FRANCESCO GALGANO - Giammo Helps You

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IL CONTRATTO
CAP. 1°: INTRODUZIONE
I concetti di fatto giuridico e di atto giuridico sono utilizzati dall’art. 1173 c.c. (fonti delle
obbligazioni: “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni altro atto o fatto idoneo a
produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”), per indicare quali sono le fonti delle obbligazioni
e specificando che il contratto appartiene al genere dell’atto giuridico ed il fatto illecito a quello del
fatto giuridico. Ma andiamo nel dettaglio.
Si suole definire fatto giuridico ogni accadimento, naturale od umano, al verificarsi del quale
l’ordinamento giuridico ricollega un qualsiasi effetto giuridico, costitutivo o modificativo od
estintivo di rapporti giuridici. Fatto giuridico può essere:
- un accadimento naturale, del tutto indipendente dall’opera dell’uomo (es. l’alluvione, art. 941
c.c.);
- un fatto umano, quando la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto giuridico
si produce come effetto di un consapevole e volontario comportamento dell’uomo (es. il “fatto
illecito”, di cui all’art. 2043).
E’ possibile distinguere poi fra:
- fatti leciti, se conformi al diritto, e
- fatti illeciti, se contrari al diritto;
- comportamenti o fatti umani discrezionali, se il soggetto è libero di compierli, e
- comportamenti o fatti umani dovuti, se il soggetto è obbligato a compierli, come nel caso
dell’adempimento dell’obbligazione.
Tutti i fatti umani discrezionali producono effetti nei confronti del soggetto che li ha posti in essere
sul solo presupposto che questi goda della capacità naturale d’intendere e di volere. Ciò si desume
dall’art. 2047 c.c. (danno cagionato dall’incapace: “in caso di danno cagionato da persona incapace di
intendere o di volere, il risarcimento è dovuto da chi è tenuto alla sorveglianza dell’incapace, salvo che provi
di non aver potuto impedire il fatto”), che esonera da responsabilità per fatto illecito l’incapace
d’intendere e di volere. Quanto ai fatti dovuti, per essi non è richiesta neppure la capacità naturale,
a norma dell’art. 1191.
Gli atti giuridici compongono una sottocategoria dei fatti umani e li si può definire come fatti
umani destinati a produrre effetti giuridici. Per essi, affinché possano produrre effetti giuridici,
non basta la sola capacità naturale d’intendere e di volere, come per i fatti umani discrezionali, ma
occorre anche la legale capacità d’agire. Gli atti giuridici si distinguono in:
- atti o dichiarazioni di volontà, qui bisogna fare una precisazione,
 ci sono alcuni fatti umani che, consapevolmente compiuti dall’uomo, producono i loro
effetti giuridici anche senza la volontà dell’uomo stesso. E’ il caso del fatto illecito, che
produce l’effetto giuridico di obbligare al risarcimento del danno cagionato, chi lo ha
commesso per il solo motivo di essere un fatto doloso o colposo, anche se l’autore non l’ha
voluto.
 Ci sono altri fatti che producono effetti giuridici solo perché effettivamente voluti, che
necessitano sia della volontarietà del comportamento umano che della volontarietà degli
effetti. Non basta, come per i primi, che il soggetto abbia voluto il fatto, ma qui occorre
anche che il soggetto abbia altresì voluto l’effetto. È il caso del contratto, che è atto giuridico
risultante dall’accordo di due (contratto bilaterale) o più parti (contratto plurilaterale),
diretto a costituire, regolare od estinguere un rapporto giuridico patrimoniale (art. 1321
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c.c.). La differenza specifica è, perciò, questa: mentre il fatto umano in genere produce gli
effetti che il diritto gli ricollega, purché fatto consapevole e volontario, l’atto o
dichiarazione di volontà, al contrario, non produce effetti se risulta che il soggetto non li
aveva voluti;
- atti o dichiarazioni di scienza, con i quali il soggetto dichiara di avere conoscenza di un fatto
giuridico (es. la dichiarazione con cui il creditore dichiara di avere ricevuto il pagamento del
proprio credito, c.d. quietanza di pagamento). L’effetto delle dichiarazioni di scienza non è, come
per le dichiarazioni di volontà, di costituire o modificare o estinguere rapporti giuridici, ma di
provare l’esistenza di fatti giuridici, di per sé costitutivi o modificativi od estintivi di rapporti;
- partecipazioni e comunicazioni, riguardano
 da un lato le dichiarazioni permissive, quelle proibitive (opposizioni), quelle determinative
(le istruzioni del mandante al mandatario) e,
 dall’altro le notificazioni (es. la notificazione della cessione del credito al debitore ceduto),
le denunce, le diffide, ecc.
CAP 2°: IL CONTRATTO E L’AUTONOMIA CONTRATTUALE
Al contratto il codice civile assegna due specifiche funzioni:
- l’art. 922 (modi di acquisto: “la proprietà si acquista per occupazione, per invenzione, per accessione, per
specificazione, per unione o commistione, per usucapione, per effetto di contratti, per successione a causa di
morte e negli altri modi stabiliti dalla legge”) lo annovera, anzitutto, fra i modi d’acquisto della
proprietà (e degli altri diritti reali), quale strumento per la circolazione dei beni;
- l’art. 1173 (fonti delle obbligazioni: “le obbligazioni derivano da contratto, da fatto illecito, o da ogni
altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”), lo include fra le fonti delle
obbligazioni, attribuendogli l’ulteriore funzione di strumento mediante il quale ci si procura il
diritto alle altrui prestazioni.
Le due funzioni sono svolte congiuntamente nei contratti traslativi a titolo oneroso, come la
vendita, con la quale si trasferisce la proprietà ed al tempo stesso, è fonte di obbligazione per il
venditore di consegnare la cosa venduta e, per il compratore di pagarne il prezzo; altri contratti
invece sono solo fonti di obbligazioni come la locazione, il contratto di lavoro, ecc. Infine va
considerato che per contratto si possono trasferire, oltre che diritti reali, anche diritti di credito,
come nel caso della cessione dei crediti, regolata dagli artt. 1260 ss.
Premesso ciò il codice civile dà all’art. 1321 una nozione generale, che unifica le due distinte
funzioni in una sola, e allude ad ulteriori funzioni che il contratto può svolgere.
Definisce il “contratto come l’accordo di due o più parti per costituire, regolare od estinguere fra
loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Non è però una sintesi molto felice visto che l’effetto
traslativo di un preesistente diritto da un soggetto ad un altro, non può essere ricompreso nella
“costituzione” di un rapporto giuridico; con qualche sforzo lo potremmo ricomprendere nella
funzione di “regolare” un rapporto giuridico patrimoniale. Proprio la capacità del contratto di
“regolare” rapporti giuridici patrimoniali si coordina con la libertà riconosciuta alle parti di
determinare il contenuto dei contratti tipici (art. 1322) e delle figure contrattuali atipiche. Le
determinazioni mediante le quali si manifesta la funzione regolatrice del contratto si prestano una
triplice classificazione:
a) determinazioni concrete, suscettibili di una sola applicazione, come nei contratti che prevedono,
per i contraenti, un unico atto d’esecuzione (es. la clausola del contratto di vendita che regola le
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modalità di consegna della cosa venduta, troverà una sola applicazione all’atto della consegna
della cosa);
b) determinazioni astratte, suscettibili di applicazioni ripetute, come nei contratti di durata che
prevedono, per i contraenti, più atti d’esecuzione (es. la clausola del contratto di somministrazione
che regola le modalità d’esecuzione delle prestazioni periodiche o continuative di cose, troverà
applicazione ogni qualvolta il somministrante eseguirà le prestazioni dovute);
c) determinazioni astratte, suscettibili di applicazioni solo eventuali, come nei c.d. contratti
normativi o contratto preparatorio, e nei contratti-tipo. La caratteristica principale del contratto
normativo sta nel fatto che le parti determinano, in tutto: contratto tipo o in parte: contratto
normativo in senso stretto, il contenuto di futuri ed eventuali contratti, che però restano libere di
concludere o non concludere. Solo se e solo quando il contratto particolare sarà da esse concluso, il
contratto normativo produrrà su di loro effetti vincolanti e li produrrà, secondo l’opinione più
diffusa, direttamente (c.d. efficacia reale del contratto normativo), senza bisogno di una loro
apposita dichiarazione di volontà in tal senso (c.d. efficacia obbligatoria del contratto normativo).
Il rapporto giuridico del contratto
Il rapporto giuridico, che il contratto costituisce, regola od estingue, deve essere un rapporto
giuridico patrimoniale, cioè deve avere ad oggetto cose o prestazioni personali suscettibili di
valutazione economica.
Il requisito della patrimonialità delimita l’area del contratto, escludendo ad es. che sia qualificabile
come contratto il matrimonio. Se è vero che contratto e matrimonio vengono presentati quali
specie di un medesimo genere (negozio giuridico) e che nel matrimonio il rapporto giuridico o il
rapporto di famiglia si costituisce “per accordo delle parti”, come nel contratto, non è altrettanto
vero che si tratta di un rapporto giuridico patrimoniale.
Ma ancora l’area del contratto, per quanto circoscritta ai rapporti giuridici patrimoniali, non
coincide però con la sfera degli interessi patrimoniali o degli scopi economici. La patrimonialità del
rapporto non dipende, secondo il criterio desumibile dall’art. 1174 c.c. (carattere patrimoniale
della prestazione: “la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione
economica e deve corrispondere a un interesse, anche non patrimoniale, del creditore”), dalla natura
dell’interesse perseguito dalle parti, che può essere “anche non patrimoniale”, ossia non
economico, ma si determina in ragione del fatto che le prestazioni, cui le parti si sono obbligate,
siano suscettibili di valutazione economica. Perciò, l’atto costitutivo delle associazioni a scopo
ideale è un contratto perché le parti si obbligano con esso ad eseguire apporti economicamente
valutabili, mentre la natura non economica degli interessi, che tali apporti tendono a soddisfare,
non influisce sulla natura contrattuale del vincolo.
Le parti del contratto
Il contratto è, per l’art. 1321, l’accordo di “due o più parti”. Il contratto è bilaterale quando le parti
sono due (es. nella vendita), è plurilaterale quando le parti possono essere più di due (es. il
contratto di società). Si parla, tradizionalmente, anche di contratto unilaterale, come il contratto a
titolo gratuito, dal quale sorgono le obbligazioni a carico di una sola parte.
Il concetto di parte del contratto non coincide con quello di persona, in quanto per parte si deve
intendere un “centro d’interessi” e ciascuna parte di un contratto può essere formata anche da più
persone, c.d. parte complessa o plurisoggettiva (es. i comproprietari di una cosa comune, che
decidono di venderla, rappresentano una delle due parti del contratto, e quindi un unico centro di
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interessi). Perciò la vendita resta un contratto bilaterale anche se ad essa partecipano più di due
persone.
Parti di un contratto possono essere, oltre che privati, anche enti pubblici, che con lo strumento del
contratto perseguono le loro finalità istituzionali e realizzano interessi generali, in sostituzione dei
precedenti e privilegiati atti amministrativi.
Le norme generali sui contratti
La disciplina del contratto si articola, nel codice civile, in due serie di norme:
- norme che riguardano i “contratti in generale” (artt. 1321-1469 bis), comuni a tutti i contratti e si
applicano a ciascuno di essi (art. 1323 c.c. norme regolatrici dei contratti: “tutti i contratti, ancorché
non appartengano ai tipi che hanno una disciplina particolare, sono sottoposti alle norme generali contenute
in questo titolo”);
- norme che riguardano i “singoli contratti”, ossia quei contratti che trovano nel codice civile, o in
altre leggi, una disciplina particolare, specifica di quei determinati tipi contrattuali. Esse sono
contenute in gran parte, nel IV libro del c.c. (delle obbligazioni) ma anche nel II libro (come la
donazione) o nel V libro (come il contratto di lavoro).
Ciò però non vale in assoluto poiché alcune norme dettate per i “singoli contratti” risultano
applicabili anche ad altri tipi, e alcune norme dettate per i “contratti in generale” non sono
applicate a tutti i contratti, rimanendone esclusi alcuni.
Quando poi ad una medesima fattispecie (es. inadempimento del contraente) risulta in astratto
applicabile sia una norma sui “contratti in generale” sia una norma sui “singoli contratti”, si
stabilisce che quest’ultima, in linea di massima, è destinata a prevalere sulla prima, in applicazione
del principio che le norme speciali derogano a quelle generali.
Può accadere infine che la norma generale e la norma speciale si integrino fra di loro formando una
nuova norma, che risulta dalla combinazione di entrambe, come nel caso dell’art. 1662 c.c. (verifica
nel corso di esecuzione dell’opera: “il committente ha diritto di controllare lo svolgimento dei lavori e di
verificarne a proprie spese lo stato. Quando, nel corso dell’opera, si accerta che la sua esecuzione non procede
secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte, il committente può fissare un congruo termine
entro il quale l’appaltatore si deve conformare a tali condizioni; trascorso inutilmente il termine stabilito, il
contratto è risoluto, salvo il diritto del committente al risarcimento del danno”), che:
- permette la risoluzione dell’appalto in corso d’opera, qualora questa non proceda in conformità
del contratto e l’appaltatore non vi si conforma nel termine fissatogli dal committente;
- deroga ai principi generali sui contratti, che non ammettono la risoluzione se non è scaduto il
termine per l’adempimento.
Ma la norma speciale viene integrata con le norme generali quando si decide che il committente
può agire per la risoluzione ex art. 1453 c.c. (risolubilità del contratto per inadempimento: “nei
contratti con prestazioni corrispettive, quando uno dei contraenti non adempie le sue obbligazioni, l’altro
può a sua scelta chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del
danno”) senza alcun invito all’appaltatore. Qui ci si avvale della norma speciale e, ad un tempo,
della norma generale per formare un’ulteriore norma: l’appalto può essere risolto anche in corso
d’opera (secondo la norma speciale) con l’azione di risoluzione (secondo la norma generale)
quando la difformità dell’opera in corso sia insanabile (ipotesi non prevista né dalla norma
speciale, né da quella generale).
Detto ciò due punti sono evidenti:
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1) non tutte le norme che l’art. 1323 c.c. definisce come “generali” sono realmente tali, risultando
quindi in un numero più limitato di quanto lo stesso articolo faccia supporre;
2) non tutte le norme che riguardano i singoli tipi sono realmente relative solo a quel tipo
contrattuale cui sono riferite, risultando quindi in un numero più esteso di quanto lo stesso articolo
faccia supporre.
Autonomia contrattuale e limiti alla stessa
per l’art. 1321c.c. ciò che costituisce o regola od estingue un rapporto patrimoniale è l’accordo
delle parti, ossia la loro concorde volontà. Ma un rapporto patrimoniale può essere costituito,
regolato od estinto in molteplici altri modi: sono molti, infatti, i modi d’acquisto della proprietà
diversi dal contratto, così come molti sono i modi da cui le obbligazioni possono sorgere, oltre che
da contratto, da fatto illecito o da altri atti o fatti (art. 1173).
In ogni caso, fra i tanti modi di costituzione, regolazione od estinzione dei rapporti patrimoniali, il
contratto rappresenta sicuramente quello per eccellenza e con esso fondamentale è il ruolo svolto
dalla volontà: le parti contraenti si accordano “per costituire, regolare od estinguere tra loro un
rapporto giuridico patrimoniale”. Per definire questo ruolo della volontà si parla di libertà od
autonomia contrattuale, che si manifesta sotto un duplice aspetto, negativo e positivo:
a) libertà od autonomia contrattuale significa, in senso negativo, che nessuno può essere costretto
ad eseguire prestazioni a favore di altri contro o senza la propria volontà, a meno che non è
vincolato dalla legge. Il contratto infatti vincola solo chi ha partecipato all’accordo;
b) libertà od autonomia contrattuale significa, in senso positivo, che le parti con un proprio atto
di volontà, possono costituire o regolare od estinguere rapporti patrimoniali, cioè possono
disporre dei propri beni e possono obbligarsi ad eseguire prestazioni a favore di altri.
L’autonomia, in senso positivo si manifesta in varie forme:
 libertà di scelta fra i diversi tipi di contratto previsti dalla legge, a seconda degli scopi che i
privati si prefiggono di raggiungere;
 libertà di determinare il contenuto del contratto, entro i limiti posti dalla legge, art. 1322 c.c.
(autonomia contrattuale: “le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei
limiti imposti dalla legge. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengano ai tipi
aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela
secondo l’ordinamento giuridico”). Ciascuna determinazione delle parti, inserita in un
contratto scritto, si compone di una pluralità più o meno estesa di clausole che nel loro
insieme formano il c.d. regolamento contrattuale. Per “clausola o patto” del contratto
intendiamo ogni determinazione volitiva/della volontà inscindibile, non frazionabile cioè
in ulteriori determinazioni volitive a sé stanti. L’importanza di ciò sta nel fatto che, a
determinati effetti, singole clausole possono ricevere una considerazione normativa
specifica, diversa da quella relativa al contratto nel suo insieme;
 libertà di concludere contratti atipici o innominati (art. 1322 c.c.), ossia di concludere
contratti non corrispondenti ai tipi contrattuali previsti dal codice civile o da altre fonti
normative, ma ideati e praticati dal mondo degli affari. Molti degli odierni contratti tipici
sono infatti nati e diffusi nella pratica degli affari prima che la legge li prevedesse e li
regolasse.
Sotto quest’aspetto la libertà contrattuale assume un duplice significato:
 è libertà di perseguire finalità diverse da quelle perseguibili con i contratti tipici;
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è libertà di perseguire con modalità contrattuali atipiche finalità già perseguibili con
contratti tipici.
I contratti atipici sono validi purchè siano diretti “a realizzare interessi meritevoli di tutela
secondo l’ordinamento giuridico” e questo requisito di validità dei contratti atipici è
fondamentalmente il requisito essenziale dei contratti che è la causa. Essi sono sottoposti,
come i contratti tipici, alle norme sui contratti in generale (art. 1323), eventualmente
integrate con le norme dettate per il tipo contrattuale con il quale presentano affinità e sono
infine regolati, per il resto, dalle loro clausole contrattuali;
 è libertà di utilizzare contratti tipici per realizzare finalità atipiche oppure di combinare
fra loro varie figure contrattuali, tipiche o atipiche, per realizzare interessi ulteriori e
diversi da quelli sottostanti a ciascun contratto isolatamente considerato.

I limiti all’autonomia contrattuale
Circa i limiti all’autonomia contrattuale lo stesso art. 1322 c.c. stabilisce che le parti possono
liberamente determinare il contenuto del contratto “nei limiti imposti dalla legge”.
I limiti all’autonomia contrattuale si manifestano essenzialmente sotto due aspetti:
- limiti imposti all’autonomia contrattuale di entrambe le parti. E’ il caso del c.d. contratto isolato,
ovvero il contratto che è frutto di trattative avvenute fra le parti contraenti, nel corso delle quali
discutono sulle condizioni che formeranno il contenuto del futuro contratto;
- limiti imposti all’autonomia contrattuale di una delle parti e, quindi, a vantaggio dell’altra parte.
E’ il caso del c.d. contratto in serie (detto anche contratto standard o contratto di massa o contratto
per adesione), contrapposto al primo, ovvero il contratto il cui contento è interamente
predeterminato da una delle parti e l’altra non può trattare: può solo “prendere o lasciare”, quindi
o concludere il contratto così come è, o rifiutarsi di concluderlo.
Il contratto in serie trova maggiore applicazione nella produzione industriale su scala di bei o di
servizi, in quanto così come i beni o i servizi sono prodotti o sono distribuiti secondo procedimenti
di produzione o di distribuzione uniformi, così vengono regolati in modo uniforme i rapporti
contrattuali con i consumatori dei prodotti o con gli utenti dei servizi. Ciò che però è importante è
l’efficacia che la legge attribuisce alle condizioni generali di contratto:
- condizioni predisposte in modo uniforme da uno dei contraenti e destinate a valere per
tutti i contratti che verranno conclusi con i consumatori o con gli utenti;
- condizioni efficaci nei confronti dell’altro contraente, se al momento della conclusione del
contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza,
art. 1341 c.c. (condizioni generali di contratto: “le condizioni generali di contratto predisposte
da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se al momento della conclusione del
contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando l’ordinaria diligenza. In ogni
caso non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che
stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere
dal contratto o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente
decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei
rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie o deroghe alla
competenza dell’autorità giudiziaria”). La conoscenza effettiva del regolamento contrattuale è
qui sostituita dalla mera conoscibilità, essendo l’altro contraente vincolato anche se, in
fatto, non lo aveva conosciuto e non poteva, quindi, averlo voluto.
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Ci si domanda quale sorte subisca il contratto qualora il predisponente non abbia reso conoscibili
le condizioni generali all’accettante:
a) se viene travolto l’intero contratto, o
b) se viene travolta solo la parte di esso che è retta da condizioni generali.
A favore della prima soluzione a), si potrebbe argomentare che, poiché la conoscibilità sostituisce
la conoscenza effettiva, e poiché questa è presupposto necessario del consenso, la non conoscibilità
provoca le medesime conseguenze della mancata conoscenza, e quindi della mancata volizione del
contratto, cioè impedisce la formazione stessa del contratto. Una simile equiparazione della
conoscibilità alla conoscenza non è però sostenibile senza incorrere in artificiose finzioni, perché la
conoscibilità non può essere in assoluto equiparata ad una conoscenza presunta, di conseguenza la
non conoscibilità non produce necessariamente gli stessi effetti di una mancata conoscenza e di un
mancato consenso.
Lo stesso art. 1341 c.c. suggerisce allora l’altra soluzione b), la quale fa riferimento, nel I comma
(..le condizioni generali di contratto predisposte da uno dei contraenti sono efficaci nei confronti dell’altro, se
al momento della conclusione del contratto questi le ha conosciute o avrebbe dovuto conoscerle usando
l’ordinaria diligenza..) all’efficacia delle condizioni generali di contratto, e nel II comma (..In ogni caso
non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore
di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, facoltà di recedere dal contratto o di sospenderne
l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze, limitazioni alla facoltà di opporre
eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi, tacita proroga o rinnovazione del
contratto, clausole compromissorie o deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria..) all’efficacia delle
“clausole contenenti condizioni generali” c.d. vessatorie.
Secondo l’opinione tradizionale, conforme al generale principio dell’art. 1419 c.c., l’intero contratto
dovrà intendersi travolto se l’una o l’altra parte potranno provare che la presenza o l’assenza delle
clausole recanti le condizioni generali era circostanza determinante del loro consenso.
Il produttore di beni o di servizi su larga scala è posto dall’art. 1341 nella condizione di “dettare
legge” alla massa di consumatori. La sua volontà è unilateralmente vincolante, visto che egli non
deve, secondo i principi generali sull’accordo delle parti, ricercare il loro consenso ma ha solo
l’onere di far conoscere loro la propria volontà.
Sembrerebbe quindi che il contratto in serie, così come analizzato, cesserebbe di essere espressione
dell’autonomia contrattuale di entrambe le parti per diventare qualcosa di molto simile alla legge,
ovvero vincolante per i suoi destinatari non appena costoro siano posti in condizione di
conoscerne il contenuto. C’è, però, una sostanziale differenza rispetto alla legge, visto che un atto
di volontaria adesione al contratto in serie è pur sempre necessario, giacché il consenso del singolo,
superfluo per la determinazione del contenuto del contratto, è indispensabile per la conclusione
del contratto; anche se è spesso un atto di adesione solo formalmente volontario ma
sostanzialmente non libero: di fronte al contratto predisposto dalla grande impresa l’utente non ha
infatti alcuna facoltà di scelta perché dovendo aderire al contratto, per necessità salvo rinunciare ai
beni o ai servizi che la grande impresa gli offre. Dunque il consumatore o l’utente è, rispetto al
contraente che predispone le condizioni generali del contratto, un contraente debole che la legge si
preoccupa di proteggere; e proprio il II comma dell’art. 1341 c.c. prevede alcune eccezioni alla
regola posta dal I comma, ovvero le c.d. “clausole vessatorie o onerose”debbono essere
specificamente approvate per iscritto (quindi, conosciute e volute, non solo conoscibili). Dobbiamo
però precisare che sono soggette all’approvazione espressa non le clausole vessatorie in quanto
tali, ma solo quelle predisposte per i contratti in serie e destinate a regolare una serie indefinita di
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rapporti. L’elenco legislativo delle clausole vessatorie è comunemente inteso come tassativo,
suscettibile d’interpretazione estensiva, ma non d’applicazione analogica e le modalità
dell’approvazione espressa, non previste dall’art. 1341, II comma, sono state di conseguenza
determinate dalla giurisprudenza, la quale ha stabilito che non basta un’unica sottoscrizione
onnicomprensiva e priva di riferimenti specifici alle singole clausole vessatorie ma bisogna
richiamare le singole clausole onerose espressamente approvate, con l’indicazione del numero e
del suo contenuto o anche del solo numero, affinché il contraente debole possa rendersi conto del
regolamento contrattuale predisposto dalla controparte.
In mancanza di sottoscrizione, non è ammessa la prova della conoscenza della clausola; mentre in
presenza della sottoscrizione, non è ammessa la prova dell’ignoranza della clausola. La mancata
sottoscrizione rende inefficace la clausola non sottoscritta e si tratta d’inefficacia assoluta, che può
essere fatta valere anche dalla parte che ha predisposto il contratto e può essere rilevata d’ufficio.
Infine per il contratto in serie vengono spesso predisposti moduli o formulari, che al momento
della conclusione del contratto vengono riempiti con il nome dell’altro contraente e gli estremi del
contratto mancanti nel modulo. Ulteriori e più rigorose norme a tutela del contraente debole,
relative alle clausole vessatorie a danno della persona fisica consumatore finale sono state
introdotte dal Codice del consumo.
Obbligo a contrarre
Altro limite all’autonomia contrattuale di una delle parti può derivare da norme di legge che, in
date situazioni, gli impongono di concludere un contratto, privandolo della libertà di scelta se
contrattare o non contrattare. A volte il limite all’autonomia contrattuale è posto a carico del
contraente forte ed a protezione del contraente debole: è l’ipotesi, prevista dall’art. 2597 c.c.
(obbligo di contrattare nel caso di monopolio: “chi esercita un’impresa in condizione di monopolio
legale ha l’obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa,
osservando la parità di trattamento”), dell’obbligo di contrattare del monopolista. Chi esercita
un’impresa in condizioni di monopolio legale “ha l’obbligo di contattare con chiunque richieda le
prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento”. Qui il limite
all’autonomia contrattuale non riguarda il contenuto del contratto, ma investe la scelta se
concluderlo o no, scelta che è libera per l’utente ma non per l’imprenditore che, di fronte all’altrui
proposta, è tenuto ad esprimere la propria accettazione non potendosi rifiutare, come può invece
fare il comune privato in forza della propria autonomia contrattuale, senza dover motivare il
rifiuto. Egli è tenuto a giustificare le ragioni del diniego di prestazione e, in ogni caso, a rispettare
la parità di trattamento, dovendo soddisfare le varie richieste non secondo il proprio arbitrio, ma
secondo l’ordine delle richieste o secondo altri obiettivi criteri, come quelli della maggiore urgenza
o della maggiore necessità. Sono principi che proteggono gli utenti di fronte all’imprenditore
monopolista: valgono, però, solo nel caso di monopolio legale, ossia autorizzato dalla legge; non,
invece, nel caso di monopolio di fatto, anche se pure in questo caso l’utente potrebbe rivendicare
uguale protezione.
Il contratto imposto
In altri casi ancora l’autonomia contrattuale può essere limitata per entrambi i contraenti, come
quando il limite è posto a tutela di superiori interessi, ad es. la determinazione, da parte dei
pubblici poteri, dei prezzi di vendita di beni di largo consumo o delle tariffe di determinati servizi
pubblici. L’organo pubblico che, in forza di specifiche norme speciali, provvede alla periodica
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variazione dei prezzi e delle tariffe è il Comitato interministeriale prezzi (Cip). Gli interessi protetti
sono, in questi casi, quelli connessi alla gestione dell’economia pubblica, come il controllo del costo
della vita, la lotta all’inflazione, lo sviluppo delle attività produttive, ecc.
Integrazione del contratto e le clausole d’uso
Da quanto detto risulta evidente che, il contenuto del contratto non è solo frutto “dell’accordo
delle parti”, ma è piuttosto il risultato di una pluralità di fonti.
Sono essenzialmente quattro le fonti del regolamento contrattuale cui si fa riferimento:
a) la volontà espressa dalle parti;
b) la legge;
c) gli usi o consuetudini, applicati/e per le materie non regolate dalla legge e per le materie dalla
legge regolate, ma solo se richiamati espressamente;
d) l’equità, che differisce sia dalla legge sia dagli usi perché non è, come questi fonte di diritto
oggettivo, ma è frutto di determinazioni del giudice, destinate al pari della legge e degli usi a
formare il contenuto. L’equità cui allude l’art. 1374 c.c. (integrazione del contratto: “il contratto
obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano
secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità) è quella cui ricorre il giudice per contribuire
a determinare il contenuto del contratto e deve distinguersi fra due diverse funzioni:
- equità integrativa del contratto, che ricorre quando la legge consente al giudice di
rimediare ad un’incompleta determinazione del contenuto contrattuale, esprimendo stime,
fissando prezzi, assegnando valori alle prestazioni delle parti (es. la determinazione
dell’oggetto del contratto, che il terzo ha omesso o eseguito in modo errato; ma anche tutti
gli altri casi nei quali la legge, pur senza menzionare il criterio dell’equità, attribuisce al
giudice il compito d’integrare il contratto);
- equità correttiva, che ricorre quando il giudice non si limita a rimediare ad un’incompleta
determinazione pattizia del contenuto contrattuale, ma si cura di modificare la stessa
determinazione pattizia, ove questa risulti iniqua. Tipico è il caso della riduzione della
penale eccessiva di cui all’art. 1384 c.c. (riduzione della penale: “la penale può essere diminuita
equamente dal giudice, se l’obbligazione principale è stata eseguita in parte o se l’ammontare della
penale è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva
all’adempimento”), dove la nullità è parziale, in quanto la clausola è nulla nei limiti della sua
eccessività, restando invece valida per la misura in cui appare equa. L’equità contrattuale si
presenta dunque come uno dei due strumenti principale con cui regolare la discrezionalità
contrattuale, assieme a quello della buona fede contrattuale, nelle sue molteplici forme
legislative: buona fede nella formazione del contratto, nell’interpretazione del contratto,
nell’esecuzione del contratto, ecc.
Infine possiamo distinguere un’ulteriore tipologia di equità che è quella correttiva, con la quale il
giudice può correggere il contenuto del contratto, sostituendo la clausola contraria a buona fede
con una diversa clausola ad essa conforme.
