the butterfly effect

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the butterfly effect
E’ possibile che il battito d’ali di una farfalla in Brasile
possa scatenare un uragano in Texas
Edward Lorenz
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Introduzione
Questo lavoro nasce dal desiderio di approfondire il tema del caos, sotto il profilo delle diverse
discipline.
La scienza del caos, nata negli anni Sessanta del Novecento, ha segnato una svolta nel pensiero
occidentale che fino a quel momento considerava il sapere scientifico come fonte di certezze
universalmente valide. Si credeva che la scienza fosse in grado di sondare ogni mistero più
recondito della natura e di prevedere con estrema precisione cosa ci avrebbe riservato il futuro.
Questa concezione deterministica ha però dovuto lasciare il posto ad una visione del mondo meno
semplicistica. Oggi, ad esempio, sappiamo che il moto dei pianeti intorno al Sole è di tipo caotico.
Tuttavia la Terra negli ultimi quattro miliardi di anni non può essersi mai allontanata o avvicinata
troppo dal Sole, altrimenti la vita sul nostro pianeta sarebbe scomparsa. Evidentemente essa orbita
in una regione di caos confinato, cosicché le probabilità di allontanarsi molto da una posizione
media intorno al sole risulti tendente a zero. Tuttavia non siamo ancora in grado di descrivere il
moto del nostro pianeta intorno al Sole, possiamo solo dire che per tempi brevi esso descrive
un’approssimata orbita kepleriana.
A partire dalla scoperta del caos la scienza non offre più verità assolute e inattaccabili, ma si
riduce ad essere solo uno dei possibili discorsi sul mondo. La scienza contemporanea scopre così
il carattere imprevedibile di alcuni fenomeni. È in questo contesto che si parla di Butterfly effect
(“è possibile che il battito d’ali di una farfalla in Brasile sia in grado di provocare un uragano in
Texas?”) che mette in evidenza come qualcosa di insignificante posto all’inizio di un processo
possa influenzarlo fino a cambiare esponenzialmente le sue conseguenze nel corso del tempo. Le
leggi fisiche diventano dunque soltanto la descrizione di una possibilità che le cose accadano.
Si apre così davanti a noi un mondo imprevedibile, il cui carattere fondamentale è il caos. In un
mondo così configurato qualsiasi avvenimento -persino il più impensabile- potrebbe accadere,
come la storia ci ha più volte insegnato. Basti pensare al crollo della borsa del 1929, verificatosi
nel bel mezzo di un’euforia che sembrava inarrestabile, eppure il crollo era imminente.
Il crollo delle certezze che caratterizza la scienza del Novecento investe tutti gli ambiti di pensiero
e viene espresso dai maggiori pensatori. Come scrive Pirandello nella premessa filosofica al fu
Mattia Pascal, Copernico -con la sua teoria eliocentrica- ha negato alla Terra il ruolo centrale che
per secoli essa aveva occupato, riducendola a “un’invisibile trottolina [...] un granellino di sabbia
impazzito”. L’uomo dunque non si trova più al centro dell’Universo, non è altro che un puntino
insignificante nell’immensità sterminata di ciò che lo circonda, un “vermuccio” per usare le parole
dell’autore. Le condizioni dell’esistere sono mutate così radicalmente che le forme tradizionali di
letteratura non hanno più senso, rese anacronistiche dal loro stesso impianto composto e
armonico, che si scontra con la caoticità del reale. Non è più possibile l’esistenza di un eroe
risoluto, sostituito ora da un antieroe, un inetto.
Inoltre Nietzsche riflette forse più di ogni altro il crollo delle certezze che invade ogni ambito
culturale. Di fronte ad un universo che danza sui piedi del caso, ad una realtà contraddittoria e
disarmonica, gli uomini per poter sopravvivere hanno dovuto convincere se stessi che il mondo
segua una logica ben precisa. Tramite la filosofia essi hanno dunque cercato di impartire un senso
stabile alle cose e di trovare una spiegazione ad eventi altrimenti incomprensibili. Da ciò il
proliferare delle metafisiche e delle religioni, che vengono considerate da Nietzsche solo
decorazioni della realtà e bugie di sopravvivenza. La realtà è caos e contraddizione, e in ciò è
talmente complessa che ogni tentativo di imporle un ordine fallisce, diventa una menzogna
consolatoria. Ecco allora che tutta la filosofia occidentale, ogni menzogna religiosa e filosofica,
ogni sistema morale e metafisico, non è altro che un rimedio il cui scopo è rendere la vita più
sopportabile, non rispecchiando però la complessità della realtà.
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Il carattere caotico del mondo è da sempre stato ravvisato dagli intellettuali. Già nel mondo latino
Petronio criticava il caos della società in cui viveva. Una società dominata dalla corruzione e da
personaggi squallidi e opportunisti, che traggono soddisfazione solo dai piaceri esistenziali. I
personaggi petroniani sono tutti succubi dei loro desideri sessuali, in una società dove la ricchezza
si erge come unico parametro di valutazione dell’uomo. Petronio descrive inoltre l’ascesa sociale
dei liberti e la sostituzione del denaro alla virtù senza espliciti moralismi, ma semplicemente
delineando il quadro di una società degenerata e avvolta nel caos più totale.
Questo mondo caotico ci priva di ogni certezza e ci lascia nella più completa oscurità. Tuttavia
come dice Albert Einstein “la più bella sensazione è il lato misterioso della vita”. Non possiamo
più affidarci a previsioni certe e rassicuranti, ma possiamo vivere nella consapevolezza che tutto
può accadere quando meno ce l’aspettiamo.
Percorso
Astronomia
Il moto caotico dei pianeti intorno al Sole: dal determinismo alla nascita della scienza del caos.
Le leggi di Keplero, la legge di gravitazione universale, la cometa di Lexell.
Fisica
La scienza del caos, un crollo delle certezze. Spazio delle fasi, attrattori e Butterfly effect.
I frattali: caratteristiche principali, l’insieme di Cantor, il fiocco di neve di Von Koch.
Storia
I frattali e il disordine dei mercati.
Il Big Crash, conseguenze della crisi, primi rimedi, Roosevelt e il New Deal.
Italiano
Pirandello, figlio del caos.
L’imprevedibile e il paradossale, il crollo delle certezze e il relativismo, la scomposizione dell’io.
Mattia Pascal e la crisi del personaggio.
Filosofia
Nietzsche e il carattere caotico del mondo.
Caos e ordine, tentativi di dare un ordine al caos, il superuomo e l’accettazione del caos.
Latino
Il Satyricon di Petronio e la critica al caos della società. La cena di Trimalchione.
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Il moto dei pianeti intorno al Sole e la nascita della scienza del Caos
Determinismo
Il primo a riconoscere chiaramente che i pianeti ruotano intorno al Sole fu Copernico, che –con il
suo sistema eliocentrico- rivoluzionò la concezione di Tolomeo, che poneva la Terra al centro
dell’Universo. Secondo Copernico, però, i pianeti seguivano orbite circolari: fu Keplero a stabilire
che i pianeti percorrono orbite a forma di ellisse, di cui il Sole occupa uno dei fuochi. Pertanto il
movimento dei pianeti attorno al Sole è regolato dalle tre leggi di Keplero:
• La prima legge afferma che: I pianeti descrivono orbite ellittiche, quasi complanari, aventi
tutte un fuoco comune in cui si trova il Sole. Il senso della rivoluzione intorno al Sole è in
genere antiorario per un osservatore che si trovi al Polo nord celeste.
• La seconda legge di Keplero afferma che: Il raggio che unisce il centro del Sole al centro
di un pianeta descrive superfici con aree uguali in intervalli di tempo uguali. Da ciò
deriva che un pianeta si muove più velocemente quando è più vicino al Sole (al perielio) e
più lentamente quando è più lontano (all’afelio).
• La terza legge afferma che: I quadrati dei tempi che i pianeti impiegano a percorrere le
loro orbite sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal Sole. Vale a dire che
la velocità media di un pianeta è tanto minore quanto più esso è lontano dal Sole.
Nel 1687 Isaac Newton pubblicò uno scritto monumentale, i Philosophiae naturalis principia
matematica, nel quale veniva elaborato il modello matematico e il concetto fisico che determinava
il moto dei pianeti intorno al Sole. Già Keplero, rilevando l’orbita ellittica dei pianeti, aveva
sollevato il problema di una misteriosa forza proveniente dal Sole, che diminuisce con la distanza
e obbliga tali corpi celesti ad abbandonare il loro moto rettilineo. Newton avanzò l’ipotesi che tale
forza potesse essere la stessa che provoca sulla terra la caduta dei corpi e ne descrisse gli effetti
attraverso la legge della gravitazione universale, in base alla quale due corpi si attirano in modo
direttamente proporzionale alla loro massa e in ragione inversa al quadrato della loro distanza.
La forza d’attrazione gravitazionale può essere espressa con la seguente formula:
dove G0 è la costante di gravitazione universale (pari a 6,67 10-7 N m2 kg -2), M ed m sono le
masse dei corpi e d è la distanza fra i loro centri. A causa della forza di gravità, quindi, ogni corpo
celeste viene attratto dalle masse circostanti e a sua volta le attrae. Un pianeta subisce perciò una
forte attrazione da parte del Sole, mentre è debolmente attratto dagli altri pianeti e dalle stelle
circostanti. Tali azioni impediscono al pianeta di muoversi con velocità costante e in linea retta,
costringendolo a una continua caduta verso il sole, in un gioco di equilibrio il cui risultato è
l’orbita ellittica. Venivano così spiegate le leggi di Keplero, il moto dei pianeti, la precessione
degli equinozi, le irregolarità del moto lunare, le maree ecc. Tuttavia la legge di gravitazione
universale di Newton era in grado di descrivere l’orbita di un pianeta intorno al Sole, ma non di
giustificare la stabilità dinamica complessiva di tutto il sistema solare. Nei Principia Newton
affrontava, infatti, il problema dell’applicazione della legge di gravitazione universale a più di due
corpi: solo pensando a un universo costituito esclusivamente dal Sole e dal nostro pianeta avremo
delle orbite ellittiche come Keplero aveva proposto. In un sistema solare reale le orbite non si
chiudevano, rimanevano aperte, discostandosi dalle leggi di Keplero. Come spiegare dunque la
stabilità del sistema solare?
Un secolo dopo, con l’opera di Pierre-Simon de Laplace, Recherches sur le principe de la
gravitation universelle, sembrò che la scienza avesse raggiunto la capacità di giustificare con la
matematica le posizioni dei pianeti. L’opera, pubblicata nel 1773, lasciò un’enorme impronta nel
pensiero occidentale, in quanto introduceva il calcolo delle perturbazioni: un metodo matematico
che permetteva di prevedere con grande precisione le orbite planetarie perturbate dalle reciproche
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interazioni gravitazionali. Il problema appariva essere solo di complessità di calcolo. Con una sola
legge, quella di gravitazione, si potevano dunque prevedere, almeno in linea teorica, gli eventi
dell’universo con una precisione illimitata. Laplace scrive: “Un’intelligenza che, per un istante
dato, potesse conoscere tutte le forze da cui la natura è animata, e la situazione rispettiva degli
esseri che la compongono e che inoltre fosse abbastanza grande da sottomettere questi dati
all’analisi… nulla le risulterebbe incerto, l’avvenire come il passato sarebbe presente ai suoi
occhi”. Con questa frase si è inteso far nascere l’emblema del determinismo nel pensiero
scientifico moderno. Anche se Laplace specificò che quell’intelligenza doveva ritenersi al di là
della portata umana, a partire dalla fine del XVIII secolo nella cultura occidentale si affermò
sempre più l’idea che tutto l’universo potesse essere descritto come un’immensa macchina.
I grandi successi dell’astronomia, dalle previsioni del ritorno della cometa di Halley, alla scoperta
del pianeta Nettuno sembravano dunque confermare la veridicità di questo assunto. Persino nei
giorni nostri appare sinonimo di scienza la capacità di prevedere i processi della natura. In realtà
da un paio di decenni è iniziata una rivoluzione del pensiero scientifico, era il 1978 quando fu
creato un nuovo termine nella fisica moderna: caos.
La cometa di Lexell
Se il mondo occidentale ha ricevuto quel testo che per primo fornì il nuovo sistema del mondo
costruito con tutta la forza e la completezza della dimostrazione matematica, ovvero i Principia,
lo si deve presumibilmente all’astronomo inglese Edmond Halley. Fu lo scopritore dell’omonima
cometa a recarsi a Cambridge per domandare a Newton se fosse possibile spiegare le tre leggi
Keplero con una forza diretta verso il Sole, inversamente proporzionale al quadrato della distanza.
La risposta di Newton fu immediata: certo le cose stavano così, lo aveva in effetti dimostrato già
da qualche tempo. Qualche mese dopo la
dimostrazione arrivò a Halley, il quale poi spronò
Newton a sviluppare maggiormente la questione,
tanto da finanziare i Principia. Fu proprio con il
ritorno della cometa di Halley, dopo un cammino
di più di settanta anni, così come nelle previsioni
dell’astronomo amico di Newton, che fu
dimostrata la grande efficacia della nuova legge
che regolava i cieli.
