OGGETTO VIVENTE PERFETTO L`opera di Gino De Dominicis
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OGGETTO VIVENTE PERFETTO L`opera di Gino De Dominicis
OGGETTO VIVENTE PERFETTO L’opera di Gino De Dominicis Laura Cherubini Morire è solo non essere visto. Fernando Pessoa Gino de Dominicis è stato un artista straordinario, nel senso dell’altissimo livello della sua opera, ma anche nel senso della consapevole “eccentricità” rispetto al m o n d o dell’arte.1 A qualunque costo ha sempre pensato, praticato, dimostrato la più alta concezione del ruolo dell’artista. Ha sempre sostenuto, contro tutto e contro tutti s e occorreva, anche a dispetto di un sistema dell’arte a volte debole, a volte masochista e disposto ad aprirsi, a ritrarsi e a cedere il passo in ogni direzione (a contaminarsi avrebbe detto De Dominicis)2 la centralità assoluta dell’arte. In questo senso ha avuto un grande coraggio, il coraggio di essere solo.3 Nella pittura l’artista assolutamente credeva e riteneva di avere trovato un linguaggio che fosse alta espressione d i un’opera profondamente unitaria. Sappiamo come De Dominicis controllasse ogni aspetto e dettaglio relativo al suo lavoro. Conosciamo l’attenzione estrema per ogni minimo particolare. Ora ci si pone il problema di conciliare due forti esigenze: il rispetto per il suo pensiero e la sua volontà e il desiderio di salvaguardare la s u a eccezionale opera, che peraltro gode di splendida autonomia. Nella pittura l’artista assolutamente credeva e riteneva di avere trovato un linguaggio che fosse alta espressione di un’opera profondamente unitaria. La pubblicazione di questo numero monografico e la mostra intendono essere occasione per aprire ad altre future e più ampie mostre, ad altri futuri e più sistematici studi. Siamo circondati da un eccesso di immagini, mentre le eccelse opere di Gino D e Dominicis bisogna andare a cercarle e forse avere la fortuna di vederne alcune, vale la pena, restituiscono sempre più di ogni aspettativa.4 Non ho mai assistito a u n a “contestazione” all’attuale sistema dell’arte così radicale come la sua, ma s e n z a provocazioni, senza ideologismi, dall’interno dell’opera e dei suoi fondamenti. U n a critica serrata, colpo su colpo. Non ho mai conosciuto nessuno che avesse come lui una fede totale, assoluta, incrollabile nella centralità dell’opera d’arte. OSSIMORI E OMEOPATIE “Il disegno, la pittura, la scultura, non sono forme di espressione tradizionali, m a originarie, quindi anche del futuro”. È una della frasi di Gino De Dominicis.5 Nella civiltà sumera l’eroe Gilgamesh è re, pittore, scultore e architetto. Non è dunque il re guerriero delle culture successive, tra i Sumeri il re è l’artista. Gino De Dominicis sin dall’inizio ha disegnato, dipinto e realizzato opere tridimensionali. Aveva già esposto nel ’64 un centinaio di quadri e disegni. Poi, nel momento in cui le gallerie rifiutavano la pittura, gradualmente riuscirà a reinserire il linguaggio del disegno e della pittura. Il disegno con il piccolo volto è segno, cifra, sigillo, la cui matrice ripetuta crea u n cerchio. In una delle ultime apparizioni all’Attico6 le due varianti, l’omino solo e quello iterato in circolo tappezzano le pareti di tutte le stanze. Al di là del continuo riemergere del problema della pittura, la vera avventura inizia con una mostra sorprendentemente nitida e sicura nel 1969 nel garage di via Cesare Beccaria a Roma, sede dell’Attico di Fabio Sargentini, galleria diventata in quegli anni un punto di riferimento.7 “Gino con gli oggetti invisibili cambiava le carte in tavola rispetto a Pino e a Gianni, ai materiali naturali dell’arte povera” afferma Sargentini (che considera l’invisibilità la vera novità del lavoro di De Dominicis) riferendosi a quelli che erano stati fino a quel momento gli artisti guida della galleria, Pascali8, scomparso nel settembre ’68, e Kounellis. L’aurea asta in bilico, intitolata Equilibrio, è libera e sola, sospesa nello spazio: appare come una sorta di linea generatrice dell’intera opera. Intorno il Cubo invisibile e il Cilindro invisibile: le loro basi, tracciate a terra disegnano un cerchio e un quadrato e forse questi due solidi sono scelti proprio per le loro differenti basi e per la dialettica cerchio/quadrato che tornerà nel Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno a un sasso che cade nell’acqua. U n gancio sembra tenere sospeso un secchio pieno d’acqua, come se l’acqua f o s s e solida e potesse esser tirata su. Anche un chiodo, analogia minima dell’asta, è sospeso a una parete. E poi la pietra (Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale) e l a Palla di gomma (caduta da 2 metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo.9 L a complessità di questi lavori, pur composti da due semplici elementi, mi sembra risiedere in un doppio e in un certo senso contraddittorio statuto: da una parte l a messa in trasparenza dell’invisibile movimento, virtuale nella palla, un auspicio nella pietra; dall’altra il potere del linguaggio dell’arte di fissare l’attimo di immobilità. I l tutto suggellato da un manifesto funebre con l’annuncio della propria morte. La data, novembre 1969, corrisponde a quella della mostra.10 Il suo lavoro è stato erroneamente considerato da alcuni “concettuale”.11 Invece, Mozzarella in carrozza del ’70 formalizza l’opposizione: le parole infatti erano materializzate, visualizzate. Era inoltre la dimostrazione che la mozzarella rimaneva tale pur dimorando nel lussuoso contenitore, ironizzando sugli epigoni di Marcel Duchamp che ancora oggi credono che il contenitore, galleria o museo, abbia il potere di trasmutare in opera d’arte qualunque oggetto lì esposto. La lucida analisi d i Duchamp è stata trasformata in una superstizione, secondo la quale il luogo funziona come una bacchetta magica. Un tasso di artisticità si trasmetterebbe metonimicamente dal contenitore al contenuto. De Dominicis mette a nudo questo meccanismo preconcetto dimostrandone l’inefficacia: anche nella mostra da Gian Enzo Sperone a Roma nell’82 il water resterà tale e non subirà alcuna miracolosa trasformazione per la sua vicinanza al quadro.12 Si tratta di operazioni “omeopatiche”13 che criticano, doppiandole, le metodologie in voga. “Io, nell’arte, ho realizzato disegni, dipinti, ‘sculture’ (opere tridimensionali), opere invisibili, opere ubique, architetture, e in qualche occasione ‘ossimori fisici’ e opere ‘omeopatiche’.”14 Noi siamo le puntine15 sarà un’altra operazione di tipo omeopatico: scrivendo questa frase a terra con le puntine stesse questa volta l’artista doppia ironicamente la tautologia minimalista, riproducendo anche la disposizione spaziale rasoterra di alcune opere della Minimal Art16. Mozzarella in carrozza (presentata all’Attico nella collettiva del 7 febbraio 1970) suscitò scandalo e l’artista asseriva di aver subito l’ostracismo d e l sistema dell’arte, restando escluso dalle più importanti mostre del momento. Nello stesso garage il 4 aprile 1970 lo Zodiaco presenta la concretizzazione fisica d e i segni astrali disposti a semicerchio. “Lo Zodiaco era stupefacente, con animali veri” ricorda l’amico Vettor Pisani “Gino annullava qualsiasi senso simbolico, non c’era l’aspetto esoterico che era presente nelle performance di Joseph Beuys o nelle mie. Evitava accuratamente il simbolismo, però se consideriamo che appariva all’Attico, nello stesso spazio del garage di via Beccaria dove qualche anno prima Kounellis aveva presentato i cavalli ci rendiamo conto dello scarto”.17 Qui infatti il leone non è l’equivalente del cavallo, ma segno zodiacale e costellazione. L’artista era certamente più interessato all’aspetto cosmico che a quello simbolico. Questi elementi, oggetti o esseri viventi, arrivano da uno spazio siderale, da un’infinita extraterrestre distanza.18 Lo Zodiaco, come nota acutamente Achille Bonito Oliva, è “realizzato, per la prima volta nell’arte attuale, fuori dalla convenzione vitalistica della performance, attraverso l’adozione di persone viventi ma immobili in una posizione precostituita dell’artista, come può avvenire con l’impasto di colori prescelti dal pittore, l’artefice completo dell’opera”.19 Nel novembre 1970 De Dominicis presenta a Milano da Franco Toselli nello spazio sotterraneo di via Borgonuovo (la mostra successiva sarà Mel Bochner) l’asta, l a palla, la pietra e il cilindro invisibile, ma anche l’oggetto radioattivo (in una nicchia), i due identici vasetti (prima forma di Opera ubiqua) e un gattino con un cartellino che annuncia il postulato della Seconda Soluzione d’Immortalità. Il 28 dicembre 1970 il critico Maurizio Calvesi cura all’Attico la mostra Fine dell’alchimia: nel garage di via Beccaria Jannis Kounellis presenta la donna bendata con le mosche che si posano sulla pancia; Vettor Pisani la tartaruga che procede lenta portando sul dorso un peso dorato in mezzo a gusci di tartaruga; Gino De Dominicis, lo scheletro con i pattini a rotelle, un’asta in bilico sul dito e il cane al guinzaglio (Il tempo, lo sbaglio, lo spazio). “L’opera associa la mortalità all’impulso al movimento, a correre nello spazio per accorciare il tempo. Lo scheletro è il fulcro dell’attività muscolare e psicomotoria, nell’animale come nell’essere umano, ma i pattini d i quest’ultimo provano il suo proposito di incrementare l’azione, incidere nel tempo, con la tecnica. L’asta, proiettata verso l’alto e occupando lo spazio senza movimento, indica invece una forma d’esistenza prodigiosa e a-temporale” scrive Gabriele Guercio.20 Per De Dominicis lo spazio dell’arte è quello della verticalità, lo sbaglio è l a volontà di spostarsi orizzontalmente e ancor più il desiderio di imprimere un’accelerazione attraverso i pattini. “Inutilmente Achille ha calzato i pattini per vincere il tempo nel tempo e raggiungere il suo antagonista. È precipitato nella dimensione del non essere, ora il suo scheletro giace a terra nella falsa immobilità della morte. Nella ritrovata assolutezza del presente, ogni cosa è se stessa, diventa fine e non mezzo” scrive Filiberto Menna citando il paradosso di Zenone in u n bellissimo testo.21 D’IO è il gioco di parole (Di me stesso/Dio) che fa da titolo a una mostra impalpabile, fatta solo di suono, che sembra quasi anticipare molte delle tendenze più recenti (24 aprile 1971). Si tratta di una risata forte e prolungata che riecheggia nella galleria vuota22: è anche questa un’opera invisibile. “Nel grande spazio del garage l’eco era potente e il riso si espandeva in una risata omerica” (Sargentini). 