Scarica la Cartella Stampa della Casa Museo Joe Petrosino

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JOE PETROSINO
Joe Petrosino, partito fanciullo da Padula, emigrato a New
York insieme a tantissimi che in quegli anni lasciarono il Sud
Italia, sceglie di non confondersi con il “ghetto” da cui non si
riusciva a scappare, come Giacosa definisce Little Italy.
Studia l’inglese, si integra, lavora per se stesso e per la sua
nuova comunità. Lustrascarpe prima, spazzino poi, vince la
resistenza degli irlandesi che non lo volevano nella Polizia
essendo Italiano e diventa agente. Infame per gli Italiani e
sporco mafioso per tutti gli altri, la sua vita è una lotta contro
il pregiudizio di molti perché la ragionevolezza prevalga.
Solo con intelligenza e capacità riesce a mettere a segno
una serie di successi clamorosi contro la criminalità guidata e gestita dai suoi stessi compatrioti. Dirà più volte ad un
giornalista che lo intervista sul NY Herald che la sua azione è
proprio in difesa degli Italiani, che un giorno potranno essere
orgogliosi del contributo dato alla nascita di un nuovo Paese.
È forse il primo non attore a diventare divo dei media di allora.
Ebbe ragione. Di lui si parla ancora, qui, come in America. A
New York in particolare, Joe è un mito. La piazza dove ha sede
la centrale di Polizia di New York oggi si chiama Joe Petrosino
square.
Fu ucciso, Joe, a Palermo, mentre cercava di procurarsi alcune
informazioni giudiziarie vitali per le sue indagini. I mandanti
e gli esecutori furono proprio le persone che egli aveva fatto
espellere come indesiderati.
Poche settimane fa, per caso, mentre la Guardia di Finanza
intercettava un “picciotto”, questi confessò ad un suo compagno di cella, con orgoglio, di appartenere ad una famiglia
da sempre affiliata alla mafia e che lo zio di suo padre aveva
ammazzato Petrosino. Dopo 100 anni chi ha premuto il grilletto ha un nome. Peccato che il questore di allora, Creola, lo
avesse fatto arrestare e rinviare a giudizio poco dopo l’omicidio. Fu assolto, allora, in un processo farsa.
La sua casa natale, la piccola casa di un artigiano – suo padre
faceva il sarto – è stata acquisita dal Comune, restaurata e
adibita a museo della legalità. Perché sono le idee di Joe, i
suoi modi, la sua coerenza che vogliamo raccontare attraverso le sue azioni così come quelle di chiunque abbia fatto suo
quello stile di vita.
Il museo è in realtà un centro di cultura del territorio aperto a
chiunque si riconosca in questo stile, lo voglia studiare nelle
sue implicazioni storico-sociali affinché diventi il comportamento di tutti.
IL MUSEO
Se dovessimo rappresentare le mafie e dare un corpo in immagini alla cultura mafiosa, questa non
potrebbe essere altro che piatta, grigia. Grigia perché immutabile nella sua assenza di spessore, grigia
come tutte le attività umane che restano uguali a se stesse nelle azioni più che nei principi, grigia
come ogni persona che pensi che il tempo non passa mutando profondamente le cose. Grigio indipendentemente da quanto potente possa considerarsi dall’interno e dalle prove di forza che è in
grado di generare. Grigia ed insulsa quanto invece colorata e potente è la parabola del fariseo e del
pubblicano pur parlando di umiltà.
Quando si ascolta un discorso mafioso, magari direttamente dalla bocca di un “padrino” in una delle bellissime ricostruzioni letterarie o cinematografiche, le parole più usate sono “antico”, “tradizione”,
“famiglia”; parole sante, pregnanti, prese in prestito dal dizionario del vivere civile, ma il cui significato
è stravolto dai mafiosi, ricondizionato in un contesto culturale piatto e privo di spessore temporale.
Immutabile. Le parole “antico” e “tradizione”, per esempio, per noi hanno un significato opposto, sono
spunti per l’innovazione.
“Antico” era il gesto del contadino che spingeva l’aratro nel solco aperto nella terra, quell’immagine
ci ricorda il lavoro e l’abnegazione, la caparbietà e la fede di quelle generazioni. Oggi l’innovazione in
questo settore ha ridotto la fatica e soprattutto la mortalità infantile, come dimostrano le statistiche.
