Tito Ortiz

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Tito Ortiz
CHUCK
TITO
ORTIZ
LIDDELL
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DI DAVE KALSTEIN // FOTOGRAFIE DI LANDRY MAJOR
li odori muschiati di sudore, lenimenti al mentolo e
pelle permeano pesantemente l’aria del famoso Wild
Card Boxing Club di Hollywood, California. Circa
due dozzine di combattenti di tutte le forme, misure e
abilità colpiscono sacchi, saltano la corda e fanno shadow
boxe. Il proprietario della Wild Card è l’allenatore più famoso del mondo, Freddie Roach e quando si aggira per la
palestra tutti, dai dodicenni di strada con sogni ambiziosi,
ai campioni affermati, agli ex combattenti con le mani artritiche e tremanti, si fermano per baciare il suo anello e
portargli rispetto.
Gli spettatori siedono su sedie richiudibili ammaccate e
sverniciate accanto a una parete della palestra. Gran parte
di queste sedie è sempre occupata dallo stesso gruppo di
anziani, e oggi non è diverso. Sono bianchi 50enni tosti
con brutti tatuaggi da prigione e nocche gonfie che siedono qui come se fosse il loro lavoro e svolgono l’unica
attività rimasta a chi ha frequentato una palestra da combattimento ma non indossa più i guantoni: chiacchierare
come delle ragazzine. Nel regno di re Freddie Roach, questi
sono i suoi cortigiani.
L’orologio marca le 15 ed entra un uomo con occhiali
da sole firmati e un borsone a tracolla. Lo seguono quattro
uomini, rispettosamente a mezzo passo di distanza. Uno
G
porta una videocamera, un altro è un fotografo con un
obiettivo da paparazzo, uno è il preparatore atletico e il
quarto sembra essere qui semplicemente perché non aveva
nient’altro da fare.
“Lo vedi?”, chiede uno dei cortigiani della Wild Card.
“Sì”, risponde un altro.
“Sapevo che sarebbe tornato un giorno. Il ragazzo aveva
cuore”.
“Che cosa è successo?”.
“Cosa pensi che sia successo? È diventato famoso e gli ha
dato alla testa”.
Gli altri combattenti nella palestra si fermano per dare
un’occhiata a quest’uomo. Alcuni dei più giovani si avvicinano e lo fissano. Lui sorride e dà il pugno quando glielo
offrono. Si fascia le mani, indossa guanti da 500 g e sale
sul ring. Rimbalza leggero sui piedi, in modo aggraziato
per un uomo alto 188 cm e che probabilmente in questo
momento pesa 102 kg.
“Come dieci anni fa mi ha chiesto di fargli da manager”,
dice uno dei cortigiani. “Ho detto di no”.
“Perché?”.
“Non l’ho mai considerato un duro”. Pochi momenti
dopo questa affermazione, gli altri cortigiani si mettono a
ridere.
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“O sei un bugiardo o sei l’uomo bianco più stupido sulla Terra”.
Re Freddie afferra i suoi guanti su misura e si fa strada verso il ring. I cortigiani si zittiscono quando passa loro davanti. La campana suona, segnalando
l’inizio della ripresa e Freddie comincia
ad allenarsi con l’attuale argomento
di conversazione e suo nuovo allievo.
Prima diretti, poi combinazioni incrociate. Poi montanti e schivate. La pelle
schiocca contro la pelle. Freddie dà indicazioni con la sua voce calma intaccata dal Parkinson, è quasi un sussurro.
Tutti in palestra fanno 60 secondi di
pausa, eccetto Freddie e il suo discepolo
sul ring. Fanno riprese di 5 minuti. La
pelle schiocca contro la pelle.
Adesso ci sono 3 fotografi intorno al
ring a documentare la sessione di allenamento da ogni angolo possibile. Un
visitatore della palestra si avvicina a
uno di loro, una giovane in tailleur.
“Che cosa ne pensi di lui?”, le chiede.
“Freddie?”, risponde, sempre guardando nell’obbiettivo e scattando. “È
un grande, mi permette di entrare qui e
fare fotografie ogniqualvolta voglio”.
“Non Freddie. Il tipo che Freddie sta
allenando”.
“Lui? È un attore giusto? Penso
di averlo visto in uno di quei reality
show”.
“In realtà è un combattente”, dice il
visitatore.
“Davvero? Ed è bravo?”.