Ma fu proprio una cometa, apparsa pochi anni dopo il ritorno di quella di Halley, a suggerire che
le cose forse non erano proprio così semplici. Il 4 giugno 1770 fu scoperta una cometa
all’Osservatorio di Cluny. Dopo averne calcolata l’orbita, la meccanica newtoniana e le orbite di
Keplero dimostrarono che l’astro chiomato sarebbe ritornato dopo cinque anni, ma così non
avvenne: la cometa, infatti, non fu vista mai più. Fu l’astronomo francese Lexell a riuscire a
svelare negli anni successivi che cosa fosse successo. Ne aveva studiato accuratamente il moto
dimostrando che la cometa, detta poi di Lexell, prima del 1767 seguiva una lunga orbita al di là di
quella di Marte, invisibile persino con i più potenti telescopi. In quell’anno un passaggio
ravvicinato a Giove aveva modificato la sua orbita spostandola verso il Sole. Si era così originata
una nuova orbita ellittica, con periodo di cinque anni e mezzo, capace di portare la cometa vicino
al nostro pianeta e permettendone così la scoperta tre anni dopo. Ancora pochi anni però e un
ulteriore passaggio ravvicinato a Giove aveva modificato ulteriormente l’orbita dell’astro,
sbalzandolo al di là di Plutone. Lexell aveva scoperto un tipico esempio di dinamica caotica,
ovvero di grande sensibilità di un sistema dinamico alle condizioni iniziali. Tuttavia tutto fu
dimenticato, poiché nessuno avrebbe voluto fare a meno della potenza predittiva della meccanica
newtoniana, che aveva trovato numerose conferme.
Non bastò dunque l’evidenza osservativa e, cento anni ancora dopo, nemmeno la mente di uno dei
più grandi matematici mai esistiti sembrò riuscire a scalfire l’idea della scienza verso un mondo
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semplice e prevedibile. La storia racconta che il re di Svezia Oscar II indisse verso la fine
dell’Ottocento un premio per chi avesse trovato la soluzione del problema dei tre corpi. Il
matematico italiano Giuseppe Luigi Lagrange aveva già dimostrato nel 1772 che tre corpi di
massa arbitraria, liberamente orbitanti tra loro, si possono muovere mantenendo inalterata la loro
posizione, se sono posti ai vertici di un triangolo equilatero. Il premio fu aggiudicato a Henri
Poincaré, la cui soluzione consisteva nel dimostrare che la soluzione generale non esisteva. Fino
allora, nell’impossibilità di avere a disposizione la soluzione esatta delle equazioni descriventi il
moto dei pianeti, in accordo con la legge di Newton, il problema era stato risolto ricorrendo a
metodi approssimati di calcolo, del tutto sufficienti per le previsioni astronomiche a distanza di
decenni o secoli, come Laplace aveva insegnato. Negli anni successivi Poincaré andò ancora oltre
nei suoi studi, fino a giungere all’affermazione che i modelli dinamici sono molto meno
prevedibili nel loro moto di quanto si fosse pensato fino allora. Essi risentono, infatti, di
un’estrema sensibilità alle condizioni iniziali. Cambiamo di pochissimo le posizioni dei corpi tra
loro orbitanti ed ecco che con il passare del tempo le posizioni risultanti saranno molto diverse.
Un minimo errore di misurazione delle posizioni iniziali, quasi inevitabile, e il sistema si troverà
in condizioni finali molto diverse da quello che avevamo dedotto con i nostri calcoli. Nel 1912
Poincaré moriva lasciando alle stampe la sua ultima memoria sul problema dei tre corpi: la
complessità del problema rimaneva con le sue difficoltà insormontabili. Nonostante Lexell e
nonostante Poincaré, la visione di un semplice e prevedibile mondo deterministico rimaneva
incontrastata nel pensiero scientifico.
Nasce la scienza del caos
Negli ultimi decenni, però, la visione del mondo sta totalmente cambiando. Quel mondo
deterministico, dove il principio lineare che lega causa ed effetto ci permetteva di determinare con
illimitata precisione il futuro o il passato di un fenomeno fisico, risulta oggi per molti solamente
“il risultato di una fisica idealizzata che si poggiava su una matematica idealizzata” e che ha
“sapientemente occultato le mille irregolarità e imprevedibilità dei sistemi reali” (G. Zanarini
“Finestre sulla complessità”, Ed. Scienza, laboratorio dell’immaginario scientifico, 1994). È
sempre forzato voler trovare un momento preciso in cui una rivoluzione scientifica avviene.
Porremo comunque come inizio della rivoluzione per la nuova fisica del caos, un giorno di
dicembre dell’anno 1961 e come luogo, i laboratori ove operava Edward Lorenz, presso il
Massachusetts Institute of Technology. Lorenz era a quel tempo un matematico che lavorava nel
campo della meteorologia, campo assai fruttuoso al tempo: erano, infatti, gli anni in cui il
calcolatore elettronico e i satelliti artificiali sembravano promettere la fine di ogni incertezza nelle
previsioni del tempo. Tuttavia Lorenz non la pensava così. Racconta che in quei giorni stava
elaborando una serie di equazioni con il suo calcolatore. Era un modello matematico di dinamica
dei fluidi, adatto a simulare la dinamica del sistema atmosferico. Quel giorno si accorse che
dall’output del sistema stavano uscendo dei dati molto strani. Aveva immesso dei dati intermedi,
ottenuti in precedenza dalle stesse equazioni con cui stava lavorando da giorni, ma i risultati che
stava ottenendo erano molto diversi da quelli ottenuti nei giorni precedenti. Più i calcoli andavano
avanti e più i risultati differivano. Era la riscoperta dell’estrema sensibilità alle condizioni iniziali
dei sistemi dinamici. Lorenz arrivò dove Poincaré non era riuscito a giungere: riportando le
soluzioni del sistema ridotto a tre equazioni in uno spazio tridimensionale poté vedere che i punti
generati dal sistema di equazioni non si disperdevano a caso ma in una regione delimitata di
spazio. Aveva ottenuto un sistema dove non era possibile la previsione esatta, ma che conteneva
al tempo stesso dell’ordine. Il suo lavoro apparve nel 1963 sulla rivista di meteorologia “Journal
of the Atmospheric Sciences” con il titolo Deterministic nonperiodic flow. Estrema sensibilità alle
condizioni iniziali e conseguente incapacità di previsione del sistema dinamico, generazione di
stati del tutto casuali: il sistema dinamico si evolveva manifestando una forma, una coerenza.
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Erano tutte le basi per la nuova fisica, quella dei sistemi dinamici caotici, ma tutto fu ancora una
volta ignorato.
Bisogna arrivare alla seconda metà degli anni ’70 per trovare un giovane fisico, M.J.
Feigenbaum, che, facendo prima dei conti su svariate equazioni matematiche mediante una
piccola calcolatrice e poi con un computer dell’esercito, innescò finalmente il manifestarsi di
questa rivoluzione. Feigenbaum stava conseguendo degli strani risultati. Egli si accorse che,
sostituendo i dati ottenuti dalle equazioni nelle equazioni stesse, otteneva sempre lo stesso
andamento, indipendentemente dalle equazioni utilizzate. I valori rimanevano fissi su un dato
numero, poi si sdoppiavano, ciascun livello tornava a sdoppiarsi per poi giungere a variare in
modo completamente caotico. Dentro le aree caotiche esistevano però degli intervalli in cui
riappariva l’andamento costante che ancora tornava a sdoppiarsi ripetutamente, originando un
sistema auto-somigliante che mescolava caos e ordine un numero indefinito di volte. Erano nati i
diagrammi di Feigenbaum. Il giovane fisico cominciò a presentare in vari congressi i suoi
risultati. Dopo qualche anno altri studiosi incominciarono ad accettare i suoi risultati. Nel 1983
apparve su “Physica” l’articolo di Feigenbaum: “Universal behaviour in nonlinear systems”.
Da qualche anno era nata la scienza del caos, dove per caos non si intende un completo disordine,
ma piuttosto un caos deterministico con le sue leggi ben definite anche se ancora abbastanza
oscure. Oggi sappiamo che il moto dei pianeti intorno al sole è di tipo caotico. Tuttavia sappiamo
anche che la Terra negli ultimi quattro miliardi di anni non può essersi mai allontanata o
avvicinata troppo dal Sole, altrimenti la vita sulla Terra sarebbe scomparsa. Evidentemente il
pianeta Terra deve orbitare in una regione di caos confinato, cosicché le probabilità di allontanarsi
molto da una posizione media intorno al sole risulti tendente a zero. Tuttavia non siamo ancora in
grado di descrivere il moto del nostro pianeta intorno al Sole, possiamo solo dire che per tempi
brevi il nostro pianeta descrive un’approssimata orbita kepleriana. Possiamo dunque affermare
che con la fisica del caos è nata una visione meno semplicistica del mondo.
La scienza del Caos
La scienza del caos studia i sistemi dinamici non lineari. Un sistema dinamico si dice caotico
quando presenta le seguenti caratteristiche:
• Sensibilità alle condizioni iniziali: a variazioni infinitesime delle condizioni iniziali
corrispondono variazioni finite in uscita. Come esempio banale possiamo riportare quello
del fumo di più fiammiferi accesi che in condizioni macroscopicamente molto simili
(pressione, temperatura, correnti d'aria) segue traiettorie di volta in volta molto differenti.
• Imprevedibilità: non si può prevedere l'andamento del sistema in anticipo.
• Infine, le orbite nello spazio delle fasi restano confinate, cioè il sistema non evolve verso
l'infinito per nessuna variabile. (Si parla in questo caso di attrattori).
Nei sistemi lineari un piccolo cambiamento nello stato del sistema corrisponde a piccole
variazioni nelle serie di numeri. Inoltre è ricavabile una legge evolutiva che descrive con
precisione l’evolversi del sistema nel tempo. Ad esempio la mappa lineare:
è sensibile alle condizioni iniziali (infatti, due valori di x leggermente diversi si evolvono
divergendo e aumentando la loro distanza), ma il suo andamento è prevedibile e le variabili
evolvono verso l'infinito, cioè dopo un numero sufficientemente alto di passaggi xn diviene
maggiore quanto vogliamo. Non presenta dunque un comportamento caotico.
Vi sono tuttavia dei sistemi dinamici detti non lineari che -in quanto dinamici- dipendono dal
trascorrere del tempo, ma che -in quanto non lineari- non presentano alcuna legge evolutiva. Non
vi è dunque alcuna regola che possa descrivere il comportamento del sistema nel suo immediato
futuro. Esempi di questi sistemi sono il gocciolio di un rubinetto, la crescita della popolazione
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delle specie animali o la dinamica oscillatoria di un pendolo attaccato a un sostegno elastico.
Prendiamo ad esempio la mappa non lineare:
è sensibile alle condizioni iniziali, non ha andamento prevedibile e, per valori di x iniziali tra 0 e
1, rimane confinata in uno spazio finito (tra 0 e 1), quindi esibisce un comportamento caotico.
Questa semplice equazione viene chiamata mappa logistica, e descrive matematicamente la
crescita di una popolazione nel tempo. Il fatto che il valore di xn sia limitato indica che una
qualunque popolazione non può crescere indefinitamente, dal momento che ha a disposizione una
quantità di risorse necessariamente limitata.
Un crollo delle certezze
Come abbiamo visto, nel corso dell’ultimo secolo vi è stata una progressiva presa di coscienza del
crollo delle certezze. Una alla volta tutte le categorie del pensiero scientifico e filosofico, quei
concetti ritenuti immutabili (come il tempo, lo spazio, il rapporto causa-effetto) sono stati messi a
dura prova. L’immagine stessa della filosofia e della scienza risulta quindi modificata: il sapere
ereditato dall’età moderna -per poter sopravvivere- deve mettere in discussione uno dopo l’altro
tutti i suoi fondamenti, ma deve scoprirsi ancora capace di calarsi nella vita reale e rispondere alle
domande sempre più pressanti che essa gli pone. La scienza del ‘900 è dunque caratterizzata da un
crollo inesorabile delle certezze e da una crisi profonda dei fondamenti del pensiero scientifico.
La scienza deriva in parte la spinta al proprio procedere dal bisogno di rispondere ad alcune
esigenze, fra le quali quella di ricreare un’immagine coerente del mondo entro cui viviamo.
L’atteggiamento tipico dei grandi fondatori della scienza occidentale, come Galileo o Newton, era
quello di sottolineare l’universalità e l’eternità delle leggi che essi ritrovano dispiegate nella
natura. Questi uomini cercavano schemi onnicomprensivi, concetti o strutture del pensiero che
fossero condivisibili da tutti e quindi unificanti, un criterio generale al cui interno si potesse
mostrare che ogni cosa esistente è sistematicamente, logicamente e casualmente connessa con
ogni altra. Non dovevano esserci nella scienza degli spazi lasciati aperti per sviluppi spontanei,
tutto ciò che accade doveva essere interamente spiegabile. La scienza dell’età moderna si era
costituita a partire dalla scoperta di una nuova forma di comunicazione con la natura, nella
convinzione che la natura potesse e volesse rispondere veramente ai proprio schemi, alle proprie
strutture teoriche irrigidite in leggi. La scienza dei nostri tempi, invece si è spesso interrogata sulla
legittimità e l’utilità nel ricercare leggi della natura. Bisogna allora accettare il fatto che non è poi
così logico, così prevedibile ed evidente il gioco fra uomo e natura, la quale non vuole comunicare
con l’uomo né farsi comprendere, ma semplicemente si mostra nella propria incoerenza,
instabilità e caoticità. “Se conoscessimo tutte le cause precedenti a ciascun fenomeno naturale,
saremmo in grado di prevedere anche il più piccolo movimento di una foglia e determinare
quando e come sboccerà ciascun fiore della Terra, ma siccome nella natura è presente un
imponderabile elemento di casualità, quella foglia e quel fiore potrebbero sorprenderci con
eventi imprevisti” (James Gleick, “CAOS: la nascita di una nuova scienza”). Il contesto entro cui
la scienza contemporanea parla di una scoperta della complessità si individua così nella scoperta
del carattere imprevedibile di alcuni fenomeni. Se le leggi non ci dicono nulla di preciso e
affidabile riguardo il verificarsi del fenomeno nello spazio e nel tempo, se sono ormai soltanto la
descrizione di una possibilità che le cose accadano, allora la scienza si riduce ad essere solo uno
dei possibili discorsi sul mondo, non più come l’unico esatto. Siamo passati così da un’immagine
della scienza come sicurezza, raggiungimento della verità, alla scienza come fallibile.