Tra le diverse fonti del regolamento contrattuale, appena analizzate è possibile stabilire una sorta
di gerarchia:
- gli usi e l’equità assumono carattere suppletivo e valgono solo “in mancanza” della volontà
espressa dalle parti o di disposizioni di legge;
- la volontà delle parti rispetto agli usi prevale per l’evidente considerazione che le norme
consuetudinarie non hanno mai natura imperativa, e sono sempre derogabili per accordo
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fra le parti. Rispetto all’equità, ed in particolare quella integrativa, la volontà invece
desiste/recede;
- la legge invece, se prima lasciava il vertice della gerarchia alla volontà delle parti, adesso è
concepita come autonoma fonte del regolamento contrattuale, concorrente con la volontà
delle parti su un piano di parità, e vincolante per i contraenti, indipendentemente dal fatto
che la conoscessero al momento del contratto.
La generale conseguenza che deriva da tale gerarchia è che la violazione delle norme di legge o
consuetudinarie e delle determinazioni equitative del giudice dà luogo a responsabilità
contrattuale, e non a responsabilità extracontrattuale, perché chi le viola ha violato il contratto, non
già la legge o l’uso o il provvedimento del giudice. Così la violazione della clausola generale sulla
buona fede nell’esecuzione del contratto dà luogo, secondo un’ormai costante giurisprudenza, ad
un inadempimento contrattuale, e può comportare risoluzione del contratto per inadempimento.
Le clausole d’uso
Diversi dagli sui normativi, prima visti tra le fonti integrative del contratto, sono gli usi contrattuali
o clausole d’uso, che si considerano inserite nel contratto se risulta che sono state volute dalle parti
(art. 1340 c.c.).
Gli usi normativi sono norme non scritte di diritto oggettivo vincolanti per i contraenti, e
vincolanti anche per i contraenti ignari di essi al momento della conclusione del contratto.
Gli usi contrattuali sono invece clausole non scritte del contratto, vincolanti per i contraenti alla
stessa maniera delle clausole scritte; sono insomma pratiche contrattuali abituali applicate in un
dato luogo o in un dato settore economico (nel caso della vendita se si comperano cose da un
abituale venditore “si presume che le parti abbiano voluto riferirsi al prezzo normalmente
praticato dal venditore”).
Ciò che però importante sottolineare è la loro efficacia vincolante che è propria delle clausole
contrattuali, e che pertanto, a differenza degli usi normativi, prevale sulle norme dispositive di
legge. Tutt’altra cosa sono le clausole di stile, ossia le clausole meccanicamente ripetute in moduli
contrattuali a stampa, oppure le clausole che, altrettanto meccanicamente, il notaio ripete nel
redigere contratti per atto pubblico.
CAP. 4°: I REQUISITI DEL CONTRATTO: ACCORDO DELLE PARTI, CAUSA, OGGETTO E
FORMA
I requisiti del contratto
Il codice civile quattro distinti “requisiti del contratto (art. 1325):
1) l’accordo delle parti,
2) la causa,
3) l’oggetto,
4) la forma.
Analizziamoli singolarmente.
L’accordo: totale e parziale
1)L’accordo delle parti è l’incontro delle manifestazioni o dichiarazioni di volontà di ciascuna di
esse: il contratto è perfezionato solo se, e solo quando, si raggiunge piena e totale coincidenza fra le
dichiarazioni di volontà provenienti dalle diverse parti contraenti. Un accordo solo parziale, che le
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parti abbiano raggiunto nel corso della trattativa, non ha alcun effetto vincolante, anche se le parti
hanno annotato i punti di convergenza in un apposito documento: c.d. minuta di contratto; il
mancato accordo sui punti ancora da concordare farà venire meno anche quelli già concordati,
salva l’eventuale responsabilità precontrattuale, per violazione del principio di buona fede nelle
trattative, art. 1337 c.c. (trattative e responsabilità precontrattuale: “le parti, nello svolgimento delle
trattative e nella formazione del contratto, devono comportarsi secondo buona fede”), della parte che abbia
senza giustificazione interrotto la trattativa contrattuale.
L’accettazione vale come tale, solo se è in tutto e per tutto conforme alla proposta, se non è
conforme ha il valore di nuova proposta, art. 1326 c.c. (conclusione del contratto: “il contratto è
concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte.
L’accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in quello ordinariamente necessario
secondo la natura dell’affare o secondo gli usi. Il proponente può ritenere efficace l’accettazione tardiva,
purché ne dia immediatamente avviso all’altra parte. Qualora il proponente richieda per l’accettazione una
forma determinata, l’accettazione non ha effetto se è data in forma diversa. Un’accettazione non conforme
alla proposta equivale a nuova proposta”) e richiede l’accettazione dell’originario proponente. Queste
regole inducono la giurisprudenza a ritenere che il contratto non è perfezionato se l’accettazione
escluda un elemento contenuto nella proposta o contenga un elemento in essa non presente, sia
che si tratti di elemento accessorio e non essenziale. Di qui la più generale deduzione che non è
sufficiente, per la conclusione del contratto, il solo accordo raggiunto sui punti essenziali ma è
necessario l’accordo raggiunto su ogni elemento del contratto, sia esso essenziale oppure
secondario.
Il giudizio sull’essenzialità o non essenzialità delle singole clausole è normalmente sottratto al
giudice, anche se la giurisprudenza glielo concede in sede di ricostruzione della comune
intenzione delle parti, ed in tal caso è la volontà delle parti, seppur ricostruita dal giudice, il
criterio con cui decidere se il contratto si è perfezionato, avendo le stesse parti valutato come non
essenziali gli elementi ancora da negoziare, tali perciò da non impedire la conclusione del
contratto.
L’accordo: espresso e tacito
Il contratto può essere concluso:
- in modo espresso, quando la volontà delle parti viene esplicitamente dichiarata, per iscritto
o oralmente o con qualsiasi altro segno;
- in modo tacito, quando la volontà delle parti, o di una di esse, non viene dichiarata
esplicitamente, ma si desume dal loro comportamento, c.d. “comportamento concludente”.
Il loro comportamento corrisponde all’esecuzione di un dato contratto e, perciò, lascia
presupporre che esse abbiano voluto concluderlo. La supposizione si basa
sull’incompatibilità del comportamento con una volontà contraria e caso tipico di contratto
tacito è la società di fatto: più persone si comportano, di fatto, come soci senza avere mai
dichiarato, né per iscritto, né oralmente, la volontà di concludere un contratto di società (o
più semplicemente contratto tacito è, nell’esperienza quotidiana, prelevare nel
supermercato merci che vi sono esposte, concludendo tacitamente un contratto di vendita).
La formazione tacita del contratto o manifestazione tacita dell’accordo può riguardare o tutte le
parti del contratto o alcune soltanto; un’ipotesi di accordo modificativo tacito è la proroga tacita
della società di persone, la quale interviene “quando, decorso il tempo per cui fu contratta, i soci
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continuano a compiere le operazioni sociali”. A volte, invece, l’ammissibilità di una tacita
manifestazione di volontà è dalla legge esclusa: così la volontà di liberare il debitore deve essere
espressamente dichiarata nella delegazione, nell’espromissione e nell’accollo (che sono modalità di
circolazione dei crediti-debiti).
Alla luce di ciò il silenzio, in sé e per sé, non ha valore giuridico di tacito consenso, può assumerlo
solo se le circostanze che lo accompagnano sono tali da attribuirgli il significato di comportamenti
concludenti. Caso in cui la legge attribuisce al silenzio valore di consenso è, in materia di contratti
in generale, quello del contratto con obbligazioni del solo proponente, art. 1333 c.c. (contratto con
obbligazioni del solo proponente: “la proposta diretta a concludere un contratto da cui derivino
obbligazioni solo per il proponente è irrevocabile appena giunge a conoscenza della parte alla quale è
destinata.
Il destinatario può rifiutare la proposta nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi. In mancanza
di tale rifiuto il contratto è concluso”).
La comune valutazione è quindi quella secondo cui il silenzio vale sempre e comunque come
consenso ed è, perciò, sottoposto alle impugnative contrattuali per vizi del consenso o per
incapacità. Una diversa opinione, elaborata dalla dottrina, è invece quella secondo cui il silenzio o
il comportamento omissivo “non è mai consenso”, ma è stata disattesa.
L’accordo tra persone lontane
Ancora l’accordo si può formare:
- in modo simultaneo fra contraenti presenti,
- per fasi successive fra contraenti lontani, le dichiarazioni di volontà delle diverse parti
prendono, in tal caso, il distinto nome di proposta ed accettazione.
La proposta è la dichiarazione di volontà di chi assume l’iniziativa del contratto, es. la
dichiarazione di voler vendere una data cosa per un dato prezzo che l’aspirante venditore rivolge,
per lettera o altrimenti, ad un possibile compratore.
L’accettazione è la dichiarazione di volontà che il destinatario della proposta rivolge, a sua volta,
al proponente.
Il destinatario della proposta è pienamente libero di accettarla o di respingerla, libertà che è tipica
dell’autonomia contrattuale. Il contratto è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta
riceve notizia dell’accettazione dell’altra parte, art. 1326 c.c. (conclusione del contratto: “il contratto
è concluso nel momento in cui chi ha fatto la proposta ha conoscenza dell’accettazione dell’altra parte.
L’accettazione deve giungere al proponente nel termine da lui stabilito o in quello ordinariamente necessario
secondo la natura dell’affare o secondo gli usi. Il proponente può ritenere efficace l’accettazione tardiva,
purché ne dia immediatamente avviso all’altra parte. Qualora il proponente richieda per l’accettazione una
forma determinata, l’accettazione non ha effetto se è data in forma diversa. Un’accettazione non conforme
alla proposta equivale a nuova proposta”). Ma l’accettazione, per essere tale, deve pervenire entro il
termine stabilito dal proponente o, in mancanza, in un tempo che possa ritenersi ragionevole (non
certo dopo anni) in relazione alla natura dell’affare o secondo gli usi (art. 1326), deve assumere la
forma richiesta dal proponente e deve essere conforme alla proposta valendo altrimenti come
nuova proposta.
La conclusione del contratto è retta, nel nostro sistema, dal “principio della cognizione”, che i
compilatori del codice civile hanno preferito all’opposto “principio della spedizione”, vigente nei
paesi di common law ed in Francia.
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Secondo il principio della spedizione il contratto è concluso quando c’è contemporanea presenza di
volontà conformi, dunque è concluso nel tempo e nel luogo in cui il destinatario della proposta
spedisce la propria accettazione, con la conseguenza che il vincolo contrattuale si perfeziona prima
ancora che il proponente ne abbia conoscenza.
Il principio della cognizione richiede, invece, che ciascuna delle parti abbia conoscenza della
corrispondente volontà dell’altra e ciò perché non si può ammettere che un soggetto resti
volontariamente obbligato ad un altro, senza avere prima la conoscenza dell’esistenza del vincolo;
coscienza che si acquista appunto con la pervenuta notizia della volontà di aderire/accettare alla
proposta. Di fatto il principio della cognizione addossa all’accettante il rischio del ritardo nella
trasmissione della sua risposta: il ritardo offre al proponente un ulteriore lasso di tempo per
pentirsi della proposta e revocarla. In questo lasso di tempo l’accettante è, però, protetto in qualche
modo dalla norma secondo la quale, se egli aveva in buona fede intrapreso l’esecuzione del
contratto, il proponente è tenuto ad indennizzarlo delle spese e delle perdite subite per l’iniziata
esecuzione (art. 1328). Un principio intermedio fra principio della cognizione e principio della
spedizione è il principio della ricezione, vigente nei paesi dell’area tedesca, in forza del quale il
contratto è concluso nel momento in cui l’accettazione è pervenuta all’indirizzo del proponente,
mentre è irrilevante che questi ne abbia avuto, o potuto avere, conoscenza. La “conoscenza
dell’accettazione”, richiesta dall’art. 1326, è convertita in mera conoscibilità dall’art. 1335 c.c.
(presunzione di conoscenza: “la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta a
una determinata persona si reputano conosciute nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario,
se questi non prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia”), per il quale
l’accettazione si reputa conosciuta quando giunge all’indirizzo del proponente, se questi non
prova d’essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia. Sicché il principio
tedesco della ricezione differisce dal principio della cognizione solo perché il proponente non è
ammesso a dare la prova che l’accettazione, sebbene pervenuta al suo indirizzo, è stata da lui senza
colpa ignorata. Particolari tecniche di formazione dell’accordo riguardano:
a) i contratti con obbligazioni del solo proponente, dove il silenzio del destinatario della proposta è
valutato come tacita accettazione ed il contratto si perfeziona se, entro il termine richiesto dalla
natura dell’affare o dagli usi, il destinatario non rifiuti la proposta (art. 1333);
b) i contratti che ammettono esecuzione prima della risposta dell’accettante. Per l’art. 1327 c.c.
(esecuzione prima della risposta dell’accettante: “ qualora, su richiesta del proponente o per la natura
dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è
concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione. L’accettante deve dare prontamente avviso
all’altra parte della iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto al risarcimento del danno”) il proponente
può chiedere o la natura dell’affare o gli usi possono ammettere che la prestazione dell’altra parte
sia eseguita senza una preventiva risposta. È, nel linguaggio commerciale, il caso dell’ordine che
un’impresa rivolge ad un’altra impresa ed al quale fa senz’altro seguito l’inoltro della merce
ordinata. Qui “il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione”.
Qui c’è accettazione tacita della proposta per fatto concludente, qual è l’iniziata esecuzione della
prestazione e c’è, in deroga al generale principio della cognizione, un’eccezionale applicazione del
principio della spedizione, per effetto della quale “non si è più richiesto il requisito dello scambio
delle sue dichiarazioni”. S’intende poi che il contratto è sottoposto alla regola generale dell’art.
1326 se, nonostante la natura dell’affare o gli usi, il proponente abbia chiesto espressamente la
preventiva accettazione della controparte.
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Un più generale contemperamento fra principio della cognizione e principio della ricezione è
attuato dall’art. 1335, ai sensi del quale la proposta e l’accettazione, come anche la loro revoca e, in
genere, ogni dichiarazione diretta a persona determinata, si reputano conosciute nel momento in
cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non prova di essere stato, senza sua colpa,
nell’impossibilità di averne notizia. La conoscenza effettiva del’accettazione è così sostituita dalla
sua conoscibilità ed p imposto al proponente l’onere di provare che l’accettazione, sebbene giunta
al suo indirizzo, è stata da lui incolpevolmente ignorata. La proposta contrattuale può essere
rivolta ad un destinatario determinato, ma può anche assumere la forma della proposta o offerta al
pubblico: chiunque, in tal caso, può esprimere al proponente la propria accettazione, con l’effetto
di perfezionare il contratto nel momento in cui questa giunga a conoscenza del proponente (art.
1336). Può accadere che la morte colpisca una delle parti nel corso della formazione del contratto,
prima che questo sia concluso. La morte del proponente toglie ogni efficacia alla proposta ( e
all’accettazione non ancora pervenuta al proponente): il destinatario di questa non può comunicare
all’erede la propria accettazione, giacché la morte ha privato il proponente della possibilità,
altrimenti spettante gli, di revocare la proposta. Alla regola fa eccezione la proposta irrevocabile
8art. 1329), che è vincolante per l’erede del proponente defunto. Altra eccezione è relativa al caso
in cui proponente o accettante sia un imprenditore non piccolo: se l’imprenditore nuore prima
della conclusione del contratto, la sua proposta o la sua accettazione contrattuale conserva efficacia
(art. 1330), ed il contratto sarà concluso quando il suo successore avrà ricevuto notizia
dell’accettazione dell’altra parte o quando questa avrà ricevuto notizia dell’accettazione
dell’imprenditore nel frattempo defunto.
Proposta contrattuale ed invito a proporre, adesione al contratto plurilaterale, revoca della
proposta, patto di opzione e patto di prelazione
Dalla vera e propria proposta contrattuale bisogna distinguere il semplice invito a proporre (c.d.
invitatio ad offerendum). È tale, anzitutto, una dichiarazione che non contenga tutti gli estremi
essenziali del contratto da concludere. Un cartello con la semplice scritta “vendesi”, posto su una
casa non può certo vincolare l’aspirante venditore: vale solo come invito, rivolto al pubblico, a
formulare proposte contrattuali o, comunque, ad iniziare trattative per la vendita. L’art. 1336
autorizza questa diversa qualificazione della dichiarazione al pubblico come semplice invito a
proporre, anche se contenga gli estremi essenziali del contratto: essa vale come proposta
contrattuale “salvo che risulti diversamente dalle circostanze o dagli usi”. Una vera e propria
offerta al pubblico si deve, piuttosto, ravvisare nella vendita a mezzo di macchine automatiche e
nella vendita a self service: qui il sistema di vendita prescelto esclude, esso stessi, ogni possibilità
di diniego del venditore. Per le vendite all’asta o al pubblico incanto vale la medesima conclusione.
Altro discorso vale per le aste televisive: le offerte espresse per mezzo del telefono attengono alla
fase delle trattative precontrattuali e non vincolano ancora l’offerente. Una specifica forma di
proposta o d’accettazione contrattuale è l’adesione di nuove parti, quando sia consentita, ad un già
formato contratto di scambio o, più frequentemente, plurilaterale: l’adesione di nuovi membri ad
un’associazione o di nuovi soci ad una cooperativa, la sottoscrizione delle azioni di nuova
emissione nel caso dell’aumento di capitale di una società per azioni. Nei contratti plurilaterali a
struttura aperta, destinati per loro natura a successive adesioni l’adesione di nuove parti non
implica modificazione del contratto originario. La proposta di adesione, detta anche richiesta
d’ammissione, deve essere rivolta all’organo costituito per l’attuazione del contratto deve essere
rivolta all’organo costituito per l’attuazione del contratto o, in mancanza, a tutti gli originari
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contraenti (art. 1332) ed ha la medesima natura dell’originaria partecipazione al contratto:
l’aderente si pone, al pari delle parti originarie, nella posizione di contraente. L’adesione si
perfeziona nel momento dell’incontro delle dichiarazioni di volontà dell’aderente e
dell’associazione: momento che sarà diverso a seconda che l’iniziativa dell’adesione sia assunta
dall’aderente oppure dall’associazione e che coinciderà, nel primo caso, con il momento in cui
all’aderente venga notificata la deliberazione di ammissione oppure, nel secondo caso, con quello
in cui l’associazione riceva notizia dell’accettazione dell’aderente (art. 1326). A loro volta, l’organo,
o gli originari contraenti, sono liberi di accettare o rifiutare la richiesta d’ammissione del nuovo
membro, senza essere tenuti a motivare la ragione della scelta, che è atto di autonomia
contrattuale, incensurabile ed insindacabile. La clausola dell’atto costitutivo e dello statuto che
prevede le condizioni per l’ammissione dei nuovi associati, si rivolge agli organi interni
dell’associazione ed impone loro di attenersi, nell’accoglimento o nella reiezione delle domande
d’ammissione, ai criteri da essa previsti. La clausola non è, invece, rivolta ai terzi e non vale quale
offerta contrattuale al pubblico. Significativo al riguardo è l’art. 2528 c.c., il quale stabilisce, in
rapporto alle società cooperative, che “l’ammissione di un nuovo socio è fatta con deliberazione
degli amministratori su domanda dell’interessato”; norma, questa, che colloca l’aspirante socio
nella posizione di proponente ed attribuisce alla società la facoltà d’esprimere o di non esprimere,
attraverso la “deliberazione degli amministratori”, l’accettazione contrattuale. Nel contratto
plurilaterale a struttura chiusa l’adesione di nuove parti richiede una previa modificazione del
contratto: a norma dell’art. 2252 c.c. (modificazioni del contratto sociale: “il contratto sociale può
essere modificato soltanto con il consenso di tutti i soci, se non è convenuto diversamente”) nelle società di
persone; secondo la tecnica dello’aumento di capitale nelle società di capitali (art. 2438 ss. c.c.). La
deliberazione assembleare di aumento del capitale è, al tempo stesso, deliberazione modificativa
del contratto di società ed offerta al pubblico ex art. 1336. Dall’art. 2439 risulta che l’importo del
capitale in aumento è, di regola, determinante della volontà espressa della deliberazione di
aumento del capitale: l’offerta al pubblico potrà, perciò, dirsi accettata solo se l’intero aumento
deliberato venga sottoscritto. Ne deriva che ciascuna sottoscrizione può rivelarsi o quale
accettazione conforme alla proposta contrattuale o quale accettazione non conforme alla proposta.
La sottoscrizione dell’aumento di capitale, quando è effettuata da nuovi soci, avendo i vecchi soci
rinunciato al diritto di opzione o avendolo ceduto, tuttavia, la medesima forma imposta per la
costituzione della società, che a questo modo si rivela quale forma dell’atto costitutivo in quanto
tale, non quale forma del contratto di società di capitali.
Fino al momento in cui il contratto non sia concluso, le parti conservano la propria autonomia
contrattuale: la proposta e l’accettazione possono, fino a quel momento, essere revocate da chi le ha
formulate. La proposta, perciò, può essere revocata fino a che al proponente non sia giunta notizia
dell’accettazione, se si tratta di contratti retti dalla regola generale dell’art. 1326; fino a quando il
destinatario non abbia iniziato l’esecuzione, se si tratta di contratti assoggettabili alla particolare
regola dell’art. 1327. L’accettazione, a sua volta, è revocabile purché la revoca giunga a conoscenza
del proponente prima dell’accettazione (art. 1328). La proposta di contratto con obbligazioni del
solo proponente è, invece, revocabile solo se la revoca giunga a conoscenza del destinatario prima
della proposta (art. 1333). Con la revoca della proposta il proponente riacquista la propria piena
libertà contrattuale; ma a questi effetti, non è sempre necessaria una dichiarazione di revoca. Così,
se il destinatario emette un’accettazione non conforme alla proposta e, perciò, equivalente a nuova
proposta, l’originario proponente riacquista la propria libertà contrattuale, essendo libero
d’accettare o meno la controproposta, senza necessità di revocare l’originaria proposta. Il
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medesimo effetto è prodotto dal rifiuto espresso della proposta da parte del destinatario, che
dispensa il proponente dall’attesa del termine di cui all’art. 1326, II comma (c.d. caducazione
automatica della proposta per decorso del tempo). Si ammette che la proposta possa essere
revocata tacitamente, con l’assunzione di un comportamento concludente, con l’intrapresa
trattativa con altre parti. Un moderno sistema di vendita, quello della vendita a domicilio o “porta
a porta”, ha sollevato il problema di una più adeguata tutela di chi si è indotto a sottoscrivere un
contratto per sollecitazione di un abile venditore che non gli lasci tempo per una ponderata
decisione. Per le vendite a domicilio di valori mobiliari la l. 216/1974 aveva posto la regola
secondo la quale l’efficacia del contratto resta sospesa per 5 giorni, entro i quali il compratore può
comunicare il suo “recesso” dal contratto; tale termine è stato esteso a 7 giorni dal Testo Unico
sull’intermediazione finanziaria del 1998. Questo ius poenitendi del compratore è stato poi esteso ad
ogni vendita “porta a porta” dal d.lgs. n. 50/1992 relativo ai contratti negoziati fuori dei locali
commerciali. In questa materia ci si esprime impropriamente in termini di recesso: si deve dire
piuttosto che la conclusione del contratto è temporaneamente sospesa e che la dichiarazione
contrattuale del compratore può, entro 5 o 7 giorni dalla sua formulazione, essere revocata. Altra
norma di tutela del consumatore è introdotta, per i contratti a distanza, ossia stipulati con un
sistema di vendita o di prenotazione di servizi organizzato dal fornitore con tecniche di
comunicazione a distanza, dal d.lgs. n. 185/1999: il consumatore può recedere entro 10 giorni dal
ricevimento dei beni nel caso di vendita, o dal contratto nel caso della prestazione di servizi. Infine,
l’art. 64 del Codice del consumo ha unificato la disciplina dei contratti negoziati fuori dei locali
commerciali e dei contratti a distanza prevedendo per il recesso da entrambi il termine di dieci
giorni. Dalla revoca della proposta va distinto il ritiro della stessa: a differenza della revoca, che è
successiva alla ricezione della proposta e vale ad avvertire il destinatario di non tenere alcun conto
della proposta in itinere. La distinzione fra le due figure assume rilievo sotto questo aspetto: il
ritiro, a differenza della revoca, fa decadere anche una proposta dichiarata come irrevocabile a
norma dell’art. 1329. La proposta può essere dal proponente dichiarata come proposta ferma o
irrevocabile per un dato tempo: il destinatario può, entro questo tempo, accettarla o non accettarla;
il proponente, invece, non può revocare la proposta, che rimane per lui vincolante, così come
formulata, fino a quando non sia scaduto il tempo fissato (art. 1329). Dalla proposta irrevocabile
l’opzione differisce per la sua natura di contratto, e si suole perciò parlare di patto di opzione:
ricorre quando una parte del contratto si vincola verso l’altra e l’altra si limita a prendere atto,
riservandosi la scelta, appunto l’opzione, se accettare o no. Il patto d’opzione, per essere tale, deve
contenere l’intero regolamento contrattuale, in modo che il titolare dell’opzione possa determinare
la conclusione del contratto con la sola sua dichiarazione di accettazione, senza necessità
d’ulteriori dichiarazioni del proponente. Il patto produce, a carico di chi si obbliga, gli stessi effetti
di una proposta irrevocabile (art. 1331), ma con la differenza che è valido anche se non è fissato un
termine per l’accettazione, che potrà essere stabilito dal giudice. Se il titolare dell’opzione, anziché
accettare semplicemente, formula una controproposta, il meccanismo del patto d’opzione non
opera: il contratto di perfezionerà se e quando l’originario proponente accetterà la controproposta.
Talvolta chi acquista per contratto la facoltà d’opzione paga all’altro contraente un corrispettivo,
che è il controvalore dell’utilità che l’altrui impegno irrevocabile: si dice, in tal caso, che si è
“comperata un’opzione” su un bene. L’opzione, essendo un contratto, può essere ceduta: chi la
consegue ha, diversamente dal destinatario di una proposta ferma, la possibilità di negoziarla. Il
patto d’opzione differisce del c.d. contratto preliminare unilaterale, con il quale solo una delle parti
s’impegna a concludere il contratto definitivo: il contratto risultante dal patto d’opzione è già un
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contratto definitivo, destinato a perfezionarsi con l’accettazione dell’optante, mentre il preliminare
unilaterale obbliga il promittente alla conclusione di un futuro contratto, ulteriore rispetto al
preliminare. È qui pertinente ricordare anche il patto di prelazione, con il quale un soggetto si
obbliga nei confronti di un altro per l’eventualità che intenda alienare un proprio bene: prima di
alienarlo ad un terzo egli dovrà eseguire la c.d. denuntiatio, ossia offrirlo, alle stesse condizioni cui
il terzo è disposto ad acquistarlo, a chi ha contrattualmente conseguito il diritto di prelazione. Così
è il patto di preferenza nella somministrazione: con esso il somministrato si obbliga, per non altre 5
anni, a dare la preferenza al somministrante nella stipulazione di un successivo contratto per lo
stesso oggetto, comunicandogli le condizioni propostegli da terzi (art. 1566). Talvolta un diritto di
prelazione è espressamente riconosciuto dalla legge: così, per la locazione d’immobili urbani ad
uso diverso di quello d’abitazione, la l. 392/1978, stabilisce che, nell’ipotesi in cui il locatore
intenda trasferire a titolo oneroso l’immobile locato, deve darne comunicazione al conduttore,
indicando il corrispettivo e le altre condizioni cui la vendita dovrebbe essere conclusa, mentre il
conduttore ha 60 giorni per esercitare il diritto di prelazione. Quando un diritto di prelazione è
riconosciuto dalla legge (prelazione legale), esso è opponibile ai terzi, ed il suo titolare può
riscattare la cosa presso il terzo acquirente. La prelazione legale è, perciò, prelazione reale; la
prefazione contrattuale ha, per contro, efficacia meramente obbligatoria, allo stesso modo del patto
di non alienare (art. 1379), con la conseguenza che la violazione del patto non attribuisce che il
diritto al risarcimento del danno. Tuttavia, il patto di prelazione è fonte di un obbligo a contrarre,
suscettibile d’esecuzione in forma specifica a norma dell’art. 2932: fino a quando la vendita del
terzo non sia opponibile all’avente diritto alla prelazione, questi può agire per l’esecuzione in
forma specifica dell’obbligo di alienare alle condizioni offerte dal terzo, e, se trascrive la domanda
giudiziale prima che il terzo trascriva il suo acquisto, prevarrà su quest’ultimo. In quanto
consentita, sia pure genericamente, dall’art. 2355, III comma, la prelazione tra soci viene
considerata come prelazione legale e, dunque, reale. All’offerta in prelazione s’attribuisce, in ogni
caso, natura di proposta contrattuale, non di semplice invito a proporre: il contratto si perfeziona, a
favore del destinatario dell’offerta in prelazione, nel momento in cui l’accettazione di questo
giunge a conoscenza della controparte.
La causa
2)La concorde volontà delle parti è requisito necessario, ma non sufficiente. Occorre altresì una
causa, che l’art. 1325 c.c. eleva ad ulteriore requisito essenziale dei contratti e, per il richiamo di cui
all’art. 1324 c.c., degli atti unilaterali. La causa è la funzione economico-sociale dell’atto di volontà,
è la giustificazione della tutela dell’autonomia privata. Il bene non passa e l’obbligazione non
sorge, se manca una giustificazione economico-sociale dell’atto di autonomia contrattuale. Così la
causa della vendita (art. 1470 c.c.) è lo scambio di cosa con prezzo. Il trasferimento della proprietà
del bene o l’obbligazione di pagare il prezzo sono l’uno la giustificazione dell’altra: il primo
giustifica l’esborso di danaro del compratore, la seconda giustifica il fatto che il venditore si
spoglia della proprietà di un bene. Ai contratti a titolo oneroso, la cui causa si basa su uno scambio
di prestazioni, si contrappongono i contratti a titolo gratuito, nei quali la prestazione di una delle
parti non trova giustificazione in una controprestazione dell’altra parte. Ma anche i contratti a
titolo gratuito hanno una propria causa: così la causa della donazione, art. 769 c.c. (definizione: “la
donazione è il contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di
questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione”) è lo spirito di liberalità. I contratti
tipici, proprio perché previsti e regolati dalla legge o da altre fonti di diritto oggettivo, hanno tutti
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una causa (c.d. causa tipica) e per essi non si pone il problema di accertare la ricorrenza o no di una
funzione economico-sociale. Bisogna, però, distinguere fra:
- causa in astratto, e
- causa in concreto.
Altro è il modello astratto, altra la concreta realizzabilità del modello: sotto il primo aspetto, se si
tratta di contratto tipico, non può porsi un problema di mancanza di causa, lo si può porre, invece,
sotto il secondo aspetto. Un caso emblematico è quello di chi acquista per contratto di vendita una
cosa già sua (perché non sapeva, al momento del contratto, di averla ereditata): qui la causa del
tipo contrattuale prescelto, che è lo scambio di cosa con prezzo, non può in concreto attuarsi,
giacché il compratore non riceve nulla in cambio del prezzo ed il contratto, benché tipico, sarà
nullo per mancanza di causa. In altri casi è la stessa legge a comminare la nullità del contratto
tipico per mancanza di causa (es. nullità per inesistenza dell’obbligazione originaria, art. 1234). Il
problema della causa si pone anche sotto il primo aspetto, quello della causa in astratto, per i
contratti atipici o innominati, che “non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare”. Per
essi il giudice dovrà accertare se “siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico”. Il giudizio di meritevolezza di cui all’art. 1322, attiene alla causa in
astratto, è per i contratti atipici, una valutazione sostitutiva di quella effettuata, per i contratti
tipici, dal diritto oggettivo.
