Alfonso Vinci, una vita avventurosa

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Alfonso Vinci, una vita avventurosa
Alfonso Vinci, una vita avventurosa
L’alpinismo, spesso ridotto, soprattutto negli ultimi decenni, a mero gesto sportivo o a fenomeno
strettamente tecnico, è in realtà un’attività più ampia e complessa, e rimane nella sua essenza
profonda una forma creativa che non può prescindere da una più vasta integrazione entro le forme
generali della cultura e dell’esperienza dei luoghi, dei paesaggi, e delle popolazioni che abitano il
mondo.
Nella lunga storia dell’alpinismo italiano, accanto alle figure dei più grandi e celebri alpinisti e
arrampicatori puri si possono tuttavia individuare altri protagonisti di alto livello, che hanno unito
alla conquista e alla salita di pareti e cime anche attività di altro tipo: esplorative, letterarie,
artistiche, aggiungendo così alla propria esperienza alpinistica una particolare e profonda ricchezza
umana e culturale.
Fra queste figure, spesso in parte dimenticate e comunque assolutamente meritevoli di una
posizione di primo piano nel panorama della storia dell’alpinismo, troviamo Alfonso Vinci (19151992) uomo poliedrico, alpinista lombardo di punta negli anni ‘30, letterato e scienziato,
leggendario comandante partigiano durante la Resistenza e in seguito pioniere delle esplorazioni in
Venezuela e in Sud America dove si recò nel primo dopoguerra alla ricerca di nuove cime e di
fortuna. Vinci non solo trovò molti diamanti – fra cui il principale giacimento venezuelano – ma
seppe esprimersi come etnografo e antropologo, pubblicando alcuni libri splendidamente scritti
sulle popolazioni dei Samatari e sui territori della Cordigliera che egli visitò compiendo importanti
ascensioni (ad esempio la parete nord del Picco Bolivar), documentate in rarissimi filmati d’epoca.
Al centro dell’esperienza umana di Alfonso Vinci vi sono soprattutto le montagne, i luoghi selvaggi
e gli uomini che abitano il mondo. È raro trovare una figura così ricca di quella moralità complessa
che gli illuministi del settecento chiamavano, argutamente “esprit des moeurs”, cioè “spirito dei
costumi”.
Vinci, attraverso gli scritti, le parole, le vie aperte, le esplorazioni compiute, appare esattamente
come uno di quei grandi viaggiatori settecenteschi dotati di una sensibilità pratica fuori dal comune,
che permette a chi la detiene un’evoluzione interiore di rara completezza e pregna di un fascino che
oggi spesso è alieno da molte altre figure dell’alpinismo contemporaneo.
Un radicale disincanto (forse maturato attraverso la dura esperienza di comandante partigiano entro
un’epoca e una dimensione che richiedeva un’assoluta fermezza d’animo e d’azione) caratterizza
Vinci nella sua lunga esplorazione diamantifera ed antropologica, culminata con l’incredibile
esperienza, a contatto con la popolazione “più selvaggia del mondo” quella dei Samatari, ceppo
degli Scirisciana.
Nella Milano fine anni trenta, ove regnava un clima culturale particolare, soprattutto presso
l’Università degli Studi, animata da grandi maestri, Alfonso Vinci compie la prima parte del suo
itinerario culturale laureandosi in Lettere e Filosofia e in seguito in Scienze Naturali con
specializzazioni in Geologia, secondo uno schema che ricorda molto un tipo di intellettuale
polivalente che oggi non esiste quasi più. La proiezione di ciò che Vinci farà nei decenni seguenti,
esplorando e scrivendo è quasi già scritto, nel ricordo di Alexander Von Humboldt, o dello stesso
Goethe.
L’inizio dell’esperienza alpinistica avviene attraverso la frequentazione militare come Ufficiale
nella Scuola Militare degli Alpini, ma evidentemente si nutre di una forza e di una capacità
autogena, propria di pochi scelti rocciatori per nascita.