Spazio delle fasi, attrattori e Butterfly effect
Uno strumento potente per descrivere il comportamento dei sistemi caotici è lo spazio delle fasi,
una delle invenzioni più efficaci della scienza moderna. Lo spazio delle fasi fornisce un modo per
trasformare i numeri in immagini, astraendo ogni piccola parte di informazione essenziale da un
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sistema mobile e disegnando un grafico che permette un’analisi visiva del comportamento del
sistema in esame. Se il sistema ha due sole variabili la geometria cartesiana è l’ideale per la
rappresentazione del moto.
Abbiamo visto come in un sistema non lineare piccole differenze nelle condizioni iniziali possono
causare variazioni non prevedibili nel comportamento successivo. Sistemi di tale tipo possono
presentare comportamento caotico solo in alcuni tratti, o non presentarlo affatto, o da una
situazione apparentemente lineare avere una progressione esponenzialmente divergente.
A partire da tali comportamenti è stato inserito il concetto di attrattore. In matematica, “un
attrattore è ciò verso cui è attratto il comportamento di un sistema”, come afferma A.K. Dewdney
A.K. (“Alla scoperta delle strane attrattive del caos”, Le Scienze n°229). Prendiamo un comune
pendolo che si muove sottostando a forze di attrito, che lo rallentano fino a farlo fermare. Si può
descrivere il movimento del pendolo utilizzando un diagramma di fase, in cui vengono
rappresentati su un asse l’angolo del pendolo con la verticale e sull’altro la velocità con cui
cambia l’angolo. Il moto oscillante del pendolo è rappresentato da un punto che gira attorno
all’origine del diagramma di fase; man mano che il pendolo perde energia, il punto si avvicina a
spirale all’origine, dove infine va a fermarsi. In
questo caso l’origine viene chiamata un attrattore
perché sembra attrarre il punto in movimento nel
diagramma di fase. Leggermente più complesso è
l’attrattore insito nel movimento di una pendola a
muro, in cui un meccanismo di scappamento
fornisce energia al pendolo impedendogli di
rallentare. Se si fa partire l’orologio con una
spinta troppo energica al pendolo, questo rallenta
fino al ritmo prescritto dallo scappamento ma poi
non rallenta più. Se invece si avvia l’orologio con
una spinta troppo debole, il pendolo rallenta fino a
fermarsi. Nel caso della spinta troppo energica, il
moto del pendolo in un diagramma di fase è una spirale che si muove a spire sempre più strette
attorno a un’orbita circolare. L’attrattore qui è una curva circolare. Si può far assumere a un
comune pendolo un comportamento caotico introducendo un movimento di vibrazione verticale:
se con un motore elettrico si sposta su è giù in modo sinusoidale il punto di sostegno, è possibile
che il pendolo inizi a oscillare in modo scomposto senza mostrare più alcun comportamento
periodico. Dal punto di vista geometrico, quindi, abbiamo visto che un attrattore può essere un
punto o una curva. Tuttavia può assumere anche forme più complicate, dotate di una struttura
frattale, e in tal caso si parla di attrattore strano.
Concentriamoci ora sui sistemi in cui da una situazione
apparentemente lineare si ha una progressione esponenzialmente
divergente. È proprio nell’analisi di questi ultimi che si parla di
Butterfly Effect. Il cosiddetto Butterfly Effect deve i suoi natali
al meteorologo e scienziato Edward Lorenz (23 maggio 191708 aprile 2008) che il 29 dicembre 1979 presentò alla
Conferenza annuale dell’American Associaton for the
Advancement of Science una relazione dal titolo “Does a flap of
a butterfly’s wings in Brazil set off a Tornado in texas?” (È
possibile che il battito d’ali di una farfalla in Brasile sia in
grado di provocare un uragano in Texas?). Il Butterfly Effect
descrive la crescita esponenziale delle perturbazioni a causa di
una variazione nelle condizioni iniziali. Un piccolo errore nella
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misura delle condizioni iniziali o una piccola variazione delle stesse, cresce esponenzialmente con
il tempo, producendo un radicale cambiamento dei risultati.
Dal punto di vista dell'orbita del sistema nello spazio delle fasi, un sistema caotico presenta spesso
una dinamica caratterizzata da un attrattore strano, ma ciò non è da considerarsi una regola
assoluta. Mentre un attrattore tradizionale
descrive la probabilità di presenza del
sistema in un punto in un determinato
istante di tempo, in un attrattore strano
non si può conoscere analiticamente dove
il sistema si sarà posizionato al dato
istante di tempo. Oltre a essere molto più
complessi di quelli tradizionali, gli
attrattori strani sono caratterizzati dal fatto
che non ritornano mai su se stessi, in
quanto il sistema non è periodico e non si ripresenta mai con caratteristiche uguali. Tra gli
attrattori strani il più famoso fu ipotizzato da Edward Lorenz nel 1963, nella cui proiezione
bidimensionale si presenta molto simile a una farfalla. Egli studiò un sistema relativamente
semplice: una ruota idraulica. Essa viene messa in moto da un flusso d’acqua che cadendo ne
riempie i secchi: se tale flusso è abbastanza veloce, la ruota comincerà a muoversi regolarmente
con velocità costante. Se aumentiamo ancor più la velocità, assisteremo a fenomeni caotici: alcuni
secchi non riusciranno a riempirsi, perciò ravviseremo rallentamenti del moto o addirittura
inversioni dello stesso, senza alcuna possibilità di previsione. L’attrattore era stabile, aveva un
piccolo numero di dimensioni ed era aperiodico, non poteva mai intersecare se stesso perché, se lo
avesse fatto, sarebbe tornato a un punto già visitato e da lì in avanti il moto si sarebbe ripetuto in
un ciclo periodico. Ciò non accadeva mai. Il diagramma rivelava una sorta d’infinita complessità:
il movimento rimaneva sempre entro certi limiti, non uscendone mai. Esso tracciava una strana
figura tipica, una sorta di doppia spirale a tre dimensioni, simile ad una
farfalla con le ali aperte. La forma segnalava un puro disordine, dal
momento che nessun punto o sistema di punti si ripeteva mai. Eppure
segnalava anche una nuova sorta di ordine: disegnava di continuo nuove
spire; quelle curve, quelle spirali erano infinitamente profonde. Il moto
sull’attrattore è astratto ma dà il senso del moto del sistema reale: il
passaggio da un’ala dell’attrattore all’altra corrisponde a un’inversione
nella direzione di rotazione della ruota idraulica.
I frattali
I frattali, gli oggetti geometrici che descrivono il caos, sono equazioni o
sistemi di equazioni non lineari, di grado superiore al primo che, iterate
migliaia di volte, danno origine a forme particolarmente complesse,
frastagliate ed irregolari non appartenenti alla geometria euclidea.
Una delle caratteristiche più importanti dei frattali è l’autosomoglianza:
osservando un frattale notiamo che esso ha una certa struttura spaziale,
in generale piuttosto complicata e con dettagli che a occhio nudo non
riusciamo a distinguere. Se utilizziamo una lente di ingrandimento per
osservare meglio tali dettagli, noteremo che ognuno riproduce quasi
esattamente la stessa struttura spaziale dell’oggetto non ingrandito. In
altre parole l’immagine iniziale si ripete infinite volte a scale sempre più
piccole. Tale peculiarità è presente molto spesso in natura ecco perciò il
motivo della loro vasta applicazione nella descrizione di montagne,
piante, nuvole o linee costiere.
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Altro elemento degno di nota è la loro dimensione frazionata. Normalmente siamo abituati a
trattare con oggetti geometrici la cui dimensione è espressa con un numero naturale: il punto ha
dimensione zero, una linea ha dimensione 1, una figura piana 2 e un solido ha dimensione 3. Per
caratterizzare i frattali, invece, si ricorre a un nuovo concetto di dimensione, per cui la dimensione
degli oggetti sarà un numero razionale. I frattali, infatti, stanno a metà fra une certa dimensione e
la successiva. Per esempio vi è un frattale (la Curva di Koch) costituito da una linea di lunghezza
infinita che racchiude una porzione di spazio finita: in questo caso l’oggetto è più di una linea ma
meno di un piano, quindi è ragionevole pensare che la sua dimensione sia un numero compreso
fra 1 e 2. La dimensione frattale (o dimensione di Hausdorff) è un parametro di estrema
importanza che determina il "grado di irregolarità" dell'oggetto frattale preso in esame.
“Le nuvole non sono sfere, ama dire Mandelbrot. Le montagne non sono coni. Il fulmine non si
propaga in linea retta. La nuova geometria riflette un universo che è irregolare, non è
arrotondato; è scabro, non liscio. È una geometria del bucherellato, del butterato e rotto, del
contorto, aggrovigliato e intrecciato. Per comprendere la complessità della natura era necessario
che prendesse forma il sospetto che la casualità non fosse solo qualcosa di casuale, di
accidentale.” (James Gleick, “CAOS: la nascita di una nuova scienza”)
Mandelbrot: il padre dei frattali
Il nome frattale è stato coniato da Beniot Mandelbrot nel 1975, il quale fece derivare il termine
dal latino “fractus” cioè frammentato, frastagliato, irregolare. La storia di questo personaggio è
piuttosto curiosa e si avvicina a quella di molti grandi scienziati osteggiati dall’élite culturale del
proprio tempo. Egli, infatti, rimase a lungo ai margini della “scienza ortodossa”, in quanto adottò
un approccio non convenzionale alla matematica. Egli stesso si definì “un pioniere per necessità”
e un “nomade per scelta” e, in particolare, egli fuggì dalla Francia nel periodo in cui rivestiva un
ruolo di primaria importanza Bourbaki, pseudonimo dietro cui si nascondeva un gruppo di
matematici “puristi all’eccesso”, costituitosi con lo scopo di conferire alla matematica il primato
sulle altre scienze, estremizzandone le caratteristiche di austerità e formalità e rifiutando l’uso di
immagini. I primi studi furono svolti da Mandelbrot sui dati riguardanti i prezzi del cotone. Egli si
accorse che le variazioni di prezzo erano casuali e imprevedibili, ma la sequenza dei mutamenti
era indipendente dalla scala: le curve per le variazioni giornaliere e mensili dei prezzi
coincidevano perfettamente. Da dati estremamente disordinati derivava un tipo di ordine inatteso.
Successivamente egli si imbatté in un problema pratico di grande interesse per l’IBM, la società
presso cui lavorava. Gli ingegneri erano imbarazzati dal problema del rumore nelle linee
telefoniche usate per trasmettere informazioni da un computer all’altro. La corrente elettrica
trasporta le informazioni in pacchetti discreti e gli ingegneri sapevano che quanto più intensa
avessero reso la corrente, tanto migliore essa sarebbe stata per combattere il rumore; tuttavia
sperimentalmente c’erano rumori spontanei che non potevano mai essere eliminati e che talvolta
coprivano una parte di segnale producendo un errore. Benché per sua natura il rumore di
trasmissione fosse causale, si era notato che esso si presentava a gruppi: i periodi di
comunicazione senza errori erano seguiti da periodi di errori. Mandelbrot fornì un modo per
descrivere la distribuzione degli errori che prediceva esattamente i modelli di distribuzione
osservati, ma che rendeva impossibile calcolare una media degli errori poiché essi tendevano ad
una dispersione infinita. Egli fu in grado di introdurre separazioni sempre più profonde tra i
periodi di trasmissione pulita e quelli di errori. Supponiamo di dividere un giorno in ore: un’ora
può trascorrere senza errori, poi un’ora potrebbe contenere errori, poi un’altra potrebbe avere
nuovamente errori. A questo punto immaginiamo di dividere l’ora con errori in periodi minori di
venti minuti: anche in questo caso troveremo periodi privi di errori ed altri con errori. Mandelbrot
sostenne, contrariamente all’intuizione, che non si possa mai trovare un tempo in cui gli errori
siano disseminati in modo continuo: all’interno di ogni gruppo di errori, per quanto breve, ci
saranno sempre periodi di trasmissione completamente privi di errori. Inoltre Mandelbrot scoprì
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che su scale di un’ora o di un secondo la proporzione dei periodi privi di errori rispetto ai periodi
con errori restava costante.
Questa descrizione di Mandelbrot riproduceva la costruzione dell’insieme di Cantor, risalente
alla fine dell’Ottocento. Consideriamo l’intervallo dei numeri compresi tra 0 e 1, rappresentato da
un segmento; immaginiamo poi di dividere il segmento in tre parti uguali e di togliere quella
centrale: rimangono due segmenti, con ciascuno dei quali si procede allo stesso modo usato col
segmento d’origine. Rimangono così quattro segmenti, ciascuno dei quali si toglie la parte
centrale e così all’infinito. Al termine del processo rimane una “polvere” di punti disposti in
gruppi, in numero infinitamente grande e infinitamente disperso, ovvero un numero di segmenti
tendente all’infinito, ciascuno di essi di lunghezza tendente a zero. Pertanto sembra ragionevole
pensare che la dimensione dell’insieme di Cantor sia inferiore a 1 (dimensione della retta) ma sia
superiore a 0 (dimensione di un insieme infinito di punti).
Dopo 5 iterazioni l’insieme di Cantor risulta essere così costruito:
Tornando al problema della trasmissione dei segnali, Mandelbrot pensava agli errori di
trasmissione come a insiemi di Cantor distribuiti nel tempo. Tale teoria suggerì che, anziché
tentare di aumentare l’intensità del segnale per sopraffare il rumore, era più ragionevole inviare un
segnale modesto accettando l’inevitabilità degli errori e usando una strategia di ridondanza per
individuarli e correggerli.