È così riconosciuto un controllo giudiziario sull’uso che i privati fanno della propria autonomia
contrattuale. Ed è un controllo che il giudice non esercita solo in senso negativo, per accertare se si
tratta d’interessi illeciti, contrari all’ordinamento giuridico (è il caso della causa illecita, previsto
dall’art. 1343), ma esercita anche in senso positivo, per accertare se gli interessi perseguiti dalle
parti siano “meritevoli di tutela” (e potrà non ritenerli tali anche se si tratta d’interessi leciti) e,
perciò, se il contratto abbia una causa o se questa, invece, manchi. Il giudice, inoltre, deve qui
giudicare “secondo l’ordinamento giuridico”: secondo il diritto, cioè, e non secondo equità; si
pronuncerà sulla meritevolezza degli interessi perseguiti avendo presenti le norme che regolano
casi simili o materie analoghe o, in mancanza, i principi generali dell’ordinamento giuridico (art.
12 delle preleggi). Questo potere di controllo dell’autonomia contrattuale non è attribuito al
giudice a protezione d’interessi pubblici. Spetta all’autorità governativa, non all’autorità
giudiziaria, provvedere al riguardo. È riconosciuto, invece, a protezione degli stessi contraenti. Per
tutelarli “contro il rischio di atti capricciosi od imponderati” e, soprattutto, a protezione del
contraente più debole, perché “le dichiarazioni prive di causa generano il sospetto che anche il
consenso al vincolo giuridico sia difettoso”. Nella maggior parte i contratti atipici sono
normativamente tali, perché non regolati dalla legge o da altre fonti di diritto oggettivo, come i
regolamenti o la consuetudine, ma sono socialmente tipici, ossia corrispondono a modelli
contrattuali uniformi largamente praticati nel mondo degli affari. Spesso si tratta di modelli a
grande diffusione internazionale, come accade per leasing, franchising ecc. In questi casi il giudizio
di meritevolezza degli interessi perseguito è influenzato dall’uniformità internazionale del
modello contrattuale. Per quanto il nostro giudice debba, a rigore, esprimere quel giudizio sulla
base del nostro ordinamento giuridico, ben difficilmente egli riterrà invalido un modello
contrattuale ovunque riconosciuto come valido. Egli sarà consapevole dell’isolamento economico
nel quale altrimenti collocherebbe il proprio paese nel contesto dei mercati internazionali. Con la
recezione giurisprudenziale dei contratti atipici internazionalmente uniformi prende vita una
forma giurisprudenziale, di uniformità internazionale del diritto privato, ulteriore rispetto a quella
che si attua con le convenzioni internazionali di diritto uniforme. Altro è la causa del contratto,
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altri ne sono i motivi. La prima è la sua funzione oggettiva ed è unica per entrambi i contraenti,
sempre la stessa per i contraenti di quel determinato tipo. I secondi, invece, sono le ragioni
soggettive che inducono le parti al contratto: sono diversi per un contraente e per l’altro e possono
essere i più diversi sia per l’uno sia per l’altro. I motivi del contratto sono, di regola, irrilevanti per
il diritto, acquistano rilevanza solo in due casi: nel caso di motivo illecito e nel caso di errore di
diritto sui motivi.
Bisogna distinguere fra atto gratuito, atto di liberalità, donazione. Non ogni atto gratuito è atto di
liberalità, non ogni atto di liberalità è donazione: è tale solo la liberalità che consiste in un dare o
nell’assunzione di un’obbligazione di dare (art. 769). Obbligazioni di fare possono essere assunte a
titolo gratuito senza che ciò implichi donazione, come nel caso del deposito gratuito. In un sistema
come il nostro, retto dal principio di causalità (art. 1325), anche la donazione ha una sua causa, che
è appunto la liberalità, non può invece dirsi che la liberalità “sostituisca” la causa e che basti la
forma solenne, richiesta dall’art. 782 c.c. (forma della donazione: “la donazione deve essere fatta per
atto pubblico, sotto pena di nullità. Se ha per oggetto cose mobili, essa non è valida che per quelle specificate
con indicazione del loro valore nell’atto medesimo della donazione, ovvero in una nota a parte sottoscritta dal
donante, dal donatario e dal notaio. L’accettazione può essere fatta nell’atto stesso o con atto pubblico
posteriore. In questo caso la donazione non è perfetta se non dal momento in cui l’atto di accettazione è
notificato
al
donante.
Prima che la donazione sia perfetta, tanto il donante quanto il donatario possono revocare la loro
dichiarazione. Se la donazione è fatta a una persona giuridica, il donante non può revocare la sua
dichiarazione dopo che gli è stata notificata la domanda diretta a ottenere dall’autorità governativa
l’autorizzazione ad accettare. Trascorso un anno dalla notificazione senza che l’autorizzazione sia stata
concessa, la dichiarazione può essere revocata”), per rendere valida l’attribuzione gratuita di un bene.
Le esigenze di controllo giudiziario della funzione del contratto non vengono meno, di fronte
all’atto gratuito, neppure quando esso assume la forma solenne. Si è, in dottrina ritenuto che,
nonostante l’impiego del nomen iuris della donazione e nonostante la forma solenne, il contratto
possa essere ugualmente dichiarato nullo per mancanza di causa quante volte risulti mancare in
concreto una causa donandi. Il problema è allora quello della determinazione del concetto di
liberalità. Questo esprime anzitutto l’assenza di costrizione, giuridica o anche solo morale, in chi
senza corrispettivo dispone a favore di altri di un proprio diritto o si obbliga nei suoi confronti ad
una prestazione di dare. La liberalità non è solo spirito umanitario o caritativo, essa non è esclusa
dal fatto che il donante, come nel caso della donazione rimuneratoria (art. 770 c.c.), sia animato da
riconoscenza (dona, ad es., al comune per esprimere riconoscenza alla città che gli ha dato i natali)
o alla considerazione dei meriti del donatario (il comune dono al concittadino illustre, per
esprimergli la propria considerazione) o voglia manifestare speciale rimunerazione (ti rimunero
con una donazione perché mi hai salvato la vita). La donazione rimuneratoria è atto di liberalità,
giacché ognuno si sente libero di manifestare o no riconoscenza, di premiare o no i meriti altrui. Lo
spirito di liberalità è, invece, escluso in chi dà senza corrispettivo per osservanza di un dovere
giuridico oppure di un dovere morale o sociale, in adempimento cioè di un’obbligazione naturale
(art. 2034). Significativa, sotto questo aspetto, è la giurisprudenza che esclude la qualificazione
dell’atto gratuito come donazione e lo sottrae all’applicazione delle norme a questa relative, come
quella che impone la forma dell’atto pubblico, quante volte il disponente risulti mosso, anziché da
spirito di liberalità, dall’esigenza di adempiere un dovere, come nel caso del genitore che dichiara
di donare ai figli volendo con ciò provvedere al loro mantenimento. Ugualmente non sono
liberalità le elargizioni che si fanno in conformità agli usi, come i regali fra familiari in occasione
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delle festività, anche se si tratta di elargizioni fatte in occasione di servizi resi (art. 770), come ad es.
la mancia al cameriere. La donazione non esaurisce la categoria delle liberalità fra vivi. Una causa
di liberalità può essere presente in atti unilaterali, come la remissione del debito, o in contratti,
come la stipulazione a favore di terzo. Le liberalità risultanti da atti diversi dalla donazione
vengono solitamente designate con il nome di liberalità atipiche, ma il concetto di atipicità è assunto
nel senso di liberalità diversa dal tipo della donazione, non nel senso in cui si parla di contratti
atipici o innominati. Queste liberalità diverse dalla donazione sono dall’art. 809 equiparate alla
donazione a due specifici effetti: per assoggettarle all’azione di riduzione e alla disciplina della
revocazione. Le si ritiene soggette anche alle norme sulla collazione. Il concetto di liberalità si
rapporta, in secondo luogo, alla specifica natura dell’interesse che muove il disponente. Un criterio
di distinzione più volte impiegato dalla giurisprudenza per distinguere fra atto gratuito e atto di
liberalità è quello che dà rilievo alla natura dell’interesse, patrimoniale o non patrimoniale, che il
disponente mira a soddisfare. Così la remissione del debito fatta dal socio alla società è atto
gratuito, ma non è atto di liberalità, perché il socio ha un interesse patrimoniale a ridurre i debiti
della propria società ed a scongiurarne il fallimento.
Contratti con causa mista e contratti collegati
Spesso il contratto atipico risulta dalla combinazione, in unico contratto, di più contratti tipici.
Anche i contratti tipici, d’altra parte, possono risultare dalla sintesi di altri contratti tipici.
Riguardando il fenomeno dal punto di vista della causa si parla, allora, di contratti con causa
mista. Così un contratto può essere, ad un tempo, atto a titolo oneroso e atto di liberalità, come nel
caso della vendita di un bene ad un prezzo inferiore al valore di mercato, quando il venditore sia a
ciò mosso da liberalità verso il compratore (si parlerà di liberalità atipica).
Diverso dal contratto con causa mista è il fenomeno dei contratti collegati, dove non c’è un unico
contratto, ma una pluralità coordinata di contratti, che conservano ciascuna un’autonoma causa,
anche se nel loro insieme mirano ad attuare un’unitaria e complessa operazione economica.
Il criterio distintivo non è quello, formale, dell’unità (contratto con causa mista) o pluralità
(contratti collegati) dei documenti contrattuali, ma è sostanziale, ed è dato dall’unità o dalla
pluralità di cause. Così, ad es., locazione e lavoro si combinano per dare vita ad un’unica atipica
causa mista del contratto di portierato. Più precisamente i vari contratti collegati conservano la
loro individualità, anche se le vicende che investono un contratto (invalidità, inefficacia,
risoluzione, ecc.) possono ripercuotersi sull’altro o sugli altri. Naturalmente, le vicende che
colpiscono il contratto accessorio non travolgono il contratto principale, ma non sempre è
ravvisabile fra i contratti collegati un rapporto “da contratto principale a contratto accessorio”,
essendo frequente il fenomeno dell’interdipendenza reciproca fra contraenti.
Anche in materia di contratti collegati si può distinguere tra tipicità ed atipicità. Talvolta il
collegamento fra contatti diversi risulta legislativamente fissato è, dunque, tipico: così sono tra loro
collegati contratto e subcontratto (sublocazione), ed altrettanto suole dirsi per il contratto
costitutivo dell’obbligazione principale e quello costitutivo dell’obbligazione fideiussoria.
Collegamento atipico è, invece, quello che fra più contratti s’instaura in forza dell’autonomia
contrattuale, in applicazione dell’art. 1322, e che prende vita da un’atipica clausola – espressa o
anche tacita – di più contratti, la quale rende un contratto dipendente da un altro (c.d.
collegamento unilaterale o per accessorietà) o rende più contratti fra loro interdipendenti
(collegamento con influenza reciproca). La causa che giustifica la validità di questa clausola sta,
secondo la giurisprudenza, nelle unità dell’operazione economica che più contratti sono chiamati a
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realizzare; la volontà che sorregge il collegamento può essere anche presunta e risultare dalla
finalità complessiva che le parti hanno perseguito.
Il collegamento può operare fra contratti conclusi dalle medesime parti o anche – il caso della
fideiussione lo rende evidente – fra parti diverse. Un collegamento atipico fra contratti conclusi
dalle medesime parti viene ravvisato nel collocamento dei c.d. “prodotti misti assicurativofinanziari”, frutto dell’abbinamento di un contratto d’assicurazione sulla vita con un contratto
d’investimento in valori mobiliari. Nell’operazione intervengono tre soggetto: una compagnia
d’assicurazione, un gestore di fondi comuni d’investimento, una società di distribuzione di
prodotti finanziari, la quale assomma in sé la qualità di agente d’assicurazione e di mandatario del
gestore. La giustificazione volontaristica offerta dalla giurisprudenza in tema di collegamento
contrattuale non sempre si rivela adeguata. Non risolve il problema sollevato da una clausola che
il contraente forte può imporre al contraente debole: quella che, nonostante l’oggettiva
interdipendenza delle prestazioni inerenti a contratti separati, fosse esplicita nel dichiarare ciascun
contratto insensibile alle vicende relative a ciascuno degli altri. Si dovrà, piuttosto, fare capo al
concetto di causa, e considerare il nesso causale intercorrente fra più contratti, ciascuno dei quali
appare inidoneo a realizzare da solo la funzione che soltanto nel loro insieme essi concorrono a
realizzare. In conclusione, l’autonomia contrattuale può svolgere in questa materia due ruoli ben
differenziati: le parti possono, in forza dell’autonomia contrattuale, rendere fra loro collegati
contratti altrimenti indipendenti, a norma dell’art. 1322; le parti possono, sempre in forza della loro
autonomia contrattuale, scomporre in più contratti un’operazione economica altrimenti
realizzabile mediante un unico contratto, dotato di una causa unitaria, tipica od atipica. In tal caso,
l’unità della causa agisce come limite dell’autonomia contrattuale: esige il collegamento fra i
diversi contratti; rende nulla l’eventuale clausola che avesse escluso la comunicazione delle
vicende ad essi relative, non essendo volta a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico. Dal requisito della causa discendente l’inammissibilità di contratti (e di
atti unilaterali) astratti, ossia diretti a produrre effetti per sola volontà delle parti,
indipendentemente dall’esistenza di una causa, sia essa una causa tipica, corrispondente ad un
tipo contrattuale previsto dalla legge, oppure una causa atipica, non prevista dalla legge, ma
giudicabile come idonea a soddisfare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridico. Coerente con questo generale principio è l’art. 1988: la semplice promessa di pagamento
o il semplice riconoscimento del debito sono dichiarazioni (unilaterali) astratte, dalle quali non
emerge la causa in forza della quale si promette il pagamento o ci si riconosce debitori. Perciò la
dichiarazione ha solo efficacia processuale, “dispensa colui a favore del quale è fatta all’onere di
provare il rapporto fondamentale”. Si suole parlare, a questo riguardo, di astrazione solo processuale
dalla causa. Le cose non cambiano se la promessa di pagamento sia “titolata”, ossia se menzioni il
rapporto fondamentale: anche in questo caso il promittente potrà sottrarsi al pagamento dando la
prova che il rapporto fondamentale era invalido o che si è estinto. L’astrazione processuale è
legislativamente ammessa per la promessa di pagamento e per la ricognizione di debito. La si
ritiene, invece, non ammissibile per il riconoscimento del diritto reale: fuori dei casi espressamente
previsti dalla legge (come quello di cui all’art. 969, relativo al riconoscimento, da parte
dell’enfiteuta, della proprietà spettante al concedente), la dichiarazione con la quale si riconosce
che altri è proprietario, o comproprietario, di un bene – c.d. pronuntiatio contra se – non ha valore
giuridico. Il principio di causalità è dalla giurisprudenza portato alle estreme conseguenze per gli
atti traslativi della proprietà o di altri diritti reali. Il contratto deve enunciare la causa in forza della
quale la proprietà o altro diritto reale è trasferito: l’atto traslativo che manchi della expressio causae,
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è per ciò stesso nullo; la giurisprudenza esclude ogni possibilità di dare altrimenti dimostrazione
della causa. Anche la causa donandi deve essere enunciata perché la donazione sia valida. Natura
diversa dalla promessa di pagamento e dal riconoscimento del debito, che sono atti unilaterali, ha
il c.d. contratto o negozio di accertamento: con questo atipico contratto le parti non dispongono,
l’una a favore dell’altra, di propri diritti, e neppure si limitano a riconoscere preesistenti diritti,
aventi la propria fonte in un fatto o un atto antecedente; esse mirano, invece, ad eliminare
l’incertezza relativa a situazioni giuridiche fra esse intercorrenti, e si vincolano reciprocamente ad
attribuire al fatto o all’atto preesistente gli effetti che risultano dall’accertamento contrattuale, con
preclusione di ogni ulteriore contestazione al riguardo. L’esigenza di eliminare l’incertezza è
sicuramente interesse meritevole di tutela, essendo la certezza dei rapporti giuridici un valore
protetto dall’ordinamento giuridico. Tuttavia, il contratto di accertamento in tanto può assolvere la
funzione riconosciutagli in quanto la situazione giuridica che con esso viene accertata
effettivamente preesistesse, e fosse una situazione obiettivamente incerta. Perciò, è nullo il
contratto con il quale si dichiari, per errore o volutamente, di accertare una situazione inesistente,
oppure si dichiari di accertare una situazione in realtà già certa. Promessa di pagamento,
ricognizione di debito e contratto di accertamento vengono comunemente qualificati come atti (o
negozi) giuridici dichiarativi, in antitesi con atti (o negozi) giuridici dispositivi: questi ultimi
costituiscono, regolano od estinguono rapporti giuridici patrimoniali; i primi si limitano a
dichiarare o ad accettare un preesistente rapporto giuridico patrimoniale, già prodotto da altra
fonte, oppure a dichiarare l’inesistenza, come nel caso dell’accordo di simulazione, di un rapporto
apparentemente costituito. Ma anche gli atti dichiarativi sono atti di volontà, non dichiarazioni di
scienza, sono fonti di obbligazioni, non mezzi di prova. altro dall’astrazione processuale è la c.d.
astrazione materiale della causa, in virtù della quale la dichiarazione di volontà produce effetti
giuridici indipendentemente dall’esistenza di una causa. Un fenomeno d’astrazione materiale, e
non solo processuale, si ha nei titoli di credito e, in particolare, nei titoli di credito astratti, come la
cambiale e l’assegno. La distinzione fra causalità e astrattezza non va confusa con quella che si
pone fra contratto accessorio e contratto autonomo. S’insegna che la procura “è un negozio astratto
nel caso che è irrilevante di fronte ai terzi sottostante negozio di gestione”; ma il concetto di
astrattezza è qui usato impropriamente, volendosi piuttosto alludere al fatto che la procura (che
pure ha una propria causa) non è atto unilaterale accessorio al sottostante contratto di mandato.
L’oggetto
3)Bisogna preliminarmente distinguere fra l’oggetto e il contenuto del contratto, anche se la
dottrina è stata più volte tentata di sovrapporre le due nozioni. Il contenuto del contratto è il
regolamento contrattuale, l’insieme delle clausole volute dalle parti o inserite nel contratto in forza
della legge, degli usi o dell’equità. In questo senso di “contenuto del contratto” parla l’art. 1322,
con norma da coordinare con l’art. 1374, che indica le fonti d’integrazione del (contenuto del)
contratto. L’oggetto del contratto è la cosa più in generale, il diritto (reale o di credito) che il
contratto trasferisce da una parte all’altra oppure la prestazione che una parte si obbliga ad
eseguire a favore dell’altra. Il contratto può avere più oggetti: così, nella vendita, sono oggetto del
contratto sia la cosa venduta sia il prezzo. All’una come all’altro si applicano le norme degli artt.
1346-49, relative all’oggetto del contratto. Altro è la “prestazione caratteristica” del contratto che
nella vendita è solo la cosa venduta. Ma l’oggetto è unico nei contratti che trasferiscono cose o
diritti a titolo gratuito o in quelli con obbligazioni di una sola parte. Sotto questo aspetto si può
cogliere la differenza fra oggetto e causa del contratto, che sono tra loro in rapporto da mezzo a
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fine. L’oggetto consiste, da questo punto di vista, nelle cose o nelle prestazioni mediante le quali si
attua la funzione economico-sociale del contratto. Parliamo di causa quando consideriamo le cose
e le prestazioni dedotte in contratto nel loro rapporto di corrispettività; parliamo di oggetto
quando le prendiamo in considerazione a sé, l’una separatamente dall’altra. L’identificazione
dell’oggetto può talvolta essere il risultato di un’operazione interpretativa del contratto, diretta a
distinguere fra oggetto e contenuto. Così, la clausola del contratto d’assicurazione, che esclude la
responsabilità dell’assicuratore per determinati rischi relativi alla cosa assicurata, non attiene al
contenuto del contratto e non è clausola di limitazione della responsabilità; vale, invece, ad
identificare il rischio assicurato e, dunque, l’oggetto del contratto. La giurisprudenza distingue fra
oggetto immediato e oggetto mediato del contratto: così richiede la forma scritta per contratti che
abbiano un mediato oggetto immobiliare ed il concetto di oggetto mediato può assumere rilievo
anche ad altri effetti, come in materia di vendita di pacchetti azionari, che hanno per oggetto
immediato i titoli azionari e come oggetto mediato il patrimonio sociale.
L’oggetto del contratto deve essere possibile, lecito, determinato o determinabile (art. 1346). Il
primo di questi requisiti fa riferimento, anzitutto, alla possibilità materiale dell’oggetto: questo è
impossibile quando si tratta di una cosa che non esiste oppure di una prestazione materialmente
ineseguibile. Ma una cosa, attualmente inesistente, può formare oggetto del contratto se è
suscettibile di venire ad esistenza: è il caso delle cose future, che possono essere dedotte in
contratto quando la legge non lo vieti (art. 1348). È, inoltre, il caso dell’oggetto impossibile dedotto
in contratto sottoposto a condizione sospensiva o a termine: se l’oggetto, inizialmente impossibile,
diventa possibile prima dell’avveramento della condizione o della scadenza del termine, il
contratto è valido (art. 1347). L’impossibilità che qui viene in considerazione è, ovviamente,
l’impossibilità oggettiva, dell’oggetto in sé, non quella derivante da condizioni soggettive del
contraente. Il requisito della possibilità dell’oggetto si riferisce, inoltre, alla sua possibilità
giuridica: l’oggetto è impossibile, sotto questo aspetto, quando consiste in una cosa che non è, per
legge, un bene in senso giuridico, una cosa, cioè, che non può formare oggetto di diritti (art. 810),
come le res communes omnium e, in genere, come le cose non valutabili economicamente o come le
parti del corpo umano. Sul proprio corpo l’uomo ha un diritto della personalità, non un diritto
patrimoniale, ma un diritto del quale l’art. 5 permette di disporre solo se l’atto di disposizione non
comporta una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Fra i diritti della personalità c’è però
un diritto, il diritto all’immagine protetto dell’art. 10, che si è ritenuto possa formare oggetto di
veri e propri atti contrattuali di disposizione: la mercificazione dell’immagine, portato dell’odierna
società dei mass media, avrebbe comportato la conseguenza che l’immagine possa essere
considerata come oggetto di contratto, con conseguente irrevocabilità del consenso prestato. È tesi
da respingere. Il consenso prestato per l’altrui utilizzazione commerciale della propria immagine è
un atto unilaterale, sempre revocabile, salvo l’altrui diritto al risarcimento del danno nel caso di
revoca del consenso affatto ingiustificata o capricciosa e, perciò, di abuso del diritto della
personalità.
Oggetto giuridicamente impossibile è, ancora, il bene che la legge dichiara inalienabile o fuori
commercio: così non può formare oggetto di vendita o di altri contratti traslativi della proprietà un
bene demaniale, anche se può però formare oggetto, a norma dell’art. 823 di contratti che
permettono a privati l’utilizzazione del bene. L’oggetto deve, inoltre, essere lecito: va chiarita la
differenza fra impossibilità giuridica e illiceità dell’oggetto. Che una differenza ci sia lo dimostrano
le norme che, come l’art. 2126, danno rilievo all’illiceità dell’oggetto (e della causa), non anche
all’impossibilità dell’oggetto. Si deve, perciò, richiamare la tradizionale nozione secondo la quale
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altro è l’antigiuridicità, altro l’illiceità: la prima esprime la non conformità all’ordinamento
giuridico, la seconda, per contro, designa la trasgressione di un divieto posto dall’ordinamento
giuridico a protezione di fondamentali valori etici. Oggetto giuridicamente impossibile è la cosa o
la prestazione, in sé lecita, che la legge non consente di dedurre in contratto; oggetto illecito è la
cosa o la prestazione di per sé riprovevole, che la legge vieta sempre e comunque di porre in
essere. L’oggetto del contratto deve essere determinato: la vendita che non contenga elementi che
permettano una sicura identificazione della cosa è nulla; salvo che nel contratto non sia stata
dedotta una prestazione di genere, dipendendo in tal caso l’identificazione della cosa
dall’adempimento del debitore, a norma degli artt. 1178 e 1378. la giurisprudenza non intende il
requisito della determinatezza in modo rigoristico. L’oggetto, anche se non determinato nel
contratto, può però essere determinabile, in base a criteri d’individuazione enunciati nel contratto
stesso o altrimenti ricavabili. Così, per la determinazione del prezzo di vendita, si può fare
riferimento a listini o quotazioni ufficiali e neppure l’espresso riferimento a listini o quotazioni
ufficiali è necessario quando si tratta di cose che il venditore abitualmente vende (art. 1474).
Manca, invece, il requisito della determinabilità dell’oggetto quando la sua determinazione sia
rimessa ad un successivo accordo delle parti; ciò che fa regredire il documento al ruolo di semplice
minuta contrattuale, non vincolante per i suoi firmatari. Un caso di oggetto non determinato, ma
determinabile, è quello del contratto che deferisca ad un terzo la determinazione dell’oggetto. Si
parla in questo caso di arbitraggio o arbitrato, ed al terzo, che in genere è un esperto dello specifico
settore degli affari cui il contratto si riferisce, si dà il nome di arbitratore. Di regola, il terzo deve
procedere alla determinazione dell’oggetto con equo apprezzamento, ma l’arbitramento di equo
apprezzamento (c.d. arbitrium boni viri) può dare luogo a controversie: ciascuna delle parti può
impugnare davanti al giudice la determinazione del terzo, lamentando che essa è “manifestamente
iniqua o erronea” (art. 1349) e queste controversie possono costituire un intralcio all’esecuzione del
contratto. Le parti possono, allora preferire d’affidare la determinazione dell’oggetto al mero
arbitrio del terzo: in tal caso, la determinazione di questo può essere impugnata solo provando la
sua mala fede, ossia il suo intento di favorire una parte a danno dell’altra; e le parti assumono,
perciò, il rischio di essere vincolante da arbitramento che risulti iniquo per l’una o l’altra. Le due
ipotesi differiscono fra loro anche sotto un altro aspetto: nella prima ipotesi, se manca la
determinazione dell’arbitratore e se la sua determinazione è dichiarata dal giudice manifestamente
iniqua od erronea, lo stesso giudice provvede a determinare l’oggetto del contratto. Nella seconda
ipotesi, invece, l’omissione dell’arbitratore o l’accertamento giudiziale della sua mala fede
comporta senz’altro la nullità del contratto (nullo per mancata determinazione dell’oggetto), a
meno che le parti, di comune accordo, non sostituiscano il terzo con altro arbitratore. È discusso se
la veste di arbitratore possa essere dal contratto attribuita ad una delle parti: certamente la
determinazione dell’oggetto non può essere validamente deferita al suo ,ero arbitrio; non c’è,
invece, motivo d’escludere l’arbitrium boni viri della parte. Non c’è, del pari, motivo d’escludere che
la determinazione dell’oggetto possa essere per contratto attribuita all’arbitrium boni viri di
entrambe le parti, purché il contratto fissi i criteri cui le parti debbano attenersi. Se poi una delle
parti rifiuta la necessaria collaborazione, provvederà il giudice, in applicazione dei criteri fissati
dal contratto. Qui le parti non rinviano ad un loro successivo accordo, giacché il loro successivo
intervento non ha natura volitiva, bensì valutativa. Altro dall’arbitramento è l’arbitrato libero od
irrituale. Le parti di un contratto, con apposita clausola compromissoria, deferiscono ad uno o più
arbitri la definizione di controversie che possono insorgere circa l’interpretazione, l’applicazione o
l’esecuzione del contratto, vincolandosi ad osservare la decisione (il dolo) che sarà da essi adottata
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siccome “determinazione contrattuale”. A differenza dell’arbitratore, gli arbitri liberi o irrituali
sono chiamati ad intervenire su un contratto già formato, ed il compito ad essi demandato è di
definire una controversia su di esso insorta, sicché l’efficacia vincolante del contratto sostituisce
l’autorità di cosa giudicata, propria della sentenza (art. 2909) o del dolo arbitrale rituale. È
discutibile la qualificazione come mandato che la Cassazione suole applicare al rapporto che lega
fra loro i contraenti e l’arbitratore o gli arbitri irrituali: a costoro non si richiede di compiere un atto
giuridico né, tanto meno, d’emettere una dichiarazione di volontà, destinata a produrre effetti
giuridici per i contraenti. Si chiede, piuttosto, di pronunciare un giudizio sulla ragione o sul torto
dei contendenti, ossia, d’eseguire un’operazione intellettiva, qualificabile come prestazione
d’opera intellettuale (art. 2230). All’idea del mandato consegue, nella prassi giurisprudenziale, il
corollario secondo il quale la determinazione del terzo arbitratore è annullabile, ai sensi dell’art.
1390, per i vizi della volontà dell’arbitratore; ma la verità è che non è neppure concepibile un vizio
del consenso dell’arbitratore, perché questi non è chiamato a prestare consensi di sorta. Le sue
valutazioni potranno essere frutto di minaccia o s’incapacità naturale, ma la parte interessata non
farà valere un “vizio del contratto” (che non c’è), bensì la manifesta iniquità o erroneità
dell’arbitramento o la mala fede dell’arbitratore. Se le minacce non hanno reso iniqua o l’incapacità
naturale non ha reso manifestamente erronea la determinazione del terzo, questa non sarà affatto
impugnabile e nell’arbitrium merum le minacce altrui saranno rilevanti non in sé, ma in quanto ne è
risultata una determinazione di mala fede. Il lodo degli arbitri irrituali, a sua volta. È impugnabile
solo se essi non si siano attenuti alle regole imposte dalla clausola compromissoria o se abbiano
violato il principio del contraddittorio.
Una variante dell’arbitramento e dell’arbitrato irrituale è il c.d. bianco segno: le parti consegnano
all’arbitratore o agli arbitri un foglio firmato in bianco; un apposito “patto di riempimento”, regola
l’incarico conferito al terzo o ai terzi, ossia le remissione all’arbitro o agli arbitri della controversia
da risolvere, con la formulazione dei relativi quesiti. La peculiarità del bianco segno sta nella
circostanza che la determinazione o il giudizio altrui si presenta, a seguito del riempimento del
foglio, come oggetto immediato della dichiarazione di volontà dei contraenti, mentre nel comune
arbitramento o come nel comune arbitrato irrituale l’oggetto della dichiarazione di volontà dei
contraenti si desume per relazionem dal fatto giuridico altrui. Al bianco segno è sicuramente
inapplicabile l’art. 1349: la sua funzione sta proprio nell’evitare ogni possibile controversia sul
merito della determinazione o del giudice del terzo. La tecnica della dichiarazione sottoscritta in
bianco è utilizzabile, per esplicita previsione legislativa, nella cambiale tratta e nel pagherò
cambiario: si è qui in presenza di una dichiarazione unilaterale il cui oggetto è determinato dal
destinatario della dichiarazione, in conformità degli accordi intervenuti fra il dichiarante ed il
destinatario. Un riempimento della cambiale non conforme agli accordi è opponibile ai terzi che
abbiano acquistato la cambiale in mala fede o con colpa grave. Da queste norme si possono trarre
più generali illazioni: anzitutto se ne può ricavare che il bianco segno è valido contratto atipico, in
quanto diretti a realizzare interessi che appaiono meritevoli di tutela secondo l’ordinamento
giuridici; in secondo luogo si desume che l’infedele riempimento della dichiarazione sottoscritta in
bianco dà luogo ad annullabilità; diventa, infine, legittimo argomentare che alla nostra fattispecie
sarà estensivamente applicabile ogni altra norma dettata per l’annullabilità del contratto, inclusa
quella relativa alla decorrenza del termine di prescrizione (art. 1442). Diversa è l’ipotesi in cui un
documento firmato in modo incompleto sia arbitrariamente riempito da un terzo cui le parti non
avevano conferito l’incarico di completarlo. Qui, al pari di quanto accade nell’ipotesi della
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cambiale incompleta (mancante cioè di requisiti essenziali), della quale l’emittente “non aveva
voluto il riempimento”, dovrà parlarsi di nullità del contratto.