23 LO SGUARDO DALL’INTERNO Del 1972 è la sala che provocò un grande scandalo alla Biennale di Venezia con l’opera Seconda Soluzione d’Immortalità (l’Universo è immobile). Simone Carella24, a Venezia come assistente di Gino De Dominicis, racconta: “Gino considerava la s a l a una summa, ma non aritmetica, delle cose che aveva fatto sino ad allora. Siamo arrivati molto tempo prima per scegliere la sala migliore per quello che lui aveva in testa. Poi l’opera è nata e cresciuta stando lì. Una delle ragioni per le quali la sala f u scelta è che si apriva sul giardino, dunque ci si poteva arrivare senza passare attraverso le altre sale. Sul tetto c’erano lucernai che erano stati oscurati, la prima cosa che Gino fa è chiedere, imponendosi nella discussione, di togliere l’oscuramento ai lucernai per avere la luce del giorno, così comincia l’avventura con se stesso in quella sala. La luce naturale, la porta che si apre sull’esterno: l’opera doveva essere a contatto con l’universo. Poi mi chiede di cercare una persona che deve rappresentare questa seconda soluzione d’immortalità, un giovane che abbia conservato l’aria di un bambino”.25 L’immortalità è possibile bloccando il tempo. Questa è la medesima istanza di altri lavori di De Dominicis, come il gatto presentato con un cartellino-didascalia all’Attico o come Che cosa c’entra la morte?26 Al di là della sottile distinzione tra immortalità ed eternità quello che interessa l’artista è “la fissità del momento del presente, la percezione dell’attimo” (Carella). La persona prescelta incarna una soluzione d’immortalità. “Non avendo ricordi, memoria, né percezione d e l futuro è, ovviamente per paradosso, immortale” (Carella).27 Secondo Renato Barilli, che aveva invitato l’artista alla Biennale, Paolo Rosa è “persona che ha superato l a ‘cura’ in senso heideggeriano, specchio di virtù e rappresentazione dell’età dell’innocenza. De Dominicis aveva alcune idee fisse, capovolgere fatti come il principio di gravità, dare scacco matto al tempo rovesciando le leggi della fisica, m a poi i modi per visualizzare il concetto potevano variare”.28 Andando contro la gravità s i va contro la mortalità. Infatti ai due lati opposti della sala, su due seggiolini posti molto in alto, le figure d e Il Giovane (impersonato dallo stesso Simone Carella) e Il Vecchio.29 Secondo le parole di Carella la Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo è un elemento artificiale, ripieno di aria e allude a un tentativo di volo, l a Pietra (Aspettativa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione tale da generare un movimento spontaneo del materiale) invece è un elemento naturale legato alla terra in attesa di un movimento ad essa aderente; oltre a questi oggetti davanti a Paolo Rosa stava il Cubo invisibile. È evidente che la sala è un territorio magico30 dove regna una circolarità dello sguardo tanto è vero che nella (foto ricordo) appare u n a spettatrice nell’atto di inforcare un paio di occhiali. Di “punto di vista interno all’opera” ha parlato lo stesso artista. La sala stessa è costruita come interno, situazione n o n comunicabile. Un teatro della mente, messo paradossalmente in scena non attraverso i mezzi del teatro, il movimento, la parola, il testo, ma attraverso quelli delle arti visive. “La 2a Soluzione aspira a creare una situazione in cui tutto è e resta com’è” scrive giustamente Gabriele Guercio.31 Perché questo è il potere che De Dominicis attribuisce alle arti visive rispetto agli altri linguaggi. Per usare i termini della Lettera sull’immortalità (dal fulminante incipit “Cara, io penso che le cose non esistono…”32, i tre oggetti passano dallo statuto di “verifiche” a quello di “cose esistenti” entrando nel campo visivo di Paolo Rosa. “Il disegno, la pittura, la scultura, materiali, immobili e mute, sono ontologicamente l’opposto di tutti gli altri linguaggi artistici”.33 ODISSEA DA FERMO Sul tema dell’immortalità e del superamento dell’entropia Gino De Dominicis torna il 18 dicembre 1972 agli Incontri Internazionali d’Arte a Palazzo Taverna: “in occasione della serata è stato spedito un cartoncino, con il quale si invita al cocktail per festeggiare il superamento del ‘Secondo principio della Termodinamica’. Viene offerto un rinfresco servito in bicchieri di cristallo ed in piatti di porcellana. La tavola è impreziosita da candelieri d’argento e dal soffitto pendono lampadari di cristallo. Al muro sono affissi giornali con titoli sensazionali, che annunciano: L’uomo h a raggiunto l’immortalità del corpo”.34 In una delle versioni della Lettera sull’immortalità35 scrive: “Non potendo intervenire direttamente su se stesso per fermare il corso inesorabile del proprio ‘tempo interno’ e allungare la propria vita , l’uomo ha inventato dei mezzi che lo rendessero più veloce: intervenendo così sullo spazio, indirettamente è riuscito a intervenire sul tempo. Questa operazione potrebbe essere giustificata però solo se lo spazio f o s s e finito e la nostra fantasia limitata. Purtroppo invece è solo un palliativo e u n gravissimo errore”. Queste parole, oltre a costituire la migliore spiegazione per I l tempo, lo sbaglio, lo spazio, sono anche una buona introduzione a un altro lavoro realizzato all’Attico: la Poltrona per un viaggio nello spazio. Secondo la testimonianza d i Sargentini l’artista modifica una poltrona del tipo di quelle da barbiere aggiungendo una sorta di attacchi da sci ai piedi e apponendo un cartellino con una dicitura che f a riferimento al doppio movimento, di rotazione e di rivoluzione, della terra. Chi s i siede, attraverso la lettura del cartellino, subisce la suggestione di intraprendere u n viaggio nello spazio, viaggio che effettivamente stiamo compiendo legati alle evoluzioni terrestri. Nel 1975 alla galleria Lucrezia De Domizio a Pescara l’ingresso è interdetto a l pubblico: Mostra riservata agli animali. Gli spettatori spiano dall’uscio e sulla soglia s i affacciano un bue, un asino, un’oca, una gallina…36 secondo la testimonianza d i Vettor Pisani che riferisce anche che gli animali erano stati individuati dall’artista come esseri che non hanno coscienza della morte (in questo senso il lavoro era già, in nuce, nel gattino che circolava nel garage dell’Attico corredato di didascalia). È evidente che De Dominicis, negli animali come già nel giovane Paolo Rosa, è in cerca di modelli alternativi al destino dei mortali, paradigmi dell’immortalità del corpo. Quasi a voler fermare il tempo De Dominicis opera una scomparsa e riapparizione nella galleria di Pio Monti a Roma: “Ricordo le due mostre, identiche, ripetute nella mia galleria a distanza di un anno esatto, 14 gennaio ‘77/14 gennaio ’78, con u n a pietra enorme, un’asta in bilico, due vasetti che rappresentavano l’ubiquità, u n a piramide invisibile! Chi era venuto alla prima mostra tornando nello stesso luogo e trovandosi dinanzi agli oggetti nella medesima posizione ne era frastornato, come s e il tempo, appunto, si fosse arrestato!”.37 Nelle successive mostre alla galleria Monti nei primi anni Ottanta l’artista presenta il Lampadario antientropico e Sbarre violate. “Aveva fatto alcuni quadri che poi aveva distrutto e ne aveva messo i resti in un sacco di plastica poi appeso al soffitto. Invece di fare luce faceva ombra”38: l’energia n o n viene dispersa, dunque non c’è entropia. Sbarre violate è una grata che ha subito u n a leggera deformazione, reca dunque le tracce di un’evasione, di una presenza che si è trasformata in assenza. Il 27 gennaio 1979 inaugura a Roma la galleria di Mario Pieroni, che si trasferisce d a Pescara, con opere di De Dominicis (significativo il titolo Disegno), Kounellis e Ettore Spalletti. Nell’aprile la stessa galleria inaugura 11 statue di G. De Dominicis: si tratta d i uomini invisibili, come già i solidi geometrici, segnalati da ciabatte e cappello d i paglia posto ad altezza d’uomo, materiali leggeri, quasi il segno dell’evanescenza e del passaggio all’invisibilità. URVASI E LE ALTRE “In una sua scultura, ha reso vivente il volto della statua di una Madonna. M a precedentemente, nella storia delle immagini, la Madonna era sempre stata rappresentata come triste o in qualche caso, sorridente. Lei, invece, l’ha fatta ridere. È forse questo da interpretare come omaggio liberatorio alla figura femminile tradizionalmente oppressa? Sì”.39 Era effettivamente il pensiero di De Dominicis che l a donna e l’artista fossero simili per la capacità di creare. “Così in Urvasi e Gilgamesh d e l 1969, che era originariamente un lavoro fotografico, successivamente trasposto in forme diverse, l’artista pone due profili specularmente uno di fronte all’altro, il primo a rappresentare Gilgamesh e l’altro Urvasi, la dea della bellezza Veda Indù. Perché Urvasi, una dea indù? Come Beatrice e Laura per Dante e Petrarca, Euridice e Giulietta per Orfeo e Romeo, in ciascun caso la figura femminile è il m o m e n t o energetico, quanto il contatto con la morte” scrive Germano Celant e prosegue “Componendo le silhouette di Gilgamesh e Urvasi, l’artista instaura un’osmosi tra energie differenti, che rappresentano altre sue sensibilità, ma anche due epoche, d u e generi, due simboli e due culture, due storie differenti tra loro”.40 Anche Urvasi e Gilgamesh creano un corto circuito tra culture eterogenee. E un ossimoro, temporale e geografico, è anche il fatto che nel paesaggio situato tra i due profili appaiano, nota Celant, una piramide e un disco volante. Le due figure sono viventi: “Nel 1984 d a Sprovieri a Roma, mentre una finestra aperta su piazza del Popolo inquadra l e sagome metalliche di ‘Urvasi e Gilgamesh’, l’interno è formato da una parete che presenta un semplice spiraglio lenticolare. Guardando attraverso, in un vano scarsamente illuminato, si scorge sullo sfondo un dipinto che rappresenta una grande testa, somigliante ai volti degli ‘oranti’ sumeri, statuette di pietra reperite a Tall Asmar e riferentesi alla prima metà del terzo millennio a.C.”