“È uno dei pesi massimi leggeri migliori della UFC”.
“Ah, però è stato in TV, giusto?”.
“Sì”.
“Beh, almeno sapevo che era un attore”.
Freddie riceve combinazioni di montanti in uscita da una schivata. La pelle
schiocca contro la pelle. Il suo allievo è
madido di sudore. I suoi piedi ballano
un po’ più lentamente adesso, sono più
pesanti, come se stesse imparando di
nuovo da zero. Scadono i cinque minuti
della ripresa. La campana suona, segnalando finalmente una pausa nell’azione.
Tito Ortiz raggiunge il suo angolo e
vomita in un secchio. Freddie Roach
sorride.
Tito beve da una bottiglia d’acqua
e ruota il collo. La campana suona. Si
riparte. Il ragazzaccio di Huntington
Beach concentra lo sguardo sui guanti
di Freddie e muove verso di lui, portando le mani al mento.
“Mi è piaciuto in quel reality con
Donald Trump”, dice la fotografa.
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“Certo, Tito ha grande personalità”.
“Combatte ancora?”.
“Sì, ecco perché è qui con Freddie. Si
sta preparando per il suo primo combattimento dopo un anno e mezzo di
assenza”.
“È ricco e famoso, perché lo fa?”
Il visitatore la guarda per un lungo
momento e scrolla le spalle. “Credo che
dovresti chiederglielo”.
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ito Ortiz vive in una casa enorme
sull’acqua a Huntington Beach,
con una Bentley, una Escalade
e una Mercedes nel vialetto.
Ancorata nel porticciolo c’è una grossa
barca con il logo Punishment Athletics
affisso sullo scafo. Tito vive in pantaloncini e quando c’è il sole, cioè tutti
i giorni da queste parti, applica lozione sulle spalle della sua ragazza, la ex
pornostar Jenna Jameson. Stravede per
i piccoli gemelli Jesse e Journey. È la
persona più famosa della città, una vera
celebrità che non fa code e non paga al
ristorante.
Questi simboli di agiatezza sono lontani anni luce dal suo debutto vittorioso contro Wes Albritton all’UFC 13 nel
1997. Allora moro, Tito era lottatore
del Golden West College e compagno
di allenamento di Tank Abbott. “Vidi
Jerry Bolander combattere nell’UFC”,
dice. “A scuola lo avevo affrontato bat-
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tendolo, perciò quando lo vidi vincere
nelle MMA capii che dovevo provarci
anch’io. Però volevo restare un dilettante così da continuare a combattere al
college e conservare la borsa di studio,
il che significava che non potevo accettare premi in denaro. Così combattei
gratis”. Quella sera che entrò nell’ottagono in Georgia fu l’ultima volta come
sconosciuto.
Tito Ortiz era dato per spacciato.
“Non sapevo cosa aspettarmi”, ricorda.
“Sapevo che Wes era cintura nera di
karate e anche kickboxer, nient’altro.
Ero molto spaventato. Ho sempre paura
quando combatto. Sono un essere umano, uguale a chiunque altro al riguardo”. Tito vinse per KO tecnico dopo 31
secondi. Poiché era un dilettante, rifiutò la borsa di 15.000 $, tornò in albergo con il suo assistente e fece segnare
5.000 $ di bevute sul conto della camera
di Frank Shamrock. Così nacque la leggenda del “ragazzaccio di Huntington
Beach”.
Dopo 21 combattimenti, un campionato UFC pesi massimi leggeri, una
prova memorabile come allenatore in
The Ultimate Fighter e alcune prestazioni da record alla pay-per-view, dire
che la sua vita si complicò sarebbe dire
poco. Dopo aver perso l’ultimo combattimento del suo contratto UFC contro
Lyoto Machida nel maggio 2008, Tito
ha sbandierato vigorosamente il suo
stato di free agent nei media, attaccan-
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Non ho subito
do il suo ex manager diventato nemico, Dana White e prendendo in giro
gli appassionati di MMA con così tanti
“grandi annunci” che non si sono mai
concretizzati da giungere alla parodia.