La forma
4) Principio generale del moderno sistema dei contratti è quello della libertà delle forme. I contratti
possono risultare da dichiarazioni espresse o essere, invece, contratti taciti e i contratti espressi
possono, a loro volta, essere contratti orali (o verbali), oppure contratti scritti. È sufficiente, perché
il contratto sia valido e produttivo di effetti, che la volontà delle parti si sia manifestata, qualunque
sia il modo o la forma della sua manifestazione. La generale regola dell’ammissibilità di contratti
taciti trova talvolta eccezioni: così, per l’art. 1937, la volontà di prestare fideiussione deve essere
espressa. Più vasta deroga al principio della libertà delle forme è prevista per una serie di contratti,
fra i quali campeggiano i contratti immobiliari (art. 1350). La forma scritta è necessaria anche per
altri determinati contratti o per determinati atti unilaterali o per determinate clausole (le clausole
vessatorie) non aventi ad oggetto beni immobili, ma si deve, in ogni caso, trattare di contratti o di
atti o di clausole specialmente indicati dalla legge. Tra questi rientrano contratti ed atti che, come il
contratto preliminare, assumono carattere strumentale rispetto ad altri contratti od atti: così il
contratto preliminare deve assumere la stessa forma richiesta per il contratto definitivo (art. 1351);
la procura deve essere rilasciata nella stessa forma del contratto da concludere (art. 1392); la ratifica
del contratto concluso dal falsus procurator deve osservare le forme prescritte per la conclusione di
esso (art. 1399). Ci si domanda se la forma scritta sia richiesta anche per altri contratti o atti che si
presentino come aventi un mediato oggetto immobiliare. Il problema si pone: a) per il mandato a
vendere o ad acquistare immobili, b) per la cessione del contratto avente ad oggetto immobili, c)
per la risoluzione consensuale di un contratto preliminare di vendita immobiliare. Per la soluzione
negativa del problema sembra militare l’art. 1350 n. 13, che esige la forma scritta a pena di nullità
per i contratti e gli atti “specialmente” indicati dalla legge; ciò che depone nel senso della
tassatività. Ma un argomento di segno opposto è fornito dall’art. 1325 che colloca la forma fra i
requisiti del contratto quando risulta che dalla legge è prescritta sotto pena di nullità; un simile
linguaggio induce a ritenere che la necessità della forma scritta possa essere il risultato di
un’indagine interpretativa. Il conflitto può essere superato con un’interpretazione estensiva
dell’art. 1350, la quale porti a leggervi che la forma scritta è richiesta per i contratti che abbiano per
oggetto immediato o mediato beni immobili. Di fatto, i problemi sopra indicati sub a e sub b
vengono risolti in questo senso da una costante giurisprudenza, mentre sul problema di cui sub c
s’alternano le soluzioni nell’uno e nell’altro senso, senza possibilità di ravvisare un indirizzo
prevalente. Ma si trascura che lo stesso art. 1350 annovera un caso del genere: le transazioni sono
sottoposte alla forma scritta non quando implichino trasferimento di diritti reali immobiliari o
rinuncia agli stessi, ma quando “hanno per oggetto controversie relative ai rapporti giuridici
menzionati nei numeri precedenti”. Sicché la forma scritta è necessaria anche quando la
transazione non muti le situazioni reali immobiliari delle parti. È, perciò, corretto concludere che
presentano un mediato oggetto immobiliare no solo i contratti che svolgono una funzione
strumentale rispetto ad una futura vicenda traslativa immobiliare, ma anche quei contratti che
assolvono l’opposta funzione di escludere una futura vicenda traslativa immobiliare. La forma
scritta può consistere in un atto pubblico o in una scrittura privata. Il primo è il documento redatto
da notaio (o da altro pubblico ufficiale autorizzato) il quale attesta, con le formalità richieste dalla
legge notarile, le volontà dichiarate alla sua presenza dalle parti (art. 2699). La seconda è, invece, il
documento redatto e sottoscritto dalle stesse parti, senza la partecipazione di un pubblico ufficiale
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alla sua redazione. La scrittura privata può essere autenticata da un notaio (o da altro pubblico
ufficiale autorizzato): qui il notaio si limita ad attestare che le parti hanno sottoscritto il documento
alla sua presenza e, perciò, che le firme sono autentiche (art. 2703).
Il requisito della forma scritta è, di regola, soddisfatto dalla sola scrittura privata, anche se non
autenticata. L’atto pubblico o l’autenticazione della scrittura privata sono solo speciali mezzi di
prova: il prima fa prova, fino a querela di falso, di quanto il notaio attesta essere stato detto e fatto
dalle parti alla sua presenza (art. 2700); la seconda fa prova dell’autenticità delle firme apposte
dalle parti in calce al contratto, e serve per impedire che una delle parti possa disconoscere la
propria firma, protestandola come falsa. Atto pubblico o scrittura privata autenticata servono,
inoltre, per formare il titolo per la trascrizione del contratto nei registri immobiliari (art. 2657). Solo
in alcuni eccezionali casi l’atto pubblico è richiesti a pena di nullità del contratto e si parla, allora,
di forma solenne. Sono soprattutto, il caso della donazione (art. 782) e quello del contratto di
società per azioni (art. 2332 n. 1) e di società a responsabilità limitata (art. 2463). Il principio
generale della libertà delle forme asseconda esigenze di massima circolazione e di massima
produzione della ricchezza. Per la circolazione dei beni mobili queste esigenze sono protette in
massimo grado, mentre per i beni immobili le esigenze di circolazione sono contemperate con
un’altra esigenza, che richiede la forma scritta: quella di accertare l’effettiva volontà del
proprietario di spogliarsi della proprietà del bene. Ma per i contratti immobiliari l’atto scritto è
necessario e sufficiente: la forma solenne ha carattere eccezionale, e il principio generale che vale
per i contratti scritti è quello della semplicità delle forme. La forma solenne è richiesta solo per quei
contratti per i quali particolarissime esigenze consigliano che la volontà delle parti sia raccolta da
un notaio. Oltre che per i contratti immobiliari, la forma scritta è richiesta, a pena nullità, per una
serie di figure contrattuali che attengono a rapporti fra un contraente forte ed un contraente
debole. È la c.d. forma di protezione: il vincolo di forma è posto a protezione del contraente debole,
come nel caso del contratto recante clausole vessatorie (artt. 1341 e 35 del Codice del consumo, che
al requisito della forma scritta aggiunge quello della chiarezza e comprensibilità).
La forma scritta di cui si è detto è la forma che la legge richiede per la validità del contratto: in
mancanza della forma prescritta il contratto è nullo (art. 1418). Altro è la forma scritta che talvolta
la legge richiede per la prova del contratto (c.d. prova documentale): così per il contratto di
assicurazione (art. 1888). In alcuni casi la legge richiede che il contratto risulti da atto scritto, ma
non precisa se questo è richiesto per la validità o solo per la prova del contratto (es. per il contratto
di lavoro in prova, art. 2096). Convincente è l’argomento che si trae dall’art. 1352: se le forme
convenzionali si presumono, fino a prova contraria, richieste per la validità del contratto, non c’è
ragione di adottare una diversa soluzione per le forme legali. Il generale principio della libertà di
forme non vale per le ipotesi nelle quali la forma risulta prescritta a pena di nullità.
L’adempimento del requisito della forma scritta esige modalità diverse a seconda che si tratti di
forma richiesta per la validità oppure per la prova del contratto. Riguardo alla prima vale anzitutto
la precisazione secondo la quale la forma scritta non postula l’unicità del documento contrattuale:
proposta e accettazione possono risultare da uno scambio di lettere, e persino dalla matrice di un
libretto di assegni in collegamento con l’assegno staccato da essa; d’altronde, la stessa forma
solenne può scomporsi in una pluralità di atti pubblici, che separatamente raccolgono la proposta e
l’accettazione. È, tuttavia, indispensabile: che per iscritto risulti la volontà contrattuale delle parti:
non è sufficiente una scrittura che, come quietanza, abbia natura di dichiarazione di scienza; che
per iscritto risulti la volontà di entrambi o, nei contratti plurilaterali, di tutte le parti, anche se
l’esigenza di una volontà espressa per iscritto non implica la necessaria adozione di formule
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corrispondenti al nomen iuris del tipo contrattuale; che per iscritto risulti l’intero contenuto
contrattuale, non soltanto quella parte di essi che reca la clausola traslativa o costitutiva del diritto
reale immobiliare e senza possibilità di distinguere fra clausole essenziali e clausole non essenziali.
Un caso controvertibile è quello del contratto preliminare di vendita immobiliare sottoscritto dal
solo promittente, in forza del quale il promissario abbia agito in giudizio per ottenere una sentenza
produttiva, ai sensi dell’art. 2932, degli effetti del contratto definitivo non concluso. Il fatto è che in
questo caso la volontà di concludere il contratto si desume da un fatto concludente, quale la
richiesta di adempimento. La volontà d’accettazione non risulta dall’atto, sicché il caso non è
diverso da quelli della conferma scritta di un precedente contratto verbale o della quietanza di
pagamento. Altro discorso vale per la forma scritta ad probationem: qui lo scritto è forma della prova
con la conseguenza che il requisito formale è soddisfatto anche se forma scritta rivesta la
confessione scritta dei contraenti o la quietanza recante menzione della causale del versamento.
Ciò che, in quest’ultimo caso, risulta per iscritto è una dichiarazione di scienza: essa è prova scritta
di un atto esecutivo del contratto, quale il pagamento, come tale accettato dall’altra parte. Perciò la
prova scritta del contratto è compatibile con la conclusione orale dello stesso e persino con la sua
conclusione tacita, risultante dal comportamento concludente delle parti. A norma dell’art. 2725,
quando un contratto deve, secondo la legge o per volontà delle parti, essere provato per iscritto, la
prova per testimoni è ammessa solo quando il contraente ha, senza sua colpa, perduto il
documento che gli forniva la prova. Il II comma aggiunge che la medesima regola si applica
quando la forma scritta è richiesta sotto pena di nullità. L’identica regola ha un significato diverso
nell’uno o nell’altro caso: quando la forma scritta è richiesta ad substantium, il contraente deve dare,
per testimoni, la prova dell’esistenza del documento contrattuale, deve quindi provare la perdita
di tale documento, dovuta a causa a lui non imputabile. Altrettanto non può dirsi quando la prova
è richiesta ad probationem: ciò che qui si può provare di avere perduto è il documento dal quale
risultava la prova, come la confessione scritta dell’esistenza del contratto. Per il contratto di
assicurazione l’art. 1888, dopo avere richiesto la prova scritta del contratto, aggiunge che
l’assicuratore deve rilasciare al contraente la polizza o altro documento da lui sottoscritto. La
polizza non è la forma scritta del contratto di assicurazione: sia perché il suo rilascio presuppone la
già avvenuta conclusione del contratto, sia perché è sottoscritta dal solo assicuratore. La sua
funzione è di fornire all’assicurato la prova scritta del contratto e del contenuto contrattuale. Ma
spesso accade che le compagnie d’assicurazione rilascino polizze a stampa e che anche la firma del
legale rappresentante della compagnia sia riprodotta a stampa. In tal caso la polizza non ha il
valore di prova scritta, ma ciò non significa che essa sia priva di ogni valore, se il contraente può
comunque dare prova scritta del contratto. In tal caso la polizza a stampa rilasciatagli
dall’assicuratore varrà quale prova del contenuto del contratto; ha il valore che gli usi contrattuali
assumono a norma dell’art. 1340. Sarà l’assicuratore a dover provare che lo stampato è opera di un
falsario oppure che, per quel singolo contratto, si era derogato alle clausole risultanti dallo
stampato.
Con la forma del contratto non va confusa quell’ulteriore formalità che è la sua trascrizione negli
appositi pubblici registri. Questa è prevista sia per i contratti immobiliari sia per i contratti che
hanno per oggetto beni mobili registrati (navi, aeromobili, autoveicoli), ed è il mezzo necessario
per dare pubblicità al contratto (artt. 2643, 2683), ossia per portarlo a conoscenza dei terzi. Il
contratto è, anche senza la trascrizione, pienamente valido ed è pienamente efficace tra le parti.
Solo a seguito della trascrizione, tuttavia, il contratto è legalmente noto ai terzi o, come si dice, è ad
essi opponibile. La trascrizione del contratto nei pubblici registri assolve, nella circolazione dei
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beni immobili o dei mobili registrati, una funzione analoga a quella che il possesso assolve nella
circolazione dei beni mobili. Se più persone acquistano, con successivi contratti, la stessa cosa
mobile da un medesimo dante causa, ne diventa proprietaria quella tra esse che per prima ne ha
conseguito il possesso (art. 1155). Se la stessa situazione si ripete per un bene immobile o per un
mobile registrato, prevale quella di esse che ha per prima trascritto il contratto: questa, anche se è
stata l’ultima a comperare, può opporre l’acquisto alle altre, il che però non toglie che chi trascrive
per primo nella consapevolezza del precedente acquisto altrui e, dunque, in mala fede sia esposto
all’azione di danni del primo acquirente. Egli ha acquistato secondo la legge di circolazione degli
immobili, ed ha perciò acquistato bene, ma ha, al tempo stesso, integrato la fattispecie del fatto
illecito ex art. 2043. Neppure si deve confondere la forma scritta richiesta per la validità o per la
prova del contratto con quella richiesta come titolo per la trascrizione. Per trascrivere un contratto
nei registri immobiliari occorre che lo stesso risulti da atto pubblico o da scrittura privata
autenticata. Se il contratto era stato redatto per scrittura privata non autenticata occorrerà che la
sottoscrizione delle parti venga giudizialmente accertata (art. 2657). Le parti possono convenire la
forma scritta per la conclusione di futuri contratti, forma che, salvo prova contraria, l’art. 1352
presume richiesta per la loro validità. Ma la convenzione sulla prova scritta dei futuri contratti non
è atto che richieda la forma scritta e, se redatta per iscritto, può essere modificata o risolta in modo
non formale, anche per fatti concludenti. Il caso non è diverso da quello di qualsiasi contratto cui le
parti, senza esservi tenute, abbiano dato forma scritta: esse lo possono modificare o risolvere
oralmente o tacitamente.
CAP. 5°: IL TERMINE E LA CONDIZIONE
Il termine
La tradizione ci ha consegnato la distinzione fra elementi essenziali, elementi naturali, elementi
accidentali del contratto (e del negozio giuridico). I primi sono i generali requisiti del contratto di
cui all’art. 1325, oppure sono gli elementi d’identificazione dei singoli tipi contrattuali, in difetto
dei quali il contratto o non è qualificabile come contratto oppure non è qualificabile come contratto
appartenente ad un dato tipo oppure, se non è qualificabile come appartenente ad altro tipo,
nominato o innominato, è nullo. Elementi naturali sono, invece, quegli elementi, caratterizzanti i
singoli tipi contrattuali, che la legge prevede con norme dispositive o suppletive, suscettibili perciò
di essere eliminati per volontà delle parti. Per elementi accidentali s’intendono, tradizionalmente,
quegli elementi meramente eventuali del contratto, come il termine e la condizione, che nel
contratto vengono inclusi per volontà delle parti e che sono destinati ad agire non sula validità, ma
sull’efficacia del contratto. Ma il termine finale può essere imposto dalla legge (per la locazione, ad
esempio, è imposto dall’art. 1573 il termine finale massimo di 30 anni) ed anche la condizione può
configurarsi come condizione legale, cui la stessa legge subordina l’efficacia del contratto. Sicché
entrambi possono venire in considerazione anche come elementi essenziali del contratto. La
tradizione della teoria del negozio giuridico ha incluso fra gli elementi accidentali anche l’onere o
modus, sebbene si tratti di figura ammissibile solo negli atti di liberalità, inter vivos o mortis causa.
L’efficacia iniziale del contratto può essere subordinata dalle parti, con apposita clausola, al
raggiungimento di un termine (termine iniziale). Qui il contratto è già perfezionato ma la sua
efficacia è ritardata ad un tempo successivo. Il termine finale è, invece, quello che limita nel tempo
l’efficacia del contratto. Il termine, iniziale o finale, può essere anche una data assai lontana nel
tempo, ma non a tal punto lontana da indurre ad escludere un’effettiva volontà contrattuale delle
parti. La distinzione fra termine iniziale e termine finale si coordina con la distinzione fra contratto
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come atto e contratto come rapporto. Il contratto è, come atto, fonte di obbligazione e,
reciprocamente, di diritti delle parti: l’insieme dei diritti e delle obbligazioni reciproche che
nascono dal contratto è, appunto, il rapporto contrattuale. Il termine iniziale incide sul primo,
sospendendone l’efficacia; il termine finale opera sul secondo, ponendogli fine. Bisogna ancora
distinguere fra termine del contratto e termine per l’adempimento delle singole obbligazioni che
dal contratto derivano, regolato dalle specifiche norme degli artt. 1183 ss.
La condizione
È un avvenimento futuro ed incerto al verificarsi del quale è subordinata l’iniziale efficacia del
contratto, o di una sua clausola (condizione sospensiva), oppure la cessazione degli effetti del
contratto o di una sua clausola (condizione risolutiva). Svolge, dunque, una funzione analoga al
termine; da questo, tuttavia, si differenzia per il fatto che non si riferisce ad un avvenimento futuro
ma certo, bensì ad avvenimento, oltre che futuro, anche incerto, ossia che può verificarsi o non
verificarsi (art. 1353). La condizione sospensiva può essere accompagnata dalla previsione di un
termine entro il quale l’evento dedotto in condizione debba avverarsi; altrimenti, la parte che abbia
alienato sotto condizione sospensiva dovrà, per riacquistare la piena disponibilità del bene,
promuovere l’accertamento giudiziale del mancato avveramento della condizione, adducendo che
è trascorso un lasso di tempo congruo entro il quale l’avveramento previsto dalle parti si sarebbe
dovuto verificare. L’avvenimento futuro deve consistere in un evento che, al momento della
conclusione del contratto, non è ancora accaduti, ma può anche consistere nell’accertamento futuro
di un fatto che può essere già accaduto, del quale però non si ha ancora notizia o non si ha la
certezza quando si conclude il contratto, come nel caso in cui sia dedotta in condizione la sorte di
una cosa data per dispersa. L’incertezza, a sua volta, può essere di vario grado: può essere incerto
sia il “se” sia il “quando” dell’avvenimento futuro: ma può essere incerto il “se” e certo il
“quando” (certus an incertus quando), come nel caso in cui sia dedotta in condizione la permanenza
in vita di una persona ad una determinata data. Si può ancora distinguere fra condizione positiva e
condizione negativa: la prima consiste nell’avveramento di un dato evento, la seconda nel mancato
avveramento di un dato evento entro un tempo prestabilito. L’autonomia contrattuale consente di
sottoporre a condizione, sospensiva o risolutiva, qualsiasi contratto o atto unilaterale, salvo che
l’inopponibilità non sia espressamente sancita – ed in tal caso si suole parlare di atto o negozio
“puro” – come accade per l’accettazione dell’eredità (art. 475). Consente, inoltre, di sottoporre a
condizione sospensiva alcune clausole e non altre e, in particolare, l’obbligazione di una parte e
non anche l’obbligazione dell’altra; consente, ancora di pattuire la condizione in favore di una sola
delle parti (c.d. condizione unilaterale), la quale può avvalersene o rinunciarvi a propria
discrezione, sia prima che dopo il suo avveramento, espressamente o per fatti concludenti.
Può accadere che sotto le apparenti sembianze di una condizione sospensiva si celi un termine per
l’adempimento: così è nel caso del contratto avente ad oggetto la progettazione di opere, per la
quale sia previsto il pagamento del compenso al momento dell’approvazione del progetto da parte
dell’autorità. L’avvenimento futuro ed incerto può essere indipendente dalla volontà delle parti
(c.d. condizione casuale), ma può anche dipendere dalla volontà di una di esse. È valida la
condizione sospensiva potestativa, ossia quella che dipende dal futuro comportamento volontario
di una delle parti (es. ti vendo la mia casa sotto la condizione sospensiva che deciderò di
trasferirmi in altra città). È valida, altresì, la c.d. condizione mista, dipendente tanto dalla volontà
del contraente quanto di un terzo: tale è il sub ingresso da parte del compratore nel mutuo
ipotecario gravante sulla cosa venduta. È nullo, invece, il contratto con condizione sospensiva
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meramente potestativa, ossia consistente nel semplice arbitrio di una delle parti (art. 1355): ti vendo
la mia casa a condizione che deciderò di venderla. La ragione della nullità del contratto è qui
equivalente: dichiarare “voglio se vorrò” equivale a dichiarare “per ora non voglio”; manca,
dunque, la volontà attuale di disporre di un diritto o di assumere un’obbligazione. L’altra parte, se
mai un simile contratto fosse valido, resterebbe in balia dell’arbitrio del suo contraente. Quando,
invece, si tratta di condizione (non meramente) potestativa, c’è la volontà attuale, anche se
condizionata, di disporre del diritto o di assumere l’obbligazione. È nulla, per l’art. 1355, la
condizione sospensiva meramente potestativa, non anche quella risolutiva, che la giurisprudenza
ha avuto occasione di giudicare valida: ma, a ben guardare, d’altro non si tratta se non della
previsione contrattuale di una più ampia facoltà di recesso, possibile anche quando la controparte
abbia dato inizio all’esecuzione del contratto in deroga all’art. 1373, che nulla fa supporre sia
norme inderogabile. La condizione contraria a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon
costume, sia essa sospensiva oppure risolutiva, rende nullo il contratto (art. 1354).
Così la donazione sottoposta alla condizione sospensiva (potestativa) che il donatario abbracci una
data confessione religiosa è illecita. È impossibile la condizione che consiste in un evento che sia
naturalmente o giuridicamente irrealizzabile: o irrealizzabile in assoluto ( se i marziani
sbarcheranno sulla Terra) o non realizzabile in concreto (quando sia dedotto in condizione un
evento che non potrà più verificarsi, come il ritorno di una nave che si sa perita in un naufragio). In
questo caso, a differenza che nel caso della condizione illecita, bisogna distinguere: la condizione
impossibile sospensiva rende il contratto nulla, la condizione impossibile risolutiva si considera
come non apposta (art. 1354). Nella prima ipotesi se è in presenza di un contratto destinato a non
avere mai efficacia è, perciò, nullo; nella seconda ipotesi, all’opposto, il contratto è destinato a non
perdere mai efficacia e, perciò, si considera come non sottoposto a condizione. Ma, se la condizione
risolutiva impossibile è una condizione negativa, la norma può operare: la condizione risolutiva
negativa equivale ad una condizione sospensiva positiva, e la sua impossibilità rende nullo il
contratto, giacché le parti sapevano, ab inizio, che la condizione non si sarebbe avverata. Finché
perdura l’incertezza sul verificarsi o no della condizione, si dice che questa perde; le parti si
trovano, in pendenza della condizione, in una situazione d’aspettativa, che è giuridicamente protetta:
chi ha acquistato un diritto sotto condizione sospensiva o chi ha assunto un’obbligazione sotto
condizione risolutiva può, in pendenza della condizione, compiere atti conservativi (art. 1356). La
stessa aspettativa può formare oggetto di disposizione: chi ha acquistato un diritto con contratto
sottoposto a condizione sospensiva può, in pendenza della condizione, alienarlo ad un terzo e gli
effetti di questo atto di disposizione sono subordinati, anch’essi, alla medesima condizione (art.
1357). Ma occorre, perché il terzo acquisti un diritto condizionato, che la condizione gli sia
opponibile: che il contratto condizionale, in altre parole, fosse menzionato nel contratto con il terzo
o, in mancanza, che fosse stato trascritto nei registri immobiliari prima del nuovo contratto.
Altrimenti il terzo acquista un diritto incondizionato, e l’alienante dovrà risarcire dei danni al suo
contraente per l’inadempimento contrattuale. In pendenza della condizione ciascuna parte deve
comportarsi secondo buona fede, ossia con lealtà e correttezza “per conservare integre le ragioni
dell’altra parte” (art. 1358). Il che non significa che la parte che ha alienato un diritto o assunto
un’obbligazione sotto condizione sospensiva debba adoperarsi affinché la condizione si avveri. Il
contenuto che il dovere di buona fede assume in questo contesto è reso palese dall’espressione
legislativa sopra riportata: le parti del contratto condizionato sono reciprocamente tenute a
conservare integre le rispettive ragioni. Il che comporta conseguenze diverse a seconda che si tratti
di condizione casuale oppure di condizione mista, ad un tempo casuale e potestativa. Nel contratto
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sottoposto a condizione casuale il dovere di buona fede ha contenuto puramente negativo: le parti
debbono astenersi da porre in essere atti che possano pregiudicate l’avveramento dell’evento
dedotto come condizione. Nel caso, invece, del contratto sottoposto a condizione mista, il dovere
di buona fede assume anche, per il segmento non casuale della condizione, un contenuto positivo.
Così, nella vendita di area edificabile sottoposta alla condizione sospensiva del rilascio del
permesso di edificazione, l’alienante ha il dovere di provvedere a quanto necessario per conseguire
il provvedimento dell’autorità. La violazione di questo dovere ha una precisa conseguenza: se la
condizione non si avvera per causa imputabile, anche a titolo di semplice colpa, alla parte che
aveva interesse a che non si verificasse, opera la c.d. finzione di avveramento; la condizione, cioè, si
considera avverata (art. 1359). In altre parole la condizione si ha per non apposta, e l’altra parte
può senz’altro pretendere l’esecuzione del contratto. La finzione di avveramento è applicabile solo
alle condizioni casuali e, per la parte non rimessa alla volontà del contraente, alle condizioni miste:
è logicamente incompatibile con le condizioni potestative e, per la parte rimessa alla volontà del
contraente, con le condizioni miste. Se si tratta di condizione unilaterale, la finzione di
avveramento è invocabile solo dalla parte nel cui interesse la condizione risulta apposta. La
finzione opera quando la condizione non può più avverarsi: perciò, se per il suo avveramento il
contratto non abbia previsto un termine, l’art. 1359 risulterà applicabile solo quando si sia
raggiunta l’assoluta certezza che l’evento dedotto in condizione non potrà avere luogo.
Gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono alla data del contratto (art. 1360): il
diritto acquistato sotto condizione si considera acquistato fin dal momento della conclusione del
contratto. Ma ciò solo in linea di principio: lo stesso I comma dell’art. 1360 fa salva l’eventualità
che per volontà delle parti o “per la natura del rapporto” gli effetti dell’avveramento della
condizione debbano essere riportato ad un momento diverso dalla conclusione del contratto.
Inoltre, nei contratti di durata, la condizione risolutiva non ha effetto retroattivo, salva diversa
volontà delle parti (art. 1360, II comma). Non è tutto: l’avveramento della condizione non
pregiudica gli atti d’amministrazione compiuti prima del suo avveramento; i frutti sono dovuti dal
momento in cui la condizione si è avverata (art. 1361). Può accadere che la parte, la quale ha
acquistato o ha promesso di acquistare un bene sotto condizione sospensiva, si sia in pendenza
della condizione resa inadempiente alle proprie obbligazioni, come all’obbligazione di provvedere
da subito al pagamento dei ratei di un mutuo ipotecario gravante sull’immobile. Di qui un
problema: potrà la risoluzione del contratto per inadempimenti essere pronunciata su domanda
dell’altra parte, con condanna dell’inadempiente al risarcimento dei danni, anche qualora la
condizione non si avveri? Si può. Per un verso, essere indotti a rispondere negativamente al
quesito: il mancato avveramento della condizione priva d’efficacia il contratto e si tratta
d’inefficacia che opera ex tunc, facendo cadere ab origine le obbligazioni che ne sono derivate e
rendendo giuridicamente irrilevante il loro inadempimento, salve le conseguenze derivanti dalla
violazione del dovere di buona fede. Altra soluzione: anche la risoluzione per inadempimento
opera ex tunc e, se l’inadempimento di una parte si manifesta in pendenza della condizione
sospensiva, la risoluzione del contratto, che consegue all’inadempimento, travolge anche la
condizione, rendendo irrilevante tanto il suo avveramento quanto il suo mancato avveramento. A
maggior ragione questa conclusione vale in presenza di una clausola risolutiva per il caso
d’inadempimento: qui si può dire che il contratto è già risolto, per la dichiarazione della parte
adempiente di volersi avvalere della clausola risolutiva, quando scade il termine per
l’avveramento della condizione sospensiva. Ancora a favore della prima soluzione si può addurre
che il contratto condizionale è stipulato dalle parti nella piena consapevolezza d’avere posto in
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essere un contratto suscettibile di non produrre alcun effetto. Esse non possono fare legittimo
affidamento sull’adempimento delle reciproche obbligazioni, anche se si tratta di obbligazioni
previste per il periodo di pendenza della condizione. Bisogna, però, introdurre una distinzione: è
legittimo separare le obbligazioni, la cui sorte è subordinata all’evento condizionante, dalle
obbligazioni la cui ragion d’essere ne prescinde, avendo la diversa funzione di salvaguardare, in
pendenza della condizione, le ragioni dei contraenti, indipendentemente dalla sorte finale che
subirà il contratto. Il problema non sta nel decidere sulla prevalenza delle due cause di successiva
inefficacia del contratto: se prevalga il mancato avveramento della condizione sospensiva oppure
la risoluzione del contratto; decisiva è, invece, la funzione delle obbligazioni nascenti dal contratto
condizionale: sono irrimediabilmente travolte dal mancato avveramento della condizione, e non
più suscettibili di provocare la risoluzione del contratto per inadempimento, le obbligazioni
costituenti l’oggetto caratterizzante il contratto condizionale; producono, invece, i propri effetti,
inclusa la responsabilità per i danni cagionati con l’inadempimento, le obbligazioni che,
quantunque previste nel contratto condizionale, assolvono una funzione conservativa delle ragioni
dei contraenti, analoga alla funzione di comportarsi secondo buona fede.