Il fiocco di neve di Von Koch
Un altro famoso frattale è il fiocco di
neve di Van Koch. Per costruirlo si
prenda un triangolo equilatero (1) e si
divida ogni suo lato in tre parti uguali, si
tolga quella centrale e si costruisca al suo
posto un triangolo equilatero. Il risultato
sarà una stella di Davide (2). Ripetendo
questa operazione all’infinito si otterrà
una figura simile a un fiocco di neve, nota
come la curva di Koch, da Helge von
Koch, il matematico svedese che la
descrisse per primo nel 1904.
La curva di Koch presenta diversi aspetti
interessanti. Da un lato, essa è una curva
continua, che non interseca mai se stessa,
perché i nuovi triangoli costruiti su
ciascun lato sono sempre abbastanza
piccoli da evitare di urtarsi tra loro. Ogni
trasformazione aggiunge una piccola area all’interno della curva, ma l’area totale riamane finita e
non molto più grande del triangolo originario. Se tracciassimo un cerchio circoscritto attorno al
triangolo originario, la curva di Koch non si estenderebbe mai oltre a esso. Eppure la curva in sé
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ha una lunghezza infinita, la stessa lunghezza di una linea retta euclidea, che si estenda fino ai
confini di un universo illimitato. Questo risultato paradossale, una lunghezza infinita in uno
spazio finito, turbò molti dei matematici di inizio secolo in quanto la curva di Koch era come un
“mostro” irrispettoso nei confronti di qualsiasi ragionevole intuizione sulle figure geometriche.
Il crollo della borsa del 1929
I frattali e lo studio dei mercati
Grazie ai frattali è possibile anche studiare l’andamento del mercato, con le sue lente salite e i
crolli repentini. A partire dai primi anni ’60 e fino ai giorni nostri, l’applicazione della geometria
frattale a questioni economiche ha condotto Mandelbrot a mettere in discussione alcuni
consolidati fondamenti dell’economia classica e della finanza moderna. L'analisi frattale delle
variabili economiche e finanziarie ha portato nell'ultima decade alla nascita della cosiddetta
finanza frattale, nella quale lo stesso Mandelbrot ritiene siano attualmente impegnati almeno un
centinaio di ricercatori. Secondo Mandelbrot la comprensione dell’economia non deriva tanto da
teorie astratte, ma dall’osservazione del mercato e dall’esperienza. I prezzi dei prodotti non
dipendono solo dalle spese sostenute per realizzarli o trasportarli, ma anche dal loro valore, che
viene rappresentato con un diagramma a campana. Il diagramma sale, ogni tanto si trovano dei
flessi ovvero delle zone di stasi, e poi scende. Tuttavia possono verificarsi le cosiddette
turbolenze: impennate imprevedibili del valore in un senso o nell’altro. In generale tali turbolenze
sono dovute ad eventi esterni ed estranei al mercato stesso. Per esempio le condizioni
meteorologiche influenzano i raccolti, i quali a loro volta influenzano i prezzi; oppure le
distribuzioni di risorse quali il petrolio o l’acqua condizionano l’offerta e di conseguenza i prezzi.
Da esempi così semplici e quotidiani si arriva a condizioni esogene imprevedibili, come ad
esempio una catastrofe naturale. A questo punto bisogna chiedersi se il disordine dei mercati sia
davvero imprevedibile. Infatti, se la probabilità che un evento accada è infinitesima, è corretto
trascurarla? Secondo la teoria dei frattali, no.
Il Big Crash
Talvolta, come la storia ci ha dimostrato,
l’imprevedibile
si
realizza
con
catastrofiche conseguenze, come nel caso
del crollo della borsa nel 1929. Secondo i
modelli
studiati
dall’economia
tradizionale questo evento era così
improbabile da essere considerato
impossibile.
Tecnicamente
venne
chiamato
“valore
erratico”,
cioè
estremamente lontano dal normale valore
atteso nel mondo azionario. Eppure è
accaduto. Quando la crisi esplose nel
1929, la letteratura economica era assai ricca e si vantava di poter ricostruire le vicende delle varie
crisi succedutesi nel tempo, nonché di poterne fornire spiegazioni logiche. Infatti, si sapeva quali
fattori del processo economico potevano essere ritenuti responsabili delle crisi: ad esempio
l’eccesso di risparmio, l’insufficienza del consumo, il tasso d’interesse tenuto artificiosamente
basso. Si era inoltre consapevoli del peso dell’andamento dei raccolti, delle innovazioni
tecnologiche e del credito, il cui utilizzo era sempre in crescita. Tuttavia il ricco bagaglio
letterario non aiutò i grandi economisti statunitensi a intuire negli indubbi segni di eccitazione,
che caratterizzarono l’economia americana tra il 1927 e il 1929, l’approssimarsi della grave crisi.
Quest’ultima si manifestò così in maniera improvvisa: ancora alla fine dell’estate del 1929 la
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borsa di New York attraversava una fase di grande euforia e speculazione. Nel corso degli anni
Venti il numero e il prezzo dei titoli trattati negli Stati Uniti erano cresciuti a una velocità
impressionante. Il miraggio di ottenere facili guadagni fece diventare l’investimento in Borsa un
fenomeno di massa e persino i piccoli risparmiatori agivano ormai in base a principi puramente
speculativi.
La produzione industriale ebbe nell’estate del 1929 un rallentamento generalizzato, eppure i titoli
continuavano a salire. Era dunque ormai evidente che il loro valore non rispecchiava più lo stato
economico delle aziende. L’euforia diffusa si incrinò e il timore che le quotazioni azionarie
gonfiate fossero destinate a un calo imminente spinse molti investitori a liquidare i loro titoli,
determinando di fatto il crollo repentino del valore delle azioni. Il 24 ottobre, il cosiddetto giovedì
nero, furono ceduti 13 milioni di azioni e il 29 oltre 16 milioni.
Conseguenze della crisi
La crisi borsistica produsse
una serie di effetti a catena
e travolse tutta l’economia
statunitense, determinando
la caduta dei prezzi agricoli,
delle materie prime e dei
prodotti industriali e la
rapida contrazione del
commercio in tutto il
mondo. Ben presto dunque
la crisi fu anche bancaria. Il
fatto che le industrie non
producessero e che quel che
producevano dovesse essere
venduto a prezzi bassi, con
minor profitto, e che gli
agricoltori, per la caduta dei
prezzi agricoli, fossero
costretti ad abbandonare la
terra o ad accontentarsi di un guadagno minimo, ebbe notevoli conseguenze sul sistema bancario.
Infatti, sia l’industria che l’agricoltura erano seriamente indebitate con le banche. Nel periodo del
boom, che aveva preceduto lo scoppio della crisi, queste banche avevano ecceduto nei prestiti,
confidando non solo in una restituzione regolare, ma
anche nel fatto che i risparmiatori non avrebbero ritirato i
loro depositi. La crisi dunque mise in difficoltà molte
banche: compromesso dalla caduta delle vendite e dei
prezzi, un numero crescente di imprese non fu in
condizione di pagare i debiti e intanto le banche erano
premute dai loro depositari che, a loro volta spinti da
crescenti esigenze di liquidità, volevano la restituzione
delle somme depositate. Schiacciate tra l’incudine del
mancato rientro dei prestiti e il martello dei depositanti
che pretendevano la restituzione dei loro capitali, molte di
queste banche furono costrette a chiudere i battenti.
Le aziende, non potendo più accedere al credito,
riducevano la produzione, tagliavano i salari e licenziavano. Secondo i dati della Società delle
Nazioni, nel 1932 il numero di disoccupati superò la cifra di 25 milioni. Maggiore fu la
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disoccupazione in quelle nazioni a forte tasso di industrializzazione, dove la possibilità di lavoro
agricolo era minore: 15 milioni negli Stati Uniti e 7 milioni in Germania. La Francia risentì in
maniera nettamente inferiore del fenomeno di disoccupazione.
Primi rimedi
Di fronte al disastro la Federal Reserve Bank avrebbe dovuto abbassare drasticamente il tasso
di interesse. In alternativa le autorità monetarie avrebbero potuto suggerire di abbandonare la
parità con l’oro, lasciando che il dollaro si svalutasse. Diminuendo il valore del denaro si
sarebbe così favorita la circolazione monetaria, ottenendo il rilancio dei crediti, degli
investimenti e dell’economia in generale. Inoltre il calo del dollaro, aumentando il potere
d’acquisto delle valute estere, avrebbe avvantaggiato le esportazioni americane. Tuttavia il
presidente americano Herbert Hoover rifiutò di sganciare il dollaro dalla parità con l’oro e
adottò una politica economica rigidamente protezionistica. Inoltre si oppose inizialmente a
rigorose misure deflazionistiche, stimolando la spesa per opere pubbliche e facendo pressione
sugli industriali perché non riducessero i salari. Nel 1930 creò una Grain Stabilization
Corporation e una Cotton Stabilization Corporation per sostenere i prezzi sia dei cereali che del
cotone, in rapida caduta. D’altra parte però si rifiutò di porre mano a un piano di pubblica
assistenza, preferendo fare affidamento sulla carità privata e sull’azione dei governi locali.
Con le loro esportazioni di capitali, gli Stati Uniti avevano contribuito a mantenere in equilibrio la
bilancia internazionale dei pagamenti. Infatti, nel 1924 l’economista americano Charles Gates
Dawes aveva elaborato un piano per il risanamento economico della Germania, che prevedeva
l’esportazione di ingenti capitali sotto forma di investimenti e prestiti agevolati. Scoppiata la crisi
essi non accrebbero questa esportazione, anzi iniziarono il ritiro dall’estero dei capitali a breve
termine. Questa tendenza al ritiro dal mercato internazionale, specie europeo, fu rafforzata dalla
politica doganale che gli Stati Uniti perseguirono: la tariffa doganale che essi adottarono a partire
dal giugno 1930 fu duramente protezionistica. La Germania subì così un aggravamento della
recessione a causa dell’interruzione dei flussi creditizi dagli Stati Uniti e nel 1931 fallirono alcune
grandi banche tedesche.
Roosevelt e il New Deal
Il 1932 segnò una svolta importante nella crisi: alle elezioni presidenziali fu nettissima la vittoria
di Franklin Delano Roosevelt. Egli promise una politica più attenta alle esigenze e alle speranze
della gente comune, affermando nel corso del suo discorso inaugurale: “l’unica cosa di cui
dobbiamo avere paura è la paura stessa”. Inoltre invitò gli americani a mobilitarsi e ad avere
fiducia nel futuro e nelle prospettive del paese. Egli stesso sembrava incarnare, con la sua grande
forza di volontà, lo spirito combattivo che intendeva infondere nei propri elettori. Infatti nel 1921,
mentre era in vacanza all’isola di Campobello, Roosevelt aveva contratto una malattia –ritenuta al
tempo una grave forma di poliomelite- che ne causò la paralisi degli arti inferiori, dei quali era poi
riuscito a recuperare l’uso parziale. Egli si sforzò sempre di nascondere la sua disabilità: sono,
infatti, conosciute solo due fotografie di Roosevelt sulla sedia a rotelle. Anche da presidente,
piuttosto che farsi vedere in stampelle o con la sedia a rotelle, camminava con l’aiuto di una
guardia del corpo. Il presidente promosse un programma politico con tre R: “relief, recovery and
reform” (cura, risollevamento e riforma) . Le prime settimane di Roosevelt in carica furono
chiamate I Cento Giorni, durante i quali preparò e approvò una serie di leggi per provocare un
cambiamento immediato e impedire all'economia nazionale di destabilizzarsi. Il termine "New
Deal" (nuovo corso) venne coniato durante un discorso, quando affermò: "Impegno voi, impegno
me stesso, per un nuovo contratto per il popolo americano". Il New Deal comprendeva una vasta
serie di provvedimenti:
• Nel giugno 1933 si aprì a Londra la Conferenza economica e monetaria mondiale, che
sanzionò l’effettiva frantumazione del mercato mondiale. Scontratasi sul problema se
bisognasse stabilizzare le varie monete e attuare nuovamente il ritorno all’oro, come base
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del sistema monetario e delle transazioni internazionali, la Conferenza si chiuse con la
deliberata svalutazione del dollaro fermamente perseguita da Roosevelt e l’ostinata difesa
dell’oro da parte della Francia. Grazie allo sganciamento del dollaro dalla parità con l’oro
venne stimolata la spesa pubblica e furono favorite le esportazioni. Il mercato estero era
così utilizzato come sbocco per la sovrapproduzione statunitense.
• Inoltre venne emanato l’Agricultural Adjustement Act, che concedeva premi in denaro
ai coltivatori che avessero limitato i propri raccolti. L’intento di tale provvedimento era
quello di contrastare la sovrapproduzione e il conseguente crollo dei prezzi.
• Di grande importanza fu anche il National Industrial Recovery Act, decreto con cui
Roosevelt imponeva alle aziende un codice di disciplina produttiva, allo scopo di limitare
la produzione e di porre un freno alla caduta dei prezzi. Inoltre tale legge imponeva la
rinuncia al lavoro infantile e al lavoro nero, l’accettazione di minimi salariali e la
definizione di un orario di lavoro comune.
• Venne varata una riforma fiscale che prevedeva criteri di tassazione progressivi.
• Fu poi promulgato il Wagner Act, che sanciva il diritto all’organizzazione sindacale e il
diritto di sciopero.
• Venne istituita la Tennessee Valley Athority, agenzia con il compito di sfruttare al meglio
le risorse idroelettriche del bacino del Tennessee.
• Fu creata la Works Progress Administration che fornì lavoro a milioni di disoccupati,
impegnandoli presso enormi cantieri che sorgevano ovunque. Si perseguiva un progetto di
sistemazione del territorio tramite un vasto programma di opere pubbliche.
