestrini, A. 28, 29, 65
Siri, G. 17, 20
Spadolini, G. 28, 55, 62, 83-85, 94
Suenens, L.J. 18, 21
Tadic, B. 196
Taylor, C. 160
Thaçi, H. 195
Tobagi, W. 57
Togliatti, P. 46, 47, 64, 91
Tognoli, C. 56
Tortarolo, E. 211
Toulmin, S. 165
Turoldo, D.M. 21
Ungaretti, G. 21
Urbani, G. 20
Ursi, C. 19
Valentini, G. 28
Vannucci, 21
Varnier, G.B. 5, 12
Veronesi, U. 208
Vezio Crisafulli 74
Weber, M. 130
Weinberg 205
Wernz 42
215
Wojtyla, K. 24, 28, 75
Wright 206
216
Zanchini, G. 204
Zolla, E. 22
Civitas / Anno III - n. 1 - Gennaio-Aprile 2006
ASSOCIAZIONE PER LA VALORIZZAZIONE DELLA DEMOCRAZIA IN ITALIA - ONLUS
CIVITAS
NUMERI PRECEDENTI
ANNO I - N. 1/2004
EUROPA SENZA CONFINI
Gabriele De Rosa - Achille Silvestrini - Franco Nobili - Luigi Giraldi - Giorgio Tupini Jean Dominique Durand - Roberto Morozzo della Rocca - Gorgio Bosco - Agostino Giovagnoli - Paola Pizzo - Marisa Ferrari Occhionero - Simona Andrini - Stefano Trinchese
ANNO II
N. 1/2005
LA DEMOCRAZIA MALATA
Agostino Giovagnoli - Rudolf Lill - Jean Marie Mayeur - Pietro Scoppola - Carlo Mongardini - Savino Pezzotta - Andrea Bonaccorsi - Paolo Musso - Carlo Giunipero - Marco
Impagliazzo - Ruggero Orfei - Giuseppe Merisi - Giovanni Pitruzzella - Leopoldo Elia Nicola Mancino
N. 2/2005
LA LUNGA STAGIONE DELLA LIBERAZIONE
Giulio Andreotti - Franco Nobili - Alfredo Canavero - Raoul Pupo - Corrado Belci Agostino Giovagnoli
RELIGIONI, MULTICULTURALISMO, LAICITÀ
Milena Santerini - Renè Remond - Paolo Branca - Vincenzo Cesareo - Carlo Cardia
N. 3/2005
ECONOMIA E DEMOCRAZIA
Piero Barucci - Andrea Bixio - Giampiero Cantoni - Innocenzo Cipoletta - Emmanuele
Emanuele - Piero Giarda - Giovanni Marseguerra - Franco Nobili - Giuseppe Sangiorgi Mario Sarcinelli - Bruno Tabacci - Antonio Zurzolo
ANNO III
NUMERO SPECIALE – AFRICA: UN CONTINENTE TRA ABBANDONO E SPERANZA
Franco Nobili - Mario Giro - Jean Leonard Touadi - Jean Mbarga - Stefano Picciaredda Gianpaolo Cadalanu - Leonardo Palombi - Daniela Pompei - Robert Sarah - Boniface
Mongo Mboussa - Éloi Messi Metodo - Robert Dussey
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Finito di stampare nel mese di aprile 2006
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