Il Pompeo Magno da “piccolo gruppo” a “collettivo”

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Il Pompeo Magno da “piccolo gruppo” a “collettivo”
Mariapia Pizzolante
Il Pompeo Magno da “piccolo gruppo” a “collettivo”
Il femminismo, come altri movimenti sorti tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, deve la sua origine a gruppi di donne incontratesi
in diversi luoghi e momenti e poi entrati in comunicazione fra di loro.
Non a torto questa è stata definita l’epoca dell’azione collettiva, la stagione dei movimenti, e una delle sue parole chiave è stata la partecipazione.
Partecipazione che ha avuto le sue manifestazioni più originali nei comitati di quartiere, nei movimenti focalizzati sul territorio o su questioni legate
al welfare o alle professioni1.
In questo panorama il femminismo risulta ancora una volta emblematico per il suo stesso sorgere inesorabilmente legato all’esperienza del
gruppo, anzi dei “piccoli gruppi”. Proprio per questo motivo tracciare un
quadro preciso del femminismo italiano delle origini non è compito semplice, perché gli atti di nascita sono stati molteplici sia su un piano geografico che temporale. Le fonti storiografiche2 sembrano concordare sul primato cronologico del gruppo ‘Demau’ (Demistificazione-Autoritarismo),
nato a Milano agli albori del 1966 con un chiaro intento di rottura con la
società patriarcale e un programma definito da riunioni tra donne, a cui gli
1
Giovanni Moro, Anni Settanta, Einaudi, Torino 2007, pp. 34-35; cfr. anche Paul
Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, Einaudi, Torino 1989; Francesco Barbagallo,
progetto e direzione di, Storia dell’Italia repubblicana, vol. 2, La trasformazione dell’Italia.
Sviluppo e squilibri, tomo 2, Istituzioni, movimenti, culture, Einaudi, Torino 1995; Marcello
Flores, Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, Il Mulino, Bologna 2003; Anna Bravo, A colpi
di cuore, Laterza, Roma-Bari 2008.
2
Cfr. Teresa Bertilotti, Anna Scattigno, a cura di, Il femminismo degli anni ’70, Viella,
Roma 2005; Fiamma Lussana, Le donne e la modernizzazione. Il neofemminismo degli anni
Settanta, in Francesco Barbagallo, progetto e direzione di, Storia dell’Italia repubblicana,
vol. 3, L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, tomo 2, Istituzioni, politiche, culture,
Einaudi, Torino 1998; Bianca Maria Frabotta, Femminismo e lotta di classe in Italia (19701973), Savelli, Roma 1973.
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uomini verranno invitati solo per la discussione su temi specifici3. Ma la
maggior parte dei gruppi nasce tra il 1970 e il 1973, anno in cui vengono
fondate anche riviste molto importanti come “Sottosopra” e “Effe”, riviste di donne per le donne, le cui redazioni si possono considerare gruppi
specifici alla stregua degli altri. Il 1970 è l’anno di ‘Lotta Femminista’, nato
a Padova, formato in parte da donne provenienti da Potere Operaio, il cui
fulcro di discussione è il nesso tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo,
e che pertanto risulta rilevante dal punto di vista dei rapporti con la componente marxista della cultura politica italiana. Dello stesso anno sono ‘Il
Cerchio Spezzato’, nato a Trento con un forte nesso con il movimento
studentesco, e ‘Anabasi’, sorto a Milano e attivo soprattutto nell’analisi del
corpo e della sessualità, in relazione ai documenti che giungono dagli Stati
Uniti, sulle cui basi si strutturano le riunioni del gruppo4.
Roma, dunque, non ha sicuramente il primato temporale nella costituzione di un movimento femminista o, perlomeno, di un soggetto
formalizzato, visibile all’esterno. Pertanto non è semplice rintracciare il
momento esatto in cui quel qualcosa si è formato, a partire dall’incontro
di un gruppo di donne che si sono trovate a discutere di tematiche che le
riguardavano.