• Particolarmente innovativo fu infine il Social Security Act, con cui veniva imposta la
creazione di un moderno sistema pensionistico e assistenziale, che prevedeva sussidi di
disoccupazione e in generale una protezione sociale di cui i lavoratori americani erano
stati fino ad allora sprovvisti.
Il grande carisma di Roosvelt e l’immagine di leader forte e rassicurante gli assicurarono un’altra
vittoria schiacciante alle elezioni del 1936. Tuttavia l’uscita dalla crisi fu lenta e i risultati
strettamente economici del New Deal non furono entusiasmanti. I disoccupati nel 1940 erano
ancora 8 milioni e la quota dei senzalavoro sarà riassorbita in misura decisiva solo durante la
seconda guerra mondiale, con l’industria bellica a pieno regime.
La crisi economica era stata decisamente favorevole all’ascesa al potere di Hitler. Le quattro
elezioni che si svolsero tra il settembre del 1930 e il marzo 1933 videro il numero dei suoi
deputati crescere in maniera considerevole. Nel 1933 Hitler andava al governo e l’Europa si
avviava così verso la seconda guerra mondiale.
Luigi Pirandello:
figlio del Caos
Figlio del Caos
Garibaldi e i Mille sono passati come una
ventata sulla Sicilia assopita nel ricordo della
sua antica civiltà e nella desolazione della sua
cronica miseria. Alle piaghe che da secoli
affliggono l’isola si è aggiunta, nel 1866-67,
una grave epidemia di colera che ha causato
53.000 morti. Non saranno per caso i
“piemontesi”, novelli untori, a diffondere il
morbo per diradare la popolazione? O
addirittura per annientare la razza? A Catania e a Girgenti (l’odierna Agrigento) la plebaglia dà la
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caccia ai funzionari “nordici”, sospettati come “fautori del cholera”. In questo contesto Stefano
Pirandello decide di trasferire la moglie non più giovanissima e in avanzato stato di gravidanza a
Porto Empedocle. I pochi chilometri che separano Girgenti dalla modesta casetta di campagna,
non lontana dal mare, basteranno a salvare la madre e il nascituro dal colera. Il padre invece
rimarrà spavaldamente in città, sprezzante del pericolo. Si ammalerà, ma sarà lui a vincerla. Il
figlio, Luigi, nasce la notte del 28 giugno 1867, lontano dal padre e da tutti: non si trova neppure
una donna che gli faccia da levatrice. Il piccolo Luigi apre così gli occhi alla luce accecante del
Sud, che la polvere di zolfo delle zolfare e dei depositi, dove i “pani” si accatastano, fa pesante e
giallastra. L’aria ha il sapore un poco acre e pungente che dicono sia quello dell’inferno. Sarà
quell’aria a generare il sorriso diabolico che Pirandello si vorrà attribuire? È nato in una
campagna che vien chiamata Caos, forse –come dice lui stesso- dalla forma dialettale Càvusu,
corruzione del termine greco Kaos. E Luigi Pirandello sembrerà compiacersene quando,
giovanotto, scriverà ad un amico: “Io sono figlio del Caos, e non allegoricamente ma in giusta
realtà, perché son nato in una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco
denominato, in forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del
genuino e antico vocabolo greco Kaos”. Luigi cresce al tepore dell’affetto materno. Il padre, rude
e impetuoso, non ha indulgenza per le debolezze del figlio gracilino e timoroso. Aveva fatto le
schioppetate nelle file di Garibaldi nel 1860 –don Stefano- per le strade di Palermo, poi a Milazzo
e sul Volturno. Due anni dopo aveva combattuto sull’Aspromonte. Aveva pure imparato a non
aver paura nemmeno della mafia, che anche allora dominava e taglieggiava. Poco dopo la nascita
del figlio Luigi, schiaffeggiò un certo Cola Camizzi, il “padrino” della mafia di Girgenti, che
offriva “protezione” alla sua maniera. Camizzi gli sparò contro, ferendolo a un braccio e al petto;
Stefano gli scaricò addosso sei colpi di pistola, mancandolo. Venne portato a casa sanguinante,
ma fiero. I reciproci rapporti rimarranno sempre di affetti senza espansione, di amore senza
slancio da parte del padre; di chiuso rispetto, di fredda soggezione da parte del figlio. Influiranno,
non c’è dubbio, sulla psiche di Pirandello e sulla sua vita artistica. Il senso della morte e del
disfacimento che incombe su molta parte dell’opera di Pirandello ha forse le radici nella vana
ricerca che, da bambino, egli fece di un affetto che gli servisse da difesa e che non sgorgasse
soltanto dall’amore istintivo della madre.
Nel primo periodo della sua vita fu colpito da penose vicende familiari (contrasti d’interesse fra il
padre e il suocero, gravi rovesci finanziari del primo, smarrimento della ragione da parte della
moglie, dominata da una forma ossessiva di gelosia), le quali concorsero a determinare la
concezione pessimistica dell’esistenza che caratterizzò l’opera dello scrittore.
L’imprevedibile e il paradossale
Nei suoi primi romanzi, l’Esclusa e il Turno, la lezione verista è evidente nell’ambientazione
siciliana e nel modo in cui questa condiziona il comportamento ed il carattere dei protagonisti.
Tuttavia queste due opere non hanno nulla a che fare con l’intento verista di rappresentare
oggettivamente la realtà: l’interesse dell’autore è rivolto al ribaltamento della logica,
all’imprevedibilità dei fatti, ai risvolti paradossali e grotteschi delle vicende umane. I personaggi
pirandelliani, infatti, sono sempre posti in situazioni paradossali, svelando così la contraddittorietà
dell’esistenza umana. Egli lacera le norme del buonsenso e si compiace di condurre la successione
dei fatti a conseguenze imprevedibili: nelle sue storie, infatti, gli esiti non sono mai prevedibili.
Il crollo delle certezze e il relativismo
Pirandello si forma nella cultura positivista, di cui assimila un materialismo di fondo. Tuttavia
egli non acquisisce una fiducia incondizionata nel progresso e nella scienza, da lui avvertita come
potenza demistificatrice, capace di corrodere miti e credenze. Di fronte alla crisi dei valori
positivo Pirandello indirizza il suo interesse verso pensatori in cui è marcata la dissoluzione delle
certezze e delle convenzioni ideologiche, come Schopenhauer e Nietzsche. Egli si trova dunque a
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fare i conti con la crisi delle ideologie e dei valori culturali ottocenteschi, a partire da quelli
positivi in cui si è formato. Il malessere intellettuale che affligge Pirandello, tuttavia, non è solo
privato, ma generazionale. Infatti, nel saggio Arte e coscienza d’oggi pubblicato nel 1893 l’autore
descrive la crisi della sua generazione, affetta da una “spossatezza morale” per aver perso ogni
punto di riferimento. “Crollare le vecchie norme” scrive Pirandello “non ancor sorte o bene
stabilite le nuove; è naturale che il concetto della relatività d’ogni cosa sia talmente allargato in
noi, da farci quasi del tutto perder la capacità di giudizio”.
La crisi dei valori ottocenteschi culmina per Pirandello nella scoperta della relatività d’ogni cosa e
nell’incapacità di elaborare nuovi valori da sostituire ai vecchi. Nella vita e nel suo flusso eterno,
Pirandello avverte disordine, caos e disgregazione. Pirandello giunge così a disgregare
l’immagine unitaria della realtà e ciò comporta un radicale relativismo conoscitivo: ogni individuo
crede di possedere la verità, ma non è che irretito dall’illusorietà delle convenzioni sociali e dal
formalismo. Le nozioni di verità e di realtà, dunque, si frantumano, in quanto ognuno possiede la
sua verità, che nasce del suo modo soggettivo di vedere le cose. Da ciò deriva un'inevitabile
incomunicabilità tra gli uomini e un senso di profonda solitudine. Poiché la verità è inconoscibile,
qualsiasi rappresentazione del mondo si rivela inadeguata all'inaccessibile verità della vita,
percepita come un flusso continuo, caotico e inarrestabile. In un mondo dominato dal caso e privo
di senso, Pirandello conferisce alla letteratura il compito paradossale di mostrare l'inadeguatezza
degli strumenti logico-linguistici di interpretazione della realtà. L'arte, espressione del dubbio
sistematico, diventa così coscienza critica, dovere morale dello scrittore contro le mistificazioni e
i falsi miti costruiti dagli scrittori del decadentismo, a cominciare da D'Annunzio.
La scomposizione dell’io
Dal relativismo consegue la scomposizione della personalità: come è disgregata l’immagine
unitaria della realtà, così si dissolve l’immagine unitaria dell’io. In questo senso ha esercitato una
grande influenza sul pensiero di Pirandello l’opera di Binet, Alterations de la personnalité, nella
quale l’autore indaga la compresenza di livelli diversi della vita psichica, consci e inconsci. Egli
sostiene dunque la pluralità dell’io, in cui possono convivere varie e diverse personalità.
Pirandello oltre a liquidare il principio positivista di una realtà oggettiva, dissolve anche l’idea
romantica della verità soggettiva. Il soggetto è destituito di ogni potere conoscitivo: non è in grado
di conoscere la verità nemmeno su se stesso. L’interiorità non è più vista come unicità e armonia,
non è più luogo dell’identità e dell’integrità, è vista piuttosto come compresenza di spinte
contrarie e a volte opposte, addirittura di diverse personalità, dunque come scissione,
contraddizione, conflitto e caos.
Il problema dell’identità
La crisi delle certezze e la disgregazione dell’io trova piena espressione nel problema riguardante
l’identità dell’uomo. L’individuo, al suo interno, manca di unità e compattezza, si sfalda e si
disgrega in frammenti incoerenti. Tuttavia, secondo lo scrittore, ciascuno di noi tende a fissarsi e
irrigidirsi in una forma che vorrebbe presentarsi come unitaria, organica e compatta. Inoltre, tutti
coloro che ci osservano ci attribuiscono una forma diversa da quella in cui noi stessi ci
riconosciamo e la società, con le sue regole e istituzioni, ci impone una "maschera". Di
conseguenza, ognuno tende a deformare la realtà secondo la propria visione del mondo e
l’immagine di ciascuno cambia con il mutare della prospettiva. Infatti, se l’universo è una realtà
dominata dal caso, allora l’uomo stesso è una realtà cangiante, che muta in ogni situazione
sociale. Solo l’ipocrisia delle istituzioni, delle ideologie e delle regole che l’uomo stesso si è dato
tiene uniti questi frammenti in un’apparenza, dietro la quale tuttavia scorre inarrestabile la vita.
L’uomo, a dispetto dei suoi sforzi, non riesce a penetrare fino in fondo nel labirinto delle
apparenze, né a conoscere ciò che è racchiuso in quelle forme di cui egli è prigioniero: per questo
si dibatte, impotente, nella loro trappola ed è costretto a subire quelle leggi che sente false, ma che
rappresentano la sua unica possibile identità. Dunque il personaggio pirandelliano, davanti
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all’esistenza di più verità e all’impossibilità di stabilirne una assoluta, perde la propria identità
certa ed è avvolto in un caos indecifrabile. Il suo dramma è quello di non poter vivere la propria
identità e addirittura di non averne una.
Il fu Mattia Pascal
Il protagonista del romanzo pirandelliano, Mattia Pascal, rinuncia all’identità che la società gli ha
attribuito per crearsene una nuova, che però non gli è possibile vivere. Tuttavia quando decide di
tornare alla sua vecchia vita scopre che per la società, che lo considera morto, egli non è più
nessuno.
Questa mutata concezione della realtà si riflette anche nelle strutture narrative che caratterizzano
il romanzo del novecento. Mentre la stagione verista e quella romantica tentavano di porre un
ordine alla varietà infinita del fenomenico, nel romanzo novecentesco quella stessa complessità
non mira né ad una sintesi né a un’unità. Naufragata, infatti, la possibilità di comunicare una
verità solida e stabile, l’unica soluzione possibile resta l’incompiutezza. Nello stesso fu Mattia
Pascal manca una parola definitiva, una conclusione chiara e compiuta. Una delle cause che
spinge i narratori novecenteschi a non voler tirare le fila della storia è la coscienza di vivere in
un’età caotica e disgregata, priva di valori univoci e indiscutibili. La percezione della realtà è
mutata radicalmente: l’esistenzialismo, la teoria della relatività, la psicanalisi hanno privato
l’individuo di una meta sicura, rendendolo incapace di distinguere tra verità e menzogna.
Il verismo pretendeva di procedere con la logica deterministica e ineluttabile di un teorema, con i
personaggi condizionati dall’ambiente. Proprio contro il determinismo del positivismo e del
verismo muove il saggio pirandelliano sull’Umorismo: infatti, considerando soltanto il milieu, la
race e il moment di cui parlava Taine, si rischia di perdere di vista i singoli individui. Il fu Mattia
Pascal, invece, già nel titolo porta alla ribalta un individuo, chiamato per nome e per cognome a
sottolineare la sua unicità. Il romanzo pirandelliano vuole essere una protesta contro il
determinismo e la rigidità, contro la presunzione che ogni effetto possa essere spiegato con una e
una sola causa. Sono presenti nel romanzo molti elementi di questa poetica antinaturalista, basta
pensare ad esempio alla parodia della legge dell’ereditarietà. Infatti, mentre il padre di Mattia era
avveduto, accorto, sagace nell’investire e
nell’arricchirsi, il figlio è uno scioperato,
un inetto. L’unico tratto che accomuna
padre e figlio è la passione per il gioco,
per ironia il fattore più irrazionale, meno
legato
alle
leggi
biologiche
dell’ereditarietà. Da questo punto di vista
il gioco d’azzardo simboleggia la vanità di
ogni determinismo: il puro caso viene
elevato a legge e le vincite e perdite non
ubbidiscono a nessuna logica. Mattia
sorride con sdegno e commiserazione di
fronte ad un opuscolo esposto nella
vetrina di una bottega di Montecarlo che
promette una Méthode pour gagner à la
roulette. Il commento disincantato del
protagonista
esprime
il
discredito
dell’autore per ogni razionalità:
“vi seggono, di solito, certi disgraziati, cui la passione del giuoco ha sconvolto il cervello nel
modo più singolare. Stanno lì a studiare il così detto equilibrio delle probabilità, e meditano
seriamente i colpi da tentare, tutta un’architettura di giuoco, consultando appunto su le vicende
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de’ numeri: vogliono insomma estrarre la logica dal caso, come dire sangue delle pietre; e son
sicurissimi che, oggi o domani, vi riusciranno” (Pirandello, il fu Mattia Pascal, Einaudi, p.65).