.41 Carolyn ChristovBakargiev ricorda che “una serie di ritratti femminili (la donna sumera, egiziana, tibetana, maya e la Madonna) pone il problema della memoria, della bellezza e , quindi, della mortalità”.42 Tomassoni nota che anche la Lettera sull’immortalità è indirizzata a una donna.43 Ma già all’inizio degli anni Settanta aveva presentato un’opera in cui alle foto d e l Vecchio e del Giovane aveva contrapposto due foto di una graziosa fanciulla in giovane età. È uno dei segni della superiorità femminile: l’uomo invecchia, corroso dal tempo, la donna abita nel presente della giovinezza. “Questo non raggiunge l’immortalità, questa, la donna, vive invece nella immortalità” (Alberto Boatto).44 CONTRO LA FOTOGRAFIA “La fotografia non crea. Riproduce o interpreta l’esistente” ha scritto Gino D e Dominicis, e ancora: “È sbagliato mettere sotto la riproduzione fotografica di un’opera d’arte il nome dell’artista: È il nome del fotografo che ha realizzato la foto che dovrebbe esserci”.45 Che Gino De Dominicis non amasse la fotografia e nel corso degli anni avesse sviluppato una vera e propria strategia di resistenza contro di e s s a è cosa nota. Probabilmente vi percepiva minore energia ed intensità rispetto alla pittura.46 Come sempre ci metteva in guardia, attraverso quanto diceva e scriveva, dalla supina e confortevole accettazione di convenzioni in uso nel sistema dell’arte suggerendone la messa in crisi.47 Ma soprattutto la vera strategia per sottrarre l a propria opera alla tirannia sostitutiva della fotografia si avrà attraverso una mirabile tecnica pittorica tale da sfiorare l’irriproducibilità. Tuttavia, se questa era la tendenza generale del suo pensiero, è anche doveroso ricordare che in diverse occasioni h a permesso di pubblicare immagini fotografiche del suo lavoro.48 Non si trattava di u n a regola inderogabile, ma di una difesa ideale dell’opera e del proposito di mettere a nudo e svelare l’identificazione, data come ovvia per abitudine, ma niente affatto scontata, tra l’opera e la sua riproduzione. Il 27 novembre del 1972 De Dominicis si presta al gioco dell’amico fotografo Claudio Abate che capta l’impronta della sagoma di otto artisti attraverso un procedimento d i contatto diretto con la superficie sensibile. La foto, insieme a quelle di de Chirico, Kounellis, Mattiacci, Pistoletto, Pisani, Germanà, Acconci sarà esposta in dicembre agli Incontri Internazionali. Nel 1973 Gino De Dominicis è invitato con una sala personale alla mostra Contemporanea curata da Achille Bonito Oliva e organizzata dagli Incontri Internazionali d’Arte nel parcheggio sotterraneo di Villa Borghese a Roma. Nella s a l a è presente anche il ritratto fotografico realizzato da Elisabetta Catalano sotto al quale l’artista pone una scritta sul tema dell’identità che inizia così: “Ritratto dal vero di u n artista...”.49 Dunque si tratta di un ritratto (un genere nel quale negli ultimi anni l’artista si cimenterà con la pittura) non solo autorizzato, ma utilizzato addirittura all’interno della propria opera e in varie occasioni. A riprova di questo possiamo citare una immagine di De Dominicis, un’operazione mentale dell’artista che nel 1975 si f a fotografare da Buby Durini a figura intera mentre cela il volto dietro al ritratto d i Elisabetta Catalano che funziona in questo caso da maschera: De Dominicis si f a sostituire dal proprio ritratto. Un modo per sottrarsi alla fotografia, ma attraverso l a fotografia stessa. Ma va inoltre sottolineato che l’artista ha usato la fotografia per alcuni lavori c o m e (foto ricordo), il Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi attorno a un sasso che cade nell’acqua, la foto della Madonna che ride come statua inesistente (dopo l a distruzione dell’opera) e altri. Ogni lavoro sembra scegliersi la sua tecnica e tra queste è ammessa anche la fotografia. Resta severo il suo giudizio su non giustificate contaminazioni di linguaggi. C o m e all’epoca aveva ironizzato su certi sconfinamenti allora alla moda, più avanti prenderà le distanze dalle evasioni creative e multimediali: “Non è un caso isolato quello d e l mio commercialista. Innumerevoli oggi sono gli operatori dei più svariati linguaggi e mestieri che attendono con impazienza il definitivo sconfinamento multimediale dell’arte per essere così anche loro artisti, fare le mostre, abbonarsi a Internet e scambiare le proprie esperienze con milioni di altri ‘artisti”. IL TEMPO E LO SPECCHIO Un esempio del complesso sistema di relazioni esistente nell’opera di De Dominicis tra lo spazio illusivo della pittura e lo spazio reale dell’ambiente e contemporaneamente della dialettica tra spazio e tempo è nell’opera presentata nel 1988 alla galleria Lia Rumma di Napoli. Guercio la descrive così: “riprendendo il s u o Specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi (1969, poi distrutto), l’artista realizza una completa cancellazione del pubblico dell’arte e di ogni elemento in movimento nello spazio espositivo. Nella sala semibuia, un proiettore illuminava una tavola a tempera nera, con Urvasi e Gilgamesh, di profilo, a matita grigio-argento, e u n poliedro rilucente all’altezza dei loro occhi. Sulla parete opposta al dipinto, u n a cornice ovale aveva tutta l’apparenza di uno specchio; avvicinandosi, però, ci s i rendeva conto che lo ‘specchio’ rifletteva la sala e il dipinto, ma non i visitatori. Scoprire il trucco, che furono costruiti due spazi simmetrici con due dipinti identici, è meno importante di coglierne i risultati. Lo ‘specchio’, che tutto riflette tranne l e presenze mobili e viventi, disloca e proietta entrambe le opere d’arte in u n a dimensione totalmente altra da quella degli spettatori. Evidenziando la permanenza dei due dipinti contro la transitorietà degli spettatori, esso rafforza la prospettiva d i un’arte senza tempo e pubblico determinati”.50 Comincia a configurarsi la soluzione d i De Dominicis al problema dell’immortalità: essa è destino della pittura e n o n dell’uomo, e potremmo aggiungere dell’opera e non dell’artista. È inoltre significativo notare che, in una biografia approntata dall’artista stesso questa mostra era stata indicata come “un’opera che deforma il tempo”.51 Tutto ciò che è dotato d i movimento nello spazio non ha possibilità di permanere nel tempo, l’immobilità dell’opera d’arte invece garantisce durata illimitata. Effimero e illusorio si rivela non l o spazio della pittura, ma quanto reputiamo più reale, noi stessi. I viventi s o n o condannati alla mortalità dalla loro pulsione al movimento che li spinge a sbagliare, cioè, come abbiamo visto, a correre nello spazio, a indossare i pattini. A questo destino si sottrae l’opera d’arte, oggetto vivente perfetto.52 Ma c’è stata un’altra opera in cui l’elemento dello specchio è associato al discorso sul tempo. Si tratta dell’orologio in cui i segni del tempo come ore e lancette n o n compaiono e l’intero quadrante è sostituito da una superficie specchiante.53 Pensiamo alla serie di orologi realizzata da un altro grande artista italiano: Alighiero Boetti. L e differenze tra i due artisti risulteranno evidenti: Boetti di anno in anno sostituiva alle cifre che indicano le ore quelle che compongono l’anno creando così un metonimico progressivo slittamento che mette in dubbio la certezza stessa della misurazione d e l tempo. Quella di De Dominicis è una fulminante, lampante metafora speculare: il tempo sei tu che invecchi, siamo noi.54 PICTOR MAXIMUS La malia di un volto che nasce da gorghi di segni sottili e sapienti. Il fascino di u n o sguardo che apre sul mondo esterno e su quello interno: questa può essere l’introduzione all’opera pittorica di Gino De Dominicis.55 Un sorriso enigmatico, u n occhio chiuso e uno aperto, sono caratteristiche attribuite a un volto maschile su tela e a un volto femminile sul legno che entra con le sue venature nell’opera. Il disegno è un punto cardine nel lavoro di questo artista che tuttavia non esclude altre forme d i espressione. Al disegno e alla pittura si accostano elementi tridimensionali. A volte questi elementi riappaiono nelle opere di pittura, l’asta ad esempio torna più volte, anche nella grande tavola dove due volti si sfiorano. “Nel mondo esistono e s o n o sempre esistite solo opere bidimensionali e tridimensionali; e alcune opere invisibili di Gino De Dominicis”.56 Tuttavia il segno di De Dominicis rivela sorprendentemente una mano nata per disegnare. Nelle sue opere e soprattutto nei disegni ricorre spesso il volto umano e prevalentemente la figura femminile, ricollegandosi a u n tema della tradizione artistica piuttosto in disuso nell’arte contemporanea (come l’artista stesso faceva notare). Nella pittura in cui tanto credeva ha raggiunto risultati quasi inimmaginabili, portando al suo interno, senza bisogno di esterne impalcature concettuali, l’altezza e la densità del suo pensiero, lo spessore mentale. Ha raggiunto la massima complessità e la massima armonia con l’uso, quasi paradossale, d i semplici, tradizionali ed essenziali mezzi: la tavola, la tempera, la matita. “Vi è una immensa differenza tra il vedere una cosa senza matita in mano e il vederla mentre la si disegna” (Paul Valéry). È come se tra