(Auto)ritratto dell`artista in un altro tempo: Luigi Ontani di Nicola Zito

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(Auto)ritratto dell`artista in un altro tempo: Luigi Ontani di Nicola Zito
n. 15 Marzo/Luglio 2016
(Auto)ritratto dell’artista in un altro tempo: Luigi Ontani
di Nicola Zito
L’opera d’arte è sempre, per definizione, emanazione tangibile di chi l’ha realizzata; che sia
stata creata direttamente o meno, sarà sempre lo “specchio” del proprio demiurgo. E
questa autoreferenzialità, spesso non voluta o ricercata, può diventare in alcuni casi la
principale cifra qualificante dell’opera stessa.
Specialmente nell’età contemporanea, e con sempre maggiore convinzione, questa
tendenza a far combaciare quasi totalmente le due sfere – quella della creazione e quella
del creatore – si è trasformata in obiettivo da perseguire, con l’artista concentrato più sulla
propria persona. Da Duchamp e Dalí fino ai più contemporanei Koons, Cattelan e Hirst
(senza dimenticare ovviamente Picasso), la figura dell’“artistar” è diventata una costante
nel panorama artistico mondiale.1
A questa naturale e sostanzialmente comprensibile propensione di alcuni artisti
contemporanei verso un coinvolgimento “totale” si affianca talvolta il desiderio di abbinare
a questa esplicita autoreferenzialità dandy un peculiare approccio stilistico, legato alla
dimensione performativa2 e al citazionismo; esemplare, in questo senso, è la produzione
artistica di Luigi Ontani.
Da anni si aggira nei dintorni di piazza del Popolo a Roma una persona molto strana: è pallido, longilineo,
con larghe mandibole su un viso magro, ha i capelli biondastri, lunghi sulle spalle. Ma la sua stranezza non è
qui, è nei suoi abiti e nel suo comportamento. I suoi abiti sono fatti di stoffa multicolore e lucente, una sorta
di raso/seta/velluto, quando sono in tinta sono cuciti con stoffe cardinalizie, alle volte ha in testa una
papalina rossa a cui manca soltanto la veletta. L’indumento più strano sono le scarpe, di serpente, di
coccodrillo, con suola enorme come quella di certi sarti zoppi di paese, alle volte sono stivaletti d’oro, e così i
guanti, d’oro. È un Narciso innocente e folle, perennemente sotto i riflettori non della cronaca ma dei
passanti. È il parapittore Luigi Ontani.3
Con questa dettagliata e spiritosa descrizione Goffredo Parise nel 1983 delinea la figura
dell’artista bolognese, autorevole rappresentante dell’estetica postmoderna italiana e
internazionale.
1
Formatosi a Bologna, dove esordisce nel 1967 con una personale alla galleria San Petronio,
entra in contatto con Pierpaolo Calzolari e con l’ambiente dell’Arte Povera. Ben presto
Ontani decide di abbandonare la via processuale e concettuale per realizzare la visione di
un’arte del tutto personale che, a metà strada tra performance e pittura, tra Body Art e
fotografia, è proiettata verso un recupero del passato strettamente correlato alla sua
peculiare figura fisica. Con Salvo, Ontani è considerato da Renato Barilli anticipatore e
capofila del gruppo dei Nuovi-nuovi proprio per questa sua tendenza a guardare più
indietro che in avanti, “in direzione implosiva” per «rianimare il corpo addormentato dei
patrimoni museali, riscuotendone i capolavori come al tocco di una bacchetta magica».4
Più dell’artista siciliano, interessato principalmente alla pittura, è Luigi Ontani a
rappresentare compiutamente l’istanza estetica “nuova-nuova” di unione tra tecnologia e
citazione dell’antico, tra futuro e passato che si fondono nell’autorappresentazione. A
partire dal 1970 l’artista inizia a esplorare le stanze di un museo virtuale dal quale, nel
corso degli anni Settanta, fa emergere le opere dei grandi maestri del passato, da
Tintoretto a Guido Reni e Caravaggio, rimodulate e adattate alla propria fisicità attraverso
la reinterpretazione performativa e la riproduzione fotografica.
Sostituendosi ai soggetti originali, Ontani li ripropone in maniera tale da creare un senso
di sorpresa e straniamento nello spettatore, per renderlo partecipe di un gioco basato sulle
similitudini, un “viaggio dell’identità” nel quale l’artista si sente spinto ad utilizzare «le
apparenze del mio volto, la mia fisionomia, come simulacro per altre identità».5
La prima grande opera realizzata secondo queste premesse è San Sebastiano nel bosco di
Calvenzano [fig. 1] dove Ontani, coperto solo da un panno che gli cinge la vita, ripete quasi
fedelmente la posa assunta dal santo nel dipinto di Guido Reni (1625 ca.).
