Bully

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Bully
Bully
di Larry Clark
Presentazione critica
Introduzione al film
Documentare la desolazione
Larry Clark (Tulsa, Oklahoma, 19 gennaio 1943) inizia la sua carriera dietro la macchina fotografica. Se
il suo primo film, Kids (Usa, 1995), aveva mostrato uno stile fondato sui particolari, attento ad illustrare
l’importanza espressiva dei corpi e della sessualità nella vita degli adolescenti americani attraverso uno
stile quasi documentaristico (al punto dal ricevere accuse di voyeurismo), e gli aveva procurato
un’etichetta che in seguito farà fatica a scrollarsi di dosso, in Bully – e con maggiore evidenza nel suo film
successivo, Ken Park (Usa, 2002) – Clark, pur nell’ambito di uno stile che spesso appare tradizionale e pur
insistendo ancora sulla rappresentazione del corpo degli adolescenti e sul sesso come pratica da esibire e
come strumento per comunicare, pare aver superato la tendenza alla mera, benché attenta, illustrazione
presente in Kids per sondare l’originalità di uno stile personale che sia, in qualche modo, riconoscibile.
Questo è evidente soprattutto in due sequenze del film: prima, in ordine di apparizione, quella che si
svolge nel giardino prospiciente l’abitazione del sicario, risolta con un vorticoso e reiterato movimento
circolare della macchina da presa, impegnata a mostrare in tumultuosa continuità l’azione, le reazioni, i
dubbi, la manifestazione di inadeguatezza e il conseguente mascheramento dei personaggi coinvolti,
trasportati coattivamente in una spirale da cui non potranno più uscire. Ancora più indicativo ed estremo
appare il segmento dell’uccisione di Bobby, realizzato con modalità disturbanti, soffocanti, pienamente
coerenti con l’abbrutimento raggiunto dal branco, pronto a colpire in modo cieco ed irrazionale, incurante
delle conseguenze. Clark gestisce la sequenza con un montaggio vieppiù frammentato in funzione del
climax rappresentato dal colpo di grazia inferto a Bobby: da un lato la tensione dell’aggressione notturna,
dall’altro lo sguardo spaventato di chi comincia a rendersi conto dell’impresa gravosa e del punto di non
ritorno a cui si è ormai giunti. Poi i violenti colpi vibrati al corpo di Bobby, progressivamente sempre più
inerme, contrapposti al rifiuto di alcuni personaggi di fronte alla ferinità dell’atto. Il tutto illuminato dalla
luce dei fari delle automobili che rischiarano una notte di violenta irrazionalità, fino al momento in cui
Marty ne ordina lo spegnimento. Buio: l’ultimo colpo su Bobby è quello decisivo. Una sequenza da
antologia.
Il ruolo del minore e la sua rappresentazione
Lo smarrimento del senso di realtà
A Larry Clark i perbenisti potranno obiettare il suo consueto indugiare sui corpi nudi degli adolescenti,
la sua propensione, a metàstrada tra la ricerca dello scandalo e l'attitudine voyeuristica, di mostrare il
sesso dei giovani americani, la loro voglia di essere presenti attraverso la sensualità. Tuttavia, in Bully più
che negli altri suoi film, non lo si potrà accusare di non aver illustrato uno spaccato di “giovane America”
spietato e avvilente, intrappolato in un vuoto morale soffocante. I giovani mostrati da Clark – che,
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Bully – scheda critica
ricordiamo, trae il soggetto, come rammenta anche il cartello iniziale del film, da una storia realmente
accaduta nel 1993 - non tengono nella minima considerazione problemi etici e dilemmi morali, che
restano completamente ignorati: nella loro goffa e tremenda prassi di attuazione, i protagonisti mostrano
come la questione sia relativa ad una totale incapacità di discernere la realtà effettiva dal cieco
desiderio, ponendo davanti a tutto l’obiettivo in sé e non le ovvie conseguenze. È evidente che i ragazzi
decidono di commettere un omicidio (che, nelle intenzioni di Lisa e Marty, vittime più o meno dirette
delle costanti angherie di Bobby, sarà liberatorio) come se si trattasse di un grande e insolito gioco di
società a cui è chiamato a partecipare il maggior numero di persone. Una serata da condividere con più
amici possibile per sconfiggere la noia, non un’operazione condotta con la massima segretezza per paura
che il crimine si riveli e provochi le inevitabili sanzioni legali. Il senso di colpa, del resto, pare – nelle
parole del branco – più che altro un modo per alleggerirsi la coscienza e trovare un escamotage per farla
franca, secondo un principio elementare: se ho un alibi non ho colpa. In questa cieca e dilettantistica
organizzazione di un omicidio nei confronti di un giovane che Clark si premura di non dipingere come una