Prima o poi, Tito è stato sul punto di
firmare un accordo con tutte le organizzazioni che avevano un logo, gabbia o
ring. Per alcune settimane avrebbe dovuto avviare un’organizzazione proprio
in concorrenza con l’UFC. Ha preso
lezioni di affari da Donald Trump in
televisione. Ha messo incinta la pornostar più famosa al mondo. Quando Josh
Barnett è stato trovato positivo agli steroidi e ha dovuto rinunciare all’incontro contro Fedor Emelianenko, per due
o tre ore buone (un’eternità nella blogosfera MMA) Tito Ortiz fu considerato il
candidato numero uno per sostituirlo.
Nel corso dei suoi 12 anni di carriera,
Tito ha gestito i media alla perfezione.
Poi sono arrivate le voci del ritiro. La
cosa aveva senso. Era milionario. I critici cominciarono a definire il suo stile
ground-and-pound arcaico e noioso.
Aveva celebrato il suo 34° compleanno.
“Sì, ci ho pensato”, dice Tito seduto
sulla veranda della sua casa, guardando la sua barca scintillare al sole della
California meridionale. La pausa autoimposta dai combattimenti non ha
intaccato il suo carisma, né ha cancellato dalla sua faccia quel ghigno di soddisfazione del gatto che ha mangiato
il canarino. Durante questa pausa si è
danni
seri… io mi sposto
e paro
e mi difendo.
Io combatto
in modo
intelligente.
mantenuto in contatto con gli amici dell’UFC. Ha visto vecchi avversari
come Chck Liddell e Wanderlei Silva
subire gli effetti dell’invecchiare in uno
sport violento. Si ferma per un momento ricordando di averli visti messi
KO brutalmente nella gabbia. Il ghigno
scompare.
“Per me sarà diverso”, promette.
“Siamo creature diverse, esseri umani
totalmente diversi. Io penso in grande.
All’UFC 100 ero insieme a Chuck e direi che siamo molto diversi. Chuck ha
subito dei danni seri. Guardate i combattimenti di Wanderlei. Anche lui ha
subito danni seri. Non hanno usato la
testa. Non riflettono. So che agli appassionati piace vedere i combattenti
darsele di santa ragione. Però gli appassionati non ci vedono dopo l’incontro.
Non vedono i cerotti, i tagli, i lividi e i
traumi. A loro interessa soltanto vedere
un bel combattimento”.
Il sole gira e illumina il volto di Tito e
il suo famoso grande cranio con i capelli colorati biondi rasati a zero. Ha mani
e nocche di un guerriero. La sua faccia
però non tradisce i 21 combattimenti
all’attivo. Guarda Jenna che si abbronza
in bikini vicino all’acqua. Lei lo guarda
da sopra una spalla e sorride.
“Sono stato colpito duro 10, forse 15, volte nella mia carriera”, dice
Tito. “Sono stati Liddell, Couture e
Wanderlei. Machida mi ha beccato una
volta. Rashad mi ha preso un paio di
volte. Però non ho subito danni seri,
perché io mi sposto e paro e mi difendo. Io combatto in modo intelligente.
Quando Chuck e Wanderlei combatterono cercarono davvero di uccidersi.
Fu davvero un combattimento fantastico, io però preferisco avere una conversazione intelligente con qualcuno
senza balbettare o biascicare le parole.
Credetemi, quando sarà ora di ritirarmi,
lo farò di certo”.
Jenna si avvicina con uno dei figli,
Journey. Il bambino è molto bello.
Adesso Jenna non ha più i capelli biondi, li ha castani. È la stellina magra che
è cresciuta diventando la bella ragazza
della porta accanto. Dietro le sue spalle,
vedo, attraverso le porte che conducono in salotto, che hanno una parete intera coperta da una fotografia in bianco
e nero della coppia. È un ritratto più
intimo della stessa immagine vista da
milioni di persone in televisione e sulle riviste: Tito con Jenna al suo fianco,
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con i loro lati migliori rivolti verso la
macchina fotografica, con denti di un
bianco impossibile e sorrisi perfetti.
Tito tiene Journey in braccio e lo coccola. Come tutto il resto nel mondo di
Tito, è difficile dire dove finisce il personaggio pubblico e inizia l’uomo vero.
Poi Jenna sente che questo momento
è finito. Saluta con un sorriso e riporta
Journey in casa.
“Mi ha contattato su MySpace”, dice
guardandola andare. “Sapeva cosa voleva e lo ha ottenuto. Quando ero scapolo era molto difficile trovare una ragazza con cui uscire e parlare a qualsiasi
livello. Ci sono tante ragazze carine in
giro ma quando aprono bocca pensi
‘Gesù, stai zitta ti prego’. La madre di
Jenna è morta quando lei aveva 3 anni.