La fotografia è significativamente a colori in quanto serve per marcare la distanza da
qualsiasi valenza concettuale, da cui l’artista si ritiene estraneo. Rinunciando al bianco e
nero, usato frequentemente dagli artisti coevi per documentare le loro performance,
Ontani vuole collocarsi in una posizione di superamento dell’idea del medium fotografico
come specchio nel quale prendere coscienza del proprio corpo.6 Pur mantenendo la
caratteristica documentaria della sua presenza, lo scatto fotografico serve a immortalarlo
in una dimensione immaginaria, in un’ambientazione impossibile in quanto passata, non
più “qui e ora” ma “là e allora”.7
Il San Sebastiano di Ontani è una citazione a tutti gli effetti, anticipatrice della tendenza
postmoderna in Italia come i dipinti d’après di Salvo, autore sempre agli inizi degli anni
Settanta di fotografie che rielaborano, attraverso la riproposizione della propria immagine,
i modelli della tradizione pittorica; in Autoritratto (come Raffaello) del 1970 – stesso anno
2
dell’opera di Ontani – l’artista assume una posa che rispecchia quella di Raffaello nel
celebre Autoritratto del 1504-06.
Risultano evidenti le differenze tra i due modi di concepire la fotografia. Pur essendo
entrambe riproduzioni di opere del passato, quella di Salvo è un esempio di arte
concettuale, con il protagonista che mima soltanto la postura e l’espressione di Raffaello
per svuotarla di ogni precedente significato; quella di Ontani rappresenta invece una
precisa ricostruzione del luogo e dell’aspetto della figura ritratta da Guido Reni, una
ricerca che non ha nulla di concettuale ma che si basa sulla volontà narcisista di ritrarsi
nelle vesti di San Sebastiano, operazione che l’artista romagnolo avrà modo di ripetere più
volte nel corso degli anni.
È lo stesso Ontani a spiegare il motivo principale della genesi dell’opera: «San Sebastiano,
il primo che feci, fu tra le prime pose di vanità. La mia avventura attraverso la posa
costruisce una mia avventura di simulacro sulla mia propria vanità. […] è una definizione
[…] anche delle mie origini».8 Questa componente autocelebrativa emerge anche nelle
successive fotografie, come nell’autoritratto Raffaello (1972), ispirato come l’opera di Salvo
dal dipinto dell’Urbinate, ricopiato ora fedelmente nella posa, nella fisionomia e nelle vesti.
La riproposizione pedissequa di un’iconografia famosa viene portata avanti da Ontani con
una certa intensità per tutti gli anni Settanta e oltre; molteplici e differenziati sono i
modelli riprodotti, da quelli tratti da Caravaggio come Giovane con frutta, d’après
Caravaggio del 1977, a quelli ispirati dall’esempio di altri maestri come Tintoretto (Il
Vangatore, d’après Tintoretto, 1975-76), o come Michelangelo, da cui Ontani trae spunto
per creare l’ironico dittico del 1978 intitolato Creazione dell’androgino [fig. 2], che è con
ogni evidenza legato alla celebre scena della Cappella Sistina della Creazione di Adamo.
È quindi l’ironia, accanto all’autoreferenzialità narcisista, l’altra componente essenziale
delle creazioni di Luigi Ontani; a partire dalla scelta dei titoli, l’artista assume una
posizione particolarmente critica nei confronti dei modelli pittorici che sta citando,
mostrando così di non volersi limitare a rappresentare hic et nunc un’iconografia nota, ma
di volerla riproporre trasformata, secondo inclinazioni ludiche e scanzonate.