l’occhio dell’artista e la s u a mano ci fosse un filo invisibile che trasmette le sue vibrazioni sensibili alla superficie sulla quale, come per incanto, un’immagine si configura. “Non posso precisare la m i a percezione d’una cosa senza disegnarla virtualmente, e non posso disegnare questa cosa senza un’attenzione volontaria che trasforma notevolmente quello che prima avevo creduto di percepire e di ben conoscere. Mi accorgo che non conoscevo affatto quello che conoscevo: il naso della mia migliore amica”. È Valéry, uno scrittore, a dire questo: non si conosce veramente una cosa senza disegnarla e solo l’artista può fare questo. Il disegno è la più diretta verifica del tradurre la manualità in forma. Nelle opere di De Dominicis questa verifica è lampante e immediata all’occhio dello spettatore. Le linee portano ancora gli echi della mano e tuttavia assumono un valore formale ben preciso. Il principio del disegno percorre l’intera opera e può presentarsi anche secondo un rovesciamento positivo-negativo, bianco sul fondo nero. L’aspetto mentale è molto forte in queste opere, quasi una messa in trasparenza del pensiero, un pensiero visivo che recita In principio era l’immagine come il titolo del grande quadro. Uno dei primi quadri del momento del ritorno alla pittura si intitola Io a Roma e colloca l’artista nel suo scenario naturale, contrassegnato dalla presenza dell’obelisco di piazza del Popolo. Ma un altro luogo affiora, la Mesopotamia, quella terra tra il Tigri e l’Eufrate che appare tra i profili di Urvasi (la dea indiana della bellezza) e Gilgamesh (il re-artista), la strana coppia maschile/femminile che riunisce in un ossimoro echi delle culture sumera e indiana. Insieme, i due profili uno di fronte all’altro, le sagome in controluce, attraversano molte opere di De Dominicis. Molti quadri, come la grande testa presentano l’accostamento cromatico nero e oro, molto amato dall’artista. Un altro contrappunto cromatico, lo scontro tra il rosso e il nero, è presente in molte opere tra cui si distingue per intensità pittorica un volto diabolico. La figura sumera torna in una raggiera di segni in un’opera del ’94. Le matite s u tavola presentano incredibili sorprese, dalle più scarne, come la figura “gobba” (9697), o il volto visto sottinsù, visione parziale di una sfinge dal collo lungo il cui contorno è stato realizzato senza mai staccare la matita, alle più complesse, come l a coppia trasfigurata in figura unica del ’91. Dei disegni su tavola Angelo Trimarco h a scritto: “Sembra, difatti, che queste opere, leggere e come sospese, svuotate di ogni residuo di materia, si pongano come il trionfo della purezza e della trasparenza. Siano la cifra dell’idea di De Dominicis di pensare l’arte il più vicino possibile all’immortalità, al senza tempo”.57 Tra le matite su tavola appare anche il ghigno d i una figuretta dagli occhi strabici e basculanti, un’invenzione formale costruita con grande forza di sintesi. In un quadro di grande delicatezza l’evanescente uomo con il cappello si volge a contemplare infinite lontananze. Il colore viene piegato a una resa straordinaria: grigio su grigio, blu su blu, il raro giallo su giallo e addirittura bianco s u bianco. Un vero pezzo di bravura è costituito dalle pochissime opere con le nuvole, tra cui un quadro di grandi dimensioni, di cui l’artista parlava s p e s s o58, una pittura che si fa cielo, corporea e incorporea insieme. Ogni quadro è una sfida, risolve u n problema. Ogni quadro stupisce. Il percorso dallo sguardo alla mano non è diretto: “Parecchi circuiti intervengono: tra questi la memoria. Ogni occhiata al modello, ogni linea tracciata dall’occhio diventa elemento istantaneo di ricordo, e proprio a un ricordo la mano sulla carta va a chiedere la sua legge di movimento. Si manifesta la trasformazione d’un tracciato visuale in un tracciato manuale” (Valéry). Il disegno è filtrato dalla memoria e dalla memoria emergono soprattutto figure umane e soprattutto volti. “Ora, l’espressione spirituale, sebbene debba riversarsi sull’intera apparenza corporea, si concentra soprattutto nella configurazione del volto” (Hegel). Nelle opere di De Dominicis c’è sempre uno scarto in un particolare della parte più importante: il viso. Il miracolo della pittura è quello di restituire una fisionomia attraverso pochi tratti, segni rapidi, a volte appena accennati, a volte più fitti e leggeri. In alcuni casi lo scarto è costituito dal naso, l’elemento che collega la parte alta e più spirituale del viso a quella bassa, che si allunga a dismisura. Questa deformazione, che è nata disegnando, appare anche nel grande scheletro che giace immobile, iperbole di una figura umana ridotta all’osso, diverso solo per quell’appendice, il naso, che nello scheletro è la parte mancante.59 I linguaggi delle arti figurative sono caratterizzati dal rapporto con la materia e l’immobilità, secondo l’artista. De Dominicis, anche quando ha presentato persone vive, le ha presentate immobili. A queste caratteristiche si aggiunge l’assenza di u n o svolgimento temporale. La presenza dell’opera d’arte è assoluta. Alcune tematiche ricorrono e la pittura diventa una materia atta a dar loro corpo. Nei primi lavori D e Dominicis innesta il tema dell’immortalità e dell’annullamento della dimensione temporale. Così nel lavoro con le foto dell’uomo giovane e vecchio l’arco temporale è reso in un’intuizione simultanea. Analogamente, in un lavoro di molti anni dopo, u n disegno su tavola, una coppia regale appare davanti a una città, mentre accanto levita una figura che ha il corpo di bambina e il viso di vecchia. Questa invenzione formale di De Dominicis è un’immagine sintetica, che copre l’intero arco temporale: l e forme mute e immobili vivono nella dimensione di un assoluto presente che tutto racchiude, questa è l’essenza della pittura. TRA DUE FIUMI, NELL’ALTO DEI CIELI “Non sono stato mai molto interessato all’arte moderna e neanche a quella antica, bensì a quella antidiluviana” scrive Gino De Dominicis e sicuramente il richiamo è più al diluvio dell’epopea di Gilgamesh che all’episodio biblico di Noè. Si è molto parlato e scritto a proposito dei riferimenti di De Dominicis al mondo dei Sumeri. Questo riferimento, senza dubbio valido ed esplicito, aveva radici nel fatto che la civiltà sumera, precede, anche cronologicamente, tutte le altre compresa l’egizia e la greca. È l’originarietà a colpire l’artista che spesso ripete la convinzione (suffragata in u n certo senso dalla ricerca scientifica) che i Sumeri abbiano inventato tutto.60 È molto interessante notare che l’iconografia di origine sumera si lega in De Dominicis a l tema cosmico. Tutte le ricerche scientifiche finalizzate alla conquista dello spazio hanno in definitiva dato corpo all’innato desiderio di librarsi nello spazio, quello d e l tentativo di volo. In un appunto dello Zibaldone Giacomo Leopardi parla di “una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella”. Ho sentito più volte Gino De Dominicis parlare del progetto di una casa sospesa. In un ciclo di grandi quadri realizzati con l’ancora inedito accostamento di bianco e oro presentati alla Biennale del 199361 D e Dominicis ci offre una sublime visione del cosmo prima della nascita stessa del cielo e della terra, un’immagine siderale del mistero delle origini. Solo una remota e complicata epica della creazione di matrice sumera, antecedente alla genesi, p u ò rischiarare (la parola “spiegazione” è fuor di luogo per De Dominicis) il grande quadro biancodorato dove appaiono pianeti e satelliti non esattamente corrispondenti a i nostri.62 De Dominicis ci ha dato occhi per vedere un altro cosmo, in un altro tempo. In questa infinita dimensione le coordinate spazio-temporali mutano completamente, tanto che si può parlare di anni-luce (quelli impiegati dalla luce di una stella g i à spenta per arrivare a noi), ovvero esprimere un concetto temporale (gli anni) attraverso uno spaziale (la luce). Da una incommensurabile distanza il sistema d i astri che poi si trasformerà nel nostro sistema solare si mostra all’artista e a noi come una serie di geometriche circonferenze candide nella luce dorata dell’universo. In questo spazio altro, in un arco di tempo che va dal passato al futuro, un dipinto della serie colloca l’incontro tra la figura femminile e la figura maschile. Ancora un’opera suggerisce la via del ritorno, con un’astronave capace di viaggiare all’interno della macchina del tempo, una struttura che sembra volutamente riecheggiare quella prospettica. Solo che qui la prospettiva è in qualche modo rovesciata, non c’è unità d i luogo, tempo e azione, ma una condensazione di passato, presente e futuro. Prospettiva rovesciata è il titolo di una famosa opera di De Dominicis, un quadromanifesto dove l’esile struttura geometrica permette al gioco dell’occhio che vede ciò che è in primo piano più grande di rovesciarsi nel suo contrario; nella versione piccola l’artista aggiunge l’elemento della figura di spalle che chiude il circuito dello sguardo, come già la spettatrice di (foto ricordo), e dà la misura dell’inversione spaziale e temporale. La prospettiva, che Erwin Panofsky ci ha dimostrato essere una “forma simbolica”, permetteva di accostare la superficie pittorica a una finestra: “Scrivo u n o quadrangolo di retti angoli quanto grande io voglio, el quale reputo essere u n a finestra aperta per donde io miri quello che quivi sarà dipinto” (Leon Battista Alberti). Solo che in questo caso la finestra ci consente di affacciarci sul cosmo. La macchina del tempo per eccellenza è la pittura. È la pittura che sola ci fa attraversare lo spazio e il tempo. “Il disegno, la pittura, la scultura, non sono forme di espressione tradizionali, ma originarie, quindi anche del futuro” (Gino De Dominicis). Un’opera verticale sembra mostrare una figura nel momento in cui diviene invisibile e la sommità del suo capo