Suo padre non si è occupato di lei. Ha
dovuto fare tutto da sola. Beh, io sono
esattamente come lei ed è per questo
che funzioniamo bene insieme. Siamo
uguali”.
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uando Tito aveva sei anni, suo
padre si operò di ernia e diventò dipendente dalla morfina. Poi
passò all’eroina e in breve entrambi i genitori di Tito diventarono
tossicodipendenti. Si riempirono di debiti. Vivevano nelle auto per le strade di
Santa Ana. Tito cominciò a rubare per
mangiare.
“Era un inferno”, ricorda. “Davvero.
Quell’esperienza mi ha segnato per
sempre”. Poco prima del suo incontro
con Lyoto Machida, Tito andò a trovare
suo padre per la prima volta dopo molti
anni. Era piagato dagli incubi della sua
infanzia. Era ossessionato dalla condizione del padre. Aveva bisogno di un
chiarimento e di voltare pagina, così
tornò a Santa Ana per vedere l’uomo
che aveva cercato, non riuscendoci, di
allevarlo.
“Ero seduto con lui e piangevo”, dice
Tito. “Cercavo di esprimere i miei sentimenti e lui aveva uno sguardo assente.
Mi aspettavo delle scuse e non le ottenni…”. La sua voce trema. Guarda le
onde del porticciolo e fa un respiro profondo prima di ricominciare. “Avrebbe
potuto dire che gli dispiaceva e che non
sapeva cos’altro fare. Avrebbe potuto
dire che era dispiaciuto per avermi fatto
passare momenti terribili, invece non ci
furono scuse”. Sforza un sorriso. “Ma va
bene così”.
Tuo padre vede i tuoi combattimenti?
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“Sì, certo”.
È orgoglioso di te?
“Credo che sia molto orgoglioso di
me”.
Pensi? Te lo ha mai detto?
Tito deglutisce a fatica, frenando il
tremore appena percettibile delle sue
labbra. “No”, dice piano. “Mai. Forse
non sa come essere un padre. Forse non
sa come essere di sostegno o… forse è
troppo stupido per rendersene conto”.
Si gira e guarda le porte di casa, dove
Jenna ha portato uno dei bambini pochi minuti fa. “La gente dice sempre
di amare qualcuno, per esempio ‘Amo
da morire la mia donna, farei qualsiasi
cosa per lei’. Cazzate. Sono cazzate. Solo
quando si ha un figlio si capisce cos’è
l’amore, perché non c’è niente di simile
al mondo. Non ho mai capito perché
i miei genitori mi hanno fatto quello
che mi hanno fatto così da piccolo, facendomi vedere le cose che ho visto e
facendomi passare per la merda in cui
sono passato. Non potrei mai fare lo
stesso ai miei figli”.
Poco dopo il ritorno a Santa Ana
per vedere suo padre ci fu il combattimento con Machida e la fine del suo
contratto. Non c’era stato rinnovo e
non c’erano accordi all’orizzonte. Per
la prima volta nella sua carriera, Tito si
ritrovò in fondo a un evento UFC contro un attendista che l’organizzazione
aveva scelto per fargli fare una brutta
figura finale. Era il 22° incontro di Tito
ed era passato dal combattere gratis al
guadagnare compensi a sei cifre solo
per farsi vedere. Ma non c’era con la
testa. Stava pensando ai tre figli che
mantiene (oltre ai due gemelli, Jesse
e Journey, ha anche un figlio di sette
anni, Jacob, avuto dalla moglie precedente). Stava pensando cosa sarebbe
successo se li avesse abbandonati. Il
pensiero lo spaventò.
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’era anche una nota ostilità con
Dana White, l’eccentrico presidente della UFC. “In passato
con Dana c’era grande amicizia”,
ricorda Tito. “Anni fa voleva essere
il mio manager. Venne a Huntigton
Beach a bussare alla mia porta e disse:
‘Dammi una possibilità. Mi impegnerò
per tutto quello che hai sempre voluto e avrai tutto quello che hai sempre
voluto se solo mi dai un’opportunità’.
Dana si impegnò per farmi guadagnare bene e tutto andava alla perfe-
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In realtà sono un
uomo d’affari.
zione. Poi diventò presidente della
UFC e quando cominciai a chiedere le
cose che lui stava chiedendo, non me
le dette. Diventò una cosa personale.