Il serbatoio da cui attingere le maggiori informazioni è sicuramente
‘Archivia’, l’archivio e centro di documentazione femminista e studi sulle
donne della ‘Casa Internazionale delle donne’ di Roma che, come altri archivi di movimenti femministi, se da un lato risulta carente di documenti
quali registrazioni e verbali di riunioni, dall’altro stupisce per la ricchezza
e la bellezza di manifesti, racconti e volantini che testimoniano un lavoro
molto ampio su forme alternative per la divulgazione dei messaggi. Forme alternative ma anche fonti alternative, dal momento che sono caratterizzate da mancanze significative: spesso le carte sono non solo prive
di date e nomi (il che rende il lavoro di ricostruzione quasi investigativo),
ma anche decontestualizzate. Inoltre si ritrovano sparse negli archivi di
singole donne, anche non appartenenti al movimento, o raccolte con
3
Cfr. anche, per il gruppo ‘Demau’, Aida Ribero, Una questione di libertà. Il femminismo degli anni Settanta, Rosenberg & Sellier, Torino 1999, pp. 103-110. Il gruppo era
composto da una trentina di donne, intellettuali di diversa formazione (laiche e cattoliche)
che cercavano di scoprire le radici della subordinazione della donna.
4
Per un approfondimento sui gruppi citati e sugli antecedenti e gli influssi statunitensi
vedi: Lussana, Le donne e la modernizzazione, cit.; Diego Giacchetti, Nessuno ci può giudicare,
DeriveApprodi, Roma 2005.
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criteri definiti da esigenze contingenti in volumi da loro stesse curati. Si
tratta comunque di testimonianze di una precoce volontà di lasciar traccia
e della difficoltà di farlo in modi e linguaggi coerenti con la novità rappresentata dal movimento stesso e dalle sue peculiarità. Come scrivono
due protagoniste:
La mia amica Alma Sabatini ed io abbiamo notato una cosa singolare:
abbiamo una serie di ciclostilati e di foglietti, tutti quanti senza data.
Come mai? Vi era io credo, questo senso – non so se del precario o
dell’assolutamente eterno – per cui per molti di questi documenti non
possiamo stabilire se sono del 1969 o del ’70 o del ’71, perché sono
senza data5.
Dunque mentre in altre città italiane certi gruppi, certi nomi avevano
già un’identità e un programma, a Roma fino al 1969-70 nulla era venuto
ancora alla luce. Il 1970 è l’anno in cui viene steso il Manifesto di ‘Rivolta femminile’, uno dei gruppi più importanti e originali del panorama
italiano. Le redattrici sono tre donne che si incontrano in primavera e
che, per le loro stesse specificità, rappresentano bene le diverse anime
del movimento e le varie correnti che da lì si formeranno, prendendo poi
strade diverse. Si tratta di Carla Lonzi, Carla Accardi ed Elvira Banotti. Il
tratto distintivo di ‘Rivolta’, a cui tutte le femministe romane riconoscono
la funzione di “grande madre”6 della riflessione femminista degli anni
Settanta, appare dalle testimonianze essere quello di una sorta di cenacolo intellettuale, in cui si fa autocoscienza, ma non si organizza nessuna
azione pratica.
Ad ogni modo, come sostiene Marisa Rodano,
non può essere un caso che in poche altre città il movimento femminista sia stato, negli anni ’70, così ampio e vivace, così duraturo e così
articolato come a Roma. Forse proprio perché, pur ignorandola e spesso
negandone la validità, il femminismo romano aveva dietro di sé anni di
5
Viola Angelini, Alma Sabatini, Prime esperienze del neofemminismo in Italia. Un
testo a due voci, in Anna Maria Crispino, a cura di, Esperienza storica femminile nell’età
moderna e contemporanea. Atti del seminario, vol. 2, UDI Circolo La Goccia, Roma
1989, p. 77.
6
Intervista a Edda Billi, in Maria Pia Pizzolante, Il femminismo degli anni Settanta e
l’aborto, Tesi di laurea in Storia contemporanea, Università degli studi di Roma La Sapienza,
a.a. 2007/2008, p. 292.
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battaglia di migliaia e migliaia di donne, di militanti, di dirigenti espresse
dal popolo7.
Anche per questo motivo è difficile individuare con precisione quale
sia la cellula originaria del movimento romano, che conterrà al suo interno decine di gruppi, divisi su tematiche specifiche, appartenenze politiche
ma per lo più di quartiere. Si tende però a considerare come capostipite
del movimento il collettivo di via Pompeo Magno, che prenderà il nome
di ‘Movimento Femminista Romano’8, essendo del resto per visibilità
e autorevolezza quello capace di meglio rappresentare la specificità di
Roma. Il nome però verrà assunto solo a metà del 1973. Inizialmente,
sui primi documenti o in occasione delle prime ‘uscite’, il collettivo aveva
assunto il nome di ‘Collettivo di Lotta Femminista’. Come specifica Edda
Billi in un’intervista9, ‘Movimento Femminista Romano’ era diventato un
nome troppo generico quando, nel ’73 appunto, i gruppi di donne erano
aumentati notevolmente, interessando tutte le categorie, dalle operaie alle
hostess alle casalinghe. Così si optava per il nome della strada che ospitava
la sede.