diviene una ziggurat. La figura stessa si muta in architettura, come nel caso del volto che si fa scala. La ziggurat stessa è una scala tesa a stabilire un dialogo tra terra e cielo, il trionfo dell’architettura verticale, prototipo della Torre di Babele. Presso i Sumeri in realtà “la ziggurat è un gigantesco piedistallo preparato per permettere alla divinità di scendere sulla terra”63, luogo d i accoglienza del sacro, pista d’atterraggio per alieni ed extraterrestri. L’APPESO “Il disegno, la pittura, la scultura, materiali, immobili e muti, sono ontologicamente l’opposto di tutti gli altri linguaggi artistici”. È un’altra frase di Gino De Dominicis che marca la differenza e la specificità dell’arte visiva. L’artista è sempre stato contrario alla “performance” propriamente detta che considera un linguaggio teatrale e n o n dell’arte visiva. Le azioni infatti si realizzano nel movimento e si sviluppano nel tempo. Tranne che in Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua e in Tentativo di volo (1970) che costituiscono un filmato, considerato tale dall’artista, De Dominicis invece non ha mai usato il movimento. È stato anzi il primo a usare persone vive ferme, come nello Zodiaco del ’70, e c o m e nella sala alla Biennale del ’72. De Dominicis talvolta ha accostato nel suo lavoro presenze esemplari, tridimensionali e immobili, alle opere d’arte. È di nuovo u n ossimoro (l’accostamento di fatti di diversa natura, come le cose e i viventi) a produrre differenza creando un corto circuito visivo. Ma in fondo il principale ossimoro di De Dominicis consiste nell’aver usato sia il sistema della presentazione (nelle opere con oggetti e/o persone viventi) che quello della rappresentazione (nella pittura) alternativamente o anche simultaneamente nello stesso periodo o nella stessa mostra.64 È anche il caso della mostra alla galleria la Nuova Pesa nel 1996 (da tredici anni l’artista non esponeva a Roma): nella complessa sala iniziale un grande quadro (un autoritratto a tempera alto tre metri) è circondato da faretti. La posizione delle luci è ribaltata in quanto è il quadro a illuminare il pubblico. Questo trova riscontro in un’altra frase dell’artista: “È il pubblico che si espone all’opera d’arte”. Di fronte a l quadro pende una inquietante presenza: un impiccato. Nel momento in cui s i manifesta la volontà di “far fuori” lo specifico dell’arte visiva, il pittore dovrebbe morire ma il “rigor mortis” produce l’erezione del pennello e prefigura il linguaggio alternativo del futuro in un mondo tecnologico. In realtà il pittore non è morto, l’impiccagione non ha questo potere su di lui, la sua perizia tecnica lo salva. Si tratta infatti di un impiccato-vivo. La forza di gravità doveva essere letale, ma è stata neutralizzata. Su un unico asse si dispongono l’autoritratto-opera d’arte in pittura, una diversa forma di autoritratto nella figura dell’impiccato e un omino d’oro e argento. La piccola figura è posta su una base di fronte all’impiccato. De Dominicis interviene sulla forza di gravità e la ribalta in positivo formalizzando una scultura in equilibrio sulla propria punta sul cristallo. Il tema formale preesiste in altre immagini di De Dominicis, come ad esempio l’asta dorata o gli oggetti sospesi. Nella seconda sala una donna dell’altezza di cinque metri e mezzo è adagiata in u n a teca e solo il volto, disegnato a matita, è visibile mediante l’apertura di una parte d e l contenitore. L’ammaliante volto della gigantessa, coricato, è costruito mediante u n a miriade di segni tra i quali, come per magia, affiora il colore.65 Inoltre è esposto u n disegno su vetro, con un autoritratto in atto di dipingere nel quale l’artista dispone d i cinque punti di vista. Sono dunque presenti le due figure tipiche dell’opera di D e Dominicis: la donna e l’artista, che già si fronteggiavano nei due profili di Urvasi (la dea della bellezza) e Gilgamesh (il re-artista). Gli stessi due soggetti appaiono nella terza sala con un altro piccolo autoritratto su vetro e l’immagine bellissima di u n a mamma con il bambino.66 Sopra le loro teste sono sospesi due elementi geometrici luminosi: un cubo in prospettiva rovesciata sulla donna e una sfera sul piccolo.67 Questo rigoroso attenersi di Gino De Dominicis a temi fondamentali come quelli della gravità e dell’immortalità corrisponde sul piano delle immagini alla messa in luce d i alcune essenziali figure e a livello formale trova analogia nella tensione a raggiungere una pittura estremamente raffinata attraverso pochi e basilari elementi: la tavola, l’uso prevalente dei colori di base e talvolta l’apparente monocromia, l a matita, strumenti antichissimi e nuovissimi. “L’arte più antica è quella di oggi. Quella che la precede è più giovane e moderna”. IN PIENO KALI-YUGA Il Kali-yuga nella filosofia indiana rappresenta un’era calamitosa, prossima al crollo per la totale perdita di valori. Il fatto che abbia posto come titolo alla sua ultima mostra inaugurata il 30 maggio 1998, sei mesi prima della scomparsa, alla galleria Emilio Mazzoli di Modena in pieno Kali-yuga è indicativo del pensiero di De Dominicis riguardo a quanto avviene nella realtà e nell’arte intorno a lui.68 Già da parecchi anni l’artista lavorava con Emilio Mazzoli che ricorda così la mostra del 1986 definita l a prima “importante” di quadri: “Fino ad allora esponeva un solo quadro, magari con un oggetto accanto…Invece qui erano circa quindici quadri ed esposi anche i primi quadri volumetrici”.69 Poiché De Dominicis negli anni Ottanta lavora a una serie d i quadri che in qualche modo coniuga l’opera bidimensionale con quella tridimensionale. Il quadro acquisisce profondità, si estroflette, combina differenti qualità spaziali. In un certo senso questo tipo di lavoro è anticipato da pitture molto materiche e quasi in rilievo, come il piccolo ma denso profilo del 1980. Bonito Oliva descrive così la mostra da Mazzoli: “Ora le immagini sembrano provenire dal futuro, figure dai nasi aggettanti e dall’occhio centrato talvolta unicamente, pronto a occupare lo spazio occupato dalla ragione. Improvvisamente queste figure realizzate a diversa grandezza e colori che vanno dal blu al rosso e al nero, producono u n perturbamento e un imprevedibile corto circuito con il nostro sguardo”.70 E Guercio: “Molte delle opere erano dipinti di volti o di figure con nasi a forma di cono che s i allungano come becchi o proboscidi, a volte tridimensionali (modellati con la creta e ricoperti di pittura). Ad esempio, nella figura viola e gialla su fondo nero di Con titolo del 1985 il cono tridimensionale del naso è lungo quasi quanto la metà dell’intero corpo che, appiattito dalla veste gialla, mancherebbe di spessore o solidità se n o n fosse per l’inclinazione del braccio destro che, affondando nella veste in direzione d e l cuore, indizia una profondità e forse la straordinaria facoltà di toccare il proprio cuore con le mani”.71 A proposito dell’arte sumera André Malraux ha parlato di “naso a becco ereditato dall’uomo-uccello preistorico”.72 Agnes Kohlmeyer fa notare che “nasi grandi, presso certe popolazioni, sono segnali di particolare bellezza”.73 Il riferimento alla civiltà dei Sumeri è certamente plausibile, ma questo elemento del naso è soprattutto una forte invenzione formale. Il contenitore diventa una sorta di piccola architettura abitata da una figura che si fa pittura e scultura al tempo stesso. L e proporzioni tra le parti e il tutto diventano molto importanti.74 “ Emilio Mazzoli- Per l’ultima mostra andai in studio, si trattava di una mostra molto impegnativa, richiedeva un grande sforzo e in quel momento lì avevo quasi paura, poi uscii dallo studio, mi fermai dal libraio in via Zanardelli e mia moglie mi disse ‘richiamalo’, tornai su, una stretta di mano e si partì per questa ultima mostra che poi si dimostrò un grande successo, a tutti i livelli. Laura Cherubini- Era una mostra bellissima, per me forse la sua mostra più bella. Emilio Mazzoli- La sua morte per m e fu un fulmine a ciel sereno. Se c’era un uomo positivo era lui, era l’ultima persona a cui potevo pensare che accadesse qualcosa”.75 Eppure la mostra è splendente, armonica e non reca traccia degli aspetti negativi del Kali-yuga, anzi sembra quasi u n antidoto a un’epoca di decadenza. Vi spicca una bellissima serie di ritratti che con pochi ed essenziali tratti rendono immediatamente riconoscibile la persona rappresentata e dove le deformazioni operate si fanno immediatamente bellezza. Accanto a questi volti una delle variazioni sul tema della Sfinge a cui stava in quell’anno lavorando, una grande veduta rossa e una natura morta in cui l’artista sperimenta l’uso dell’argento.76 L’intenzionale ripresa di generi considerati convenzionali nella storia della pittura, come il ritratto o la natura morta, dimostra come anche questi soggetti, apparentemente tradizionali, possono essere rigenerati da creazione. La domanda che Nicolas Bourriaud si pone in un testo ripubblicato in queste stesse pagine, come ridonare potere alle immagini “senza sprofondare nell’ideologia dell’aura, squalificata nell’ ‘epoca della riproducibilità tecnica’?”, trova risposta nell’opera stessa di Gino De Dominicis tesa a ricostituire quell’ineffabile, irriducibile, irrevocabile aura, ma come soluzione dell’arte al problema, posto dalla moderna scienza, dell’entropia, la dispersione di quella energia che l’arte invece concentra e accresce nel dono dell’opera. Gino De Dominicis parla mentre ha davanti a sé un grande quadro con un’immagine femminile. A questa figura infine si rivolge chiedendole: “È vero?”. E il quadro vivente risponde: “Sì”.77 NOTE - 1 “Non è mai esistito un ‘mondo dell’arte’, ma solo opere d’arte nel mondo” (Frasi di Gino de Dominicis 1969-1996 raccolte da Cecilia Torrealta in XLVII Esposizione d’Arte Internazionale La Biennale di Venezia. Sezione Futuro Presente Passato, Venezia 1997, p. 145). 