Il codice civile regola solo la condizione volontaria o condicio facti, ossia quella apposta al contratto
per volontà delle parti (art. 1353). Si parla, invece, di condizione legale o condicio iuris quando è la
stessa legge a subordinare l’efficacia del contratto al verificarsi di un evento futuro ed incerto. Così
si considera condizione legale, rispetto ai contratti conclusi dalle pubbliche amministrazioni,
l’approvazione del contratto da parte delle autorità di controllo. La condicio iuris può operare anche
rispetto a contratti fra privati: si considera condizione legale l’autorizzazione governativa
all’importazione di determinate merci, richiesta da specifiche leggi. Si suole ripetere che la
condizione legale non ha, a differenza di quella volontaria (art. 1360), effetto retroattivo, il che non
è sempre vero: non lo è, in particolare, nel caso delle autorizzazioni amministrative cui è
subordinata l’efficacia di contratti fra privati. Prevale, inoltre, l’opinione di chi ritiene non
applicabile alla condicio iuris la finzione di avveramento, mentre soluzione opposta è accolta dal
codice civile tedesco. Anni addietro si era ritenuto che la finzione di avveramento della condicio
iuris potesse essere efficacemente utilizzata per combattere l’inerzia degli organi pubblici di
controllo, ma si è poi dovuto considerare che l’applicazione dell’art. 1359 in questa materia finiva
con il subordinare all’interesse privato l’interesse pubblico a salvaguardia del quale sono
legislativamente predisposti i controlli dell’autorità. Analogo discorso vale per i contratti fra
privati, sottoposti a pubblica autorizzazione. Per questi va però considerato che, il più delle volte,
la condicio iuris partecipa dei caratteri della condizione mista: il mancato verificarsi di essa può
essere dipeso, anziché dall’inerzia dell’autorità, dalla colposa condotta del contraente, che si è
astenuto dal chiedere l’autorizzazione amministrativa o che l’ha formulata in modo irrituale. Il che
solleva il problema se di mancato avveramento della condizione si tratti o non piuttosto
d’inadempimento di un’obbligazione contrattuale. La soluzione non muta, ovviamente, se la
condicio iuris sia espressamente richiamata nel contratto; ciò che non vale a trasformarla in condicio
facti. Diverso è il caso della condizione legale erroneamente supposta: le parti subordinano
l’efficacia del contratto all’approvazione di una superiore autorità, ma quest’approvazione si rivela
non necessaria; la parte interessata potrà esigere l’esecuzione del contratto anche in difetto
dell’autorizzazione. Ancora diverso è il caso in cui l’atto autorizzato dell’autorità superiore sia
stato menzionato nel contratto pur nella consapevolezza della sua superfluità: esso diventa, in tal
caso, condicio facti, e la mancata autorizzazione rende inefficace il contratto.
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Un medesimo evento può, in contratto, essere dedotto come condizione, potestativa o mista e può,
altresì, essere dedotto come oggetto di un’obbligazione di una parte nei confronti dell’altra.
L’esperienza ha messo in evidenza un triplice ordine d’ipotesi:
a) Può accadere che l’adempimento di una delle obbligazioni caratterizzanti un dato tipo
contrattuale, come il pagamento del prezzo nella vendita, sia dalle parti qualificato come
condizione sospensiva d’efficacia del contratto con la conseguenza che, in deroga al principio
consensualistico, la proprietà non passa fino a quando non sia stato pagato il prezzo; né ci sono,
fino a quel momento, consegna della cosa e passaggio dei rischi, come nella vendita con patto di
riservato dominio. Di fronte a questo ordine d’ipotesi si può essere indotti a giudicare nullo il
contratto, siccome sottoposto a condizione meramente potestativa, o si può essere tentati di
assoggettarlo, in quanto contratto con clausola di dubbia validità, ad un’interpretazione
conservativa (art. 1367). A ben guardare, tuttavia, si tratta di condizione potestativa, e non
meramente potestativa, essendo in gioco, come ha rilevato la Cassazione, una “valutazione di
convenienza” del compratore, al quale è contrattualmente rimessa la scelta se pagare il prezzo,
dando efficacia al contratto, oppure non pagarlo, rendendo il contratto inefficace. D’altra parte,
anche l’interesse del venditore ad un simile contratto si rivela meritevole di tutela. Le parti,
dunque, fanno legittimo uso dell’autonomia contrattuale.
b) Può accadere che un evento di norma assunto quale condizione venga dedotto in contratto
quale oggetto di un’obbligazione. Così il conseguimento di una licenza amministrativa per il
cambio di destinazione di un immobile. In linea di principio, la parte di un contratto sottoposto a
condizione non ha alcun obbligo di produrre l’avveramento o di cooperare all’avverarsi della
condizione; su di essa incombe solo l’obbligo di cui all’art. 1358, che è obbligo puramente negativo:
deve cioè astenersi da ogni atto che pregiudichi le aspettative dell’altro contraente o impedisca
l’avveramento della condizione. Quando, invece, la parte sia contrattualmente obbligata a
cooperare alla produzione dell’evento, non può parlarsi di condizione. La disciplina da applicare
in caso di mancato avveramento darà, di conseguenza, quella dell’inadempimento delle
obbligazioni, secondo i principi di cui agli artt. 1218 ss e 1453.
c) Può, infine, accadere che un dato evento possa essere indifferentemente assunto tanto come
oggetto di un’obbligazione quanto come condizione, ed è problema d’interpretazione del contratto
lo stabilire se si versa nella prima o nella seconda ipotesi. È il caso dei minimi di fatturato annuo
previsti dai contratti di distribuzione o dalle licenze di produzione o dalle licenze di marchio.
CAP. 6°: L’EFFETTO TRASLATIVO DEL CONTRATTO
Nel sistema del codice civile il contratto è fonte di obbligazioni (art. 1173) ed è anche modo
d’acquisto della proprietà (art. 922) e degli altri diritti, reali o di credito (art. 1376). Si parla di effetti
obbligatori del contratto quando si fa riferimento alle obbligazioni che dal contratto derivano; si
parla di effetti reali del contratto quando si fa riferimento agli effetti traslativi prodotti
direttamente dal contratto, al momento stesso della formazione dell’accordo delle parti. Alcuni
contratti sono solo fonte di obbligazioni delle parti, di una di esse o di entrambe; li si classifica
come contratti con effetti obbligatori. Altri contratti, invece, producono l’effetto di trasferire la
proprietà o altri diritti, oltre ad essere, al tempo stesso, fonti di obbligazioni: a questi contratti si dà
il nome di contratti con effetti reali. Il nostro sistema legislativo è retto, in materia di contratti
traslativi, dal c.d. principio consensualistico, espresso dall’art. 1376, che per i contratti che hanno per
oggetto il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, dispone che
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“la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti
legittimamente manifestato”. In virtù del principio consensualistico il nostro sistema differisce sia
da antichi sistemi, come quello del diritto romano, per il quale la proprietà passava, di regola, solo
al momento della consegna della cosa, sia da sistemi contemporanei, come quello dei paesi
dell’area germanica, il quale è rimasto fedele all’antica regola del diritto romano. Il principio
consensualistico è quello che esprime il maggior favore per la circolazione della ricchezza e per
l’utilizzazione delle risorse. In esso i principi del giusnaturalismo si combinano con quelli del
liberalismo economico. Si acquista la proprietà e, con essa, la facoltà di disporre delle cose ancor
prima di avere ricevuto la consegna e, perciò, prima ancora di avere pagato il prezzo. Ovunque il
creditore può legittimamente rifiutarsi di consegnare la cosa al compratore che non ne paghi
contestualmente il prezzo (art. 1498, II comma); ma nei sistemi che subordinano il trasferimento
della proprietà alla consegna ciò finisce con il collegare fra loro il pagamento del prezzo, l’effetto
traslativo e la facoltà di disposizione. Questi sistemi proteggono in massimo grado il proprietario.
Il principio consensualistico opera, per contro, come principio attivatore della circolazione: basti
considerare che il compratore può non avere il danaro per pagare il prezzo, e proporsi di
procurarselo con la rivendita della cosa (ad un prezzo superiore a quello dell’acquisto, che gli
assicura un guadagno) o con i guadagni derivanti dalla sua utilizzazione, se si tratta di cosa
produttiva. Per altro aspetto il principio consensualistico giova all’alienante. Il passaggio dei rischi
relativi alla cosa venduta è ovunque retto dal principio res perit domino, sicché il principio
consensualistico espone l’acquirente al rischio di dover pagare il prezzo di un bene che non potrà
essergli consegnato perché perito prima della consegna (per causa non imputabile all’alienante). La
nostra legge protegge l’alienante non pagato in altro modo: nell’alienazione di beni immobili con
pagamento del prezzo posticipato il venditore può iscrivere ipoteca legale sul bene venduto a
garanzia delle obbligazioni che derivano dal contratto (art. 2817); altrettanto può fare il venditore
di beni mobili iscritti in pubblici registri (art. 2810). Per gli altri beni mobili manca un’analoga
garanzia per il venditore: le parti possono però adottare le forme di vendita con riserva della
proprietà, per le quali il compratore acquista la proprietà della cosa solo con il pagamento
dell’ultima rata del prezzo (art. 1523).
È però vero che il principio consensualistico si è affermato nel nostro sistema più come “tendenza”
che come “dogma”, perché esso: non si applica a tutti i diritti, sottraendosi ad esso i diritti reali di
garanzia, che si costituiscono, come nel caso del pegno, in forza della conseguenza della cosa (art.
2786) o, come nel caso dell’ipoteca, in virtù dell’effetto costitutivo dell’iscrizione, che degrada l’atto
del datore d’ipoteca a semplice titolo per l’iscrizione (art. 2808); non si applica a tutte le cose,
essendo rimasto ad esso estraneo il trasferimento dei titoli di credito, regolato dagli artt. 1992 ss.;
non si applica a tutti gli effetti del trasferimento, giacché l’acquirente di cosa mobile che non ne
consegua il possesso rischia di perderne la proprietà per effetto dell’acquisto a titolo originario del
successivo acquirente che in buona fede ne abbia conseguito il possesso (art. 1155).
Si deve ancora considerare che, perché operi il principio consensualistico, occorre che il contratto
abbia per oggetto il trasferimento di una cosa determinata (art. 1376). Se si tratta, invece, di cose
determinate solo nel genere, la proprietà non può, ovviamente, passare al momento del contratto:
passerà solo al momento dell’individuazione, fatta d’accordo fra le parti o nei modi da queste
stabiliti (art. 1378). L’individuazione avviene all’atto della consegna dell’alienante all’acquirente. È,
tuttavia, possibile che l’individuazione avvenga in un momento anteriore alla consegna, purché
l’individuazione sia concordata dalle parti o avvenga secondo un criterio da esse concordato. Se
oggetto del contratto è una massa di cose (es. tutta la merce contenuta in un dato magazzino del
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venditore), la proprietà passa secondo il principio consensualistico, e non occorre l’individuazione
delle singole cose, anche se determinati effetti (come per determinarne il prezzo) le cose debbano
essere numerate, pesate o misurate (art. 1377). Quando oggetto del contratto sono merci da
trasportare da un luogo ad un altro, da piazza a piazza, l’individuazione, e quindi il passaggio di
proprietà, avviene al momento della consegna la vettore o allo spedizioniere (art. 1378), il che,
tuttavia, presuppone che il contratto si fosse già perfezionato prima della consegna: diverso è il
caso in cui la consegna stessa operi come tacita accettazione dell’altrui proposta contrattuale. Si
dovrà allora distinguere: se il contratto si forma a norma dell’art. 1327, in forza dell’inizio
dell’esecuzione senza risposta dell’accettante, la consegna al vettore o allo spedizioniere vale a
perfezionare il contratto, oltre che a trasferire la proprietà. Se, invece, il contratto è suscettibile di
perfezionamento solo secondo i principi generali di cui all’art. 1326, il contratto è concluso solo nel
luogo e nel tempo in cui la merce è recapitata al proponente, non nel luogo o nel tempo della
consegna al vettore o allo spedizioniere, giacché solo il finale recapito porta a conoscenza del
proponente l’accettazione dell’altra parte. Anche la proprietà della merce, di conseguenza, passerà
solo al momento del recapito. Ulteriore problema è sollevato dalla vendita di merci depositate o
caricate alla rinfusa. L’ipotesi ricorre quando merci omogenee destinate ad una pluralità di
compratori sono depositate o caricate in unica massa, senza identificazione dei diversi destinatari.
Per la giurisprudenza, fino a quando non si attua la materiale separazione delle merci, non si ha
individuazione e, quindi, passaggio della proprietà. Secondo una parte della dottrina la clausola
pro rata apposta al contratto o gli usi del commercio comportano la conseguenza che le merci
passano in comproprietà ai compratori; ma la tesi trova ostacolo nel fatto che una simile
comunione non avrebbe bisogno, per sciogliersi, della divisione a norma dell’art. 1111, avendo
invece ciascun compratore il diritto alla separazione materiale della quantità di merce spettantegli
indipendentemente dal consenso degli altri compratori. Più convincente soluzione è quella che si
basa sull’art. 939: se cose appartenenti a diversi proprietari sono “unite e mescolate in guisa da
formare un sol tutto, ma sono separabili senza notevole deterioramento, ciascuno conserva la
proprietà della cosa sua ed ha diritto di ottenere la separazione”. Stabilire il momento in cui la
proprietà passa è rilevante agli effetti del rischio del perimento della cosa: il rischio incombe su chi
ne è proprietario; sul venditore, se ne è ancora proprietario, sul compratore se ne è già proprietario
(res perit domino). Perciò, se è stata venduta una cosa determinata, già passata quindi in proprietà
del compratore al momento del contratto (art. 1376), e la cosa perisce, prima della consegna al
compratore, per causa non imputabile al venditore, il rischio incombe sul compratore, che dovrà
ugualmente pagarne il prezzo (art. 1465). Se si tratta di cosa di genere, occorrerà accertare se, al
momento del perimento, sia già avvenuta l’individuazione (art. 1465).
Il contratto preliminare, la lettera di intenti ed il programma contrattuale
Il contratto preliminare, detto anche pactum de contrahendo, è un contratto con effetti obbligatori: le
parti si obbligano a concludere un futuro contratto, che in rapporto al primo si suole definire come
contratto definitivo, del quale predeterminano il contenuto. La figura emblematica è il preliminare
di vendita: esso è fonte dell’obbligazione, di vendere e di comprare. Il trasferimento della proprietà
si avrà solo quando, in adempimento del preliminare, le parti concluderanno il contratto
definitivo. Con la conclusione di questo, il preliminare esaurisce la propria funzione: il definitivo
può anche non conformarsi ai contenuti predeterminati nel preliminare, è definitivo la fonte
esclusiva dei diritti e delle obbligazioni inerenti al tipo contrattuale voluto dalle parti. La figura
descritta è il c.d. preliminare puro, contenente la sola obbligazione di concludere il futuro
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contratto. Nell’esperienza è, però, presente anche il c.d. preliminare ad effetti anticipati: le parti si
obbligano reciprocamente all’anticipata consegna della cosa ed all’anticipato pagamento, in tutto o
in parte, del relativo prezzo; sicché gli effetti del contratto voluto dai contraenti sono prodotti, in
parte, dal contratto preliminare e, per il resto, dal contratto definitivo. Il codice civile si occupa del
contratto preliminare sotto un triplice aspetto: ne prescrive la forma, che deve essere, a pena
nullità, quella stessa che la legge richiede per contratto definitivo (art. 1351). Prevede, inoltre,
l’eventualità che una delle parti non adempia il preliminare nel termine in esso fissato o in quello
derivante dalla natura o dall’oggetto del contratto: l’altra parte può rivolgersi al giudice ed
ottenere, se il preliminare non lo esclude, l’esecuzione forzata dell’obbligazione di contrarre. Il
giudice emetterà una sentenza che produce gli effetti del contratto non concluso (art. 2932). Il
contratto preliminare è fonte di vincolo solo personale, non è opponibile al terzo avente causa del
promittente alienante, neppure se questi, all’atto dell’acquisto, fosse stato consapevole del
precedente contratto preliminare: nel qual caso, tuttavia, la giurisprudenza accorda al promissario
acquirente l’azione di danni anche nei confronti del terzo, a titolo di responsabilità
extracontrattuale ex art. 2043, per concorso colposo nell’altrui inadempimento contrattuale.
Per i contratti preliminari di contratti traslativi (o costitutivi o modificativi) della proprietà o di
altri diritti reali sui beni immobili, l’art. 2645 bis ha tuttavia, introdotto un’opportuna tutela del
promissario acquirente, prevedendo la trascrizione del preliminare nei registri immobiliari. Per
effetto della trascrizione del preliminare, la successiva trascrizione del contratto definitivo prevale
sulle trascrizioni ed iscrizioni eseguite contro il promittente alienante dopo la trascrizione del
preliminare. Il contratto definitivo produce effetti ex nunc; produce, del pari, effetto ex nunc la
sentenza ex art. 2932. Si ricorre, nella pratica, al contratto preliminare in vari casi: quando le parti
intendono subito assicurarsi l’una l’impegno dell’altra, ma si riservano alcuni accertamenti tecnici,
come le opportune indagini nei registri immobiliari oppure la verifica delle qualità della cosa o, nel
caso di trasferimento di pacchetti azionari. Vi si ricorre anche quando le parti non abbiano ancora
raggiunto l’accordo su alcune clausole accessorie del contratto, che si riservano di negoziare prima
della conclusione del definitivo, ma è dubbio che il mancato accordo su queste potrà ugualmente
consentire il ricorso all’art. 2932 se una delle parti si rifiuterà di concludere il definitivo, dovendosi
piuttosto ritenere, per la riserva di ulteriore negoziazione, che il preliminare non si sia
perfezionato. Coloro che, per professione, si dedicano alle compravendite mobiliari od immobiliari
fanno ampio uso dei preliminari. Con il vero e proprio contratto preliminare non va confuso il
contratto, nella pratica spesso indicato con lo stesso nome, che è in realtà già definitivo, ma ancora
mancante dei requisiti necessari per valere come titolo per la trascrizione. Qui le parti non si
obbligano a vendere e a comprare, ma vendono e comprano; solo s’impegnano reciprocamente a
ritrovarsi in un secondo momento per riprodurre il contratto già definitivo in un documento avente
la forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata. In questo caso, se una delle parti
non adempie, l’altra non deve chiedere al giudice una sentenza e può direttamente agire, se il
compratore, per la consegna della cosa o, se è il venditore, per il pagamento del prezzo.
L’importanza della distinzione fra vero e proprio preliminare e definitivo da riprodurre
documentalmente emerge, fra l’altro, nell’ipotesi di perimento della cosa: nel secondo caso,
essendo la proprietà già passata al compratore, il perimento della cosa, per causa non imputabile
all’alienante, non libera l’acquirente dall’obbligazione di pagare il prezzo. Quando il preliminare
inadempiuto obbliga al trasferimento della proprietà di una cosa determinata o alla costruzione o
al trasferimento di altro diritto, la domanda d’esecuzione in forma specifica non può essere accolta
se la parte che l’ha proposta non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a
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meno che la prestazione non sia ancora esigibile. L’applicazione della norma ha dato luogo alla
prassi giudiziaria in forza della quale la sentenza traslativa ex art. 2932, viene emessa sotto la
condizione sospensiva dell’esecuzione della contro presentazione entro il termine fissato dal
giudice. Se il contratto preliminare reca la clausola compromissoria, anche per arbitrato irrituale,
avente ad oggetto le controversie relative all’esecuzione del contratto, gli arbitri possono emettere
una pronuncia produttiva degli effetti in cui all’art. 2932.
Altro dal contratto preliminare è la c.d. minuta di contratto: le parti concordano su alcuni estremi
del futuro contratto, ma non ancora su tutti, rimettendo ad un’ulteriore trattativa l’accordo sui
punti non ancora concordati. In questo caso, se non si raggiunge il successivo accordo sui punti
mancanti, non si potrà fare ricorso all’art. 2932, dovendosi ritenere che il contratto preliminare non
si era perfezionato oppure dovendosi constatare di essere in presenza di un contratto con oggetto
non determinato né determinabile, come tale nullo. La c.d. lettera d’intenti non è suscettibile di
qualificazione univoca: sotto questo nome è indicato nell’altro che una minuta di contratto, ma
quando il documento contiene tutti gli elementi del contratto e non fa riserva di trattativa ulteriore,
si dovrà dire di essere in presenza di un contratto preliminare. Minuta di contratto e lettera
d’intenti sono espressioni usate per indicare l’accordo raggiunto da negoziatori autorizzati dalle
parti a trattare, ma non investiti del potere di rappresentarle: il documento da essi sottoscritto non
vincola le parti fino a quando queste non lo abbiano a loro volta firmato. Resta una minuta di
contratto anche il documento, già completo di ogni elemento e già sottoscritto da persone abilitate
a rappresentare le parti, nel quale sia fatta riserva di ulteriori approvazioni. Qui si tratta di
contratto già perfezionato, ma sottoposto a condizione sospensiva: se così fosse, saremmo in
presenza di una condizione meramente potestativa che renderebbe nullo il contratto. Si tratta, per
esplicita volontà delle parti, di contratto ancora in formazione, che si perfeziona solo quando le
parti si danno reciprocamente notizia delle successive approvazioni. In mancanza d’approvazione
di una delle parti potrà esserci solo, ricorrendone i presupposti, responsabilità precontrattuale per
recesso ingiustificato dalle trattative (art. 1337), sempre che una tale responsabilità non sia stata
espressamente esclusa. Diverso dalla minuta è il programma di contratto, detto anche pactum de
tractando, in antitesi al pactum de contrahendo: con questo le parti s’impegnano ad instaurare fra loro
trattative per la formazione di un possibile contratto, del quale non hanno ancora concordato alcun
punto essenziale, fissando tempi e modalità delle trattative che si sono obbligate a condurre.
Secondo una prassi nata nei contratti internazionali questo programma reca alcune clausole
caratteristiche: la clausola di riservatezza, con la quale le parti s’impegnano a mantenere segreta la
trattativa e segrete le informazioni che si scambiano, oltre che a non fare copie dei documenti
ricevuti ed a restituirli in caso di rottura della trattativa, la clausola d’esclusiva, con la quale le
parti s’impegnano a mantenere inalterato, durante la trattativa, lo stato di fatto e di diritto della
cosa che ne dorma oggetto. Frequente è anche la clausola che prevede un termine entro il quale le
parti si sono reciprocamente obbligate a trattare e impone loro, fino alla scadenza di questo
termine, di non trattare sul medesimo oggetto con altri contraenti. Minuta di contratto e pactum de
tractando possono combinarsi fra loro: le parti concordano alcune clausole del contratto e
s’impegnano ad un’ulteriore trattativa per definire, entro un termine prefissato, le clausole non
ancora concordate. Il pactum de tractando presenta punti di contatto con il contratto preliminare: è,
al pari di questo, la fonte di un’obbligazione ed il rifiuto ingiustificato di proseguire nella trattativa
è un inadempimento contrattuale. Ma le conseguenze dell’inadempimento non possono essere le
stesse. Certo non si potrà chiedere al giudice di sostituirsi alla parte inadempiente e di emettere
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una sentenza che tenga luogo del contratto non concluso, si potrà, invece, ottenere il risarcimento
del danno.
I contratti reali e la cessione dei crediti e del contratto
Il contratto si perfeziona con l’accordo delle parti: da quel momento esso produce tutti i suoi
effetti, siano essi effetti reali oppure effetti obbligatori. In linea generale, l’accordo delle parti è
necessario e sufficiente per perfezionare il contratto. In alcuni casi, tuttavia, l’accordo è necessario,
ma non sufficiente: occorre, oltre all’accordo delle parti, la consegna della cosa che forma oggetto
del contratto. I contraenti che si perfezionano per il solo accordo delle parti sono detti contratti
consensuali, agli altri si suole dare, invece, il nome di contratti reali. Sono contratti reali, oltre alla
donazione manuale di modico valore, il deposito, il comodato, il mutuo, il contratto costitutivo di
pegno, il riporto, il contratto estimatorio. Nei contratti consensuali, la legge protegge l’interesse
alla prestazione di entrambe le parti. Nei contratti reali, invece, il contratto si perfeziona solo con la
consegna, la legge giudica meritevole di protezione l’interesse alla prestazione di una sola delle
parti: così, se la cosa è stata data in comodato, è protetto l’interesse del comodante alla restituzione
(oltre che alla custodia) della cosa; non è protetto l’interesse del comodatario a ricevere la cosa in
prestito. La sopravvivenza in epoca moderna di contratti qui re contrahuntur è stata giudicata “un
vero scandalo giuridico”; anche se si è dovuto aggiungere che “il codice stesso tiene poi un piede
nella staffa della consensualità”: è valida, infatti, la promessa di mutuo (art. 1822), sicché l’interesse
del mutuatario a ricevere il prestito, non protetto in linea di principio attesa la realtà del mutuo
(art. 1813), trova protezione quando la volontà del mutuante abbia assunto la configurazione di
una promessa. Le proporzioni dello “scandalo” si riducono se poi si considera che il mutuo
consensuale è giudicato valido solo se è mutuo oneroso, e la medesima condizione è posta alla con
sensualità del deposito, mentre il comodato è gratuito per sua essenza. È locazione, e non più
comodato, il contratto con il quale si concede ad altri il godimento della cosa propria contro
corrispettivo. A questo modo la realità si rivela un essentiale negotii solo nei contratti reali gratuiti,
mentre è un naturale negotii nei contratti reali onerosi. Le norme che rendono reali questi ultimi
sono norme solo suppletive, che operano in difetto di una diversa volontà delle parti. Non va
trascurato che la consegna della cosa svolge una specifica funzione anche nei contratti consensuali.
Se, con successivi contratti, una parte aliena un medesimo bene mobile a più soggetti, prevale fra
questi quello che per primo consegue il possesso di buona fede del bene (art. 1155); se concede a
diversi contraenti un diritto personale di godimento sulla medesima cosa, prevale tra essi quello
che per primo ha conseguito il godimento della cosa (art. 1380). È un criterio di soluzione del
conflitto fra i più contraenti che s’affianca agli altri criteri: fra più acquirenti di un bene immobile o
di un bene mobile registrato prevale quello fra essi che per primo ha trascritto l’acquisto (art. 2644);
fra più cessionari di un medesimo credito prevale quello di essi che per primo ha notificato la
cessione del debitore (art. 1265).
Anche i crediti, al pari dei beni, possono circolare con l’effetto di sostituire all’originario creditore
un nuovo creditore, fino al momento in cui, con l’adempimento da parte del debitore (o con il
verificarsi di un’altra causa d’estinzione), l’obbligazione non si sia estinta. La figura giuridica che
ne attua la circolazione è la cessione dei crediti: il creditore trasferisce ad altri, a titolo oneroso o a
titolo gratuito, il proprio diritto di credito, senza necessità del consenso del debitore (art. 1260). Il
primo è il cedente, il secondo è il cessionario, il terzo è il debitore ceduto. Questi è, comunque,
tenuto a pagare: è indifferente che adempia a favore di un soggetto o di un altri, è, perciò,
superfluo il suo consenso alla cessione. Con la cessione si trasferiscono anche gli accessori del
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credito ceduto: passano al cessionario i privilegi, le garanzie personali e reali che assistono il
credito oggetto della cessione (art. 1263). La cessione del credito può, per l’art. 1260, essere a titolo
oneroso o a titolo gratuito; essa non è un contratto a sé stante, ma è l’oggetto di un contratto
traslativo di diritti. Il punto, per la verità, non è sempre chiaro alla giurisprudenza, come in
passato non era stato chiaro alla dottrina. Talvolta la cassazione muove dall’esatta premessa che
“la cessazione dei crediti non è un tipo contrattuale a sé stante”, per poi alludere ad un
“sottostante contratto, a titolo oneroso o gratuito, che vi sta a base”; e concludere che “essa non ha
una causa tipica, ma costituisce un negozio a causa variabile o generica”. Ma la cessione del credito
di cui parla l’art. 1260 equivale al “trasferimento della proprietà” o al “trasferimento di un diritto
reale” di cui fa parola l’art. 1376: l’una e l’altra sono “l’oggetto del contratto” e la norma allude
anche alla cessione dei crediti quando fa, subito dopo, onnicomprensivo riferimento al
“trasferimento di un altro diritto”. Non c’è un contratto sottostante alla cessione, come non c’è un
contratto sottostante al trasferimento della proprietà; la cessione non è un contratto “a causa
variabile”, allo stesso modo con cui non si può parlare del trasferimento della proprietà come di un
contratto a causa variabile. In quanto “trasferimento di un diritto”, la cessione del credito è retta
dal principio consensualistico. Oggetto di cessione può essere un credito futuro. L’art. 1260 non
richiede che il credito ceduto abbia i requisiti della liquidità ed esigibilità; pertanto, può formare
oggetto di cessione anche un credito non determinato nell’ammontare o un credito non esigibile.
Non tutti i crediti sono cedibili, sono esclusi quelli di “carattere strettamente personale”, per i quali
non può dirsi indifferente che il debitore adempia a favore di un soggetto o di un altro. In alcuni
casi la cessione è vietata in assoluto (anche in presenza del consenso del debitore ceduto);
magistrati, avvocati, notai non possono, neppure per interposta persona, rendersi cessionari dei
diritti sui quali è sorta contestazione davanti all’autorità giudiziaria di cui fanno parte o nella cui
giurisdizione esercitano le loro funzioni (art. 1261). Sono incedibili anche i crediti alimentari (art.
447) e, in genere, quelli inerenti ai rapporti di famiglia. Per patto fra creditore e debitore può essere
esclusa la cedibilità del credito, ma il patto non è opponibile al cessionario, se non si prova che egli
lo conosceva al momento della cessione (art. 1260).
La cessione del credito attua il trasferimento del diritto dal cedente al cessionario al momento
stesso della cessione, in virtù del principio consensualistico, ma è efficace, nei confronti del
debitore ceduto, solo dal momento in cui è stata notificata a questo o è stata da questo accettata.
Fino a quel momento il debitore si libera adempiendo nei confronti del cedente, salvo che il
cessionario non provi che era comunque a conoscenza della cessione, dopo quel momento, se paga
nelle mani del cedente, paga male e può essere costretto dal cessionario a pagare una seconda volta
(art. 1264). La notificazione ha anche un altro effetto: se il medesimo credito è, con successivi
contratti, ceduto a più persone, prevale non la cessione di data anteriore, ma quella che sia stata
notificata per prima al debitore ceduto (art. 1265). Per la notificazione della cessione al debitore
ceduto non sembrano richiese particolari forme. Il cessionario del credito, allorché agisce verso il
debitore ceduto, dovrà dare prova dell’avvenuta cessione, in forza di un atto idoneo a produrre
l’effetto traslativa del credito. Ma l’atto traslativo può essere successivamente dichiarato nullo o
può essere annullato, con la conseguenza che il debitore ceduto risulterò ex post avere pagato nelle
mani di un creditore solo apparente. La cessione fa acquistare il credito a titolo derivativo; è retto,
quindi, dal principio per il quale l’avente causa non può acquistare diritti maggiori di quelli
spettanti al dante causa. Perciò, il cessionario è esposto alle stesse eccezioni che il debitore ceduto
avrebbe potuto opporre al cedente. Questo inconveniente è stato eliminato quando il credito è
acquistato a tiolo originario, ma ciò è possibile solo per i crediti che siano rappresentati da titoli di
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credito, che sono beni mobili, come tali sottoposti alle norme sull’acquisto a titolo originario (art.