Il ‘Pompeo Magno’ è il gruppo che cercheremo di tratteggiare. Difficile rintracciare, come dicevamo, le singole protagoniste di quel momento
e quindi riuscire a creare una mappa delle formazioni da cui esse provenivano. Sicuramente il legame con ‘Rivolta’ fu forte, innanzitutto perché
furono Roma e Milano le città in cui in un primo momento comparvero
sulle mura copie del Manifesto di ‘Rivolta femminile’, e poi perché la natura stessa di questo gruppo lo portava ad essere la cellula da cui, come
scrive Frabotta, “quasi per un fenomeno di partenogenesi si sprigioneranno numerosi ‘Collettivi di Lotta femminista’, che in alcuni casi come
quello romano si staccheranno e procederanno autonomamente”10. È un
meccanismo particolare che sembra caratterizzare la formazione di questi primi gruppi, tanto che Spagnoletti sente il bisogno di spiegare come
all’interno di ‘Rivolta’ ogni singolo gruppo si autogestisse “sulla base di
7
Marisa Rodano, Donne comuniste a Roma, in “Quaderni di storia delle donne comuniste”, 1989, n. 3, p. 7.
8
Il sostantivo ‘Movimento’, che tenderei ad usare per i discorsi sull’intero femminismo anni Settanta, nel caso del ‘Pompeo Magno’ compare come nome proprio: pertanto
farò la differenza utilizzando la minuscola e la maiuscola.
9
Pizzolante, Il femminismo degli anni Settanta e l’aborto, cit., p. 294.
10
Bianca Maria Frabotta, Femminismo e lotta di classe in Italia (1970-1973), cit., p. 38.
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un’analisi complessiva di tutti i meccanismi, le dimensioni e i condizionamenti dell’oppressione femminile”11. Ed è proprio la necessità di superare
ogni forma di autoritarismo e di verticismo a portare i gruppi a rendersi
indipendenti per realizzare un’autentica autonomia: “Essi hanno preso
consistenza come realtà politica col nome di Collettivi di Lotta femminista”12. Ma più tardi, nel febbraio del ’72, un comunicato di ‘Rivolta’ stesso
rivendica l’autonomia da qualsiasi altro gruppo e soprattutto la differenza
con i ‘Collettivi di Lotta Femminista’:
Il gruppo di Rivolta femminile di Roma, insieme ai gruppi di Milano,
Torino, Genova, desidera con questo scritto rendere noti il più largamente possibile e ribadire quanto segue:
1) Rivolta Femminile non ha leader e non l’ha mai avuto.
2) Rivolta Femminile non ha mai inteso provocare né accettare un dialogo con il mondo maschile nemmeno in quelle occasioni in cui altre
femministe partecipano.
[…] In questo momento, a un anno e mezzo dalle prime riunioni di
Rivolta Femminile dopo la pubblicazione del nostro Manifesto (luglio
1970), desideriamo non lasciare nell’incertezza la nostra identificazione:
quei gruppi formatisi in seguito a Rivolta Femminile, ma che si sono
dati il nome di Collettivi di Lotta Femminista non sono la nostra continuazione, come afferma R. Spagnoletti nel suo libro sui Movimenti
femministi in Italia, perché Rivolta femminile esiste con i suoi gruppi di
autocoscienza e ha avuto sempre una continuità di svolgimento sulle sue
premesse. Con questo noi non neghiamo il dato di fatto che sul nascere
del femminismo, ci si unisca nell’entusiasmo con tante diversità che poi
vanno separate per lasciare a ciascuna il suo campo di attuazione […] la
miriade dei gruppi femministi per noi è la conferma che la differenziazione di ogni gruppo non è negativa poiché corrisponde alla scoperta
delle molteplicità che compongono il mondo femminile13.