2 “La ‘contaminazione’ tra i linguaggi è sempre stata in una sola direzione: i vari linguaggi ‘artistici’ hanno sempre attinto o copiato dalle arti maggiori e mai viceversa” (Frasi di Gino De Dominicis 1969-1996, cit., p.145). 3 Per citare il titolo di un libro di Lorand Hégyi. 4 “Il pubblico, anziché abbonarsi a Internet o riempirsi le case di cataloghi o di libri, farebbe meglio ad abbonarsi alle linee ferroviarie e andare a vedere le opere d’arte dal vero” Ibid., p. 146. 5 Alcune appaiono per la prima volta sul cartoncino di invito della personale alla Nuova Pesa di Roma nel ‘96. “La tradizione interpreta l’origine” mi aveva detto l’artista commentando quella frase. Noto per inciso che queste proposizioni, sentenze, aforismi, sofismi, paradossi hanno una struttura in un certo senso analoga a quella d i certe opere dell’artista. 6 2 febbraio 1974, sede di via del Paradiso. 7 “Mettere a disposizione il garage voleva dire aprire a un nuovo modo di fare arte” dice Sargentini. 8 De Dominicis aveva un grande amore per l’opera di Pascali, lo considerava un vero originale creatore. Probabilmente lo colpivano la fisicità dei lavori di Pascali, vicina a l suo pensiero che vede l’opera d’arte comunque legata alla materia (anche l’invisibilità è una delle possibilità della materia) e l’assoluta innovazione del s u o lavoro. “Con Gino eravamo veramente completamente diversi, però per quindici anni siamo stati ogni sera insieme. Essere diversi è una ricchezza, non è una cosa d a condannare. Amavamo altri artisti, Ezra Pound, che erano già loro diversi...” dichiarazione di Jannis Kounellis intervistato da chi scrive nel novembre 2003. 9 Secondo Sargentini il lavoro più bello. Achille Bonito Oliva ne farà la copertina d e l suo libro Il territorio magico (Edizioni Centro Di). Si decide invece di non esporre u n muro in lana di vetro attarverso cui passare (forse lontana origine di un piccolo quadro rosso in cui l’artista con un occhio d’oro attraversa una parete) e un lavoro giudicato molto bello dal gallerista, un Salto in alto con la parte inferiore in vetro, poi pubblicato nel catalogo che raccoglie questi primi lavori (cfr. Gino De Dominicis, galleria L’Attico, Roma 1970 contenente immagini relative a diverse mostre e testi vari dell’artista). 10 “Nel 1969 eravamo andati insieme al Verano a guardare le lapidi per trovare u n annuncio mortuario intagliato in un certo modo” ha ricordato Sargentini al convegno Che cosa c’entra la morte? curato da Giovanna Dalla Chiesa nell’ottobre 2006 all’Accademia di Belle Arti di Roma (una sintesi delle tre giornate è stata pubblicata dalla rivista “Arte & Critica”, n.50 p. 51). L’uomo De Dominicis muore come esistenza anagrafica per nascere come artista: acute in questo senso le osservazioni d i Gabriele Guercio, Arte visiva e immortalità del corpo in De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera e l’artista a cura di Gabriele Guercio, Umberto Allemandi & C., Torino 2001, p. 170. 11 “Il termine ‘arte concettuale’, di origine americana, in Italia è molto piaciuto, forse perché ricorda nomi di persona molto diffusi come Concetta, Concezione, Concettina etc; e viene di continuo usato supinamente per etichettare tutto ciò che in arte non è immediatamente riconoscibile” cfr. “Quadri & Sculture”, anno VI numero 33, novembre-dicembre 1998, p. 21. In una prima redazione della proposizione l’artista aveva usato “stupidamente” invece di “supinamente”. 12 In principio era l’immagine, un capolavoro pittorico oggi conservato al MoMA di New York. 13 Secondo la definizione dell’artista stesso (cfr. Laura Cherubini, Gino De Dominicis in “Flash Art”, n.199, estate 1996, pagg.76-77). 14 Frasi di Gino de Dominicis 1969-1996, cit. p.142. 15 L’Attico 24 ore su 24, gennaio 1975, dove si succedono Omaggio al paese delle favole d i Kounellis, L’ostaggio di Tano Festa, Storie di eroi, la parte assassinata di Pisani, Dracula di Ontani, Esercizi e declinazioni della conversazione banale di Clemente, Il tempo mi consuma lo spazio è mio amico di Chia… Nella cronologia di Daniela Lancioni in Roma in mostra 1970-79. Materiali per la documentazione di mostre azioni performance dibattiti, a cura di D. Lancioni, Joyce & Co, Roma 1995 viene riportato l’invito- manifesto dove l’intervento di De Dominicis è indicato come 1975+27 . 16 Ma Simone Carella fa notare la sottile perfidia di interdire il piano di calpestio. Secondo Vettor Pisani il lavoro allude anche alla moderna società non eroica. 17 Gli amici Pisani e Carella ricordano un leone in gabbia, un enorme bilancione reperito a Cinecittà, i gemelli imbambolati… 18 De Dominicis era solito ricordare che anche lo Zodiaco trae origine dalla cultura sumera. 19 Gino De Dominicis in “Il Giornale dell’Arte-Vernissage”, dicembre 1986, n. 40, pp. 8789 ripubblicato in De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera e l’artista, cit. pp. 133-37. 20 Arte visiva e immortalità del corpo, cit. p. 179. Nell’invito della mostra appaiono l e seguenti diciture: Maurizio Calvesi: Contributo alla crisi. Gino De Dominicis: Pericoloso morire. Jannis Kounellis: Motivo africano. Vettor Pisani: Io non amo la natura (cfr. Roma in mostra 1970 1979. Materiali per la documentazione di mostre azioni performance dibattiti, a cura di Daniela Lancioni, cit., p. 35); il testo di Calvesi infatti fu affisso e il critico n e lesse un altro la sera dell’inaugurazione. 21 Atto unico per De Dominicis in Autodafé Autodasé in “Data”, estate 1972, II, n. 5-6, pagg. 17-18 ripubblicato in De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera e l’artista, cit. pagg. 125-27. 22 “Ho sperimentato l’idea del vuoto anche con la prima mostra di Sol Lewitt in Italia, fatta di graffiti sul muro: la galleria sembrava vuota e la gente se ne andava” ricorda Sargentini. 23 A ridere è il fratello dell’artista Umberto Bignardi, Vittorio, di cui Gino aveva notato l a risata particolare. La registrazione fu effettuata nello studio di Walter Branchi, vicino a piazza della Libertà, il tecnico che con altri collaborava con Sargentini per l e performance di musica minimalista di La Monte Young, Terry Riley, Philip Glass… 24 Animatore dell’avanguardia teatrale romana e fondatore del Beat 72, aveva conosciuto Gino De Dominicis intorno al ‘67-’68 quando l’artista era iscritto, pur n o n frequentando, all’Accademia (Carella ricorda anche Mimmo Germanà) e abitava sopra la libreria “Ferro di cavallo”. 25 “Trovare il personaggio fu semplice. Quando chiesi in strada Garibaldi nel rione Castello tutti dissero: ‘el Pinin’. Parlai con la madre, una delle donne che con lunghi aghi infilava perline, e proponemmo un compenso. L’unica bugia fu che le dissi che s i trattava di cinema, sarebbe stato difficile spiegare un’opera come Seconda Soluzione. Paolo Rosa era dolcissimo e Gino gli era molto affezionato”. Esiste infatti anche u n quadro, pittoricamente intensissimo, che è il ritratto di Paolo Rosa: la cornice mistilinea racchiude un campo pittorico grigio su grigio, ma di grandissima varietà e ricco di vibrazioni, nell’angolo in basso a destra appare la testa del ragazzo visto dalla nuca. Se ci riflettiamo possiamo notare che l’artista stesso nei pochi documenti fotografici si è spesso fatto riprendere di spalle. Ritengo che ci fosse una sorta d i identificazione dell’artista stesso con la figura di Paolo Rosa. È molto significativa l a testimonianza di Matteo Smolizza, il direttore di “Quadri & Sculture”, la rivista che uscì il giorno successivo alla scomparsa dell’artista con la Seconda Soluzione d’immortalità in copertina e frasi affidate dall’artista all’interno. Secondo Smolizza De Dominicis era stato a lungo dubbioso tra pubblicare la composizione che ha al centro la dolente figura di Paolo Rosa o una foto dell’artista stesso bambino, due immagini che a Smolizza sembravano totalmente diverse e che invece per l’artista erano probabilmente più legate di quanto non si possa immaginare. 26 Si tratta di un lavoro che può essere definito di “comportamento” presentato alla settima edizione della Biennale de Paris dove Bonito Oliva curava la partecipazione italiana con l’organizzazione degli Incontri Internazionali (la documentazione fotografica è di Massimo Piersanti): l’artista indossava una maschera da vecchio e una tonaca, aveva con sé un leopardo di peluche, un cartello con la scritta Che cosa c’entra la morte? e, secondo la testimonianza di Pisani, anche una radiolina. Il punto interrogativo da allora diviene una cifra che accompagna il lavoro di De Dominicis apparendo anche su alcuni lavori di pittura. Ricordo Gino raccontare di essere stato lui a suggerire ad Achille Bonito Oliva di aggiungere il punto interrogativo a Tutte le strade portano a Roma?, titolo della mostra a Palazzo delle Esposizioni, Roma 1993. Felice esempio di sinergia tra critico e artista. 27 Non è del tutto peregrino pensare al ricordo d’infanzia di Gino, raccontato a diversi amici, tra cui io stessa, sulla spiaggia di Ancona insieme al figlio di un’amica della mamma affetto dalla sindrome di Down. Gino infatti mi aveva detto di aver notato che questo bambino fissava per ore lo stesso punto, come se non avesse percezione del trascorrere del tempo. L’artista aveva intuito un fatto scientifico: le persone affette dalla sindrome di Down hanno una percezione del tempo che la psichiatria h a definito a slides, come davanti a un fermo-immagine, una diapositiva percepita c o m e un eterno presente (devo questa informazione allo psichiatra Geppy Tropeano). 