Con «soluzioni divertite e divertenti [Ontani] gioca all’arte e in continuazione si mette in
gioco»,9 proponendo delle versioni originali dell’Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci
(AndroLuiGino, 1975) o mettendo alla berlina il soggetto religioso dell’Ultima Cena che,
riproposto nel 1993 in forma d’installazione ambientale, viene trasformata satiricamente
nell’Ennesima Cena.10
La fotografia come riproduzione di un modello pittorico del passato, che diventa personale
ed esclusivo “abito” artistico, è anche testimonianza per Ontani delle sue azioni
3
performative, i celebri tableaux vivants realizzati sin dagli inizi degli anni Settanta, in cui
l’artista, immobile, mette in scena, oltre alle tematiche tratte dal mito, dalla storia e dalla
letteratura, anche riproduzioni delle grandi opere d’arte. Si tratta di tele “vive”, esemplari
performances realizzate «nell’immobilità, della ripetizione indifferente, simulacro, con
particolari segni, simbolo sintesi dell’apparizione, costruendo un contesto di proiezioni
d’immagini, contorno d’alibi culturali locali, completato da rumori/suoni/musica
ripetitiva».11
La rappresentazione di una “nuova forma di pittura” finalizzata alla valorizzazione della
tradizione artistica del passato, viene dunque considerata da Ontani quale caratteristica
fondamentale dei suoi tableaux vivants, che non rappresentano un’azione fisica fine a se
stessa ma si configurano come una concretizzazione della propria intima spiritualità: «io
scelgo la fissità. […] ho scelto di fare della mia vita pittura, e della performance pittura, non
per vivere l’oblio ma per resuscitare la storia dell’arte, della favola, della mitologia,
dell’allegoria, del folclore, dell’iconologia. Non mi ha mai interessato, o relativamente, che
ci sia l’aspetto di happening […] quel che m’interessa è lo spazio costruito dal pensiero».12
In questa ottica nascono tableaux vivants come TarzaN che, messo in scena a Roma nel
gennaio del 1974, vede Ontani leggere un libro su Tarzan, vestito solo di una pelle di felino
e circondato da proiezioni di immagini della giungla; o come Leda e il cigno – sempre del
1974 – dove, riproponendo una scena del famoso mito, l’artista simula un rapporto
sessuale con l’animale [fig. 3]; o ancora nella serie dei Profeti, dove Ontani si traveste
utilizzando indumenti che richiamano alla mente l’iconografia michelangiolesca della
Cappella Sistina.
Il fine ultimo di queste operazioni è di restituire allo spettatore l’impressione di osservare
un dipinto. Questa ricerca dell’effetto pittorico trova poi una differente concretizzazione tra
la fine degli anni Settanta e l’inizio del decennio successivo, quando Ontani scopre nella
pittura – a cui affianca la creazione di sculture in cartapesta e in ceramica – il modo più
idoneo per esprimersi, mantenendo sempre salda l’attenzione su se stesso in quanto uomo
e in quanto artista [fig. 4].13
Datati agli anni Ottanta sono gli acquerelli che hanno come tematica il Pinocchio di
Collodi, la mitologia, l’iconografia classica oppure i modelli del passato pittorico italiano.
Questi spunti vengono liberamente reinterpretati dall’autore, sempre pronto a far confluire
nella «leggerezza smaterializzata»14 delle tele e dei disegni acquerellati suggestioni
provenienti non solo dalla cultura occidentale, ma anche da quella orientale,
dall’affascinante e misteriosa India che ha in più occasioni visitato e vissuto.
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Questa contaminazione viene realizzata senza però dimenticare la tradizione cui è
maggiormente legato, e che emerge chiaramente nell’opera La Camera dei Celibi del 1986;
ispirandosi all’affresco di Andrea Mantegna dell’oculo della volta della Camera degli Sposi,
in Palazzo Ducale a Mantova (1465-74), Ontani mostra le sue “affinità elettive” con la
storia dell’arte rappresentando «un albero genealogico in cui metto in vita le radici
predilette, dalla scala manierista a Dosso Dossi, da Savinio a de Chirico, da Fra’ Galgario a
Beato Angelico e Signorelli».15
Il fare arte di Luigi Ontani risulta essere, così, una stratificazione di simbologie e di
iconografie differenti; i soggetti delle sue fotografie e dei suoi dipinti sono al tempo stesso
uguali e diversi, citazioni dei modelli del passato e inedite rappresentazioni di sé.16
Nelle sue mani la tradizione diventa uno strumento efficace per rendere l’idea di un’arte
che è narcisismo, ironia e divertissement, il mezzo più adatto per trasportare se stesso e lo
spettatore in una dimensione non reale, dominata dal sogno e dall’immaginazione. Allo
stesso tempo, il passato pittorico è soprattutto testimonianza della volontà dell’artista di
mantenere vivo il dialogo con i maestri che l’hanno preceduto, della cui lezione si ritrova
traccia in ogni opera di Ontani, sia essa una fotografia, una “performance vestita” o un
acquerello.