1994). Il credito può essere un credito inesistente: es. un credito nascente da un contratto che,
successivamente alla cessione, venga dichiarato nullo oppure un credito che si è estinto per effetto
della compensazione opposta dal debitore ceduto. Può, inoltre, accadere che, pur trattandosi di
credito esistente, il debitore ceduto non adempia per la semplice ragione che non può o non vuole
adempiere. La prima ipotesi è regolata in modo corrispondente all’evizione nel trasferimento di
cose (art. 1483): il cedente, se la cessione è a titolo oneroso, deve garantire l’esistenza del credito al
tempo della cessione (c.d. garanzia del nomen verum), allo stesso modo con cui il venditore di cose
deve garantire il compratore dall’evizione; se, invece, la cessione è a titolo gratuito, la garanzia è
dovuta, come nella donazione di cose è dovuta la garanzia per evizione, se espressamente pattuita
(art. 1266). La responsabilità che ne deriva in capo al cedente ha natura oggettiva: prescinde dalla
sua colpa o, meglio, non consente la prova liberatoria di cui all’art. 1218, trattandosi di
obbligazioni di garanzia. Diverso discorso vale per l’ipotesi di mancato adempimento: il cedente,
per regola generale, non garantisce la solvenza del debitore ceduti, l’inadempimento di questo è,
dunque, un rischio del quale il cedente si libera addossandolo al cessionario, che avrà inutilmente
pagato il corrispettivo della cessione. Ma con apposta clausola (c.d. clausola “salvo buon fine”) si
può pattuire che il cedente garantisca la solvenza del debitore ceduto, con la conseguenza che il
cessionario, se il debitore non paga, potrà rivolgersi al cedente ed esigere da lui il rimborso di
quanto ha ricevuto, con gli interesse e le spese (art. 1267). Nel primo caso si parla,
tradizionalmente, di cessione pro soluto, nel secondo di cessione pro solvendo. Più in particolare, la
cessione del credito può assolvere una delle seguenti funzioni: può avere una funzione traslativa: è
quanto accade nella vendita in senso stretto del credito; può avere una funzione solutoria: è quanto
accade nella datio pro solvendo, ossia nella cessione di un credito in luogo dell’adempimento (art.
1198). Può avere, altresì, una funzione di garanzia: il debitore cede al creditore un proprio credito
per garantire l’adempimento della propria obbligazione. Si tratta di una garanzia atipica, destinata
a svolgere una funzione analoga al pegno di crediti o di titoli. La cessione viene ricondotta alla
funzione di garanzia dall’accessorio pactum fiduciae, che è qui fiducia cum creditore, in base al quale
il creditore deve ritrasferire il credito al debitore, ove questi rimborsi in anticipo il debito garantito,
o deve considerare estinto per compensazione il proprio credito, quando alla scadenza procede
all’incasso del credito ricevuto in cessione. In ciò la cessione mostra di assolvere anche una
funzione satisfativa, analoga alla datio pro solvendo, ma questa è presente anche nel pegno dei
crediti, secondo l’art. 2803 ed è perciò compatibile con la funzione di garanzia, tipica od atipica che
sia. Elemento caratteristico della cessione di credito in luogo dell’adempimento è che il credito
originario sopravvive alla cessazione, non essendoci qui novazione, ma non è esigibile fino alla
scadenza del credito ceduto: vale l’art. 1267, richiamato dall’art. 1198. Caratteristico di questa
figura è anche il fatto che l’eventuale surplus realizzato dal creditore deve essere restituito al
debitore, mentre nello sconto e in genere nella vendita di crediti esso profitta al cessionario,
scontatore o compratore del credito; e le clausole che prevedessero la restituzione del surplus
conducono con certezza ad escludere che il contratto di finanziamento includa uno sconto o una
vendita del credito. Per decidere se si tratta di datio pro solvendo o di cessione a scopo di garanzia
soccorre un preciso criterio: dottrina e giurisprudenza sono dell’avviso che la datio pro solvendo
presupponga, necessariamente, l’anteriorità del debito rispetto alla datio, e la giurisprudenza in
tema di revocatoria fallimentare insiste nel precisare che, quando c’è contestualità fra costituzione
del debito e cessione del credito, la cessione del credito ha funzione di garanzia. Può avere, infine,
funzione di “cartolarizzazione” dei crediti ceduti: la società cessionaria dei crediti ceduti si procura
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il corrispettivo dovuto al cedente attraverso l’emissione di titoli nei quali viene incorporato il
diritto di ottenere in via esclusiva quanto pagato dai debitori ceduti alla società stessa, che
risponderà nei confronti del sottoscrittore solamente con il portafoglio dei crediti acquistati per
quella determinata operazione di cartolarizzazione.
Il contratto può essere, esso stesso, l’oggetto di un contratto traslativo, ossia materia di vicenda
circolatoria. È la cessione del contratto: con questa una parte, il cedente, sostituisca a sé un terzo, il
cessionario, nei rapporti derivanti da un contratto a prestazioni corrispettive, con la conseguenza
che il terzo cessionario assumerà rispetto all’altro contraente, il contraente ceduto, la medesima
posizione già occupata dal cedente. Per perfezionare la cessione è però necessario il consenso del
contraente ceduto (art. 1406) e ciò si spiega se si considera che per il contraente ceduto il
cessionario del contratto non è solo, come nella cessione dei crediti, un nuovo creditore, ma è
anche, in rapporto ai crediti del contraente ceduto, un nuovo debitore, le cui qualità personali o le
cui condizioni patrimoniali non sono, di regola, indifferenti per il creditore. Solo in quei contratti
dove quelle qualità e condizioni sono irrilevanti, è superfluo il consenso del contraente ceduto. La
cessione del contratto è, per l’art. 1406, possibile solo se le prestazioni contrattuali debbano ancora
essere eseguite. Ma bisogna al riguardo distinguere fra contratti ad esecuzione istantanea o
differita e contratti ad esecuzione continuata o periodica. Nei primi, se uno dei due contraenti ha
già eseguito la sua prestazione, non potrà più avere luogo una cessione del contratto: solo, semmai,
la cessione del suo credito alla controprestazione: così, in una vendita di merci già consegnate, il
venditore non cederà il contratto, ma il suo credito per il prezzo. Occorre che entrambe le
prestazioni siano ancora ineseguite. Contratti ad esecuzione continuata o periodica: qui la cessione
è possibile anche se è iniziata, da entrambe le parti, l’esecuzione del contratto, ed è possibile fino a
quando il contratto non sia sciolto e, perciò, sia ancora suscettibile d’esecuzione. Così è, ad
esempio, la cessione del contratto di locazione (art. 1594): il cessionario prende il posto del
conduttore originario e, dal momento della cessazione, ne assume verso il locatore le medesime
obbligazioni e ne acquista i medesimi diritti. Il cedente è, in linea di principio, liberato dalle
obbligazioni verso il contraente ceduto: resta obbligato solo se il contraente ceduto abbia
dichiarato, nell’accettare la cessione, di non liberare il cedente. In tal caso, se il cessionario non
adempie, il contraente ceduto potrà rivolgersi al cedente (art. 1408). Il contraente ceduto può
opporre al cessionario solo le eccezioni basate sul contratto, non anche quelle basate su altri
rapporti con il cedente (art. 1409). La regola è coerente con quanto previsto in tema di cessione del
credito, giacché qui il contraente ceduto ha accettato la cessione. Le garanzie dovute dal cedente al
cessionario sono analoghe a quelle operanti riguardo alla cessione dei crediti: il cedente garantisce
la validità del contratto ceduto (art. 1410), ma non garantisce, salvo patto contrario, l’adempimento
del contratto da parte del contraente ceduto.
CAP. 7°: IL CONTRATTO PLURILATERALE
La natura contrattuale del vincolo associativo era stata, in passato, disconosciuta; il concetto di
associazione era apparso incompatibile con il concetto di contratto. Nell’atto costitutivo delle
associazioni si era visto, anziché un contratto, un atto che si volle definire come “atto complesso” e
come “atto collettivo”, idoneo a dare vita ad una persona giuridica o, comunque, ad una
“istituzione”. Ed alla natura del gruppo associato quale persona giuridica o quale istituzione
vennero ricondotte tutte le situazioni giuridiche dell’associazione: sull’idea del rapporto
contrattuale, instaurato dai membri con l’atto costitutivo, prevalse quella del rapporto organico,
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intercorrente fra i membri e la collettività; la concezione del membro quale parte di un contratto fu
soppiantata da quella di un rapporto di appartenenza alla persona giuridica o all’istituzione.
L’opposta concezione contrattualistica si era, tuttavia, affermata alla vigilia del codice civile
vigente. Lo stesso codice civile mostra, all’art. 1420, di prendere posizioni al riguardo, allorché
definisce come contratto (plurilaterale) quello caratterizzato, oltre che dalla partecipazione di più
parti, dal fatto che “le prestazioni di ciascuna sono dirette al conseguimento di uno scopo
comune”. Concordanza d’interessi ed identità di scopo non sono più riguardate come caratteri
incompatibili con il concetto di contratto. La presenza di uno scopo comune alle parti non è, d’altro
canto, considerata un ostacolo all’applicabilità dei principi sui contratti. In termini contrattuali
vengono nuovamente valutate figure che si erano volute riportare alla teoria dell’istituzione, come
l’esclusione dei membri, già concepita come manifestazione del potere disciplinare dell’istituzione,
ora ricondotta allo schema della risoluzione del contratto ed assoggettata alle medesime norme.
L’essenza del fenomeno associativo si tende ora a ricercare all’interno del concetto di contratto: il
fenomeno associativo viene identificato in una particolare categoria contrattuale, detta dei contratti
con comunione di scopo; rivela i propri caratteri nel confronto con l’antitetica categoria c.d. dei
contratti di scambio. In questi le parti perseguono scopi contrapposti e la prestazione di ciascuna
va direttamente a vantaggio dell’altra parte; nei contratti associativi la prestazione di ciascuna è,
invece, preordinata al conseguimento d’uno scopo comune a tutte le parti. Da ciò deriva che, a
differenza di quanto avviene nei contratti di scambio, l’interesse di ciascuna parte non è senz’altro
realizzato dall’esecuzione delle prestazioni cui sono obbligate le altre parti: esso si realizza solo
attraverso lo svolgimento di quella ulteriore attività cui le prestazioni delle parti sono preordinate.
La nozione di contratto con comunione di scopo ha il merito di avere reso possibile la collocazione
dei fenomeni associativi nell’ambito del diritto dei contratti. A quest’importanza storica del
concetto non ha, tuttavia, fatto riscontro una sua corrispondente rilevanza normativa:
l’individuazione di una categoria contrattuale contrapposta a quella dei contratti di scambio ha,
sul terreno tecnico-interpretativo, rivelato il medesimo valore delle altre classificazioni dei
contratti. Non si è riusciti ad enucleare una disciplina unitaria dei contratti con comunione di
scopo, diversa dalla disciplina dei contratti di scambio ed applicabile ai primi in quanto
caratterizzati dalla comunione di scopo.
Si è proceduto, per costruire questa categoria contrattuale, in via di generalizzazione dei caratteri
propri della società, cui è stato riconosciuto il ruolo di paradigma della categoria; ma nessuna delle
norme, legislativamente dettate per le società, si è rivelata applicabile all’intera categoria dei
contratti con comunione di scopo. L’assenza di norme cominci a tutti i contratti nei quali si sono
ravvisati i caratteri della comunione di scopo impedisce di parlare di questi contratti come di una
categoria unitaria. Le discipline delle diverse figure che si sogliono comprendere nella categoria
dei contratti non comunione di scopo, lungi dall’essere riconducibili a principi comuni, appaiono
sensibilmente diverse. Risulta diversa, in particolare, la condizione giuridica nella quale, nel corso
dell’attività d’esecuzione del contratto, si trovano i beni conferiti dalle parti (ed i loro successivi
incrementi). Questi possono dare luogo alla costituzione di un fondo comune o essere, invece,
l’oggetto di attribuzione di una parte a favore dell’altra; ed il fondo comune può, a sua volta,
sottostare al regime della mera comunione o assumere, invece, i caratteri di un patrimonio
autonomo, sottratto all’azione esecutiva dei creditori personali delle parti e vincolato al
perseguimento dello scopo comune. L’attività d’esecuzione del contratto può, d’altro canto, essere
esercitata in comune dai contraenti o essere, al contrario, la prerogativa d’uno solo di essi, e
l’esercizio in comune può, a sua volta, manifestarsi nei soli rapporti interni o, oltre che in questi,
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anche nei rapporti esterni. Si parla, nel primo caso, di “associazioni meramente interne”: il vincolo
associativo non ha rilevanza per i terzi, i quali acquistano diritti ed assumono obbligazioni nei
confronti di quella sola delle parti che abbia con essi contrattato. Si parla, nel secondo caso, di
“associazioni con efficacia esterna!: le parti si presentano, di fronte ai terzi, come un gruppo
unitario, nel nome del quale vengono posti in essere gli atti inerenti all’attività d’esecuzione del
contratto. Le più elementari modalità di utilizzazione delle prestazioni si riscontrano in una figura
bilaterale, l’associazione in partecipazione (artt. 2549-2554), che è al limite, e secondo alcuni supera
il limite, dell’opposta categoria dei contratti di scambio: in essa non c’è, neppure nei rapporti
interni, l’esercizio di un’attività in comune dei contraenti, essendo la gestione dell’impresa o
dell’affare riservata all’associante; né c’è costituzione d’un fondo comune, entrando l’apporto
dell’associato nel patrimonio dell’associazione. E la tradizionale collocazione di questa figura tra i
contratti associativi si giustifica solo per la comunione d’aspettative esistente, in ordine ai risultati
dell’impresa o dell’affare, tra associato e associante e per il carattere strumentale che, rispetto al
conseguimento di tali risultati, assume l’apporto dell’associato. Prive di rilevanza per i terzi e con
fondo comune sottoposto al regime della mera comunione sono anche alcune figure plurilaterali: i
consorzi tra proprietari di cui agli artt. 918-920, i consorzi industriali senza attività esterna di cui
agli artt. 2602-2611. Il regime della comunione è, quanto ai primi, esplicitamente richiamato
dall’art. 920; l’assenza di un fondo dotato del carattere di un patrimonio autonomo è, quanto ai
secondi, desumibile a contrariis dall’art. 2614, che tale carattere attribuisce al fondo comune dei
consorzi con attività esterna. Nell’ambito delle associazioni meramente interne si collocano le
associazioni professionali, si colloca anche una diffusa figura atipica, il contratto di joint venture o
“associazione temporanea d’imprese”, che dà luogo ad una forma d’integrazione orizzontale fra
imprese. Più imprese s’impegnano a cooperare fra loro per concludere ed eseguire, ciascuna per la
sua parte, un appalto o una fornitura nei confronti di un terzo determinato. Esse conservano la loro
autonomia e non danno vita all’esercizio in comune di un’attività economica. Un’ipotesi
particolare la joint venture trova nel nostro ordinamento una specifica disciplina legislativa. La
legge n. 584/1977, sostituita dal d.l. 406/1991, ha introdotto la figura del raggruppamento
d’imprese per l’esecuzione delle opere pubbliche. Lo strumento utilizzato consiste nel
conferimento, da parte delle imprese “associate”, di un mandato con rappresentanza ad
un’impresa capogruppo, la quale è incaricata di formulare l’offerta. Tale mandato comporta la
responsabilità solidale verso l’amministrazione di tutte le imprese del raggruppamento, se
l’appalto ha per oggetto opere le cui parti non sono scorporabili; altrimenti risponde in solido solo
l’impresa capogruppo. Nelle associazioni in senso stretto, nelle società, siano esse di persone o di
capitali, lucrative o cooperative, nei consorzi industriali con attività esterna, le prestazioni delle
parti compongono, anche se si tratta d’associazione non riconosciuta (art. 37) o di società di
persone (artt. 2267, 2268, 2304), un fondo comune dotato dei caratteri di un patrimonio autonomo.
L’attività d’esecuzione del contratto è dalle parti esercitata in comune sia, mediante un’unitaria
organizzazione, nei rapporti interni sia, attraverso l’unitaria rappresentanza del gruppo, nei
rapporti esterni; e a differenza di quanto accade nei rapporti contrattuali, il vincolo associativo ha
comunque - anche quando le parti si propongano, con le interne pattuizioni, di tenerlo occulto ai
terzi - rilevanza esterna. La più antica dottrina era solita distinguere, all’interno del fenomeno
associativo, tra un elemento contrattuale ed un suo elemento c.d. “organizzativo”, che assumeva
come irriducibile allo schema del contratto. Quest’irriducibilità dell’intero fenomeno in termini
contrattuali veniva comunemente espressa con la proposizione secondo la quale la società o
l’associazione o il consorzio è sì un contratto ma è, al tempo stesso, anche una persona giuridica o,
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comunque, un soggetto di diritto. Si ammetteva la presenza del contratto, ma limitatamente al
momento genetico della società: “venuta la società ad esistenza, il substrato contrattuale”, ha
assolto la propria funzione. Un diverso, oggi più diffuso, orientamento è quello che ammette la
persistenza, oltre il momento genetico della società, di un vincolo contrattuale fra i soci: contratto e
persona giuridica coesistono per tutto il corso dell’esecuzione del rapporto. Quando ancora si
afferma che le situazioni giuridiche proprie dei fenomeni associativi non sono integralmente
riconducibili allo schema del contratto, s’enuncia una proposizione che è il portato di un’arbitraria
delimitazione del concetto di contratto: si tiene conto di una parte soltanto dei contratti regolati dal
codice civile ed, essenzialmente, di quelli che trovano la propria disciplina nel IV libro. L’arbitrio
logico si manifesta con tutta evidenza in tema di trasferimento, per atto fra vivi, della qualità di
membro del gruppo associato. Se il vincolo associativo ha natura contrattuale, la qualità di
membro del gruppo è, per definizione, la posizione di parte di un contratto, e la cessione di essa,
quando è consentita, non può non essere che cessione del contratto, nel senso dell’art. 1406. A
questa conclusione si è, invece, ritenuto di dovere opporre che la cessione delle azioni o quote di
società trova, nel V libro del codice civile, una disciplina diversa rispetto alla disciplina che il IV
libro rivolge alla cessione del contratto, e si è, per ciò stesso, escluso che essa sia cessione del
contratto. Ma è stato agevole eccepire che “sono, al contrario, i principi ricavabili delle norme
societarie che consentono di configurare più ampiamente l’istituto della cessione del contratto”.
Questa deve essere ricostruita tenendo conto anche delle norme che disciplinano la cessione della
qualità di parte dei contratti associativi. Tanto più importante è la precisazione emersa in materia
di cessione della qualità di socio in quanto si è avuto modo di respingere la tradizionale
distinzione tra l’elemento “contrattuale” del fenomeno e quell’ulteriore elemento, c.d.
“organizzativo”, che si suole ritenere estraneo al diritto dei contraenti. Si è esplicitamente
ammesso che anche i diritti amministrativi del socio, come il diritto d’intervenire in assemblea
debbono “essere inclusi nel contenuto del contratto di società” e sono, di conseguenza, suscettibili
di “essere trasferiti con esso”. Ogni norma che regoli i contratti associativi in modo diverso dagli
altri contratti implica solo un ampliamento del concetto di contratto. La Cassazione ha enunciato i
seguenti principi:
a) il contratto di società rientra nella categoria, codificata dalle norme sui contratti in generale, del
contratto plurilaterale con comunione di scopo ed è, pertanto, un contratto a tutti gli effetti, in
quanto tale sottoposto, in forza dell’art. 1323, alle norme sui contratti in generale;
b) ha natura contrattuale non solo l’atto costitutivo della società di capitali, ma anche il rapporto
che l’atto costitutivo instaura fra i soci, essendo l’attività degli organi sociali null’altro che attività
esecutiva del contratto di società, e ciò quantunque la società acquisti, con l’iscrizione nel registro
delle imprese, la personalità giuridica (art. 2331), erigendosi a soggetto di diritto distinto dalle
persone dei soci;
c) i soci, nell’esercitare il voto in assemblea, danno esecuzione al contratto di società;
d) il voto deve, di conseguenza, essere esercitato nel rispetto del dovere di buona fede di cui all’art.
1375, e la deliberazione assembleare adottata con il voto determinante di soci mossi da un interesse
extrasociale è annullabile a norma dell’art. 2377.
In passato, per reprimere gli abusi perpetrati dalla maggioranza ai danni della minoranza, la
giurisprudenza si era mossa all’interno della teoria delle persone giuridiche: fu evocata l’analogia
con gli enti pubblici, della figura dell’eccesso di potere, quale vizio dell’atto amministrativo, che in
materia societaria diventava l’eccesso di potere della persona giuridica quale vizio della
deliberazione assembleare; il suggerimento sarebbe stati per molti anni accolto dalla
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giurisprudenza, che in termini di eccesso di potere avrebbe più volte motivato l’annullamento
delle deliberazioni di aumento di capitali miranti al solo scopo di estromettere dalla società
minoranze ostili. Il mutamento di prospettiva ha proceduto di pari passo con il superamento della
concezione della persona giuridica come “entità reale”, appartenente al pari dell’uomo al genere
delle persone, e con l’approdo all’opposta concezione riduzionistica, della persona giuridica quale
espressione riassuntiva di “una particolare normativa avente ad oggetto pur sempre relazioni fra
uomini”. La revisione del concetto di persona giuridica ha molte valenze, e la più importante è
senza dubbio la repressione, da essa resa possibile, degli abusi perpetrati dietro lo schermo della
persona giuridica.
CAP. 8°: VALIDITA’ ED INVALIDITA’
La nullità
Il contratto (o l’atto unilaterale) è invalido quando è in contrasto con una norma imperativa.
L’invalidità può essere di due specie: il contratto che contrasta con norme imperative può essere
nullo o, semplicemente, annullabile e la legge può prefigurare, per la violenza di norme
imperative, conseguenze diverse dall’invalidità. La nullità è, fra due specie d’invalidità, quella di
portata generale: non occorre che la nullità sia prevista dalla legge come conseguenza della
violazione di una data norma imperativa, basta che una norma imperativa sia stata violata.
L’annullabilità ha, invece, carattere speciale: ricorre quando sia stata espressamente prevista dalla
legge come conseguenza della violazione di una norma imperativa. Questa regola fondamentale è
posta dall’art. 1418. Le ipotesi per le quali la legge dispone diversamente possono essere: ipotesi
per le quali è prevista quella forma d’invalidità diversa dalla nullità che è l’annullabilità del
contratto. Sono, per i contratti in generale, l’incapacità di contrarre delle parti (artt. 1425 ss.) e i vizi
del consenso (artt. 1427 ss.), il conflitto d’interessi fra rappresentato e rappresentante (artt. 1394 ss);
ipotesi nelle quali la legge assicura l’effettività della norma imperativa con la previsione di rimedi
diversi dall’invalidità del contratto, come la sua inefficacia, o come l’assoggettamento delle parti
ad una specifica sanzione amministrativa.
Sono considerate quali norme imperative, le norme non derogabili per volontà delle parti: le
s’identifica, generalmente, per il fatto che non contengono l’inciso “salvo patto contrario”, “salva
diversa volontà delle parti”. Ad esse si contrappongono le norme dispositive, che invece
ammettono una diversa volontà delle parti, e le norme suppletive, che prevedono la disciplina di
un dato rapporto per l’ipotesi in cui non vi abbiano provveduto gli interessati, generalmente
introdotte dall’inciso “se le parti non dispongono diversamente” o simili. Ma ciò vale solo come
criterio di massima: una norma può essere ritenuta dispositiva, e non imperativa, anche in
mancanza di un inciso che renda palese la sua natura, se dall’insieme del sistema di norme entro
cui opera appare evidente che si tratta di norma derogabile. Talvolta la legge, per rendere certo che
una data norma ha natura di norma imperativa, prefigura le conseguenze della sua violazione e
formula incisi come “a pena nullità”, o avvertimenti come “altrimenti il contratto è nullo” (es. art.
1351). Fra le norme imperative, la cui violazione rende nullo il contratto, bisogna annoverare, oltre
che le norme nazionali, quelle comunitarie. E si deve anche considerare che il giudice nazionale
può dichiarare la nullità di un contratto per violazione di norme imperative straniere, quando
secondo le preleggi egli debba applicare il diritto straniero. Non comporta invece nullità del
contratto la violazione di norme imperative regionali, essendo l’ordinamento civile (oltre che
penale) materia di competenza esclusiva dello Stati, a norma dell’art. 117 Cost. Si deve precisare,
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però, che il concetto di norma imperativa, rilevante ai fini dell’art. 1418, è più rigoroso di quello
ora indicato. Il grado d’imperatività della norma violata è più elevato di quello che s’esprime nella
constatazione della non derogabilità per volontà delle parti. Questo più alto grado d’imperatività è
postulato dalla riserva finale dell’art. 1418: se la violazione di norma imperativa non comporta
nullità quando “la legge dispone diversamente”, e se questa diversa disposizione legislativa non
deve necessariamente consistere nell’esclusione espressa dalla nullità, potendo essere “desumibile
dalla ragione del divieto”, occorre identificare criteri atti a distinguere norma imperativa da norma
imperativa. Questi criteri si sono ormai consolidati in giurisprudenza: deve trattarsi di un
comando o di un divieto qualificabile come assoluto, siccome posto a tutela di un interesse
generale. In particolare: comando o divieto assoluto è quello che non solo non ammette una
diversa volontà delle parti, ma neppure un’eccezione od esonero previsti dalla stessa legge;
comando o divieto posto a tutela dell’interesse generale è quello formulato dalla legge o da fonti a
questa equiparate, non da fonti normative di grado inferiore. Sono da considerare imperative, in
linea di principio, le norme penali; ma ciò vale solo in linea di principio: non vale quando la
sanzione penale risulti posta a presidio, anziché dell’interesse generale, delle esigenze di governo
di pubblici poteri. Significativo al riguardo è l’art. 2098: il contratto di lavoro concluso in
violazione delle norme sul collocamento “può essere annullato, salva l’applicazione delle sanzioni
penali”. La giurisprudenza ritiene annullabile, anche se lede un bene sanzionato penalmente, il
contratto estorto con truffa. La fattispecie penale della truffa corrisponde a quella civile del dolo,
che per l’art. 1439 è causa di annullamento del contratto. Un discorso particolare va fatto per il
mutuo usurario. Prima della legge sull’usura n. 108/1996, poteva dirsi, sulla base dell’art. 1448, che
un tale contratto, sebbene contrario a norma penalmente sanzionata, era non già nullo, bensì
rescindibile a norma dell’art. 1448. Ma il mutuatario poteva rinunciare alla rescissione e avvalersi
dell’art. 1815, che comminava la nullità parziale della clausola relativa agli interessi per la misura
ultralegale. Il nuovo testo dell’art. 1815, commina la nullità totale della clausola sugli interessi,
sicché il mutuo usurario è convertito in mutuo gratuito. Il III comma dell’art. 1418 fa riferimento
alla nullità testuale, cioè a quella espressamente comminata dalla legge: ne abbonda, soprattutto, la
legislazione speciale, come in materia urbanistica. Alla regola generale della nullità del contratto
per contrarietà a norme imperative fa seguito, nel II comma dell’art. 1418, una serie di regole
analitiche: produce nullità, anzitutto, la mancanza di uno dei requisiti del contratto, indicati
nell’art. 1325: mancanza dell’accordo delle parti o della causa o dell’oggetto o della forma, nonché
l’illiceità dell’oggetto, della causa, dei motivi. Il II comma dell’art. 1418, a differenza del I, non
contempla la possibilità di eccezioni, sicché la mancanza dei requisiti del contratto e le illiceità
indicate operano quali immancabili cause di nullità del contratto, rispetto alle quali non è
concepibile una diversa disposizione di legge. L’accordo è il risultato della concorde dichiarazione
di volontà delle parti: si compone di duo (o più) dichiarazioni di volontà, mediante le quali ciascun
contraente partecipa all’accordo. In ciascuna dichiarazione di volontà si può distinguere fra la
volontà, che il soggetto forma entro la propria mente, e la dichiarazione, costituita dallo scritto o
dalle parole o da altri segni mediante i quali la volontà si manifesta all’esterno. La volontà del
soggetto, finché non è dichiarata all’esterno (c.d. riserva mentale), è irrilevante. L’esterna
dichiarazione, a sua volta, produce effetti giuridici non per il fatto in sé che determinate parole
vengano scritte o pronunciate o che determinati segni vengano espressi: gli effetti giuridici si
producono solo in quanto all’esterna dichiarazione corrisponde una volontà del dichiarante.
Il contratto è nullo per mancanza del requisito dell’accordo delle parti quando, nonostante la
dichiarazione contrattuale resa all’esterno, manca l’intera volontà delle parti di produrre effetti
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giuridici: l’interna volontà dell’una o dell’altra parte oppure di entrambe. I casi ai quali si suole
fare riferimento sono, per la verità, alquanto marginali. Un caso è quello della dichiarazione non
seria: un contratto viene dichiarato per finzione scenica oppure per esemplificazione didattica e
simili. Si esce dai casi di scuola quando si precisa che la volontà contrattualmente significativa è la
volontà-decisione, non la volontà-disposizione o la volontà-desiderio: perciò la dichiarazione che
denota disponibilità o desiderio di vendere o di comperare non vale né come proposta né come
accettazione contrattuale. Un altro caso è quello della violenza fisica, da non confondere con la
violenza morale, che è l’ipotesi che comporta non la nullità, ma l’annullabilità del contratto. La
violenza fisica è il fatto dell’altro contraente o di un terzo che provoca una dichiarazione non
voluta. Qui alla dichiarazione di uno dei contraenti non corrisponde alcuna volontà del
dichiarante, ed il contratto è da considerare sicuramente nullo per mancanza di consenso.
Altrettanto va detto per il caso del contratto concluso in stato di assoluta incapacità d’intendere e
di volere procurato dall’altro contraente. Anche qui, c’è un’esterna dichiarazione del soggetto, ma
la dichiarazione non è voluta dal dichiarante. Non è però causa di nullità del contratto la c.d.
persuasione occulta che la pubblicità commerciale esercita, con la sistematica ripetizione di ben
studiati messaggi, sulla mente dei consumatori, ingegnando in loro il bisogno irresistibile di
acquistare beni che, altrimenti, non avrebbero desiderato. Qui la volontà del consumatore, sebbene
violentemente coartata, non può dirsi esclusa: egli può non acquistare, anche se è molto probabile
che acquisterà. La pubblicità commerciale pone per altri aspetti problemi di protezione della
libertà e della dignità dell’uomo, ai sensi dell’art. 41 della Costituzione, per il quale l’iniziativa
economica non può svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità
umana”. Ancora alla mancanza di volontà si riportano alcuni casi nei quali l’anomalia sembra, a
prima vista, investire piuttosto la dichiarazione. Uno è il caso della dichiarazione formata dal
dichiarante, ma comunicata al destinatario da terzi, senza il concorso della volontà del dichiarante;
l’altro è quello della dichiarazione trasmessa sì dal dichiarante al destinatario, ma per uno scopo
diverso dall’accettazione contrattuale. L’anomalia non sta, quanto al primo caso, nella non
riferibilità della dichiarazione al volente, ma nel fatto che questi non aveva affatto maturato una
volontà contrattuale, giacché aveva trattenuto presso di sé il testo contrattuale, e non aveva
dunque ancora deciso se spedirlo o distruggerlo. Ciò che manca è, dunque, la volontà; come manca
la volontà nel secondo caso, giacché la dichiarazione portata a conoscenza del destinatario per
scopi non contrattuali ha in sé la riserva di non avere ancora maturato una decisione definitiva.