Un altro motivo antinaturalistico è la condizione estraniata di Mattia rispetto alla società. La
società lo esclude dal suo senso, giudicandolo pazzo: “Mattia, l’ho sempre detto io, Mattia,
matto… Matto! Matto! Matto!”, gli grida il fratello. Complementare alla pazzia è poi il riso
apparentemente immotivato, incomprensibili per le persone “normali”.
Mattia Pascal è un personaggio “intrinsecamente e programmaticamente contradditorio, diviso
schizofrenico, con una personalità molteplice nelle sue risonanze” (Andrea Battistini, La crisi del
personaggio nel fu Mattia Pascal). Da questo punto di vista è molto eloquente il suo strabismo,
estrinsecazione fisica di una personalità asimmetrica.
Nello stesso romanzo l’autore spiega, per bocca di Anselmo Paleari, come la narrativa verista e
romantica non sia oggi più possibile. Commentando la rappresentazione dell’Elettra di Sofocle nel
teatrino delle marionette Anselmo Paleari riflette sulla conseguenza che potrebbe derivare se “nel
momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare la
morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del teatrino”
(Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Einaudi, p. 164). Il risultato di quello strappo, afferma il signor
Paleari, sarebbe che Oreste diventerebbe Amleto. Copernico -con la sua teoria eliocentrica- ha
negato alla Terra il ruolo centrale che per secoli essa aveva occupato, riducendola a “un’invisibile
trottolina [...] un granellino di sabbia impazzito”. L’uomo dunque non si trova più al centro
dell’Universo, non è altro che un puntino insignificante nell’immensità sterminata di ciò che lo
circonda, un “vermuccio” per usare le parole dell’autore. Le condizioni dell’esistere sono mutate
così radicalmente che le forme tradizionali di letteratura non hanno più senso, rese anacronistiche
dal loro stesso impianto composto e armonico, che
si scontra con la caoticità del reale. Non è più possibile l’esistenza di un eroe risoluto, sostituito
ora da un antieroe, un inetto. Un’immagine di letteratura più adeguata alla vita, disordinata e
senza senso, è semmai quella della biblioteca Boccamazza, dove i libri messi alla rinfusa,
accozzati in modo scompaginato, riflette molto meglio di un racconto ordinato e logico il carattere
della realtà.
Non va poi trascurata l’avvertenza sugli scrupoli della fantasia, posta in appendice, nella quale
Pirandello chiede di rientrare nei canoni della verosimiglianza, sottolineando come le vicende
paradossali narrate nel suo romanzo non siano del tutto inverosimili. Infatti, qualche anno dopo la
pubblicazione del romanzo pirandelliano, il caso vuole che una vicenda di cronaca analoga a
quella di Mattia Pascal finisca davvero sul giornale. Pirandello coglie allora l’occasione al volo e
inserisce a una ristampa del suo romanzo, edita nel 1921, uno scritto, l’avvertenza sugli scrupoli
della fantasia, in cui parla di quel fatto di cronaca come di una prova a favore della sua idea della
vita quale imprevedibile e assurda messinscena. Egli usa così quell’episodio reale come
dimostrazione che la vita disprezza ogni verosimiglianza, ma segue piuttosto delle leggi caotiche e
imprevedibili. Se la vita stessa è di per sé inverosimile, ne consegue che il vero realismo non è
quello dei veristi, ma l’eccentricità della sua storia, che parla di un vivo costretto a essere morto.
Pirandello è, infatti, interessato ad analizzare e scomporre la realtà per mostrarne l’assurdità e i
risvolti paradossali, la mancanza di ogni certezza e di ogni senso. Infine la descrizione del
protagonista, presentato in modo quasi deforme, simboleggia la connessione che intercorre tra
esteriorità e interiorità. La disgregazione dell’io si manifesta così anche sotto forma della
disarmonia nelle fattezze fisiche.
Infine, muta profondamente la prospettiva, in quanto la realtà non è più fotografata dall’esterno,
ma descritta secondo quello che vedono gli occhi strabici di Mattia, che colora in modo
marcatamente individualistico ogni esperienza. Il narratore onnisciente deve così cedere il passo
al narratore-protagonista, che giudica gli altri dal suo angolato punto di vista. La realtà, infatti,
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non è più una e oggettiva, ma può essere conosciuta solo soggettivamente. Il narratore mostra così
il suo punto di vista, di cui il lettore deve diffidare.
L’assurdità della vita è rispecchiata anche dalla trama, che risulta discontinua e digressiva con
fratture di tono e contenuto. Singolare è anche lo stile di Pirandello, dominato da una paratassi
grigia e discontinua che accentua la frantumazione del racconto attraverso giustapposizioni, simili
a fotogrammi avvicinati con un ritmo nervoso. Il lessico è trasandato e giornalistico, prossimo al
parlato, ma con improvvise esplosioni di termini rari e preziosi, come lampi che staccano dal
grigiore.
Friedrich Nietzsche:
il carattere caotico del mondo
Caos e ordine: la nascita della tragedia
La realtà per Nietzsche è generata dall’incontroscontro di due principi opposti: il caos e l’ordine.
Egli, rifacendosi alla mitologia greca, li individua
rispettivamente nelle divinità di Dioniso ed Apollo.
Ad Apollo Nietzsche attribuisce una serie di
caratteristiche che lo rappresentano come il dio
dell'equilibrio e della misura, delle belle forme e
della compostezza serena che mette ordine al caos
dell’esistenza. Egli esprime la componente
luminosa dello spirito greco che produce un mondo
di forme limpide e definite e che si esprime nella
scultura. Lo spirito apollineo è l'impulso umano che
fugge di fronte al caos, che è capace di concepire
l'essenza del mondo come ordine e che spinge
l'uomo a produrre forme armoniose rassicuranti. Gli
uomini si cullano nel mondo dell’apollineo per
escludere il dolore dalla vita e per poter continuare
a vivere senza guardare l’altra faccia dolorosa
dell’esistenza.
Il principio opposto è rappresentato da Dioniso, il dio dell'ebbrezza, della musica sfrenata, della
danza, dell'estasi che tende ad annullare l'io dell'uomo in quanto singolo e a riconciliarlo con il
tutto. E’ il dio che rappresenta la forza vitale degli istinti e delle passioni e il senso caotico del
divenire in cui si intrecciano la vita e la morte, la gioia e il dolore. Dioniso è il dio degli istinti e
delle passioni primordiali che albergano nel caos: egli esprime la loro forza vitale e creativa che si
realizza nel divenire imprevedibile delle cose.
L'alternarsi dei due elementi, apollineo e dionisiaco, è all'origine della vita e caratterizza anche
l'interiorità dell'uomo: l'uno è necessario e allo stesso tempo bisognoso dell'altro. Tuttavia non
possono mai riconciliarsi e fondersi in un unico principio: essi mantengono sempre la loro natura
distinta.
L’apollineo nasce dal tentativo di sublimare il caos nella forma e di trasfigurare l’assurdo in un
mondo definito ed armonico, capace di rendere accettabile la vita. Lo spirito dionisiaco mette
invece l’uomo al centro della sua condizione tragica e lo invita a riappropriarsi della vita e dei
suoi contrasti, delle sue gioie e dei suoi dolori.
La tragedia greca (quella di Eschilo e Sofocle) rappresenta per Nietzsche la forma suprema
dell’arte in quanto in essa sono compresenti e si compone il conflitto in atto nella vita tra lo spirito
apollineo e quello dionisiaco. Nella tragedia greca la danza, il canto e la musica, che sono aspetti
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dionisiaci, si fondono con la recitazione e il mito, che sono propriamente apollinei. L'esperienza
che lo spettatore vive durante la tragedia rende la vita possibile e degna di essere vissuta: l'uomo
greco attraverso la tragedia si riappropria delle sue passioni contrastanti e realizza che gioia e
dolore sono entrambi necessari e presenti nella vita.
Ma con l’insegnamento di Socrate, per Nietzsche, la sintesi fra dionisiaco ed apollineo viene
messa in crisi dal prevalere dell’apollineo che soffoca le profondità istintuali dionisiache della vita
a favore della ragione e del suo ideale di una visione serena e misurata del mondo. Con Socrate
viene occultata la base materiale, istintuale della produzione del pensiero da parte dell’uomo:
Socrate impone una visione razionalistica ed ottimistica del mondo, senza alcun legame col mito e
col fato, una visione in cui nell’universo tutto si svolge secondo un ordine oggettivo, conoscibile,
ma non modificabile dall’uomo. Un ordine che, proprio perché immodificabile, toglie senso
all’azione dell’uomo e lo rende incapace di ricercare un ordine diverso delle cose.
Tentativi di dare un ordine al caos
Per Nietzsche il mondo è una realtà a-sistematica, un luogo entro il quale forze ignote
continuamente e caoticamente si scontrano. Nella Gaia Scienza il filosofo afferma:
«Il carattere complessivo del mondo è caos per tutta l’eternità, non nel senso della mancanza di
necessità, ma della mancanza di ordine, di articolazione, di forma, di bellezza, di sapienza, o come
si chiamino tutte le nostre estetiche qualità umane». (La Gaia Scienza)
Il caos è la fonte stessa della vita, che si presenta come un originario e ignoto movimento di
impulsi. L’aspetto più autentico della realtà è dunque il puro divenire, ovvero il flusso caotico e
imprevedibile degli eventi.
Di fronte ad un universo che danza sui piedi del caso, ad una realtà contraddittoria e disarmonica,
gli uomini per poter sopravvivere hanno dovuto convincere se stessi che il mondo segua una
logica ben precisa. Tramite la filosofia essi hanno dunque cercato di impartire un senso stabile alle
cose e di trovare una spiegazione a eventi altrimenti incomprensibili. Solo così è stato possibile
escogitare una consolazione che renda più sopportabile l’esistenza, una consolazione che tuttavia
si rivela illusoria e oltre alla quale non vi è nulla. La filosofia occidentale si configura così come
un tentativo di trovare il rimedio alle paure degli uomini e di porre un ordine al caos,
dimenticando che è proprio quest’ultimo la caratteristica primaria della nostra esistenza. Ciò che
la filosofia occidentale vuole negare, a partire da Socrate, è proprio questo caos, questa
indeterminatezza vitale, andando così contro la vera natura dell’uomo e irrigidendolo entro
schemi artificiosi, che lo privano della possibilità di essere realmente ciò che è, ovvero slancio
vitale e razionale.
Socrate è stato il primo a imporre una visione razionalistica del mondo, una visione che secondo
Nietzsche è illusoria. Ciò che precede la ragione e di cui essa costituisce il rimedio è l’abisso del
caos: la ragione costituisce dunque la medicina che cura l’incertezza suscitata nell’uomo dal regno
insondabile dell’irrazionale, abitato da forze vitali contrastanti prive di regole. L’origine della
ragione è dunque legata al dominio del sapere sul disordine delle passioni e delle pulsioni vitali.
La ragione costituisce un rimedio contro l’essenza tragica dell’esistenza individuale, per sottrarsi
al carattere effimero e caduco dell’esistenza. Gli uomini approdano alla ragione per difendersi
dallo spazio vuoto, dalla notte che è sempre più notte, dall’infinito nulla, dal caos. La ragione è
inganno non perché falsa, ma perché tende a far passare le sue verità come le uniche possibili,
quando invece sono relative al modo in cui sono state costruite e dipendono dall’accordo che
intercorre tra le persone che le riconoscono come tali. Le verità della ragione sono convenzioni,
non dati oggettivi.
Il tema dell’accettazione della vita è il filo conduttore di tutto il pensiero di Nietzsche e lo porta a
polemizzare contro il cristianesimo e la morale, che inducono l’uomo ad opporsi alla vita. Ogni
forma di morale rappresenta un tentativo illegittimo di negare il flusso caotico dell’esistenza, in
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nome di concetti che vengono assunti come eterni. Il filosofo intende dunque smascherare tutte
quelle regole etiche e quelle convinzioni religiose che sono servite all’uomo per vivere meno
angosciosamente, ma che hanno celato al suo sguardo il vero volto della realtà. Nell’analisi
genealogica della morale Nietzsche risale alle sue sorgenti e ne scopre la genesi: i valori morali
costituiscono un’interiorizzazione delle autorità sociali da cui siamo stati educati. In questo senso
la moralità è l’istinto del gregge nel singolo e i valori etici sono gli strumenti per mantenere il
dominio delle élites dominanti. Si tratta della morale degli schiavi che viene inaugurata dal
cristianesimo, il quale esalta i valori anti-vitali del disinteresse, dell’abnegazione, del sacrificio di
sé, coi quali l’umanità dell’occidente -nell’illusione di una vita eterna- imbocca la strada della
malattia e della decadenza. Per Nietzsche la religione è il frutto del risentimento dell’uomo debole
verso la vita. Il cristianesimo ha inibito con la nozione di peccato gli impulsi primari
dell’esistenza e le sorgenti naturali della gioia e del piacere e ha prodotto un tipo di uomo malato e
represso, in preda al senso di colpa che avvelena la sua esistenza. La morale dunque si è nel tempo
configurata come lo strumento che gli uomini deboli utilizzano per dominare su quelli forti.