vittima (Bobby è un personaggio spregevole, forte con i deboli e ipocritamente mansueto nei confronti del
padre , perennemente arrogante, violento, deviato, volgare e inopportuno), colpisce l’assoluta mancanza
di lucidità, il senso di una realtà completamente smarrita, incarnata perfettamente dal personaggio di
Donny, costantemente preda di sostanze stupefacenti che lo rendono simile ad un pupazzo dai modi e
dalle movenze grottesche, ma capace di colpire alle spalle Bobby con più pugnalate, pur non avendo mai
patito direttamente le sue angherie. Esemplare la scena finale in tribunale, durante il processo, quella in
cui i colpevoli si accusano a vicenda, smarrendo una volta di più il senso dell’evidenza, anteponendo
ancora una volta la forma (chi è stato il delatore) alla sostanza (la colpa, il crimine commesso
collettivamente) e mostrando ulteriormente la propria inadeguatezza di fronte all’esistenza. Ciò che ne
scaturisce è uno spaccato finale grottesco, sproporzionato, anche squallido nella dimostrazione di
impossibilità nel comprendere a pieno l’enormità dell’atto: contrariamente a quanto detto da molta
critica, Clark non è un moralista per il fatto di punire i colpevoli (è ciò che succede nella storia vera
narrata di Jim Schutze, che è alla base del soggetto del film), dal momento che informa lo spettatore
circa la pena comminata ad ognuno nelle didascalie finali; semmai il suo è solo uno sguardo morale che
stigmatizza il gigantesco vuoto di riferimenti, di obiettivi e di aggancio alle situazioni reali che i
personaggi implicati dimostrano. A questo proposito appare forse più moralistica la serie di imbarazzati
piani di reazione (inquadrature che mostrano le reazioni dei personaggi rispetto ad un evento o ad
un’azione immediatamente precedente) del pubblico che segue la discussione tra i potenziali delatori del
processo, perché mette a confronto la società (che si suppone riesca a comprendere la differenza fra bene
e male, fra opportuno e inadeguato) e una sua scoria impazzita, che per sineddoche racchiude un’ampia
fetta di adolescenti.
Un altro spunto offerto dal film di Clark è l’amicizia particolare tra Bobby e Marty, la cui conflittualità
sottesa è la molla in grado di scatenare il malsano progetto: Bobby e Marty si definiscono “migliori amici”,
ma la loro relazione è totalmente priva di equilibrio, perché Bobby umilia costantemente Marty,
rendendolo praticamente succube del suo volere e delle sue azioni, quasi mai motivate razionalmente, ma
esercitate con il gusto sadico di rimarcare l’arbitrio del suo potere. La mancanza d’equilibro è ribadita
dalle aspirazioni per il futuro (Bobby è atteso dal college, Marty ha abbandonato gli studi) e dalle attese
della famiglia (il padre di Bobby è convinto che il figlio sia succube e non carnefice di Marty e cerca di
allontanarlo dall’amico per preservargli le possibilità di una radiosa carriera), ma cela soprattutto un
rapporto di attrazione e repulsione che, come sottolineato più volte nel corso del film, assume i connotati
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di una devianza con latenze omosessuali da cui i personaggi pensano si possa sfuggire soltanto
estremizzando le caratteristiche della separazione.
Riferimenti ad altre pellicole e spunti didattici
Bully (Bullo, in italiano), nonostante la violenza esibita, la grande quantità di droga consumata e il
sesso utilizzato come vettore di conoscenza e relazione tra le parti (a questo proposito si consiglia la
visione ad un pubblico che abbia compiuto almeno i quattordici anni di età), offre la possibilità di più
spunti di riflessione intorno a temi quali l’alienazione giovanile, la propensione alla violenza, l’incapacità
di affrontare adeguatamente la realtà e le sproporzioni che nascono nei rapporti d’amicizia condizionati
dalla sudditanza. In un’ideale lista di film da proiettare, Bully potrebbe essere affiancato da pellicole
quali I ragazzi del fiume (River’s Edge, Tim Hunter, Usa, 1986), in cui la morte di una ragazza all’interno
di un gruppo di amici è il pretesto per mostrare una generale crisi dei valori che investe l’adolescenza
come microcosmo della società intera; Alpha Dog (idem, Nick Cassavetes, Usa, 2006), il quale, oltre a
condividere con Bully il fatto di essere tratto da un episodio di cronaca verificatosi in California nel 2000,
racconta di un rapimento organizzato da un gruppo di ragazzi annoiati dalla quotidianità finito in tragedia;
e L’umanità (L’humanité, Bruno Dumont, Francia, 1999), in cui il crudele omicidio di una fanciulla si
estende ad una riflessione sul male e sulle sue nefaste conseguenze.
Giampiero Frasca
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