E questo vale per quello che si costituisce a Roma come ‘Collettivo di
Lotta femminista’ nel maggio del 1971 e che più tardi sarà il ‘Movimento
Femminista Romano’. Testimonianza di questa filiazione non proprio ‘diretta’ viene dalle interviste a Edda Billi14, la quale sostiene che Carla Lonzi
fu la prima a portare la riflessione nei termini della presa di coscienza
11
Rosalba Spagnoletti, I movimenti femministi in Italia, Savelli, Roma 1971, p. 42.
Ibid.
13
Per l’identificazione di Rivolta femminile, in “Sottosopra”, 1973, n. 1, p. 24.
14
Roberta Tatafiore, A prova di donna, Cooperativa libera stampa, Roma 1990, p. 56;
Pizzolante, Il femminismo degli anni Settanta e l’aborto, cit., p. 295.
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dell’esclusione delle donne dall’umanità. Anche Cloti Ricciardi afferma di
aver partecipato ad alcune riunioni di ‘Rivolta’15, prima di incontrarsi con
le donne di ‘Pompeo Magno’, che la lasciano insoddisfatta per la chiusura
verso l’esterno. Così il futuro MFR di via Pompeo Magno si muove da
subito in maniera diversa, ‘uscendo’ nel sociale. Edda Billi ripete con
insistenza che ‘Rivolta’ era un “pensatoio”, un circolo “intellettuale”,
“chiuso” verso l’esterno, fondamentale per la riflessione che sviluppa e
da cui prenderanno le mosse le protagoniste del futuro Pompeo Magno,
differenziandosi proprio perché da subito si apriranno all’esterno, “usciranno fuori”, andranno in fabbrica, nei mercati, nelle strade16.
Come raccontano le stesse protagoniste sulle pagine di Donnità17, un
libro da loro prodotto per documentare i primi anni di attività del collettivo, l’atto costitutivo fu una mostra su “La donna e la pubblicità” che si
tenne a piazza Navona il 9 maggio 1971. Il volantino che pubblicizzava
la mostra e invitava alla partecipazione era un appello alla riflessione sul
proprio ruolo e su quell’immagine che veniva data per scontata e pertanto
comunicata attraverso tutti i mass media. “È la prima volta che usciamo
allo scoperto, ancora non ci conoscono”, scrivono su Donnità mentre
raccontano quella giornata in cui raccoglievano su un quaderno indirizzi
e adesioni di donne che avrebbero voluto continuare ad incontrare le
artefici di quella mostra. “La donna e la pubblicità” segnava l’esordio
pubblico del movimento romano. I maggiori quotidiani dell’epoca non
danno notizia della mostra: nessun accenno sul “Messaggero” e su “Paese
Sera”, nulla sul “Corriere della Sera”, e niente nemmeno sull’“Unità”,
15
Ivi, p. 303.
Ivi, p. 295.
17
Donnità. Cronache del movimento femminista romano, pubblicazione del Centro di
Documentazione del Movimento Femminista Romano (via Pompeo Magno 94), Roma
s.d., p. 5: “Si tratta di un libro collettivo perché non solo le azioni ma anche gli interventi
individuali sono il frutto di un discorso comune; per conservargli questo carattere di elaborazione collettiva ogni avvenimento viene raccontato o introdotto da una compagna
diversa, fra quelle presenti in una determinata azione o situazione”. Inoltre, per quanto
riguarda il rapporto con ‘Rivolta femminile’, si legge a p. 6: “Rivolta Femminile esprimeva
ed esprime la sua rivolta, la rivolta delle donne, con i metodi propri della cultura femminile,
per questo rifiutava e rifiuta un certo tipo di rapporto con l’esterno: stampa, manifestazioni
ecc. anche se inteso a sensibilizzare larghi strati di donne. Noi, pur riconoscendoci nel
loro modo di muoversi, volevamo farlo, in quel momento con la nostra energia, il nostro
linguaggio e la nostra fantasia, anche nei luoghi e attraverso quelle azioni che erano stati i
luoghi e le azioni tradizionalmente riservate ai maschi e dove la partecipazione delle donne,
quando c’era stata, si era rivelata essere, come nel quotidiano, nient’altro che un apporto,
un sostegno alle loro lotte”.