Mi misi sulla difensiva”. Tito guarda
per un lungo momento la pelle logora e spaccata delle sue mani. “Non ho
le spalle coperte. Non ho fratelli, non
ho genitori. Sono solo. Prima di quel
combattimento mi sembrava di avere
contro tutti. Tutta la UFC, Dana, i miei
tifosi. In qualche modo le cose erano
impazzite”.
Si svegliava la notte madido di sudore, dicendosi che non sarebbe mai diventato come suo padre. A differenza
di lui, Tito Ortiz avrebbe continuato a
lottare, a qualunque costo.
Lyoto Machida lo batté ai punti ma
Tito arrivò vicino a sottomettere “The
Dragon” nell’ultima ripresa con uno
strangolamento che poi diventò una
chiave al braccio. Non fu abbastanza
per vincere però fu sufficiente per dimostrare una cosa a se stesso: anche se
aveva tutti contro, Tito Ortiz non mollava.
“Ho dovuto cedere a Machida”, dice.
“Si è battuto in modo intelligente. È stato molto tattico ed elusivo, che per me
significa aver paura e scappare ma va
bene. Adesso è il campione, quindi ho
perso contro il campione. Ma sai una
cosa? Mi sono battuto per quello in cui
credevo, ho lasciato Dana White e la
UFC per un anno, ho atteso che fossero
loro a tornare da me. E lo hanno fatto. Però un po’ mi sono sentito ferito.
Quando ho perso il titolo mondiale e la
UFC non mi ha invitato per l’anniversario dei 10 anni, queste due cose mi
hanno ferito. Li ho aiutati a diventare
quello che sono adesso e prendermi a
schiaffi in quel modo mi ha spezzato il
cuore”.
Poi, dopo mesi di negoziati, la UFC
è tornata da lui. Tito sedeva nel suo
ufficio guardando il fax che stampava
il contratto. Il cerchio si è chiuso. Il
contratto diceva una cosa diversa da
tutti gli altri contratti, una
cosa che andava oltre il denaro, che Tito ha già. C’era scritto che qualcuno era orgoglioso
di lui e non aveva paura a dirlo
chiaramente.
“Quando ho firmato quel
contratto avevo gli occhi lucidi”,
dice. “Perché ce l’avevo fatta. Meglio
di come avevo immaginato. Ho vinto. Mi sono opposto a un’azienda
miliardaria e ho vinto. Rispetto molto Dana e Lorenzo e Frank Fertitta
perché pagheranno di tasca loro per
prendersi cura dei lottatori. Fra dieci
anno sarò ancora nella UFC, forse non
come combattente, comunque facendo qualcosa. Dana stesso lo ha detto:
‘Sarai sempre parte della famiglia’”.
Tito tira un sospiro come se si fosse
scrollato un peso dalle sue spalle larghe. “Sai cosa? È quello che ho sempre
voluto sentirmi dire”.
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inalmente lo ha sentito. Per sua
ammissione, Tito ha ottenuto
quello che ha sempre voluto e anche di più. È il tipo di cosa che
rende un uomo felice ma non necessariamente un combattente assetato di
vittoria. Infatti, ammette di essere un
combattente solo quando è invitato a
farlo. “Sono una persona normale che
lavora molto duro”, lo si sente dire.
Oppure: “Sì, faccio MMA, però possiedo anche un’azienda di abbigliamento,
la Punishment Athletics” e “In realtà
sono un uomo d’affari”. Ognuno ha un
numero: il numero dei dollari che vuole guadagnare per sentirsi soddisfatto e
F
abbandonare i rigori della sua carriera e
ritirarsi ricco e felice. Tito Ortiz non è
diverso in questo.
“Certo, vorrei essere miliardario. In
questo modo potrei combattere solo per
divertimento, però non è così”.
E se invece lo fosse?
Si ferma a pensare, la mente comincia
a frullare riflettendo su questa domanda
più a lungo che sulle altre, forse perché
immagina di raggiungere il suo numero un giorno. Alla fine… “Certo, perché
no? Farei un combattimento all’anno,
contro il migliore. Non c’è niente di simile all’entrare nella gabbia e percepire
l’intensità e l’energia nell’aria. Il denaro
non può comprare questa sensazione.
Ci sono tanti miliardari che vorrebbero
essere al mio posto durante gli incontri
ma non succederà mai”.