L’uomo debole, che non ha il coraggio di accettare il mutamento caotico come unica legge
portante della sua vita, è costretto a farsi scudo degli stratagemmi morali che gli permettono di
piegare l’esistenza al suo volere. L’uomo forte invece è colui che dice sì alla vita e che non ricorre
ad alcun rimedio morale e consolatorio, ma accetta il caos in cui consiste la vita. I deboli hanno
dunque posto un sistema morale che ha piegato l’intera umanità alle sue regole, attuando un
severo controllo delle passioni e degli istinti. Ogni atteggiamento morale è considerato dal
filosofo una menzogna, in quanto costituisce una tendenza acquisita e non naturale, per cui si
vuole creare di proposito una regola dove invece esiste solo caos. Alle negazioni e alle illusioni
della morale e del cristianesimo Nietzsche contrappone Zarathustra che proclama la fedeltà alla
terra e non a chi vende speranze ultraterrene. Zarathustra afferma la corporeità dell’uomo, la sua
natura terrestre, l’accettazione totale della vita che è propria dello spirito dionisiaco.
Nietzsche vede nel cristianesimo la forma più subdola e astuta di dominio dei deboli sui forti.
Esso, infatti, accetta la divisione della realtà operata da Platone, ponendo il fondamento della vita
al di là della vita stessa. La religione cristiana pretende di dare un senso a questa vita fondando un
mondo di realtà immutabili assolutamente fittizio. Nel linguaggio biblico caos è sinonimo di
magma, di mescolanza disordinata di elementi non ancora separati, perché non è stato ancora
guadagnato un certo ordine, frutto dell’intervento divino. Nietzsche guarda in modo polemico alla
Bibbia, che si apre con questo annuncio: “In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era un
caos senza forma e vuota; le tenebre ricoprivano l’abisso e sulle acque aleggiava lo spirito di
Dio. Iddio disse: ‘sia la luce’, e la luce fu… e separò la luce dalle tenebre, e chiamò la luce
‘giorno’, e le tenebre ‘notte’…” . Per i cristiani dunque è Dio e mettere ordine alle cose e a creare
il mondo dal nulla, affidandolo poi all’uomo perché lo domini osservando la sua legge. In nome di
questa arbitraria decisione di porre un Dio oltre il mondo sensibile, gli spiriti deboli predicano una
vita di virtù e di penitenza, di umiltà e di rinuncia. I valori incarnati dalla morale cristiana vanno
dunque contro l’esistenza, poiché sradicando le passioni hanno eliminato la vita stessa. Lo stesso
libero arbitrio è una menzogna posta dalla religione per rendere l’uomo responsabile del bene e
del male, in modo da poter infliggere punizioni e distribuire ricompense. Dio si configura così
come la quintessenza di tutte le credenze escogitate per fronteggiare il volto caotico e meduseo
dell’esistenza. Per Nietzsche l’ateismo è una sorta di istinto, è la realtà stessa, ovvero l’essenza
caotica del mondo che va a confutare l’idea di Dio. In la Gaia Scienza Nietzsche drammatizza il
messaggio della morte di Dio, che costituisce un trauma per l’uomo comune che di fronte al crollo
di ogni certezza si ritrova smarrito e, provando sgomento, viene portato a sostituire con nuovi miti
l’illusoria figura rappresentata da Dio.
Nel pensiero giudaico-cristiano Nietzsche vede in opera il progetto di dare un ordine al caos del
mondo per renderlo prevedibile ed accettabile, in modo da consolare l’uomo rispetto
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all’incertezza della vita e alla ineludibile tragicità della sua esistenza destinata alla morte. Ma
questo progetto di ingabbiare il caos in un ordine illude l’uomo e lo allontana dalla fonte della
vita, dall’istinto e dalle passioni e in questo modo ne spegne le potenzialità creative e lo condanna
alla “decadenza”, e cioè ad una vita sterile e alienata.
Nietzsche prende dunque le distanze dalla narrazione biblica e per il concetto di caos fa
riferimento alla concezione cosmologica del pensiero greco antico, quello prima di Socrate. E’
una concezione in particolare rappresentata da Eraclito, il quale scrive: “Questo cosmo non lo fece
nessuno degli dei né degli uomini, ma fu sempre, ed è, e sarà fuoco sempre vivente, che divampa
secondo misure e si spegne secondo misure.” E’ il cosmo perenne che ripete se stesso in una
visione ciclica del tempo, ove l’inizio si ricongiunge con la fine in un moto circolare perpetuo.
In questo rivolgersi alla tradizione presocratica, Nietzsche recupera la radice indoeuropea della
parola chaos, che non indica tanto il disordine e la mescolanza, ma indica l’aprirsi, il dischiudersi:
è il caos inteso come l’apertura originaria che ospita al suo interno la forza vitale, ancora senza
forma ed irrazionale perché senza regole, dalla quale possono poi crearsi e generarsi idee e
pensieri utili per dare un ordine e per rendere prevedibile la vita dell’umanità.
E in questo senso, il caos è visto da Nietzsche come il tutto che ospita la forza vitale e creatrice,
come il flusso in cui si intrecciano la vita e la morte, la luce e l’oscurità, l’ordine e la follia, il
tragico e il lieto: il tutto che si apre ad ogni possibile creazione. E il compito di una nuova
umanità (che Nietzsche abbozza nel concetto di superuomo) è quello di accettare la totalità dei
diversi aspetti della vita: di accettare e di confrontarsi con la sua natura caotica, di costruire un
pensiero che si nutra del vigore delle passioni e degli istinti, senza farsi consolare da illusioni
metafisiche, religiose o meno.
Nietzsche, infatti, non critica solo le credenze metafisiche e religiose, ma anche la scienza per la
sua ricerca di leggi e principi universali in grado di interpretare il mondo della natura. Nietzsche
critica la scienza che ha la pretesa di presentarsi come la più evoluta forma di conoscenza in grado
di fornire verità oggettive sulla condizione e sul destino dell’uomo, sulla sua soggettività, sulla
morale, sul bene e sul male. Menzogne sono dunque anche la scienza e la matematica, in quanto
pretendono di ridurre il fluire del mondo entro schemi concettuali rigidi e ben definiti, in modo da
avere una certa potenza sulla realtà. Anche questa pretesa non può avere altro esito se non il
fallimento, in quanto il divenire non può essere ridotto a delle semplici formule matematiche.
Anche la scienza dunque non ha più il potere di previsione e perde il dominio totale sulla natura.
Il superuomo e l’accettazione del caos
Tuttavia il fatto che la fede cristiana sia diventata insostenibile e la conseguente morte di Dio, non
provocano solo smarrimento e sgomento, ma rappresentano una nuova aurora, un’apertura: “il
mare, il nostro mare ci sta di nuovo aperto dinnanzi, forse non c’è ancora mai stato un mare così
aperto”. In tale orizzonte lo sguardo del pensiero intuisce il mondo come caos.
La morte di Dio coincide dunque con la nascita del superuomo (ubermensch): infatti, ciò che deve
essere superato non è tanto il criterio con cui l’uomo impone ordine e armonia a ciò che gli sta di
fronte, ma è l’uomo stesso che avendo il coraggio di accettare il caos della vita diventa
superuomo. Quest’ultimo ha la capacità di far coincidere il destino con la propria volontà, la
necessità con la propria libertà: “tutto ciò che fu è frammento, enigma, caso spaventevole, finché
la volontà creatrice aggiunge: così io volevo che fosse, così io voglio che sia, così io vorrò che
sia” (tratto da Così parlò Zarathustra). Il superuomo non teme l’ignoto, l’imprevedibilità e ama il
proprio destino (amor fati). Ma per giungere a tanto è necessario il capovolgimento di tutti i
valori.
Il superuomo inoltre, al contrario dell’uomo comune, desidera l’eterno ritorno dell’uguale, ovvero
che tutti gli istanti della sua vita ritornino continuamente sui propri passi in un moto circolare
perpetuo. Col pensiero giudaico-cristiano si afferma una visione lineare del tempo ove
l’esperienza umana diventa un percorso lineare di redenzione che procede dal peccato originale
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verso un futuro, il quale racchiude il fine della salvezza eterna. Nietzsche critica questa linearità
del tempo che ha una direzione e si articola in un passato, presente e futuro che costituiscono
momenti irripetibili di un percorso che procede verso un fine (la salvezza eterna), il quale li
trascende. Il fine trascende la vita, e ciò sta a significare che la vita sulla terra è subordinata alla
conquista della vita ultraterrena e ha valore rispetto a questo fine. Nietzsche rifiuta questa
subordinazione della vita terrena ad un fine ad essa esterno perché toglie valore ai suoi diversi
momenti e non consente all’uomo di viverli nella loro pienezza. Col cristianesimo l’uomo non
vive più la vita per il valore intrinseco che essa ha, non la vive pienamente nelle sue gioie e dolori
e questo perché essa rappresenta un passaggio che ha valore rispetto ad un’altra vita, quella
ultraterrena.
Contro questa visione, Nietzsche recupera le concezioni pre-cristiane del mondo della Grecia
presocratica e delle antiche civiltà indiane, le quali propongono una visione ciclica del tempo che
aderisce alla circolarità dei tempi della natura col suo trascorrere delle stagioni, le une dopo le
altre in un divenire continuo e circolare. E’ una visione dove non c’è un fine, ma c’è una fine che
si ricongiunge con l’inizio in un moto perpetuo e circolare, in cui ogni momento ha un suo senso
intrinseco e compiuto e come tale può essere vissuto con pienezza, nelle gioie e nei dolori che
può offrire. Rispetto a questo concetto di tempo, Nietzsche enuncia l’idea dell’ “eterno ritorno
dell’uguale”, uno dei suoi pensieri più profondi e di più incerta interpretazione, che allude ad un
“nuovo uomo”: il superuomo, o meglio, nella sua traduzione letterale dal tedesco, l’oltre-uomo. Il
superuomo rifiuta il tempo come una tensione angosciosa verso un compimento, un fine ultimo, e
vive invece ogni momento della vita nella sua pienezza di significato, che ha un senso in se stesso
e non in rapporto ad un altro momento successivo. Solo il superuomo può decidere l’eterno
ritorno, poiché egli sceglie di vivere come se tutto dovesse ritornare, come un gioco creativo che
ha in sé medesimo il proprio senso appagante. Il superuomo accetta la vita rifiutando la morale
tradizionale, guarda in faccia alla realtà (e alla tragicità della sua esistenza) senza illusioni
metafisiche e si pone come volontà di potenza.
Infatti, Nietzsche si rende conto che la concezione lineare del tempo contiene un passaggio che
impedisce alla volontà di potenza di estendere il suo dominio sull’intera realtà. Il passato è
immutabile e non può essere modificato dall’azione della volontà. Dunque il tempo non può avere
una finalità, una direzione, ma deve essere periodico: in questo modo nemmeno il passato si
sottrae alla volontà di potenza del superuomo. L’unico senso del tempo che rappresenta al meglio
il caos che permea l’esistenza umana è quello circolare, in cui ogni cosa perpetuamente ritorna su
se stessa infinite volte, senza alcuna legge che ne determini una rigida scansione.
Petronio:
critica al caos della società
Poche e incerte sono le notizie giunte fino a noi sulla figura di Petronio, e non ci permettono di
collocare con certezza l'autore e la sua opera, il Satyricon, all'interno della cronologia della
letteratura latina. Contrastanti le due tesi: quella "unionista" lo vuole vissuto nell'età di Nerone e
lo identifica con il Petronio citato da Tacito in un celebre passo degli Annales; quella "separatista"
invece colloca la composizione dell'opera in un'età più tarda, che alcuni fanno coincidere con l'età
dei Flavi, altri con quella degli Antonini, altri ancora con quella dei Severi.
Il Satyricon è un romanzo latino che narra le avventure di Encolpio in forma autobiografica. Il
racconto, incompleto, può essere suddiviso in cinque blocchi. Encolpio, il giovane protagonista,
racconta le avventure alle quali è andato incontro durante un viaggio fatto in compagnia del
giovane Gìtone, di cui è innamorato, e di Ascilto che contende al narratore le grazie di Gitone.
Dopo una discussione con il retore Agamennone sul tema della decadenza dell'eloquenza, i tre
iniziano a vivere le avventure più disparate. Vengono anche accusati di aver offeso il dio Priapo in
persona, avendo interrotto un rito in suo onore. Costretti quindi a rimediare al sacrilegio, sono
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coinvolti in un'orgia purificatrice, durante la quale subiscono estenuanti prove erotiche. Inizia
allora il racconto della "cena" a casa di Trimalchione, episodio centrale dell'opera, di cui occupa
quasi la metà. Ospiti, oltre ai tre ragazzi, sono vari personaggi del rango di Trimalchione, liberto
arricchitosi, che fa sfoggio con ostentata esagerazione delle sue ricchezze. La conversazione fra i
convenuti verte su argomenti comuni (il clima, i tempi, i giochi pubblici, l'educazione dei figli),
ma offre uno spaccato vivace e colorato, non senza punte di chiara volgarità, della vita di quel
ceto sociale. In seguito, Encolpio, allontanatosi dagli altri due compagni, incontra Eumolpo, un
vecchio letterato che, notato l'interesse di Encolpio per un quadro raffigurante la presa di Troia,
gliene declama in versi il resoconto (è la celebre Troiae halosis). I due diventano quindi compagni
di viaggio, rivali in amore a causa di Gitone e dopo una serie di avventure, che li vedono viaggiare
per mare e rischiare anche la vita, si ritrovano, insieme nella città di Crotone, dove Eumolpo si
finge un vecchio danaroso e senza figli, ed Encolpio e Gitone si fanno passare per i suoi servi:
così essi scroccano pranzi e regali dai cacciatori di eredità. Nei frammenti successivi, Eumolpo
recita un brano epico, in cui viene descritto il Bellum civile ("La guerra civile") fra Cesare e
Pompeo e successivamente si legge di Encolpio che, per l'ira di Priapo, diventato impotente, è
vittima di una ricca amante che si crede disprezzata da lui e lo perseguita. Eumolpo, invece, scrive
il suo testamento, dove specifica che gli eredi avranno diritto alle sue ricchezze solo se faranno a
pezzi il suo corpo e se ne ciberanno in presenza del popolo.