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che in quei giorni è concentrata sull’apertura della campagna elettorale
per le provinciali e le comunali del 13-14 giugno. D’altra parte sono
giorni intensi per la varietà di manifestazioni: il giorno prima molti
giovani di ambo i sessi avevano sfilato da piazza Esedra a San Lorenzo
per proclamare l’opposizione all’imperialismo USA; lo stesso giorno i
“pedonauti” avevano marciato per 25 km dentro la cinta romana con lo
scopo di raccogliere fondi per i popoli del Terzo mondo; organizzata dai
giovani cattolici del gruppo ‘Mani Tese’, in una parrocchia del Prenestino si teneva inoltre una manifestazione divorzista che vide l’intervento
dei poliziotti chiamati dal sacerdote. Invece è un settimanale, “Panorama”18, a raccontare la piazza Navona del 9 maggio: giornata scelta non
a caso, in quanto festa della mamma, figura esaustiva della femminilità
per la tradizione a cui le femministe cercavano di contrapporsi. L’autore
dell’articolo parla di una dozzina di femministe tra i 15 e i 40 anni che
avevano creato – in meno di quattro metri quadrati, delimitati dai moduli
tubolari usati per costruire ponteggi, su 20 metri di tela di sacco – questa
mostra sulla “pubblicità oppressiva della donna”. Si trattava di tante pagine pubblicitarie strappate da riviste e giornali, che ritraevano figure di
donne rosee e sorridenti, contrapposte a immagini di donne in fabbrica
e nelle manifestazioni di protesta che, come si leggeva nelle scritte che
accompagnavano le immagini, erano il “vero volto della donna oppressa”. Il volantino che veniva distribuito conteneva una serie di domande
provocatorie per le donne:
- è vero che «se il tuo nome è donna, il tuo corpo esprime la tua esistenza, il senso della tua stessa vita?»
- è vero che «la tua libertà sta nell’avere la pelle più liscia?»
- è vero che «sei innamorata del pavimento» che devi pulire ogni giorno?
- è vero che per te «l’amore è un diamante» o un’automobile più grossa?
- è vero che se sei madre hai solo figli maschi?
Il mondo della pubblicità ti dice di «sì». Su ogni giornale e rivista che
leggi, nelle strade che percorri, nel cinema che frequenti gli annunci
pubblicitari proiettano una certa immagine di te come donna19.
18
Stefano Camozzini, Basta con la donna fatta per vendere, in “Panorama”, 20 maggio
1971, p. 78.
19
Archivia, Centro di documentazione internazionale “Alma Sabatini”, Fondo “Pompeo Magno”, fasc. 1, 1971, volantino maggio 1971; cfr. anche Donnità, cit., p. 12.
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Quello che è ancora il ‘Collettivo di Lotta femminista’ – “nome temporaneo”, scrive anche “Panorama” – si è creato anche un logo: un pugno
rosso racchiuso in un cerchio, simbolo del legame con la sinistra ma in
una nuova veste femminile. La mostra è stata organizzata da poche donne
riunite in casa di una di loro, Susan20, e l’autorizzazione alla Questura e
al Comune è stata chiesta da Joanna Capra, una traduttrice italiana scomparsa di recente. Pareri discordanti sul numero delle adesioni vengono
dalle organizzatrici e da “Panorama”: le prime dicono che a fine giornata
hanno “tanti indirizzi” sul quaderno (sebbene abbiano notato la diffidenza delle donne, che dopo rapidi sguardi andavano via, laddove gli uomini
incuriositi facevano domande); il settimanale invece scrive che a metà manifestazione c’erano ancora solo cinque firme. In realtà probabilmente,
sebbene tra metà e fine manifestazione le firme si siano solo raddoppiate,
agli occhi della “dozzina” di organizzatrici gli indirizzi potevano essere
“tanti”: la differenza di percezione è tale perché non ci si rende conto di
come si sia avviata l’attività di queste donne. In quel momento, infatti,
erano soltanto poche amiche o conoscenti che si trovavano a parlare e
sentire gli stessi problemi; non ancora il movimento che invaderà Roma
nelle grandi manifestazioni del 1975-76.
Un ultimo accenno all’articolo di “Panorama” che dava notizia della
mostra: l’autore scrive che “il gruppo di piazza Navona è la più recente di
una decina di organizzazioni femministe”. E aggiunge: “la regola è tenere
l’incognito, non avere capi, diffidare degli uomini, parlare ciascuna a titolo
individuale”. Questa è la ragione della difficoltà nell’individuare le protagoniste, il motivo della presenza dei soli nomi di alcune di loro anche nei
documenti interni, e ciò rende difficile il censimento dei gruppi: la decina
di cui parla il giornalista comprende plausibilmente anche le formazioni
interne ai partiti, le “sezioni” o “commissioni” femminili.