28 Secondo carella la sala era perfettamente a punto. Secondo Barilli la sala forse n o n era ancora esattamente impaginata quando irruppero i contestatori e ritiene che l o scandalo fosse stato montato ad arte, ricorda anche l’inaspettata e intrepida difesa da parte di Francesco Arcangeli di De Dominicis (che fu denunciato insieme all’assistente Simone Carella per “sottrazione d’incapace” rischiando oltre venti anni di carcere, i due furono poi pienamente assolti nell’aprile 1973). Tra i difensori dell’artista Gabriele Guercio ricorda, oltre allo stesso Barilli, Achille Bonito Oliva, Pierpaolo Calzolari, Germano Celant, Jan Dibbets, Kynaston Mc Shine, Filiberto Menna, Mario e Marisa Merz, Emilio Prini, Fabio Sargentini, Gerry Schum, Gian Enzo Sperone, Franco Toselli, Tommaso Trini: su tutto l’episodio cfr. De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera e l’artista, cit., pagg. 111-118 e 196-97. Anche secondo Fabio Sargentini, che fece difendere l’artista dall’avvocato Fabrizio Lemme, la sala n o n doveva essere del tutto finita e non fu vista quasi da nessuno. Alla luce di queste preziose e dirette testimonianze (anche se riesce difficile immaginare una situazione di non-finito conoscendo il perfezionismo dell’artista) particolare valore acquista l a (foto ricordo), immagine designata dall’artista a rappresentare la propria visione, momento in cui si fissa l’opera rimasta visibile pochissime ore. Carella riferisce che l’artista sdegnato e molto amareggiato decide di chiudere la sala mentre Gerry Schum suggeriva di lasciare come testimonianza un video con un primo piano dell’artista. 29 Queste persone fisiche viventi erano state esposte a Roma nel ’71 a Palazzo Taverna, sede degli Incontri Internazionali d’Arte, “a sei metri d’altezza (alla Biennale del 1972 saranno esposti ugualmente Il Giovane e Il Vecchio entrambi sospesi a 1 2 metri d’altezza; il Vecchio è il medesimo di quello presentato a Palazzo Taverna)” Italo Tomassoni, SCHEDA V – 1972 in Gino De Dominicis, atti della giornata di studi d e l 20 maggio 1999 al Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università L a Sapienza, Roma, Edizioni permariemonti, Roma, s.d., p. 18. Secondo la testimonianza dell’assistente Simone Carella, De Dominicis aveva anche pensato d i convocare i Gemelli (gli stessi dello Zodiaco, 1970) e di munirli di auricolare. Carella, che dall’alto della sua postazione aveva una visione panoramica dell’intero paesaggio della sala, riferisce che i due avrebbero dovuto occupare l’area più vicina al Giovane, mentre la scena con Paolo Rosa era nell’angolo a sinistra entrando dall’interno, nell’area sottostante al Vecchio: “Uno dei due Gemelli avrebbe dovuto essere seduto a un tavolo ascoltando una conferenza “muta” che tentava di trasmettere a u n pubblico inesistente indicato dalle sedie vuote che aveva davanti. Il secondo gemello avrebbe dovuto trovarsi in posizione più centrale, ma comunque spostato nell’ala destra entrando: dall’auricolare avrebbe ascoltato una musica che solo lui poteva sentire e avrebbe dovuto accennare passi di danza”. I Gemelli dunque avrebbero dovuto rappresentare un mondo interno non comunicabile agli altri, una condizione in un certo senso analoga a quella vissuta da Paolo Rosa. D’altra parte è probabile anche una contrapposizione con la Soluzione rappresentata da Rosa. Ogni tanto, c o m e una “colonna sonora” (Bonito Oliva), a intermittenza, attaccava a risuonare la Risata. Nel catalogo della 36° edizione della Biennale di Venezia (11 giugno-1 ottobre 1972) Arcangeli scrive: “Perché Gino De Dominicis progetta, se non erro, di affacciare persone viventi in alto e in basso nello spazio che gli è stato assegnato?” (p. 93) mentre Barilli sottolinea che l’artista spinge il comportamento “fino ad assumere l a categoria dell’impossibile” (p. 98). Nell’elenco delle opere della Partecipazione Italiana troviamo alla Sala XXVI Gino De Dominicis vi vede. Terza soluzione d’immortalità; come immagine è pubblicato il disegno con l’omino (p.113). 30 Titolo del libro di Achille Bonito Oliva. 31 Nell’ottimo saggio specifico che approfondisce l’opera in questa stessa pubblicazione. 32Apparsa per la prima volta nel catalogo dell’Attico del ’70 e qui ripubblicata. 33 È una delle proposizioni che figura nell’invito alla mostra alla galleria La Nuova P e s a diretta da Simona Marchini a Roma l’11 aprile 1996 come Frasi di G.d.G. raccolte da Evelyn Merrington, una sorta di pseudonimo femminile del genere di quelli adoperati nelle interviste (o autointerviste) apparse nel “Giornale dell’Arte”. Ricordo che m i aveva fatto prendere un appunto dicendo che intendeva cambiare “linguaggi artistici” con “linguaggi che oggi invece sono dalla maggioranza considerati artistici” (nell’ultima versione delle frasi pubblicata dalla rivista “Quadri & Sculture” nel numero uscito il 1 dicembre 1998 all’indomani della scomparsa dell’artista questa proposizione si chiude semplicemente sulla parola “linguaggi” non più definiti artistici). Tanto è vero che l’anno successivo, nel catalogo della Biennale di Venezia diretta da Germano Celant pubblica un amaro corollario: “Quest’epoca non ama l’arte visiva e si identifica con i linguaggi che scorrono nel tempo e nello spazio: scrittura, musica, cinema, televisione ecc… E moltissimi sono coloro che continuano a occuparsi di arte visiva solo con intenzione di snaturarne il fondamento e renderla omogenea a quei linguaggi del divenire a loro più congeniali” Frasi di Gino De Dominicis 1969-1996 raccolte da Cecilia Torrealta, pagg. 142-47. La sua opposizione alla “contaminazione” dell’arte visiva con altri linguaggi non era dettata da superficiale antipatia, ma d a motivazioni profonde relative ai suoi fondamenti ontologici. 34 Daniela Lancioni, op.cit., p. 53. Cfr. anche il catalogo della mostra Incontri… Dalla collezione di Graziella Lonardi Buontempo, Académie de France à Rome, 2003, p. 57. I n quegli anni De Dominicis interviene frequentemente nello spazio degli Incontri Internazionali diretto da Graziella Lonardi e di cui è curatore generale Achille Bonito Oliva. Sull’episodio cfr. anche Italo Tomassoni, Il caso Gino De Dominicis in “Flash Art” n. 144, giugno 1988, pagg. 38-41 (questo testo inizia in realtà in copertina incorniciando un’immagine dell’artista davanti a uno sfondo nero con una grande figura rossa). 35 Per le varie redazioni della Lettera cfr. Italo Tomassoni in Gino De Dominicis, Atti della giornata di studi del 20 maggio 1999, Università degli Studi di Roma L a Sapienza, Edizioni permariemonti, Roma s.d., pagg. 11-21. 36 Nota Pisani che questo animale è citato nella Lettera sull’immortalità. Vettor Pisani riferisce anche di un luogo segreto e notturno, un barcone sul Tevere dove D e Dominicis e Pisani stesso, che non possedevano nei primi anni Settanta uno studio, avrebbero depositato alcuni lavori e che sarebbe stato frequentato anche dal comune amico Carmelo Bene. 37 Intervento di Pio Monti al convegno Che cosa c’entra la morte?, a cura di Giovanna Dalla Chiesa: la dichiarazione è nella sintesi della prima giornata pubblicata nel n. 4 9 di “Arte & Critica”. Cfr. anche Germano Celant, Art to the power n in “Artforum”, XXV, n . 4, New York, dicembre 1986, pagg. 100-5 ripubblicato in Germano Celant, Arte dall’Italia, Feltrinelli, Milano 1988, pagg. 219-27 (un’immagine dell’opera è pubblicata in “Artforum” p. 106). Tomassoni e Boatto hanno proposto un’analogia tra D e Dominicis e il Conte di St. Germain (nel ’70 l’artista aveva dichiarato Io non sono il Conte di St. Germain) che Voltaire raccontava di aver trovato identico incontrandolo dopo cinquanta anni. 38 Testimonianza del gallerista. 39 Lo scambio di battute è in un’intervista realizzata da Miriam Mirolla per Rai Radio 2 nel 1994 e ripubblicata dall’autrice in L’art c’est moi. Quindici interviste sull’arte contemporanea, Avagliano Editore, Roma 2006, pagg. 89-93. Nella stessa intervista che, sulla falsariga di alcune autointerviste presenta il pensiero dell’artista soprattutto nelle domande, limitando le risposte a laconici “Sì” e “No”, si ricordano i numerosi volti femminili che appaiono nei quadri e si indica la donna come “prima fonte d i ispirazione”. La Madonna che ride viene esposta nella mostra del 1973 alla Modern Art Agency di Lucio Amelio a Napoli (sollevata in angolo verso il soffitto secondo il ricordo di Vettor Pisani). 40 Germano Celant, op.cit. 41 Ivi. 42 Carolyn Christov-Bakargiev, Gino De Dominicis in “Flash Art”, n. 131, dicembre 1986gennaio 1987, pagg. 58-63. La rivista pubblica anche in copertina il quadro in collezione del MoMA; all’interno le opere della personale organizzata da Lia R u m m a al Museo di Capodimonte nell’86 a cui l’articolo fa riferimento. Il testo è ripubblicato in questa stessa occasione. 43 Italo Tomassoni, Il caso Gino De Dominicis, cit., p. 40. 44 Boatto ricorda che nella mostra Ghenos Eros e Thanatos, da lui curata nel ’74, l’artista aveva premesso un Biglietto d’augurio diffuso nel ’71 che recitava: “Natale 1971. Gino De Dominicis augura a tutti l’immortalità del corpo”. Secondo l’autore questa disposizione segue un metodo scientifico: “ prima l’augurio la proposizione, auguro a tutti l’immortalità, la tesi; e poi la dimostrazione”. Ovviamente la tesi dell’immortalità della donna è una forma di paradosso e Boatto legge l’intera opera di De Dominicis c o m e arte di raffigurare paradossi (in Gino De Dominicis, Atti della giornata di studi, 2 0 maggio 1999, cit. pagg. 39-43). Cfr. anche nello stesso volume Italo Tomassoni che vede nell’opera la prefigurazione del tema della donna “come incarnazione stessa della creatività perché procrea come l’artista, rivalutandola rispetto alla tradizione ebraico cristiana che ne ha operato una profonda svalutazione” (pagg.11-21). 45 Frasi di Gino de Dominicis 1969-1996, p. 142. 46 Tutti quelli che, come me, l’hanno frequentato hanno assistito alla scena dell’artista che, davanti a una monografia di Picasso, puntava il dito esclamando: “Quello non è Picasso, ma il libro del fotografo che ha fotografato i quadri di Picasso!”. A volte questo tipo di esternazioni venivano considerate assurde e paradossali, mentre, s e prese alla lettera erano molto precise e pertinenti. 