Diversi da quelli ora considerati sono i casi di divergenza fra interna volontà e dichiarazione
esteriore: il dichiarante, in questi casi, vuole la dichiarazione, ma questa è, per errore (c.d. errore
ostativo), formulata in modo non corrispondente alla sua interna volontà, oppure è inesattamente
trasmessa dalla persona o dall’ufficio che ne era stato incaricato. Anche in questi casi, a rigore,
manca il requisito dell’accordo delle parti: ciò che una parte vuole non corrisponde a ciò che
dichiara di volere e, pertanto, a ciò che l’altra parte accetta. Tuttavia, la legge non ravvisa in questi
casi una causa di nullità, bensì una causa di annullabilità del contratto. Altro caso di divergenza fra
volontà e dichiarazione è quello che si determina nel caso di abusivo riempimento di foglio firmato
in bianco. Qui vengono in considerazione due distinte ipotesi: quella dell’abusivo riempimento da
parte del terzo incaricato del riempimento; quella della dichiarazione cambiaria emessa
erroneamente senza indicazione dell’importo (c.d. titolo incompleto) e arbitrariamente completata
da uno dei portatori intermedi del titolo; ipotesi per la quale la giurisprudenza si è pronunciata nel
senso della nullità (perché la dichiarazione non è voluta), mentre la dottrina appare divisa.
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Oltre che invalido (nullo o annullabile), il contratto o l’atto unilaterale può essere inesistente.
L’inesistenza è al di là della stessa nullità: è inesistente il contratto o l’atto neppure identificabile
come tale, privo del minimo essenziale che permetta di parlare di un cero accadimento come di un
contratto o di un atto unilaterale. L’importanza della distinzione fra nullità ed inesistenza sta in
ciò: il contratto o l’atto inesistente non produce neppure quei limitati effetti che il contratto o l’atto
nullo produce. Ad esempio, di nullità del contratto per mancanza dell’accordo delle parti si può
discutere se entrambe le parti hanno partecipato, con la propria dichiarazione, alla formazione del
contratto. Una proposta di vendita non seguita da alcuna accettazione non è un contratto nullo per
mancanza di accordo delle parti: è, semplicemente, un’iniziativa di contratto assunta da un
soggetto e non approda ad alcun risultato; si deve dire che il contratto non esiste. L’inesistenza è
una categoria di antica origine: i canonisti medioevali, cui si deve la prima elaborazione del
contratto inesistente, consideravano tale il matrimonio fra persone dello stesso sesso, e lo
consideravano inesistente perché contrario al concetto “naturale” di matrimonio. Oggi si fa largo
uso del concetto d’inesistenza, più che per i contratti, per quegli atti unilaterali che sono le
deliberazioni assembleari; la giurisprudenza considera inesistente la deliberazione ogni qualvolta
ritiene assente quel minimo di elementi che permetta di parlare di essa come di una deliberazione:
mancata convocazione dei soci in assemblea, mancato raggiungimento della maggioranza
prescritta o raggiungimento di essa con il voto di soggetti non legittimati. C’è una ragione specifica
che spiega il largo ricorso al concetto d’inesistenza: se si facesse valere la contrarietà di queste
deliberazioni alle norme di legge sul funzionamento dell’assemblea, esse sarebbero semplicemente
annullabili, per la speciale regola di cui all’art. 2377, con la conseguenza che, decorso il breve
termine per l’annullamento, diventerebbero inattaccabili.
Il contratto è nullo per illiceità della causa, per illiceità dell’oggetto, per illiceità dei motivi. Le tre
ipotesi compongono la figura designata come contratto illecito. Il concetto d’illiceità esprime una
contraddizione del contratto all’ordinamento giuridico più forte di quella espressa dalla sua
contrarietà a norme imperative: la formula denota riprovazione per il risultato che, con il contratto,
le parti si propongono di realizzare, sotto il triplice aspetto dell’oggetto che esse hanno dedotto in
contratto, della causa del contratto, dei motivi del contratto. Questa più forte contraddizione si
manifesta anche nella già rilevata circostanza che il contratto illecito è sempre e comunque nullo ed
improduttivo di effetti, mentre la comune contrarietà a norme imperative tollera, per riserva finale
di cui al I comma dell’art. 1418, una conseguenza diversa dalla nullità. L’oggetto, la causa o i
motivi sono illeciti – secondo una formula che l’art. 1343 utilizza per la causa illecita – quando
sono contrari a norme imperative, all’ordine pubblico o al buon costume. Nel suo insieme la
formula legislativa esprime un’esigenza di difesa dei valori fondamentali della società: di difesa sia
dei valori di natura collettiva, che attengono cioè alla pacifica e civile convivenza fra gli uomini e al
loro progresso economico e sociale, sia di irrinunciabili valori di natura individuale, relativi alla
libertà, alla dignità, alla sicurezza dei singoli. Dalle comuni norme imperative, la cui violazione di
regola rende nullo il contratto a norma dell’art. 1418, le norme imperative, la cui trasgressione
rende il contratto illecito ai sensi dell’art. 1343, differiscono sotto almeno due aspetti: sono sempre
norme proibitive, che impongono insormontabili divieti, mentre le comuni norme imperative
possono consistere tanto in norme proibitive quanto in norme ordinative; sono norme che si
collocano al vertice della gerarchia di valori protetti dall’ordinamento giuridico: non sono solo,
come le norme imperative ex art. 1418, norme poste a tutela d’interessi generali; sono, quali le
definisce la Cassazione, i “principi giuridici ed etici fondamentali dell’ordinamento”. La difesa di
questi valori fondamentali è realizzata con l’espressa formulazione legislativa di norme che
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vietano determinati atti o determinare attività. Ma l’espressa formulazione legislativa di un divieto
non è necessaria perché il giudice possa considerare illecito un contratto: è necessaria, in sede
penale, per l’applicazione di una pena; non è necessaria, in sede civile, per la dichiarazione di
nullità del contratto per illiceità. Questo è illecito, oltre che per contrasto con norme imperative,
anche se contrario all’ordine pubblico o al buon costume. L’ordine pubblico è costituito da quelle
norme imperative, che salvaguardano i valori fondamentali e che, tuttavia, non sono
esplicitamente formulate dalla legge, ma che si ricavano per implicito dal sistema legislativo: dai
codici e dalle altre leggi ordinarie e, soprattutto, dalla Costituzione. Nessuna esplicita norma di
legge, ad esempio, viera il contratto con il quale un soggetto assume l’altrui rischio di essere
scoperto e condannato a pena pecuniaria per reati che commetterà. Il buon costume è costituito da
quelle norme imperative anch’esse non esplicite, ma ricavabili per implicito dal sistema legislativo,
che comportano una valutazione del comportamento dei singoli in termini di moralità o di onestà.
Riguardano anche, ma non solo, la sfera sessuale: così i contratti che attengono all’esercizio della
prostituzione, alla pornografia ecc. Ma viene in considerazione anche il costume politico, il
costume sportivo, il costume negli affari: così il contratto con il quale si accetta un compenso in
danaro per rinunciare alla propria candidatura alle elezioni o ad una carica politica. Il contratto
contrario al buon costume, sebbene nullo, produce lo speciale effetto di cui all’art. 2035: non si è
tenuti, come per ogni contratto nullo, a dare esecuzione al contratto; ma non si può ottenere la
restituzione di ciò che si è pagato in esecuzione del contratto e questo principio vale per ogni
contratto qualificabile come contrario al buon costume, anche se la sua illiceità sia espressamente
prevista dalla legge. L’illiceità del contratto s’articola nelle diverse forme dell’illiceità dell’oggetto,
della causa, dei motivi. L’oggetto è illecito quando la cosa dedotta in contratto è il prodotto o è lo
strumento di attività contrarie a norme proibitive, all’ordine pubblico o al buon costume, come
nella vendita di cose rubate o di sostanze stupefacenti; o quando la prestazione dedotta in
contratto è, essa stessa, attività vietata, come il contratto di lavoro per l’esecuzione di una
prestazione vietata (art. 2126). Il giudizio d’illiceità non riguarda l’oggetto astratto, identificato
dalla definizione legislativa del tipo contrattuale, ma l’oggetto concreto, ossia quello che le parti
hanno dedotto quale oggetto di quel determinato tipo di contratto. L’illiceità della causa differisce
da quella dell’oggetto perché investe, anziché la cosa o la prestazione dedotta in contratto, la
funzione del contratto. Questo può avere un oggetto lecito e, tuttavia, una causa illecita: è il caso
del contratto che obblighi le parti ad una prestazione e ad una controprestazione entrambe in sé
lecite, ma delle quali è vietato lo scambio. Ciò in teoria: in pratica appare molto difficile, per non
dire impossibile, identificare un caso del genere e l’ipotesi della causa illecita finisce con l’essere
assorbita da quella dell’oggetto illecito oppure da quella dell’oggetto (giuridicamente) impossibile.
La differenza tra oggetto illecito e causa illecita viene, solitamente, indicata con esempi di questo
genere: il contratto con il killer, che si obbliga per danaro ad uccidere qualcuno, è nullo per illiceità
dell’oggetto (uccidere è illecito); il contratto di “protezione” mafiosa, con il quale la mafia ottiene
un compenso in danaro per “non uccidere” qualcuno, è nullo per illiceità della causa (non uccidere
è lecito, illecito è lo scambio fra danaro ed obbligazione di non uccidere). Il contratto con il
pubblico funzionario, perché compia verso corrispettivo in danaro un atto contrario ai suoi doveri,
è nullo per illiceità dell’oggetto; il contratto con lo stesso, perché compia verso corrispettivo in
danaro un atto rientrante fra i suoi doveri di ufficio, è nullo per illiceità della causa (compiere l’atto
è lecito, illecito è compierlo per danaro).
Questi esempi non sono corretti: non uccidere, compiere i doveri del proprio ufficio è materia che
non può formare oggetto di contratto, neppure a titolo gratuito e la differenza fra le due serie di
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esempi attiene non all’illiceità dell’oggetto o della causa, ma all’illiceità e all’impossibilità
dell’oggetto (non uccidere, compiere gli atti del proprio ufficio sono comportamenti doverosi e,
perciò, non suscettibili di formare oggetto di un vincolo contrattuale). È, invece, appropriato
parlare di causa in relazione al patto con il quale i coniugi dispongono, in vista del futuro divorzio,
del diritto, attribuito alla moglie, di abitare la casa di proprietà del marito. Qui è la funzione del
patto che viene in considerazione: viene concesso un diritto di godimento su cosa altrui per
assolvere doveri nascenti dal futuro divorzio, sostituendo il patto fra coniugi alla determinazione
del giudice circa l’abitazione della casa familiare. Più in generale sono ritenuti nulli per illiceità
della causa gli accordi con i quali i coniugi fissano il regime giuridico del futuro ed eventuale
divorzio, salvo che l’accordo sia subordinato alla condizione che la situazione patrimoniale delle
parti resti nel frattempo immutata. Una serie d’ipotesi nelle quali il codice civile considera illecita
la causa del contratto è quella dei contratti conclusi in frode alla legge (art. 1344). È in frode alla
legge il contratto che costituisce “il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”: le
parti mirano a realizzare un risultato che la legge vieta; ma, per non incorrere nell’applicazione
della norma proibitiva che vieta di realizzarlo, esse utilizzano uno o più contratti in sé leciti in
modo da realizzare, in concreto, un risultato equivalente a quello vietato. A rigore, piuttosto che la
causa, è in questi casi il motivo ad essere illecito. Sicché la formula dell’art. 1344 (“si reputa altresì
illecita la causa”), che ha costituito un inutile rompicapo per gli interpreti, sembra essere null’altro
che una non controllata emersione della legislativamente accantonata concezione soggettiva della
causa. Così, per aggirare il divieto del pegno o dell’ipoteca con patto commissorio (art. 2744), si fa
talvolta ricorso alla vendita a scopo di garanzia, nella forma della vendita con patto di riscatto o
con patto di retro-vendita. Il debitore vende al creditore un proprio bene per un prezzo
determinato in misura corrispondente al suo debito in capitale ed interessi (ma non pagato perché
“compensato” con il preesistente debito). Se, alla scadenza, il debitore potrà pagare il suo debito,
eserciterà il diritto di riscatto o di retro-vendita e riavrà la cosa venduta, altrimenti, questa resterà
definitivamente al creditore.
In questo caso, la prova del preesistente debito del venditore verso il compratore, la
corrispondenza fra prezzo di vendita ed importo del preesistente debito, l’ulteriore prova che il
prezzo di vendita non fu pagato, bastano per considerare quella vendita come patto di riscatto o di
retro-vendita come un contratto in frode al divieto di patto commissorio, coma tale nulla. Il motivo
per il quale le parti hanno concluso il contratto è, di regola, irrilevante per il diritto. Diventa,
tuttavia, rilevante quando è illecito, ossia contrario a norme imperative, all’ordine pubblico o al
buon costume. Ma il motivo illecito, per rendere nullo il contratto, deve presentare due requisiti:
essere il motivo esclusivo del contratto, ed essere il motivo comune ad entrambe le parti (art. 1345).
Così noleggiare una nave per esercitare con issa il contrabbando, prendere in locazione un
appartamento per destinarlo a casa di appuntamenti, dare a mutuo una somma ad un giocatore
d’azzardo. Questi contratti sono nulli solo se entrambe le parti si sono determinate a concluderlo
per il motivo illecito; né basta che il motivo illecito di una sia semplicemente noto all’altra. Occorre
che l’altra ne sia partecipe e miri a trarre personale vantaggio dall’attività illecita che la prima si
propone di esercitare. Nella donazione è, invece, sufficiente il motivo illecito del donante, purché
sia determinante della liberalità e risulti dall’atto (art. 788). Così la donazione fatta per manifestare
gratitudine a chi ha prestato un favore illecito.
L’annullabilità
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Il contratto è annullabile solo nei casi in cui la legge espressamente ricollega alla violazione di
norme imperative, la speciale conseguenza dell’annullabilità. Il che accade in molteplici ipotesi: in
tema di delibere assembleari, delle associazioni, della comunione, delle società; in tema di
contratto concluso dal rappresentante in conflitto d’interessi con il rappresentato. Ma lacune
ipotesi classiche sono dal codice civile collocate sotto un’apposita rubrica dedicata alla
“annullabilità del contratto” (artt. 1425 ss.) Un primo ordine di casi è quello dell’incapacità a
contrattare di una delle parti, che può essere incapacità legale o solo naturale; il secondo ordine di
casi è quello dei vizi del consenso. Sono, legalmente, incapaci di contrattare coloro che non hanno
ancora acquistato la legale capacità di agire e coloro che, avendola acquistata, l’hanno
successivamente perduta: sono i minori di 18 anni (art. 2) e gli infermi di mente che, con sentenza
dell’autorità giudiziaria, siano stati interdetti (art. 14), nonché i condannati all’ergastolo, in stato
d’interdizione legale. Sono, ancora, parzialmente privi della capacità di contrattare i minori che,
per effetto del matrimonio, abbiano conseguito l’emancipazione (art. 390) e i parziali infermi di
mente che, con sentenza, siano stati inabilitati (art. 415): questi possono validamente compiere atti
di ordinaria amministrazione; non possono compiere atti di amministrazione straordinaria del loro
patrimonio. Il contratto concluso dall’incapace legale di agire è annullabile (art. 1425), e
l’annullamento può essere domandato al giudice: a) da chi eserciti la potestà sul minore (genitori o
tutore) o sul minore emancipato (curatore) o sull’interdetto (tutore) o sull’inabilitato (curatore); b)
dallo stesso minore od emancipato o interdetto o inabilitato, una volta raggiunta la maggiore età o
una volta revocato dall’autorità giudiziaria lo stato d’interdizione o d’inabilitazione; c) dagli eredi
o aventi causa del minore; d) da qualunque interessato, nel caso dell’interdizione legale (art. 1441).
Il contratto del minore non può però essere annullato se il minore ha, con raggiri, occultato la sua
età (art. 1426): se il raggiro è stato posto in essere da un terzo, ed il minore, di ciò consapevole, si è
limitato a trarne profitto senza concorrere attivamente nella macchinazione, il contratto è
annullabile a norma dell’art. 1425. Di fronte a questi casi si potrebbe dire che nel contratto
dell’incapace manca del tutto la volontà di una parte e che manca, perciò, il requisito “dell’accordo
delle parti”, richiesto dagli artt. 1325 e 1418, a pena di nullità del contratto. Ma qui le esigenze di
protezione dell’autonomia contrattuale, che imporrebbero la nullità del contratto non voluto sono
coordinate con altre esigenze, che sono attinenti alla sicurezza della circolazione dei beni e che
consigliano di contenere il più possibile i casi di nullità del contratto. L’equilibrio fra queste
opposte esigenze è realizzato considerando il contratto dell’incapace solo annullabile su istanza dei
soggetti espressamente legittimati all’azione e l’annullamento del contratto può essere domandato
solo entro 5 anni dalla sua data o, se chiesto dall’incapace, dalla cessazione dello stato d’incapacità.
In nessun caso l’annullamento del contratto può essere chiesto, a causa dell’incapacità di una
parte, dall’altro contraente capace: l’annullabilità del contratto è prevista a protezione
dell’incapace. Diversa dall’incapacità legale è l’incapacità naturale di chi è, giuridicamente, dotato
di capacità legale (art. 1425). La capacità d’intendere e la capacità di volere sono previste
disgiuntamente: può accadere che il soggetto sia in grado d’intendere, ma incapace di determinarsi
coerentemente all’azione. Di fronte a questi casi si potrebbe ancora dire che nel contratto
dell’incapace naturale non c’è maggiore volontà di quanta ce ne sia nel contratto dell’incapace
legale, e si potrebbe argomentare che, provata l’incapacità d’intendere o di volere, si possa
senz’altro ottenere l’annullamento del contratto. Ma non è così: la legge esige, oltre alla prova
dell’incapacità, ulteriori requisiti. Occorre distinguere fra atti in genere e contratti in particolare: gli
atti in genere, inclusi fra questi gli atti unilaterali, sono annullabili, su istanza dell’incapace o dei
suoi eredi o aventi causa, solo se si prova che dall’atto deriva un grave pregiudizio all’incapace
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(art. 428); i contratti sono annullabili, su istanza dell’incapace o dei suoi eredi o aventi causa, solo
se si prova, oltre al pregiudizio per l’incapace, anche la mala fede dell’altro contraente, il quale
conosceva lo stato d’incapacità naturale e il pregiudizio per l’incapace o avrebbe potuto accertarli
con l’ordinaria diligenza (art. 428). L’opinione che sembra prevalere nella giurisprudenza si basa
su un’arbitraria lettura dell’art. 428, nel quale si legge “atti unilaterali” in luogo di “atti”. Il punto è
che l’art. 428 detta, al I comma, una disciplina di specie, relativa ai soli contratti, sicché il requisito
del pregiudizio vale anche per i contratti in forza d’applicazione letterale dell’art. 428, e non solo di
sua interpretazione logica. Altro problema è se gli atti siano solo dichiarazioni di volontà o siano
anche le dichiarazioni di scienza. Il requisito del grave pregiudizio, pensabile solo per gli atti di
disposizione, induce a condividere la prima soluzione. La legge considera l’incapacità naturale non
come fattore che altera la volontà, ma come fattore d’alterazione della causa dell’atto o del
contratto, che è annullabile solo se concluso, per effetto dell’incapacità della parte, a condizioni
gravemente pregiudizievoli per essa. Il grave pregiudizio per l’incapace è sufficiente per
l’annullamento degli atti unilaterali, ma non basta per i contratti: oltre al grave pregiudizio,
occorre provare anche la mala fede dell’altro contraente. È protetto, sotto questo aspetto,
l’affidamento di chi, ignorandone l’incapacità, ha contrattato con l’incapace: l’autonomia
contrattuale dell’incapace è sacrificata di fronte ad un interesse giudicato prevalente, che è
l’interesse generale ad una vasta e sicura circolazione dei beni. Un’eccezione a questa regola vale
per la donazione: l’incapacità naturale del donante comporta senz’altro l’annullabilità del
contratto, anche se ignota al donatario (art. 775). Un’altra radicale eccezione, non prevista dalla
legge, sembra giusto introdurre: se lo stato d’incapacità naturale è stato provocato dall’altro
contraente o, questo consapevole, da un terzo, si deve ritenere che il contratto non sia
semplicemente annullabile, bensì nullo per violenza fisica; e nullo anche se manchi l’estremo del
grave pregiudizio per l’incapace. Lo stato di buona o di mala fede del destinatario dell’atto
unilaterale, irrilevante ai fini dell’annullabilità dell’atto, può però essere rilevante ad altri effetti,
tali da rendere di fatto inutile l’azione di annullamento. Così l’ordine del correntista alla propria
banca, viziato da incapacità naturale del primo, sarà annullabile sulla prova del grave pregiudizio
per l’incapace, senza necessità di provare la mala fede della banca.
I vizi del consenso
Il contratto (o l’atto unilaterale) è annullabile se la volontà di una delle parti (o della parte negli atti
unilaterali) è stata dichiarata per errore o carpita con dolo o estorta con violenza (art. 1427). Queste
tre ipotesi vengono ricomprese entro la generale categoria dei vizi della volontà (o del consenso,
con riferimento specifico ai contratti): l’espressione “vizio” della volontà sta qui ad indicare che
una volontà della parte è presente, ma il processo formativo della sua volontà è stato alterato; onde
la volontà, quantunque presente, è “viziata”. Dell’errore bisogna subito distinguere due specie:
l’errore motivo (detto anche errore vizio) e l’errore ostativo. L’errore motivo è l’errore che insorge
nella formazione della volontà, prima che questa venga dichiarata all’esterno: consiste in una falsa
rappresentazione della realtà presente che induce il soggetto a dichiarare una volontà che,
altrimenti, non avrebbe dichiarato. Si deve trattare di falsa rappresentazione della realtà presente
perché l’errore sulla realtà futura, ossia l’errore di previsione, non è errore in senso tecnico e non
dà luogo ad annullabilità del contratto, a ma è semmai rilevante sotto altro aspetto e può dare
luogo alla figura della presupposizione. L’errore motivo deve essere un errore essenziale (art. 1428):
è essenziale l’errore determinante del volere, ossia tale per cui il contraente, se non fosse incorso in
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errore, non avrebbe concluso il contratto; ed è tale se ricorre una delle quattro serie d’ipotesi che la
legge prevede (art. 1429). L’errore è essenziale quando cade:
1) Sulla natura o sull’oggetto del contratto: il primo è l’errore sul tipo di contratto che si conclude,
il secondo è il caso dell’aliud pro alio, qui l’errore riguarda la cosa o la prestazione dedotta in
contratto;
2a) Sull’identità dell’oggetto: è ancora un caso di aliud pro alio, non facilmente distinguibile
dall’errore sull’oggetto. La serie d’ipotesi di cui al n. 1 e l’ipotesi di cui al n. 2 a) presentano questa
particolarità: l’errore è sempre essenziale, per il solo fatto di cadere sulla natura o sull’oggetto del
contratto o sull’identità dell’oggetto, senza necessità di ulteriore dimostrazione;
2b) Su qualità dell’oggetto che debbono ritenersi determinanti del consenso. È, invece, irrilevante
l’errore sul valore in sé considerato: credevo che quel mobile autentico valesse quanto l’ho pagato,
invece, ho appreso che vale molto meno. Qui l’errore non cade sulla qualità della cosa, ma sulla
convenienza economica del contratto, non suscettibile di riesame giudiziario. Diverso è però il caso
in cui ad indurre il contraente in errore sul valore sia stato, con artifici o raggiri, l’altro contraente
o, questi consapevolmente, un terzo: il contratto sarà, in tal caso, annullabile per dolo, a norma
dell’art. 1439. Diverso dall’errore sul valore è l’errore sul prezzo, che non è errore motivo, bensì
errore ostativo. Incorre in errore ostativo l’agente di viaggio che sottoscrive con la formula “a
saldo”, anziché con la formula “per acconto”, la ricevuta consegnata al cliente. In questi casi non si
è errato sul valore dell’oggetto del contratto, si è incorsi in errore nella dichiarazione contrattuale
espressiva del valore. Non è perciò corretto parlare di errore irrilevante, perché relativo alla
convenienza del contratto: si dovrà, invece, indagare sull’essenzialità e sulla riconoscibilità
dell’errore. Il semplice errore di calcolo (art. 1430) non rende annullabile il contratto, ma dà solo
luogo a rettifica, a meno che non si traduca in errore sulla quantità. Ricorre la prima ipotesi,
secondo la Cassazione, “quando, posti per fermi i dati da computare ed il criterio matematico da
seguire, s’incorra in una svista materiale nelle relative operazioni aritmetiche, rilevabili prima facie
in base ai dati ed al criterio predetto, ed emendabile con la semplice ripetizione del calcolo, e non è
configurabile quando si contestino gli stessi dati numerici posti in base del calcolo”. All’errore di
calcolo è equiparato l’errore materiale, come quello relativo all’indicazione dei dati catastali;
3) Sull’identità o sulle qualità personali dell’altro contraente. È un errore che può assumere rilievo
solo nei contratti intuitu personae, ossia quando l’identità o le condizioni personali dell’altro
contraente siano determinanti del consenso, tali per cui non si sarebbe concluso il contratto con
quella persona se non si fosse caduti in errore sulla sua identità o sulle sue condizioni personali.
Per un’intera serie di tipi contrattuali, detti contratti personali, l’identità o le qualità personali del
contraente sono sempre determinanti del consenso: basta, per questi contratti, la sola prova
dell’errore sull’identità dell’altro contraente o, esatta l’identità, sulle sue qualità personali; non
occorre provare, ulteriormente, che l’errore è stato determinante del consenso, essendo l’identità
del contraente circostanza inerente all’essenza del contratto; così, ad esempio, la locazione o il
mutuo o l’appalto.
Nelle ipotesi fin qui considerate si tratta di errore di fatto, determinato cioè da una falsa
conoscenza dei fatti o delle cose o delle persone. Ma è possibile anche un errore di diritto,
provocato dall’ignoranza o dalla falsa conoscenza di norme di legge o di regolamento. È l’errore
che cade:
4) Sui motivi del contratto, se si tratta di errore di diritto. I motivi del contratto sono di regola
irrilevanti: assumono, eccezionalmente, rilievo quando sono motivi illeciti comini ad entrambi i
contraenti.
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L’errore di diritto può consistere nell’ignoranza o nella falsa conoscenza di una norma imperativa
quanto di una norma dispositiva o suppletiva. Può, altresì, cadere su una norma imperativa che, a
norma dell’art. 1419, sia destinata a sostituire una clausola nulla. La sostituzione automatica
impedisce, in tal caso, la dichiarazione di nullità del contratto, ma non ne impedisce
l’annullamento per errore di diritto se il contraente prova che il motivo esclusivo e determinante
del contratto era inficiato da ignoranza della norma imperativa in questione. All’errore di diritto
viene equiparata la sopraggiunta dichiarazione d’illegittimità costituzionale della norma nel vigore
della quale si era contrattato: soluzione che si giustifica per la considerazione che le pronunce
d’illegittimità costituzionale hanno effetto retroattivo ed eliminano ab origine la norma dichiarata
illegittima. L’errore sui motivi è, invece, irrilevante quando si tratta di errore di fatto: chi,
nell’imminenza delle nozze, compera una casa non potrà ottenere l’annullamento del contratto
adducendo che l’atteso matrimonio non ha avuto luogo. Un’eccezione a questo principio vale per
la donazione (art. 787): questa può essere impugnata per errore sul motivo, anche se si tratta di
errore di fatto, purché il motivo risulti dall’atto e sia stato il solo motivo che ha determinato la
liberalità.
Oltre che essenziale l’errore deve essere riconoscibile dall’altro contraente (art. 1428): essere tale,
cioè, che una persona di normale diligenza, tenuto conto delle circostanze, avrebbe potuto rilevarlo
(art. 1431). È un principio di centrale importanza: protegge l’affidamento della controparte sulla
validità del contratto e, più in generale, la sicurezza nella circolazione dei beni. Se l’errore di una
parte, quantunque essenziale, non è tale per cui l’altra potesse rilevarlo, la prima resta vincolata
dal contratto. Vanno considerati, a questi effetti, il contenuto e le circostanze del contratto, nonché
le qualità dei contraenti (art. 1431). Ciò che l’errante deve provare è l’astratta riconoscibilità
dell’errore da parte dell’altro contraente, non il fatto che questi lo avesse effettivamente
riconosciuto. Tuttavia, la prova della conoscenza effettiva assorbe quella dell’astratta
riconoscibilità: in tal caso, anche l’errore che l’uso della normale diligenza non avrebbe consentito
di riconoscere rende annullabile il contratto. La chiave di lettura dell’art. 1431 non può essere
ricercata nell’art. 1337, che impone alle parti di comportarsi secondo buona fede nella formazione
del contratto. L’art. 1431 ha riguardo allo stato soggettivo dell’altro contraente, non al
comportamento contrattuale dell’errante; corretta chiave di lettura è, piuttosto, quella fornita
dall’art. 1147: come questo equipara la buona fede putativa alla mala fede, così l’art. 1431 equipara
la riconoscibilità alla conoscenza dell’altrui errore. Altro caso, ricompreso nel precedente,
d’irrilevanza della non riconoscibilità dell’errore è quello dell’errore bilaterale (o plurilaterale).
Quando l’errore è comune a tutti i contraenti, esso è per ciò stesso conosciuto da ciascuno di essi,
rendendo irrilevante la sua eventuale non riconoscibilità. Così, se tutti i coeredi ignorano
l’esistenza del testamento dell’ereditando, ciascuno di essi potrà impugnare per errore la divisione
amichevole fra essi intercorsa, senza bisogno di provare che l’inesistenza del testamento era
circostanza riconoscibile dagli altri con l’uso della normale diligenza.
È richiesto, per
l’annullamento del contratto, il duplice estremo dell’essenzialità dell’errore e della sua (conoscenza
o) riconoscibilità da parte dell’altro contraente, non anche, invece, l’estremo dell’incolpevolezza o
scusabilità dell’errore da parte dell’errante. Non è, perciò, d’ostacolo all’annullamento del
contratto la circostanza che il contraente in errore avrebbe potuto, con l’uso della normale
diligenza, rendersi conto dell’errore ed evitare di concludere il contratto o di concluderlo a quelle
date condizioni.