IMMAGINI:
1. Luigi Ontani, San Sebastiano nel bosco di Calvenzano, d'apres Guido Reni, particolare,
1970
2. Luigi Ontani, Creazione dell'androgino, particolare del dittico, 1978
3. Luigi Ontani, Leda e il cigno, particolare, 1974
4. Luigi Ontani, Tre Grazie (lo Scultore e il Modello), particolare, 1980
Cfr. a tal proposito Luca Beatrice, Pop. L'artista come star, Rizzoli, Milano 2012.
Cfr. Tracey Warr, Il corpo dell’artista, Phaidon, Londra 2006; cfr. anche Angela Vettese, “Dal corpo chiuso
al corpo diffuso”, in Francesco Poli (a cura di), Arte Contemporanea. Le ricerche artistiche internazionali
dalla fine degli anni ’50 a oggi, Electa, Milano 2003, pp. 188-221. Cfr. infine Tiziana Gazzini e Maria Grazia
Massafra (a cura di), L' angolo del dandy: Karen Blixen, Luigi Ontani, Erik Satie, Luchino Visconti alla
Casina delle Civette, (catalogo della mostra, Roma, Musei di Villa Torlonia-Casina delle Civette, 4 aprile-6
maggio 2012), Futura Grafica 70, Roma 2012.
3 Goffredo Parise, “Il parapittore”, in Luigi Ontani, Facciapule, Umberto Allemandi & C., Torino 1983, poi in
Alessandra Galasso (a cura di), Ontani. OntanElegia, Umberto Allemandi & C., Torino 2004, p. 121.
4 Renato Barilli, “La ripetizione differente”, in L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze,
Feltrinelli, Milano 1988, p. 328; cfr. anche id., “Entrano in scena Salvo, Ontani e Mariani”, in Storia dell’arte
contemporanea in Italia. Da Canova alle ultime tendenze 1789-2006, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.
494-499. Cfr. inoltre Renato Barilli (a cura di), Ripetizione differente 1974-2014, (catalogo della mostra,
Fondazione Marconi, 10 giugno-18 luglio 2014), Fondazione Marconi, Milano 2014.
5 Luigi Ontani in una conferenza tenuta al Temple University di Roma, ottobre 2000, poi in Alessandra
Galasso (a cura di), Ontani secondo Ontani, in Ontani. OntanElegia, cit., p. 11. Cfr. anche Adachiara Zevi,
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“Efficaci antidoti all’epidemia postmoderna”, in Peripezie del dopoguerra nell’arte italiana, Giulio Einaudi
Editore, Torino 2006, p. 481.
6 Cfr. Claudio Marra, “Fotografia come arte”, in Francesco Poli (a cura di), Arte Contemporanea. Le ricerche
artistiche internazionali dalla fine degli anni ’50 a oggi, cit., pp. 249-273.
7 Renato Barilli, “Una generazione postmoderna”, in id., Fulvio Irace e Francesca Alinovi (a cura di), Una
generazione postmoderna. I Nuovi-nuovi, la postarchitettura, la performance vestita, (catalogo della
mostra, Genova, Teatro del Falcone, 19 novembre 1982-15 gennaio 1983), Mazzotta, Milano 1982, p. 14.
8 Luigi Ontani in un’intervista rilasciata a Valentina Storace, 4 aprile 2003.
9 Giorgio Di Genova, in Storia dell’arte italiana del ‘900. Generazione anni Quaranta, Bora Edizioni,
Bologna 2007, p. 886.
10 A proposito delle installazioni ambientali di Luigi Ontani cfr. Alessandra Galasso, “Gli ambienti”, in eadem
(a cura di), Ontani. OntanElegia, cit., pp. 65-75.
11 Luigi Ontani, "Glossario. Alcuni termini fondamentali per comprendere l’opera di Ontani", ivi, p. 176.
12 Luigi Ontani in un’intervista rilasciata a Francesco De Melis, in Alias, 4 gennaio 2003, pp. 4-5.
13 Cfr. Giacinto Di Pietrantonio (a cura di), "er" "SIMULÀCRUM" "amò", (catalogo della mostra, Bergamo,
Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, 3 ottobre 2014-11 gennaio 2015), GAMeC Books,
Bergamo 2014.
14 Renato Barilli, “Entrano in scena Salvo, Ontani e Mariani”, cit., p. 497.
15 L’artista in Giacinto Di Pietrantonio, “Luigi Ontani”, in Flash Art, dicembre 1986-gennaio 1987, p. 28.
16 Cfr. Alessandra Galasso, “Il cantore delle similitudini”, in ead. (a cura di), Ontani. OntanElegia, cit., pp. 4156.
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