Il Satyricon spazia su diversi generi letterari pur ponendo le sue basi nel romanzo greco. Il titolo
dell’opera è un genitivo plurale di forma greca, probabilmente di genere neutro: il nominativo
Satyrica rinvierebbe così ai titoli dei romanzi greci nel senso di “libri di cose satiriche” o di
“storie dal mondo dei Satiri”, ad indicare che il romanzo non si svolge nel mondo idealizzato del
romanzo greco, ma in un mondo dai tratti realistici, comici e satirici. L’opera di Petronio
rappresenta una forma nuova e non è riconducibile ad un unico modello, ma contiene riferimenti a
generi letterari diversi. Ben riconoscibile è il richiamo parodistico all’Odissea, dato che i motivi
guida del romanzo sono la persecuzione dell’eroe da parte di una divinità e il viaggio avventuroso.
Sono poi disseminati nomi e situazioni dell’Odissea e non mancano riferimenti umoristici
all’Iliade e all’Eneide. Il Satyricon si rifà inoltre al romanzo ellenistico, di cui segue lo schema di
base, ovvero le peripezie di una coppia di innamorati, che si ritrovano dopo essere stati separati.
Lo schema viene però parodisticamente ribaltato, in quanto i fidanzati sono una coppia di
omosessuali e il sesso diventa il filo conduttore della vicenda. Una componente importante è
rappresentata dalle fabulae milesiae, i racconti licenziosi a sfondo comico che nel romanzo
vengono riportati da Eumolpo: il fanciullo di Pergamo e la matrona di Efeso. Encolpio è l’io
narrante della storia e ha dunque il duplice ruolo di personaggio che vive una vicenda e di
narratore che la racconta. La tecnica del racconto in prima persona apparteneva alla novella
milesia, nella quale forniva una parvenza di verità alle vicende. Nel Satyricon questa tecnica
conferisce unità al racconto attraverso la continuità del punto di vista. Notevole sembra poi
l’apporto della satira menippea, un genere serio-comico praticato a Roma da Varrone e da Seneca.
Dalla satira menippea Petronio deriva vari elementi: la forma prosimetrica, ovvero il frequente
alternarsi di prosa e versi (tratti da opere celebri oppure inventati), la critica verso la società
contemporanea e il forte realismo, efficacemente espresso dalla varietà dei registri linguistici. Del
tutto assente è il moralismo, al quale si sostituisce un distacco aristocratico dell’autore dal mondo
e dai personaggi che va descrivendo.
Per Petronio, la società in cui egli vive è affondata nel caos più totale a causa del decadimento dei
valori morali, piena di corruzione e di personaggi squallidi e anonimi che traggono soddisfazione
solo dai piacerei esistenziali. I personaggi petroniani sono tutti succubi dei loro desideri sessuali,
in una società dove la ricchezza si erge come unico parametro di valutazione dell’uomo. Petronio
descrive inoltre l’ascesa sociale dei liberti e la sostituzione del denaro alla virtù senza espliciti
moralismi, ma semplicemente delineando il quadro di una società degenerata e avvolta nel caos
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più totale. Nessun ordine si può dare in una società dove tutto è il contrario di tutto, dove la
tragedia diventa grottesca e comica, la diversità è conformismo. Nei confronti del mondo narrato
l’autore mantiene un superiore distacco, che gli consente di presentare gli eventi con tono
disincantato e ironico. Petronio non si lascia coinvolgere dagli avvenimenti e offre al lettore la
vivace immagine di un mondo irrequieto e corrotto, in cui smania di vivere e ossessivo pensiero
della morte si alternano continuamente. Il metro di giudizio non è morale, ma la misura
dell’autore è quella dell’equilibrio e del buongusto, nella vita e nell’arte.
La cena di Trimalchione
Il fulcro dell’opera petroniana è l’episodio della cena di Trimalchione. Encolpio, Ascilto e Gitone,
che non conoscono né Trimalchione né la sua casa, rimangono interdetti di fronte all’ostentazione
di ricchezza e cattivo gusto. Encolpio, pieno di curiosità per lo strano spettacolo che gli si mostra
intorno, chiede spiegazioni a Ermerote, il commensale che era steso sul triclinio e che era stato più
volte ospite di Trimalchione, dunque al corrente delle faccende di famiglia. Ermerote si lancia
allora in una lunga descrizione dei padroni di casa e delle loro ricchezze.
Il mondo del Satyricon appare totalmente ribaltato: nell’età giulio-claudia l’affermazione
economica di nuove classi produce un’inversione nei valori, tanto che per la loro ricchezza sono
ora individui come Trimalchione a essere considerati “persone per bene”. Tale rovesciamento può
essere mirabilmente sintetizzato dall’episodio della “gaffe” di Encolpio.
Interim ego, qui privatum habebam secessum, in multas cogitationes diductus sum, quare aper
pilleatus intrasset. Postquam itaque omnis bacalusias consumpsi, duravi interrogare illum
interpretem meum, quod me torqueret. At ille: "Plane etiam hoc servus tuus indicare potest: non
enim aenigma est, sed res aperta. Hic aper, cum heri summa cena eum vindicasset, a conviviis
dimissus est; itaque hodie tamquam libertus in convivium revertitur." Damnavi ego stuporem
meum et nihil amplius interrogavi, ne viderer nunquam inter honestos cenasse.
Nel frattempo io che avevo un
posto appositamente per me, ero
tutto trascinato in molte
riflessioni perché fosse entrato
un cinghiale con il capo coperto
da un cappello. Dopo che ebbi
esaurito pertanto ogni idiozia,
cominciai a chiedere al mio
interprete sul problema che mi
tormentava. E lui mi fa: « il tuo
stesso servo potrebbe spiegarti
questo con facilità: infatti non è
un enigma, ma una cosa ovvia.
Questo cinghiale, sebbene ieri
l’ultima
portata
l’avesse
rivendicato è stato mandato
indietro dai convitati, pertanto
oggi
ritorna
indietro
al
banchetto come un liberto». Biasimai io stesso la mia dabbenaggine e non gli chiesi niente di più
perché non sembrassi non aver mai mangiato con persone per bene.
Dum haec loquimur, puer speciosus, vitibus hederisque redimitus, modo Bromium, interdum
Lyaeum Euhiumque confessus, calathisco uvas circumtulit, et poemata domini sui acutissima voce
traduxit. Ad quem sonum conversus Trimalchio: "Dionyse, inquit, liber esto." Puer detraxit
pilleum apro capitique suo imposuit. Tum Trimalchio rursus adiecit: "Non negabitis me, inquit,
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habere Liberum patrem." Laudamus dictum Trimalchionis, et circumeuntem puerum sane
perbasiamus. Ab hoc ferculo Trimalchio ad lasanum surrexit.
Mentre dicevamo quelle cose, uno schiavetto bellissimo ornato sul capo di foglie di viti e di edera,
dopo essersi dichiarato ora come Bromo, ora come Dioniso Bacco, portò in giro dell’uva in un
piccolo cesto e declamò al suo padrone dei versi con una voce squillante. E Trimalchione,
essendosi girato a quel suono, disse: «Dioniso, sii libero». Lo schiavetto tolse il cappello di lana
al cinghiale e lo pose sul proprio capo. Trimalchione allora aggiunse ancora: «Non negherete
che io possieda un Libero padre». Lodammo quelle parole e ne approfittammo per sbaciucchiare
ben bene il ragazzetto mentre girava intorno al tavolo. Dopo questo piatto Trimalchione si alzò
per andare a fare i suoi bisogni.
Il personaggio di Ermerote si esprime in sermo vulgaris: si tratta di un linguaggio fondato sulla
paratassi, sulla frammentarietà e sul ricorso a frasi fatte. A proposito della lingua del Sayrikon si è
parlato, infatti, di realismo mimetico, dato che ogni personaggio si esprime con il linguaggio
caratteristico della propria condizione sociale. Vi è un’evidente distinzione tra i personaggi colti,
che si servono di una lingua semplice ma elegante, non priva di riferimenti ai principali modelli
letterari (Cicerone, Virgilio, Orazio), e personaggi non colti, che usano il latino parlato, ricorrendo
a vocaboli popolareschi, espressioni gergali o idiomatiche ed a grecismi. Un caso a parte è
rappresentato da Trimalchione, che nella sua ansia di sembrare diverso da ciò che è, ovvero un
ricco parvenu, cerca di fare sfoggio di erudizione impiegando un linguaggio elevato,
magniloquente e artificioso. Tuttavia non riesce a sostenere a lungo tale linguaggio e ricade, con
effetti comici, nel modo di parlare tipico della sua classe sociale.
Alla base delle parole che Ermerote pronuncia nel corso della cena sta la convinzione che la
ricchezza sia il bene maggiore e che ogni uomo, com’è perfettamente naturale, agisce per il suo
utile. Ermerote non descrive soltanto Fortunata, Trimalchione e i suoi commensali, ma –senza
saperlo- anche se stesso. Egli fa come Omero, che getta una luce vivida e uguale sugli uomini e le
cose di cui parla. Inoltre ciò che dice è univoco e niente rimane inespresso, celato nello sfondo.
Tuttavia esistono notevoli differenze nei confronti della maniera omerica.
1. In primo luogo nella cena Trimalchionis la forma è del tutto soggettiva: l’immagine dei
commensali ci viene presentata da un personaggio che fa parte di quella stessa cerchia.
Petronio lascia che un soggetto, che non coincide né con lui né con il narratore Encolpio,
proietti il suo sguardo sulla tavolata. Questo espediente di prospettiva, anche se non
costituisce un unicum, è tuttavia un caso rarissimo. Nella letteratura antica vi sono
personaggi che parlano delle loro esperienze o delle loro impressioni, ma o viene
impiegata un’esposizione obiettiva, oppure si tratta di una presa di posizione di un
personaggio di fronte ad avvenimenti che lo toccano, e dove dunque l’aspetto soggettivo è
inevitabile. Qui si tratta invece del soggettivismo più spinto, che viene maggiormente
accentuato dal linguaggio individuale e per intenzione d’obiettività.
2. Inoltre a Ermerote sta molto a cuore, mentre parla, mettere in risalto la sua condizione
passata in confronto con quella presente. Anche Omero intercalava notizie sull’origine, la
nascita e la vita precedente dei suoi personaggi, ma i suoi accenni non ci conducono verso
il trasformarsi dei personaggi, al contrario ci portano ad un saldo punto di riferimento. Al
vicino di tavola, invece, interessa proprio la trasformazione, il cambiamento di fortuna.
Egli concepisce il mondo in continuo movimento, dove non vi è nulla di sicuro e dove la
ricchezza e la posizione sociale sono estremamente instabili. Il cambiamento di fortuna
occupa un posto notevole anche nella letteratura antica, tuttavia esso appare come
qualcosa di straordinario, che esce dal corso consueto delle vicende e che tocca solamente
uno o pochi, mentre il resto del mondo sembra irrigidirsi nell’immobilità. Nella tragedia,
ad esempio, esso appare come destino orribile e unico e nella commedia come prodotto
straordinario di circostanze speciali. Nel banchetto di Trimalchione, invece, i cambiamenti
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di sorte sono visti come storia interna: infatti, non uno o pochi vengono colpiti da un
destino unico e straordinario, mentre il resto del mondo rimane in quiete, bensì Petronio ci
mette innanzi una serie di liberti arricchiti, aventi un destino simile per la sua instabilità.
3. Infine il banchetto petroniano si avvicina alla concezione moderna della rappresentazione
realistica, per la descrizione precisa dell’ambiente sociale. La commedia presenta
l’ambiente sociale in modo molto più generico e schematico, in luoghi e tempi più
imprecisi e senza curare il linguaggio individuale dei personaggi; nella satira la
rappresentazione è moralistica e rivolta alla critica di qualche vizio; il romanzo, infine, è
così pieno di incantesimi, avventure ed elementi mitologici, che riesce impossibile
considerarlo imitazione della vita quotidiana. Petronio si pone invece l’obiettivo di imitare
senza stilizzazione un qualsiasi ambiente quotidiano e di far parlare alle persone il loro
gergo.
La cena di Trimalchione è un’opera di carattere puramente comico. Ai tempi di Petronio,
infatti, vige la legge della separazione degli stili, secondo la quale tutto ciò che è
quotidiano deve essere rappresentato solo comicamente, senza approfondimento
problematico. In tal modo si pongono dei limiti molto ristretti al realismo, poiché non
vengono messe in luce le forze sociali che stavano a quel tempo alla base dei rapporti
rappresentati. Petronio non dà alcun valore al lato storico della sua opera: egli, infatti, non
cura la profondità storica, collegando i singoli avvenimenti con determinate situazioni
politico-economiche delle prima età imperiale. Se la letteratura antica non poteva
rappresentare la vita quotidiana problematicamente e nemmeno sullo sfondo storico, ma
solamente in uno stile comico o tutt’al più idilliaco, si ha dunque non soltanto un limite al
suo realismo, ma anche un limite della sua coscienza storica.
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