Che i bambini, la sua donna e la
Bentley nel vialetto abbiano ammorbidito il ragazzaccio di Huntington Beach
è una cosa che Tito non ammetterà
mai. Il solo insinuarlo lo induce a elencare una lista di avversari che vuole vedere nell’ottagono. Rashad Evans (“Ho
pareggiato con lui ed è stato molto frustrante”). Forrest Griffin (“L’ho battuto
per decisione non unanime ma tutti
pensavano che avessi perso in realtà,
quindi devo farlo a pezzi e ridurlo al silenzio”). Lyoto Machida (“La prossima
volta non se la caverà. L’ultima volta è
sopravvissuto a malapena e ormai era
alla frutta”). Anche Renato “Babalu”
Sobral (“È con la Strikeforce ma ha detto un sacco di cazzate e mi piacerebbe
farlo a pezzi. Forse la UFC lo prenderà
per me”).
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er la prima volta dal suo incontro
contro Randy Couture nel 2003,
Tito Ortiz entrerà nella gabbia in
forma perfetta, adesso che i problemi alla schiena che lo hanno afflitto
sono guariti completamente. In quanto veterano delle MMA, conosce benissimo i vantaggi che i farmaci per il miglioramento della prestazione hanno
da offrire ai combattenti, però si oppone fermamente a questa cosa. “Sono
un maschio alfa”, dice, “ho un corpo di
tipo atletico. Sono geneticamente molto dotato e mi alleno dal primo anno
di scuola superiore. Chi assume steroidi cerca scorciatoie, per recuperare più
rapidamente. Per recuperare io uso il
ghiaccio, è una scocciatura. Spero che i
miei avversari usino gli steroidi perché
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Niente
supererà
mai il
duro
lavoro.
significa che sono mentalmente ed emotivamente deboli. Li schiaccerò come ho
fatto con Vitor Belfort. L’ho battuto perché la sua preparazione era insufficiente
e il cuore non riusciva a recuperare abbastanza velocemente, quindi era scoppiato. Mi ricordo quando Mark Coleman
era enorme ma ricevette una bella lezione da Pete Williams. Aveva cercato la
scorciatoia per diventare forte e avere
un bell’aspetto in TV ma non è questo
quello che conta. Niente supererà mai il
lavoro duro”.
Torniamo al Wild Card Boxing Club.
Tito sta spingendo nel corso dell’ultima
di dieci riprese nel ring. La pelle schiocca contro la pelle. Respira pesantemente.
I piedi e le mani hanno rallentato ma gli
occhi sono ancora fissi su King Freddie.
“Dieci secondi!”, grida uno dei ragazzi
all’angolo di Tito.
E in un batter d’occhio, Tito Ortiz cambia marcia, si abbassa e sferra un placcaggio alle gambe mondiale, blocca Freddie
Roach con la sua presa d’acciaio, lo solleva e poi lo rimette giù dolcemente.
Freddie ride, sorpreso. Tito ghigna. Aveva
ancora benzina da spendere. La campana
suona, segnalando la fine della ripresa e
dell’allenamento. Tito si piega in avanti
al suo angolo per riprendere fiato mentre
il sudore cade a terra. I cortigiani del Wild
Card sono ancora seduti sulle loro sedie
accanto al muro, sempre predicando a
tutti quelli vicini.
“Le malelingue ci sono sempre ma non
ti dicono mai le cose in faccia”, dice Tito.
“Si nascondono sempre dietro agli amici
oppure restano a 30 metri di distanza.
Ma va bene se la gente parla male
di me. Possono dire
che sono un fifone.
Possono dire che non
combatto duramente.
Possono dire che sono
vecchio o che non sono
più quello di una volta o
che mi sono ammorbidito”.
Si gira e se ne va. “Aspettiamo
e vedremo”. Comincia a togliersi
il nastro dalle nocche. Attraversa la
folla che si è riunita per vederlo allenare
e, forse con un orecchio solo, sta attento se qualcuno dice qualcosa, qualsiasi
cosa. Ma i vecchi cortigiani del Wild Card
Boxing Center abbassano lo sguardo, in
silenzio.
Tito Ortiz è tornato.
Il ritorno di Tito Ortiz contro Forrest Griffin
all’UFC 106 è avvenuto il 21 novembre 2009, con
la vittoria per “split decison” a favore di Griffin.
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