Ecco dunque le grandi salite, per vie nuove compiute negli anni ‘30: La nord del Ligoncio aperta
nel 1938 e paragonata per difficoltà alla Cassin al Badile, la celebre prima allo Spigolo del Cengalo,
in alta Val Masino, nel 1939, per un itinerario difficile e in seguito celeberrimo. La grande via,
pochissimo ripetuta, sull’Agnèr, una delle più alte pareti delle Alpi orientali, anch’essa del ‘39,
salita in tre giorni, e a suo modo tragica per la perdita di un amico caduto mentre saliva ad accogliere in vetta la cordata. Sino a quella sul meno noto ma comunque difficile Castello delle
Nevere, nel gruppo della Moiazza, già portata a termine nel 1936. Il documentario prevede riprese
specifiche sia di una salita sullo spigolo del Cengalo, sia nel gruppo dell’Agner, ove verranno
intervistati personaggi legati alla storia di queste montagne. Vinci, in una rara intervista rilasciata a
Giuseppe “Popi” Miotti nel 1987, ricorda fra l’altro di avere per vari mesi accompagnato Cassin
portandogli il sacco e di esser stato contattato come eventuale compagno per la successiva e
notoriamente tragica, anche se riuscita, prima salita della parete Nord-Est del Pizzo Badile, proprio
dal comasco Molteni che con Valsecchi perirà drammaticamente durante la discesa nella prima
ascensione.
Un capitolo particolare dell’esperienza di vita del nostro protagonista è rappresentato dagli eventi
della Resistenza, ove egli, simpatizzante del PCI, ricoprì un ruolo di grande importanza, poiché fu
fra i primi e più attivi organizzatori delle formazioni partigiane nella Bassa Valtellina, diventando
dopo l’8 settembre uno dei principali mediatori fra i locali ed i gruppi di partigiani milanesi. In ciò
favorito dalla sua grande esperienza alpinistica che, unita evidentemente a eccezionali capacità di
decisione, lo condusse a diventare il leggendario Comandante Bill, uno dei capi di stato maggiore
delle Brigate Garibaldi. Dopo aver pubblicato un articolo sul granito della Val Masino, ecco nel
gennaio del 1947 il suo primo viaggio in Sud America, con meta alpinistica le Ande, dopo un
suggerimento del grande Giusto Gervasutti, che morirà di lì a poco, sul Monte Bianco. Un intero
baule di materiale alpinistico mai utilizzato perché Vinci e il suo compagno si lasciarono tentare
dalle voci sui giacimenti auriferi e diamantiferi nella zona di confine tra Venezuela e Brasile, ove si
recarono subito dopo dando inizio a quella splendida epopea di scavo e di esperienza umana che è
così ben descritta in Diamanti. Vari anni di scavi e ricerche nei luoghi più selvaggi e disparati della
giungla venezuelana, culminati nel 1950 con i primi ritrovamenti importanti sul fiume Aveki, e la
scoperta di un giacimento favoloso, cambiarono la vita di Vinci e lo portarono, evidentemente
arricchito, nuovamente in Italia, ove iniziò ben presto a pensare al Sud America in un’altra ottica, di
esplorazione antropologica e soprattutto alpinistica.
Nel film-documentario realizzato da Michele Radici in collaborazione con il Centro di
Cinematografia e Cineteca del CAI, vengono mostrati dettagli rari e affascinanti di alcune delle
salite di Vinci sulle montagne delle Ande, e delle esplorazioni sull’Orinoco e nella Gran Sabana: in
particolare sono stati usati spezzoni tratti da due suoi film: dalle magnifiche immagini di scalata su
roccia e ghiaccio relative alla prima ascensione al Pic Bolivar da nord, salita contestata dai locali
per invidia, a quelle della Spedizione italiana Panandina del CAI, sino alle pionieristiche riprese di
fiumi e villaggi contenute nei film Venezuela e 2000 km sull’Orinoco del lecchese Ezio Cattaneo.
Il documentario esplorare la figura di Vinci a 360 gradi, dando particolare rilievo alla personalità di
quest’uomo e agli aspetti profondi del suo particolare modo di sentire i luoghi, i paesaggi, le azioni
in montagna. La notevole quantità di materiali esistenti, filmati, interviste, libri, testimoni viventi,
pagine critiche, documenti relativi al periodo bellico, hanno permesso un’elaborazione articolata e
puntuale e la ricostruzione di un’avventura umana e culturale che trova il suo centro nell’alpinismo
ma che lo trascende ed arricchisce entro il più ampio contesto dei molteplici significati della vita.
Il documentario sviluppa un’analisi dialettica della complessa e poliedrica personalità di Vinci,
capace di sintetizzare montagne e cultura: una rara capacità di concepire il mondo, espressa dal
sereno distacco con cui spesso Vinci vive e giudica le vicende mondane.
Si può in definitiva parlare dell’avventura di Afonso Vinci come di un viaggio dell’anima
soprattutto estensivo, per le sterminate e selvagge latitudini dei luoghi più remoti del pianeta da lui
vissuti e descritti nei suoi libri.
Tratto da un testo di Michele Radici e Eugenio Pesci.