47 Convenzioni che per comodità siamo tutti costretti a praticare, per ragioni di studio, quando si tenta di analizzare l’opera di altri o sua, ivi compresa la presente occasione. 48Si tratta soprattutto di riviste specializzate, come “Flash Art” (ricordiamo l’immagine del disegno del ‘72, gli articoli sopra citati di Christov-Bakargiev e d i Tomassoni in occasione dei quali l’artista dà anche il suo consenso per la copertina, oltre al mio stesso articolo e ad altre occasioni), “Artforum”, “Il Giornale dell’Arte”, “Quadri & Sculture”… ma anche di cataloghi come quelli di Biennali e Quadriennali. I l problema di fondo era la possibilità per l’artista stesso di controllare qualità, impostazione e circolazione dell’immagine. Dava istruzioni molto precise. Ricordo personalmente vari casi: preferiva utilizzare polaroid, affinché non ci fosse l a possibilità di fare copie, ma quando gli dissi che nel catalogo della Biennale del 1990 alla quale, in qualità di commissario del Padiglione Italiano, lo avevo invitato n o n sarebbe stato possibile pubblicare una polaroid a piena pagina, fornì un ottimo fotocolor; per la mostra Tutte le strade portano a Roma?, (Palazzo delle Esposizioni, Roma 1993, a cura di Achille Bonito Oliva, io lavoravo con altri nel team curatoriale e nella redazione del catalogo) aveva realizzato una gigantesca opera pittorica alta quasi sette metri posta nella rotonda d’ingresso e intitolata Fondazione Sumera di Roma: voleva pubblicare su doppia pagina l’immagine di se stesso intento a dipingere il grande quadro e fece fare appositamente un costoso fotocolor, quando vide il catalogo abbracciò me e Lia Riposati di Carte Segrete poiché l’opera era esattamente riprodotta come lui la voleva, con l’oro in evidenza; quando uscì il m i o articolo su “Flash Art”, estate 1996, in occasione della mostra alla Nuova Pesa disse espressamente all’editore come voleva fosse impaginato, la stessa foto uscì, sempre fornita dallo stesso artista, nella recensione di Barilli sull’“Espresso”. Trombadori a proposito di De Dominicis parla di “convinzione che l’opera non deve essere diffusa in riproduzione fotografica, per quanto è possibile” op. cit., p. 30. 49 Secondo la testimonianza di Vettor Pisani (che ricorda come l’amico Gino D e Dominicis amasse far scomparire e riapparire le opere nel corso delle mostre) e d i Luigi Ontani c’è un momento in cui nella sala rimane solo il ritratto dell’artista eseguito da Elisabetta Catalano. 50 Gabriele Guercio, Arte visiva e immortalità del corpo, cit., p. 178. Cfr. anche Vittorio Sgarbi, Il vero De Dominicis in “Quadri &Sculture”, gennaio-febbraio 1999, anno VII, n . 34, pagg. 74-75 che nota che l’artista “attraverso lo specchio risponde ai sistemi meccanici di riproduzione”. 51 La frase era stata successivamente cancellata dall’artista che aveva anche attribuito alla mostra una data errata, il 1987. 52 “L’opera d’arte, oggetto vivente perfetto, può influire sul processo biologico” (Frasi di Gino De Dominicis 1969-1996, pagg. 140-47). Per inciso notiamo che l’opera annulla la differenza tra spazio bidimensionale e tridimensionale. 53 Così descrive l’opera Filiberto Menna recensendo la mostra alla Modern Art Agency d i Lucio Amelio a Napoli: “Uno specchio, situato al posto del quadrante, riflette l’immagine dello spettatore e lo costringe a verificare sul proprio volto il fluire temporale” (De Dominicis o della immortalità in “Il Mattino”, 10 aprile 1973 ripubblicato in De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera e l’artista, cit., pagg. 131-32). 54 Questa stessa dimensione metaforica verrà annullata nell’opera alla galleria Rumma dove cade l’analogia speculare e lo specchio non esiste neanche più, diventa un falso specchio, mentre quello che credevamo riflesso è spazio reale. Non è l o specchio che finge la realtà, ma la realtà che finge lo specchio. 55 Attività che lo impegna prevalentemente dall’inizio degli anni Ottanta al 1998. 56 Frasi di Gino De Dominicis 1969-1996, cit., p. 143 57 Elogio della purezza e dell’immortalità in opere senza tempo in “Il Mattino”, 19 dicembre 1989 ripubblicata in Gino De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera e l’artista, cit., pagg. 142-44. Si tratta della recensione alla personale alla Murray and Isabella Rayburn Foundation, New York 1989. 58 “È forse la cosa più difficile che ho fatto…”. Secondo la testimonianza dell’amico Francesco Villari le nuvole erano l’elemento più carente anche nell’opera degli artisti più grandi, per questo Gino aveva deciso di affrontarlo. 59 Calamita cosmica è il titolo della grande opera (è utile ricordare che De Dominicis spesso non apponeva il titolo e in altri casi lo modificava) presentata per la prima volta alla mostra curata da Adelina von Furstenberg al Magasin di Grenoble nel febbraio del ’90 e poi a lungo esposta nel Cortile d’Onore di Capodimonte. Gino aveva intenzione di esporre il gigantesco scheletro alla Biennale di Venezia (edizione diretta da Giovanni Carandente) dove era stato invitato da me al Padiglione Italia. Non c’era però una sala abbastanza grande da ospitare l’opera e Gino progettò allora di esporla su una grande zattera in laguna. Purtroppo non fu possibile avere i permessi, ma l’artista realizzò quella che considerava una delle sue più belle s a l e alla Biennale: la testa dello scheletro fu montata su una struttura nera, tra carro e astronave, da cui spuntavano due seggiolini (Invisibile immortale e signora in viaggio era uno dei titoli che aveva pensato) al centro della sala. Sulle quattro pareti, c o m e custodi, la grande figura sumera gialla e viola (apparsa sulla copertina di “Artforum” in occasione dell’articolo di Celant); un grande quadro orizzontale blu apparentemente quasi monocromo, che con il variare dell’incidenza della luce, rivelava un volto; il grande quadro nero con il volto-scala; la piccola tavola da lui stesso soprannominata “Giocondina”. 60 La prima guerra dell’Iraq fu seguita con grande apprensione dall’artista che ricordava continuamente come l’Iraq corrispondesse più o meno alla antica Mesopotamia, quella terra tra i due fiumi che era stata con i Sumeri culla di ogni civiltà. 61 Il direttore era Achille Bonito Oliva, la mostra era curata da Mario Codognato e Adelina von Furstenberg. 62 Cfr. Laura Cherubini, La pittura come macchina del tempo. Per Gino De Dominicis, parlando intorno in De Dominicis. Raccolta di scritti sull’opera e l’artista, cit., pagg. 33-44. 63 André Parrot, Sumeri, RCS, Milano 2005, p.215. L’autore definisce anche la ziggurat “montagna invisibile”. 64 Ad esempio da Sperone nel 1982. 65 Questo volto, in un altro contenitore, sarà presentato alla Biennale del 1997 diretta da Germano Celant insieme ad Auronia D.D., una figuretta sospesa in una teca trasparente. 66 Bisogna comunque ricordare che, secondo De Dominicis, che pure presta grande attenzione all’allestimento e agli accostamenti, le mostre vanno giudicate opera per opera. 67 È in un certo senso il ritorno del cubo e della palla, cioè della coppia quadrato/cerchio associati in questo caso alla figura femminile e a quella maschile. È del tutto assurdo a questo punto pensare che il Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua potrebbe corrispondere a l tentativo di mutare il maschile nel femminile? Inoltre è sorprendente notare come nel Tentativo ci sono in qualche modo già i tre elementi deposti davanti a Paolo Rosa: il cubo invisibile, la palla, il sasso. 68 “Per me era un rapporto positivo, un po’ come con Schifano, un personaggio che m i interessava per la velocità e per l’ironia, per come viveva il giorno e la notte, aveva delle battute fulminanti... I discorsi erano sempre al rialzo e mai al ribasso. E poi avevo solo cinque anni più di Gino, ma mi sentivo più vecchio, mi sembrava d i poterlo consigliare, con lui cedevo sempre...” così Emilio Mazzoli descrive l’artista nell’intervista di Laura Cherubini in Achille Bonito Oliva, Italia 2000. “Arte e sistema dell’arte”, Prearo, Milano 2000, pagg. 87-91. Nello stesso volume cfr. l’intervista con Lia Rumma pagg. 143-5. 69 Ibid. 70 Op.cit., pagg.136-7. 71 Op.cit., p. 183. L’opera descritta è quella apparsa sulla copertina di “Artforum” in occasione del saggio di Celant e poi esposta alla Biennale del ‘90. 72 Nella premessa al volume sui Sumeri di André Parrot (p. 30). 73 Agnes Kohlmeyer, Vedere e non sapere in “Contemporanea”, estate 1990, n. 19, pagg. 64-69. 74 Ad esempio un collezionista racconta che De Dominicis ruppe con un martello u n piccolo lavoro con il naso e suggerì di farne uno più grande, il naso rosso che spicca nella luce dell’oro, proprio perché quest’ultimo avrebbe avuto una misura più armoniosa. 75 Op. cit. 76 La pratica del ritratto era iniziata qualche anno avanti (con un’opera esposta alla galleria Christian Stein nel ’95). Della natura morta, che Duccio Trombadori giudica “tra le più belle opere realizzate da Gino” (op. cit., p. 32) era particolarmente contento e ricordo che la mattina successiva, nella biblioteca di Mazzoli, grande collezionista di libri, chiese al gallerista di pubblicare un libro sulla natura morta di cui la parte storica avrebbe dovuto essere curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco, il m i o maestro, e la parte contemporanea da me. L’ultima immagine sarebbe stata la s u a natura morta. 77 Da una trasmissione della serie “Corto circuito”, in onda su Canale 5, la sera d i Pasqua del 1996. La figura è dipinta, ma il volto è quello vero di Arianna De R o s a , cara amica dell’artista e modella della maggior parte dei suoi quadri. Tutte queste parole sono state dette per spiegare che superflue di fronte alla presenza dell’opera. Forse noi aver bisogno delle parole, per “spiegare” o “capire”, necessità. Alla richiesta di spiegazione di un’opera risponde: “Non si può spiegare a parole. Quando sarà vedrà”. esse possono essere possiamo credere d i ma l’opera non h a Gino De Dominicis esposta di nuovo, l a