“Tradizione” potrebbe essere scambiarsi una frase augurale a Natale scrivendola su di un biglietto, che
certo si può fare, ma il telefono o una semplice videoconferenza digitale aggiungono il pathos della
voce del proprio caro e guardarsi in faccia attraverso una interfaccia digitale rende meno pesante la
lontananza quando questa è condizionata da un lavoro lontano da casa.
Quello che ha consentito l’innovazione, tutte le innovazioni, è la fantasia dell’uomo, che unita all’immaginazione e alla ragione, ha riempito di colori un mondo che altrimenti sarebbe restato nella sua
immobilità.
L’antimafia è idea, è ragione, è cultura, è comportamento quotidiano, è immaginazione e fantasia.
L’antimafia è la nostra tavolozza per dipingere la vita che sogniamo, l’antimafia sono barattoli d’inchiostro colorato per dipingere un mondo in cui l’attesa sia speranza, e la speranza sia la forza di dipingere
nuove cose con i colori del mondo. Per questo abbiamo chiesto ad un artista di dipingere il nome
del protagonista della nostra storia con la tavolozza della immaginazione e della fantasia. Non solo i
colori della sua tavolozza sono la caratteristica di questo dipinto, ma la forma stessa delle due lettere
è messa a repentaglio.
Joe ha lottato tutta la vita con costanza ed impegno per ricostruire quella forma delle cose che la
Mano Nera aveva saccheggiato e mortificato per il suo personale beneficio. È morto in servizio il
nostro Joe, mentre aveva in mano, o per meglio dire in testa, gli elementi e le informazioni necessari
a ricostruire quella forma compromessa e a riportarla nella dimensione del pubblico interesse. Il suo
nome, le sue iniziali come le abbiamo immaginate sono fotografate in quel momento, venerdì 12
marzo 1909 alle 20,45. Quasi tutti i tasselli erano stati ricomposti nella forma che avrebbe dovuto
avere la civiltà, a questo stava lavorando, quando quattro colpi di pistola hanno fermato il suo lavoro
e solo temporaneamente il nostro.
In quel momento Joe Petrosino, JP, era, come ce lo siamo immaginato, ad un passo dall’aver ricomposto
in una forma leggibile le informazioni, le deduzioni e le ipotesi che aveva via via maturato e che avrebbero gettato nuova luce e nuovi colori sulla società. Quattro colpi di pistola fermarono quel processo e noi
abbiamo voluto fermare quell’istante e congelarlo nel marchio della sua casa museo. Ma quelle forme,
incomplete, fluttuanti nell’aria come esplose dal colpo di pistola stesso continueranno ad evolvere, si
ricomporranno perché i colori della ragione saranno la forza degli investigatori futuri.
IL FILM
Il percorso nelle sale del museo verrà scandito da quattro
scene di un filmato in cui Joe Petrosino incontra quattro
personaggi, che sono archetipi dei comportamenti mafiosi
o antimafiosi. Il dialogo con loro rende evidenti le dinamiche
del processo che vogliamo trattare nel museo. Comportamenti eroici e virtuosi si alternano a pregiudizi, rassegnazione
e connivenza nella eterna lotta per la supremazia della ragione e del benessere collettivo.
Il linguaggio adoperato nella scrittura è evidentemente teatrale proprio per superare la distanza spazio-temporale che
dividerebbe gli spettatori da quegli eventi e farli diventare
storie senza tempo che iniziano e finiscono ai giorni nostri.
Quattro attori dal teatro italiano hanno accettato di partecipare a questa iniziativa con passione oltre che con le loro
capacità:
Andrea Tidona nel ruolo di Joe Petrosino.
Valentino Orfeo nella veste di un politico colluso; la figura
è ispirata ad un antagonista di Joe Petrosino che ebbe una
parte determinante quale mandante del suo omicidio.
Nadia Perciabosco nella parte di una povera immigrata di
Little Italy rassegnata alla povertà.
Giacomo Zito nel ruolo di un piccolo imprenditore artigiano che è emigrato e vincendo ogni forma di ricatto ha potuto costruire la sua fortuna.
Con la partecipazione straordinaria di don Luigi Ciotti nel
ruolo di se stesso.
Il film contiene un “cameo”: Alberto Matano in un TG1 rende nota l’intercettazione della Guardia di Finanza che ha
permesso di dare un nome all’assassino di Joe, sia pure con
cento anni di ritardo.
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