Dunque l’oppressione ideologica e la tematica della donna-oggetto
rappresentano due delle ‘molle’ fondamentali del movimento, e queste
rivendicazioni mettono in moto proteste che – per essere veramente
rivoluzionarie – non possono utilizzare moduli ‘maschili’, ma si esprimono attraverso la non-violenza (considerata da sempre una prerogativa
femminile, in contrapposizione all’aggressività degli uomini), la creatività
20
Probabilmente è Susan Dubiner, la ragazza americana di cui parla Cloti Ricciardi
(nell’intervista di cui sopra), che si trovava a Roma per una borsa di studio e che venne a
contatto con il femminismo qui, non in America, come si potrebbe presupporre pensando
alle influenze americane di cui abbiamo detto.
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e la capacità di inventare nuovi linguaggi, nuovi stili, nuove forme di manifestazione pubblica. Così le mostre, gli sketch improvvisati in piazza,
i volantini-fumetto, le testimonianze orali diventano i moduli espressivi
‘dell’altra metà del cielo’, caratterizzando non solo l’azione in quegli anni,
ma anche la produzione di fonti.
Inizia un lavoro di proselitismo che raccoglie donne per strada e le
organizza attorno a centri, consultori, librerie, teatri, ma anche nei quartieri, nelle fabbriche, nelle scuole, usando tutti i mezzi di comunicazione
possibili:
Dal libro al documentario, dal giornale al dibattito, dal ciclostilato
allo spettacolo, dal fumetto all’happening; superando largamente i
confini elitistici, intellettuali e borghesi della sua origine, per conquistare periferie proletarie e sottoproletarie, province depresse, masse di
operaie e di casalinghe, per imporsi perentoriamente alla più riluttante
opinione pubblica e divenire una costante del nostro panorama sociale
e politico21.
Forse l’enfasi di questo spunto di Ravaioli è conforme al clima creato
dalle manifestazioni che invaderanno Roma tra il ’75 e il ’77, ma sicuramente è con questi strumenti che si avvia la trasformazione di un piccolo
gruppo di donne riunite in casa in uno dei movimenti più duraturi degli
anni Settanta.
Nell’Introduzione del numero di “Memoria”, la rivista che già nel 1981
inizia a riflettere e rendere pubblico il dibattito attorno ai nodi del femminismo e della storia delle donne, si legge:
è attraverso le tematiche e le pratiche del corpo e della sessualità che il
movimento femminista conosce una circolazione e un’influenza sociali;
il fenomeno del cosiddetto «femminismo diffuso» trova probabilmente
qui un decisivo impulso22.
Ma è anche qui che si misura più direttamente con lo Stato, o meglio
con i partiti della sinistra storica che, come dice Fiamma Lussana, riescono a neutralizzare la carica eversiva del movimento. Yasmine Ergas,
analizzando questo passaggio fondamentale, individua nell’accesso del
21
Carla Ravaioli, La donna, in Antonio Gambino et al., Dal ’68 a oggi come siamo e come
eravamo, Laterza, Roma-Bari 1979, p. 292.
22
“Memoria”, 1987, n. 19-20, p. 6.
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PCI all’area di governo sia l’abbassamento della soglia generale della conflittualità sociale sia il suo farsi promotore della canalizzazione dei conflitti emersi in quel decennio. Così anche il femminismo deve ridefinirsi
e “coniugare la proiezione nel life style politics col tentativo di organizzare
le donne come interesse sociale particolare”23: le donne si mobilitano in
luoghi specifici, per esempio attraverso associazioni sindacali nei posti di
lavoro o centri di produzione culturale, e riaffermano la vocazione universalistica quando si pongono come estranee al sistema socio-politico.
Il nodo problematico “tra sesso e genere” richiama e riallaccia tanti
altri fili, legati a loro volta da contraddizioni e nessi indissolubili: il personale e il politico, l’individualismo liberale e la cultura marxista, la sessualità
nel confronto pubblico-privato, la biologia e la storia, le differenze. Ognuno di questi temi apre discorsi infiniti e mette in campo diverse discipline.
Ma non è questa la sede per darne conto.
23
Yasmine Ergas, Nelle maglie della politica. Femminismo, istituzioni e politiche sociali
nell’Italia degli anni ’70, Franco Angeli, Milano 1986, p. 81.
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