L’errore ostativo è l’errore che cade, anziché sulla formazione della volontà, sulla sua esterna
dichiarazione, oppure è l’errore commesso dalla persona o dall’ufficio incaricato di trasmettere la
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dichiarazione. Nel primo caso l’errore è commesso dal dichiarante, nel secondo caso l’errore è
commesso da un terzo: è, ad esempio, l’errore dell’ufficio telegrafico che riporta in modo inesatto il
prezzo o la quantità della merce venduta. Il codice civile equiparare l’errore ostativo all’errore
motivo (art. 1433), con la conseguenza che esso può portare all’annullamento del contratto solo se
riconoscibile dall’altro contraente. È, questo, l’estremo limite cui può spingersi la protezione
dell’affidamento sull’altrui dichiarazione e della sicurezza nella circolazione dei beni. In questo
caso, che è certamente il caso-limite, il soggetto si trova ad essere vincolato da un contratto che non
ha voluto e che ha dichiarato di non volere. È qui protetto, e nel modo più energico, l’affidamento
del destinatario della dichiarazione erroneamente trasmessa. La nostra legge è, in materia, più
rigorosa di ogni altra: in altri paesi la prova dell’errore ostativo dà sempre luogo all’annullamento
del contratto, e il destinatario della dichiarazione, se l’errore non era da lui riconoscibile, ha solo
diritto al risarcimento dei danni che provi di avere subito per la mancata conclusione del contratto.
Ed è questo uno dei punti cruciali della teoria del contratto, tale da mettere in discussione il
concetto espresso dall’art. 1321, che definisce il contratto come “l’accordo di due o più parti per
costituire, regolare od estinguere fra loro un rapporto giuridico patrimoniale”. Qui l’effetto
costitutivo, regolatore od estintivo si produce anche se non voluto da una delle parti e, perciò,
anche se è mancato ciò che l’art. 1321 definisce come l’accordo fra i contraenti. Va però messo in
evidenza che la norma sull’errore ostativo non è però tale da neutralizzare del tutto il ruolo della
volontà. La parte non voleva emettere una dichiarazione di quel contenuto, ma voleva pur sempre
emettere o trasmettere una dichiarazione significativa nelle relazioni contrattuali: l’art. 1433 rende
irrilevante il fatto che la dichiarazione non corrispondesse al suo interno volere; presuppone,
tuttavia, che il soggetto avesse voluto immettersi nel traffico giuridico, accettando di porsi in
contatto con altri per comunicare qualcosa di contrattualmente significativo. Il ruolo della volontà
risulta fortemente ridotto, ma non del tutto annullato: il soggetto potrà sottrarsi all’applicazione
dell’art. 1433 tutte le volte in cui potrà provare che la dichiarazione pervenuta alla controparte non
era stata da lui voluta o che non era stata da lui voluta la trasmissione della dichiarazione. L’art.
1433 addossa al dichiarante il rischio della divergenza fra l’interna volontà e l’esterna
dichiarazione; gli addossa altresì il rischio dell’errore del nuncius, da lui incaricato di trasmettere la
propria dichiarazione. Questa è la giustificazione delle norme, ma è al tempo stesso il limite della
sua applicazione: quando il soggetto provi di non avere voluto la dichiarazione, il contratto dovrà
essere considerato nullo, allo stesso modo in cui è nullo, per mancanza di una dichiarazione
voluta, il contratto che derivi da violenza fisica. In questa prospettiva si presta ad essere
considerata la discussa figura del dissenso occulto o malinteso, la quale ricorre quando le parti,
nonostante l’apparente concordanza delle rispettive dichiarazioni, sono in realtà animate da
volontà non convergenti, avendo ciascuna inteso in modo diverso la propria dichiarazione.
L’ipotesi sembra diversa da quanto accade in caso d’errore; la mancanza di consenso non dipende
dalla divergenza tra la volontà e la dichiarazione di una parte, le dichiarazioni delle parti sono
coerenti, ognuna, alla loro intenzione, ma le intenzioni sono difformi tra loro. Nel dissenso occulto
si può incorrere in diversi casi: così nel caso in cui il destinatario della proposta, fraintesa la
dichiarazione del proponente accetta mediante ripetizione della proposta, alla quale però
attribuisce un significato diverso da quello attribuitogli dal proponente. Per la dottrina
tradizionale nelle ipotesi di dissenso occulto si ha errore sulla dichiarazione altrui. La dottrina più
recente tende, invece, a collocare il dissenso occulto o malinteso nella teoria dell’errore, ritenendo
che anche le ipotesi tradizionalmente ricondotte alla figura del dissenso occulto si risolvano in un
consenso dato per errore. Non vale, per questa dottrina, distinguere tra errore sulla dichiarazione
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propria ed errore sulla dichiarazione altrui: quando il destinatario, avendo frainteso la proposta,
l’accetta attribuendole un falso significato, il suo errore sulla dichiarazione altrui si trasforma in
errore sulla dichiarazione propria. Ci si trova perciò di fronte ad un vero e proprio errore, causa di
semplice annullabilità del contratto. L’argomento della dottrina più antica si basava anche sull’art.
1362, per il quale il contratto va interpretato indagando “quale sia stata la comune intenzione delle
parti”. Se l’indagine interpretativa mette capo alla constatazione che non c’era un’intenzione delle
parti che potesse dirsi comune si riteneva inevitabile concludere che non si è formato l’accordo
delle parti. L’equivocità insuperabile avrebbe così dovuto portare alla nullità del contratto per
mancanza dell’accordo delle parti. L’opinione della dottrina tradizionale è, ciò nondimeno, da
respingere: il dissenso occulto non dà luogo a nullità, bensì ad annullabilità del contratto per
errore ostativo. Anche nei casi certi di errore ostativo l’interpretazione del contratto, condotta
secondo il criterio di cui all’art. 1362, mette capo alla conclusione che non c’era una comune
intenzione delle parti; e tuttavia il contratto è solo annullabile, ed è annullabile solo se riconoscibile
dall’altro contraente.
Si parla di dolo, come vizio del consenso, in un senso corrispondente al concetto comune di
“inganno”. Dall’errore motivo il dolo differisce per la specifica causa che ha provocato l’errore: qui
un contraente è indotto in errore dai raggiri usati dall’altro contraente oppure da un terzo. Se i
raggiri sono stati determinanti del consenso, tali cioè che, senza di essi, la parte non avrebbe
contrattato (c.d. dolo determinante), il contratto è annullabile (art. 1439); se, invece, questa avrebbe
ugualmente contrattato, ma a condizioni diverse (c.d. dolo incidente), il contratto è valido, e l’altro
contraente, “in mala fede”, deve risarcirle il danno subito (art. 1440). Il concetto di mala fede è qui
impiegato come sinonimo di dolo. Il raggiro del terzo deve essere noto (non semplicemente
riconoscibile) al contraente che ne ha tratto vantaggio (art. 1439). Basta che quest’ultimo ne fosse a
conoscenza, non occorre che avesse cospirato con il terzo nel tramare l’inganno: in questo diverso
caso si sarebbe in presenza di un raggiro del contraente, anche se posto in essere con l’altrui
complicità. Non è terzo, ovviamente, il mandatario con rappresentanza del contraente: è terzo,
invece, colui che, senza rappresentanza del contraente, abbia per conto di questo condotto la
trattativa precontrattuale o abbia messo fra loro in contratto i contraenti, come il mediatore o
l’agente di commercio. Il dolo è l’altrui induzione in errore, perciò, l’annullamento del contratto
per dolo richiede che il raggiro dell’altro contraente o del terzo abbia provocato un errore
rientrante nelle previsioni dell’art. 1429: a chi agisce per ottenere l’annullamento del contratto
viziato da dolo basterà provare l’errore cui è stato indotto, se l’errore verte sulla natura del
contratto o sull’oggetto del contratto o sull’identità dell’oggetto; ma egli dovrà, ulteriormente,
provare che l’errore è stato determinante del suo consenso, se l’errore indotto verte su qualità
dell’oggetto o sull’identità o qualità dell’altro contraente. Tuttavia, la fattispecie del dolo è
comunemente considerata più vasta di quella dell’errore: include anche l’induzione in errore sul
valore dell’oggetto del contratto, mentre un simile errore, se non indotto da dolo, è irrilevante. I
raggiri con i quali s’inganna l’altro contraente e se ne carpisce il consenso consistono,
generalmente, in comportamenti commissivi. Ma può accadere che un contraente sia indotto in
errore da un contegno puramente omissivo dell’altro contraente (c.d. dolo omissivo): è il caso
dell’uomo d’affari che vende a caro prezzo le azioni della propria società tacendo al compratore il
fatto che, per un improvviso tracollo aziendale, le azioni sono destinate a diventare carta straccia.
Tenere segreta una notizia può essere raggiro altrettanto grave quanto il fornire una notizia falsa.
Per il contratto d’assicurazione c’è, al riguardo, una norma espressa (art. 1892): la semplice
reticenza dell’assicurato è causa di annullamento del contratto. Non si può però ragionare secondo
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l’antico brocardo “ubi lex voluit dixit”: la norma è esplicita, in materia di assicurazione, perché le
imprese assicuratrici hanno da tempo ottenuto una sicura enunciazione legislativa, ma ciò non
esclude che questa non possa essere considerata quale espressione, in uno specifico tipo
contrattuale, di un più generale principio, destinato ad operare anche fuori dell’ambito
dell’assicurazione. Per ogni altro contratto si deve tener conto di un generale principio: quello
secondo il quale le parti, nello svolgimento delle trattative, debbono comportarsi secondo buona
fede (art. 1337); e ciò comporta un reciproco dovere d’informazione sulle circostanze che ciascuna
parte può ritenere determinanti del consenso dell’altra. Il dolo omissivo dovrà considerarsi causa
d’annullamento del contratto ogni qualvolta, date le circostanze, si deve ritenere che il contraente
avesse l’obbligo d’informare l’altra parte. La giurisprudenza ammette la rilevanza della reticenza,
ma la circonda, al pari della menzogna, di molte cautele, mossa dalla preoccupazione di evitare
che una qualsiasi mancata informazione possa essere sfruttata dalla controparte, pentita del
concluso contratto; ne derivano massime molto elastiche. Ecco come la Cassazione si pronuncia:
“la reticenza o il silenzio, al pari del mendacio, non bastano da sole a costituire il dolo se non in
rapporto alle circostanze che, se note, avrebbero fatto desistere l’altra parte dal concludere il
contratto, e in rapporto alle qualità e condizioni soggettive dell’altro contraente e al complesso del
contegno che determina l’errore di questo”. I problemi più ardui, in tema di reticenza, stanno: nel
trovare il punto d’equilibrio fra dovere d’informazione e diritto al riserbo; nel tracciare il confine
fra il dovere d’informazione gravante su una parte e l’onere di auto informazione incombente
sull’altra.
Nella fattispecie che ha dato luogo alla massima riportata si ritrovano entrambi i problemi. Dalla
motivazione risulta che la controversia riguardava il contratto di lavoro concluso da una società
con un dirigente: era stato chiesto l’annullamento del contratto di lavoro per dolo del dipendente,
avendo questi presentato un proprio curriculum nel quale erano indicate le precedenti
occupazioni, ma non era menzionato il fatto che l’ultimo rapporto di lavoro era cessati per
licenziamento, motivato dall’infamante ragione che il dirigente si era fatto corrompere da un
fornitore dell’impresa e che era stato per questo denunciato all’autorità giudiziaria. Con il
principio di diritto riportato, il Supremo Collegio ha cassato la sentenza di merito che aveva
annullato il contratto per dolo. Appaiono pertinenti queste considerazioni: a) nell’ordinaria prassi
il curriculum che il lavoratore presenta le precedenti occupazioni, ma non precisa le ragioni per le
quali esse sono cessate, sicché può dirsi essere onere dell’altro contraente, che ritenga rilevanti tali
circostanze, effettuare accertamenti al riguardo; b) se, nel caso di specie, il dipendente avesse
taciuto, nel proprio curriculum, l’ultima sua occupazione, per impedire al datore di lavoro di
scoprire l’infamante ragione del licenziamento, quest’omissione avrebbe sicuramente integrato gli
estremi del dolo; c) l’infamante circostanza formava oggetto di un procedimento penale ancora in
corso al momento della nuova assunzione, e non si può esigere da un soggetto la comunicazione di
circostanze per lui screditanti, tali da indurre la controparte a non contrattare, se sulla loro
sussistenza effettiva non c’è ancora giudicato. Il diritto al riserbo si lega alla presunzione
d’innocenza dell’imputato: l’onestà di chi viene assunto come direttore generale è sicuramente
qualità personale del contraente, determinante del consenso dell’altra parte, ma nella fattispecie il
soggetto non aveva occultato la propria disonestà, bensì una sua vicenda ancora tutta privata,
ossia il fatto che la sua onestà era stata messa in discussione davanti all’autorità giudiziaria. Il c.d.
dolus bonus consiste nelle esagerate vanterie delle qualità del proprio bene o nella propria abilità
professionale che, a volte, accompagnano l’offerta di un bene o di una prestazione. È frequente nel
contratto isolato tra il negoziante e il cliente e, soprattutto, caratterizza la pubblicità dei prodotti
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industriali destinati alla contrattazione in serie. Una persona di media avvedutezza sa che simili
qualità vantate dal venditore non corrispondono al vero e sono frutto di esagerazione, e, poiché il
diritto tiene conto solo del comportamento dell’uomo di media avvedutezza, nessuno potrà in
questi casi chiedere l’annullamento del contratto, neppure chi avesse, per avventura, confidato
nella vendita della vanteria. Ma il confine tra dolus bonus e dolus malus tende, nel nostro tempo, ad
apparire sempre più incerto. Da un lato, i progressi continui della tecnica fanno apparire credibili,
anche agli occhi dell’uomo di media avvedutezza, ritrovati in passato inimmaginabili, dall’altro
lato, l’asprezza della competizione commerciale ha enormemente affinato le arti persuasive degli
addetti alla vendita.
La violenza della quale si parla come di un vizio del consenso (art. 1427), è la c.d. violenza morale:
consiste nell’estorcere il consenso di un soggetto con la minaccia che, se il consenso non verrà
prestato, verrà inferto un male alla sua persona o ai suoi beni oppure alla persona o ai beni dei suoi
familiari. È diversa dalla violenza fisica: questa esclude del tutto la volontà del dichiarante (che,
perciò, dichiara una volontà non sua) e comporta la nullità del contratto; la violenza morale è,
invece, il mezzo con il quale si costringe una persona a dichiarare una propria volontà, ponendola
di fronte all’alternativa se rifiutare il consenso e soggiacere al male minacciato oppure sottrarsi al
male minacciato prestando il proprio consenso. Il male minacciato può essere un male alla
persona, può essere un male che minaccia i beni e può riguardare la persona o i beni sia del
contraente sia del coniuge o degli ascendenti o dei discendenti. Se riguarda, invece, parenti in via
collaterale o affini o, ancora, persone non legate al contraente da rapporti di parentela o di affinità,
l’annullamento del contratto è rimesso alla prudente valutazione del giudice, che terrà conto delle
circostanze del caso concreto, come il rapporto affettivo esistente con il contraente (art. 1436). Deve
trattarsi di un male ingiusto (art. 1435). È tale il male contrario al diritto, ma un male minacciato
può non essere contrario al diritto: il cliente che dice alla banca “se non mi concedete il nuovo
mutuo che vi chiedo, trasferirò il mio conto presso un’altra banca” minaccia certo un male, ma è la
minaccia di un male lecito, di una contromisura che ognuno può adottare nell’esercizio della
propria libertà contrattuale. Analoga ipotesi è quella della minaccia di far valere un diritto: questa è
causa di annullamenti del contratto solo se è diretta a realizzare vantaggi ingiusti (art. 1438), ossia
un vantaggio non dovuto o superiore a quello dovuto, o un risultato non inerente al diritto che si
minaccia di esercitare. È il caso del datore di lavoro che al dipendente, che ha brevettato una
propria invenzione, dica “se non mi cedi il tuo brevetto, ti licenzio per riduzione di personale”: qui
non c’è alcun rapporto strumentale fra il minacciato licenziamento e la cessione del brevetto e la
minaccia di esercitare il diritto di licenziamento, anche se di questo esistono i presupposti di legge,
tende a realizzare un vantaggio ingiusto. Il male minacciato deve, inoltre, essere notevole (art.
1435): di gravità superiore, cioè, al danno che il contratto estorto con la minaccia provoca al
contraente. Per esprimere questa valutazione si deve tenere conto dell’impressionabilità dell’uomo
medio: la minaccia deve essere di tale natura da far impressione su una persona sensata, avuto
riguardo all’età, al sesso e alla condizione della persona (art. 1435). La violenza, come i raggiri del
dolo, può provenire da un terzo (art. 1434), ma qui, a differenza che per il dolo, non occorre che la
violenza del terzo sia nota al contraente che ne ha tratto vantaggio. Di fronte alla violenza si
attenua la protezione dell’affidamento dell’altro contraente, che subirà l’annullamento del
contratto anche se ignaro della violenza del terzo. Non è causa d’annullamento del contratto il
semplice timore riverenziale (art. 1437), tradizionalmente definito metus ab intrinseco: è il non osare di
dire no per la condizione di psicologica soggezione nella quale ci si può trovare rispetto ad una
persona a causa della potenza o dell’influenza o dell’autorevolezza o della ricchezza di questa, o
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per la particolare relazione che intercorre con essa. Dal mero timore reverenziale va distinta
l’ipotesi in cui il personaggio importante, pur senza pronunciare minacce, lascia intendere senza
possibilità di dubbio che dall’accettazione della sua proposta dipende la carriera dell’altra parte o
la conclusione dell’affare cui aspira. Diversa dal semplice timore reverenziale è anche l’ipotesi
“dell’avvertimento” mafioso. È il caso di chi, dopo aver respinto una proposta contrattuale, riceve
la “visita” di un noto personaggio della mafia, che si limita a raccomandargli, magari con parole
garbate, di accettare la proposta. Qui, anche se non sono state pronunciate minacce, il contraente sa
che la sua vita è in pericolo, perché è dato di comune esperienza, specie in certe regioni del sud,
che gli “avvertimenti” della mafia sono implicitamente gravidi di minaccia. La più antica
giurisprudenza, ragionando in termini di metus ab intrinseco, aveva negato la rilevanza
dell’avvertimento mafioso; quella successiva ha finito con il riconoscerla.
Le azioni di nullità e di annullamento
Nullità ed annullabilità producono conseguenze diverse. A chiedere la dichiarazione di nullità di
un contratto è legittimo chiunque, anche se terzo rispetto alle parti, dimostri di avervi interesse
(art. 1421); a chiedere l’annullamento del contratto è legittimata, invece, solo la parte a favore della
quale è prevista l’annullabilità (art. 1441): la parte incapace di agire (o il suo legale rappresentante)
o chi ad essa subentra come erede o avente causa; la parte vittima dell’errore, del dolo, della
violenza, e così via. Alla regola fa eccezione la c.d. annullabilità assoluta: l’incapacità di agire del
condannato all’ergastolo o alla pena della reclusione superiore a 5 anni, che è in stato
d’interdizione legale, può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse (art. 1441). La nullità
può essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 1421), l’annullamento, invece, può essere pronunciato
dal giudice solo su domanda o su eccezione della parte legittimata. La rilevabilità d’ufficio della
nullità deve però essere coordinata con i principi del codice di procedura civile e, in particolare,
con il principio della domanda e della corrispondenza fra domanda o eccezione e giudicato,
nonché con il principio sulla disponibilità delle prove. Il coordinamento è stato attuato dalla
giurisprudenza con le seguenti regulae iuris: il giudice può rilevare d’ufficio la nullità di un
contratto se la validità di questo sia elemento costitutivo della domanda e de fra le parti vi sia
contestazione sull’applicazione o sull’esecuzione del contratto; il giudice può rilevare d’ufficio la
nullità del contratto anche se la parte interessata abbia contro di esso prospettato un rimedio
diverso, come l’annullamento, o se sia stata domandata la dichiarazione di nullità per una diversa
causa; il giudice può rilevare d’ufficio la nullità solo se la causa di nullità emerge dagli atti e non
richiede ulteriori indagini di fatto; la nullità del contratto può essere rilevata d’ufficio in ogni stato
e grado del giudizio: anche in grado d’appello o di cassazione, sempre che il giudice di grado
inferiore non abbia pronunciato sulla validità del contratto, comportando ciò il formarsi di un
giudicato che preclude il successivo esame della materia.
L’azione di nullità è imprescrittibile (art. 1422), l’azione di annullamento è soggetta al termine di
prescrizione di 5 anni (art. 1442). Alla regola si sottraggono le deliberazioni della comunione (art.
1109), del condominio negli edifici (art. 1137), delle società di capitali (art. 2377): qui vale un breve
termine di decadenza (di 30 giorni nei primi due casi, di 90 giorni nel terzo caso), imposto da
un’esigenza di certezza dei rapporti giuridici. La medesima esigenza non è valutata per le
deliberazioni delle associazioni: in mancanza di ogni disposizione di legge al riguardo, l’azione di
annullamenti si ritiene sottoposta all’ordinario termine di prescrizione. Varia, però, il termine di
decorrenza della prescrizione: l’incapace legale e la vittima di un vizio del consenso sono più
protetti, giacché la prescrizione decorre dalla scoperta dell’errore o del dolo, dalla cessazione della
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violenza o dello stato d’interdizione o d’inabilitazione o dal raggiungimento della maggiore età
(art. 1142). Minore è la protezione in ogni altro caso, giacché la prescrizione decorre dal momento
del contratto e se, la causa di annullabilità è scoperta dopo 5 anni dal contratto, non può più essere
fatta valere. La prescrizione riguarda l’azione, non l’eccezione: l’annullamento non può essere
domandato se sono trascorsi 5 anni, ma può essere eccepito anche dopo che siano trascorsi, se solo
allora l’altra parte chieda l’esecuzione del contratto (art. 1442). La sentenza che dichiara la nullità
di un contratto opera retroattivamente sia fra le parti sia rispetto ai terzi, anche se questi sono in
buona fede. La sentenza che annulla il contratto, invece, opera retroattivamente tra le parti, ma
quanto ai terzi, opera solo rispetto ai terzi di mala fede, che conoscevano la causa di annullabilità
del contratto. Essa non pregiudica i diritti acquistati dai terzi in buona fede (art. 1445). Assistiamo
ad un conflitto fra opposte esigenze: le esigenze, da un lato, di protezione dell’autonomia
contrattuale e le esigenze, dall’altro, di sicurezza nella circolazione dei beni. La legge sacrifica le
seconde e protegge le prime nel caso del contratto nullo, mentre, esprime un’opposta valutazione
nel caso del contratto annullabile. La regola non vale però per tutti i casi: se il terzo ha acquistato
diritti a titolo gratuito, la sentenza di annullamento produce rispetto ai terzi, anche di buona fede,
gli stessi effetti di una sentenza di nullità (art. 1445). I drastici effetti che la nullità del contratto
produce sulla circolazione dei beni possono essere neutralizzati dai principi che regolano
l’acquisto dei beni a titolo originario, mediante il possesso di buona fede o mediante l’usucapione.
È vero che l’azione di nullità è imprescrittibile, ma è vero pure che il venditore, o il suo erede o
avente causa, otterrà inutilmente una sentenza dichiarativa della nullità del contratto di vendita se,
nel frattempo, il compratore avrà, mediante il possesso prolungato per il tempo di legge, usucapito
il bene (art. 1442). È vero che la sentenza che dichiara la nullità travolge i diritti contrattualmente
acquistati dai terzi di buona fede, ma è vero pure che, se costoro hanno conseguito il possesso del
bene, ne diventano proprietari a titolo originario (art. 1153), e non sono tenuti a restituirlo. Bisogna
considerare anche gli effetti che sul contratto nullo produce la c.d. transizione sanante: se la
domanda diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità, oppure l’annullamento, di un contratto
soggetto a trascrizione è trascritta dopo 5 anni dalla data della trascrizione del contratto
impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi
di buona fede in base a un atto trascritto od iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda
(art. 2652). La sentenza che pronuncia la nullità del contratto è una sentenza dichiarativa, mentre è
costitutiva la sentenza che lo annulla. Se ne fanno derivare conseguenze circa l’efficacia del
contratto: se questo è nullo, esso non produce effetti ab initio, se è annullabile, esso “è per intanto
efficace finché eventualmente non segua la pronuncia con cui l’autorità lo pone nel nulla”. La
distinzione è equivoca, dal momento che anche la sentenza di annullamento, al pari di quella di
nullità, opera retroattivamente fra le parti ed elimina il contratto ab origine. Sicché la posizione di
chi è chiamato ad eseguire un contratto affetto da una causa d’invalidità non muta a seconda che si
tratti di causa di nullità o di annullabilità. Alla dichiarazione di nullità o all’annullamento del
contratto consegue il diritto delle parti di ripetere le prestazioni eventualmente eseguite. La
disciplina della ripetizione può frustare quella della nullità: l’azione di ripetizione è soggetta
all’ordinario termine decennale di prescrizione, perciò, se quest’azione si è già prescritta, a nulla
gioverà l’imprescrittibilità dell’azione di nullità, e la sentenza che dichiara nullo il contratto non
consentirà di ripetere la prestazione eseguita. Un limite all’azione di ripetizione, che può frustare
l’annullamento del contratto, è posto dall’art. 1443 (nonché dall’art. 2039): se il contratto è
annullato per incapacità di uno dei contraenti, l’altro può ripetere la prestazione eseguita solo se
prova che essa è stata “rivolta a vantaggio” dell’incapace, e solo nei limiti di questo vantaggio. La
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norma è dettata a tutela dell’incapace, legale o naturale: si basa sulla presunzione che l’incapace, in
quanto tale, non sia in grado di trarre vantaggio dalla prestazione ricevuta. Il contraente capace
deve vincere questa presunzione e provare che la sua prestazione è andata a vantaggio
dell’incapace. Il contratto affetto da una causa di annullabilità può essere convalidato, con l’effetto
di sanare il contratto e di precludere l’azione di annullamento. Lo si può convalidare in due modi:
a) con un’espressa dichiarazione di convalida, proveniente dalla parte cui spetta l’azione di
annullamento (art. 1444). Se l’azione di annullamento spetta a più soggetti, la dichiarazione di
convalida che non provenga da tutti sarà inidonea a convalidare il contratto;
b) in modo tacito (art. 1444): la parte cui spetta l’azione dà volontariamente esecuzione al contratto,
pur conoscendo la causa di annullabilità.
La convalida è atto unilaterale, dotato di una propria causa: esso non partecipa dei requisiti di
forma del contratto da convalidare e produce i suoi effetti dalla data del contratto convalidato.
Non può, all’opposto, essere convalidato il contratto nullo (art. 1423): l’eventuale dichiarazione di
convalida o la volontaria esecuzione del contratto non preclude l’azione di nullità, salva la diversa
regola vigente per la donazione (art. 799). Fuori da questa ipotesi, l’unico rimedio è il rinnovo
dell’atto, che è contratto nuovo, produttivo di effetti solo dalla sua data. La rettifica del contratto è
prevista dall’art. 1432 per il caso di errore: “la parte in errore non può domandare l’annullamento
del contratto se l’altra offre di eseguirlo in modo conforme al contenuto e alle modalità del
contratto che quella intendeva concludere”. L’offerta di rettifica dà luogo ad una modificazione del
contenuto del contratto, tale da riportarlo al contenuto contrattuale supposto dall’errante. Poiché
questi non può rifiutare l’offerta, si è in presenza di un atto unilaterale (recettizio), di per sé
produttivo dell’effetto modificativo. La norma è formulata solo per il caso dell’errore; tuttavia, non
se ne può escludere l’applicazione agli altri vizi del consenso. L’offerta di rettifica è ammissibile,
tuttavia, solo se essa non possa arrecare pregiudizio all’errante; essa è preclusa dal fatto che
l’errante abbia, nel frattempo, perso interesse al contratto, oggettivamente diventato per lui non
più conveniente. Il contratto nullo è, invece, suscettibile di conversione. Ciò accade quando un
contratto, nullo come contratto di un dato tipo, presenta tuttavia i requisiti di un altro tipo
contrattuale: se si può ritenere, avuto riguardo allo scopo perseguito dalle parti, che esse avrebbero
voluto anche il diverso tipo contrattuale di cui sono presenti i requisiti di forma e di sostanza, il
contratto nullo produce gli effetti di questo diverso tipo contrattuale (art. 1424). La conversione del
contratto nullo è applicazione di un più generale principio, che è quello della conservazione del
contratto: la legge tende, fin che è possibile, ad attribuire effetti ad una dichiarazione di volontà;
esprime il proprio favore per la conclusione degli affari. La conversione implica un mutamento
della causa del contratto: l’art. 1424 lo rende possibile entro un ambito circoscritto dallo “scopo
perseguito dalle parti”. L’art. 1424 s’esprime con un linguaggio ambiguo, mosso dalla
preoccupazione di contemperare l’accolto principio di conservazione con il rispetto della volontà
delle parti: esso subordina la conversione alla presenza della c.d. “volontà ipotetica” dei contraenti,
che avrebbero voluto il diverso contratto se avessero conosciuto la nullità di quello concluso. La
conversione non può essere pronunciata d’ufficio dal giudice: il giudice la dispone su domanda di
una delle parti, diretta a contrastare l’azione di nullità dell’altra. Il giudice non esegue due
operazioni, dichiarando prima la nullità di un contratto e poi creando ex novo un diverso contratto;
esegue una sola operazione: respinge l’azione di nullità del contratto. La conversione non
sostituisce un contratto nullo, effettivamente voluto dalle parti, con un contratto valido, voluto
dalle parti solo “ipoteticamente”; essa modifica la causa del contratto originariamente voluto dalle
parti. Fra le molteplici ipotesi di mutamento della causa del contratto – alcune volontarie, altre
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forzose – quella prevista dall’art. 1424 si caratterizza come un mutamento forzoso, legittimo solo
nei limiti in cui la diversa causa, che prende il posto della causa originaria, realizza il medesimo
scopo perseguito dalle parti. La giurisprudenza ha posto altri limiti alla conversione: non opera se
le parti conoscevano la causa di nullità del contratto, se la nullità deriva da illiceità, se si pretende
di convertire una donazione nulla per mancanza di forma solenne in una promessa di pagamento,
quale atto unilaterale.
Il principio di conservazione ispira molteplici norme in materia di contratti; qui vanno segnalate
quelle relative alla nullità parziale. Le cause di nullità che investono solo singole clausole del
contratto comportano nullità di quelle clausole, ma non la nullità dell’intero contratto: se risulta
che non erano clausole essenziali, tali per cui le parti non avrebbero concluso il contratto senza
quelle clausole (art. 1419); se, in ogni caso, le clausole nulle sono sostituite di diritto da norme
imperative di legge (art. 1419). Il secondo principio trova molteplici applicazioni: la nullità delle
clausole di esonero da responsabilità per dolo o per colpa grave (art. 1229) non consente mai di
accertare se, in loro difetto, le parti avrebbero ugualmente concluso il contratto; comporta,
semplicemente, la responsabilità delle parti per dolo o colpa grave. Altro caso risulta dalla
legislazione urbanistica: il diritto del proprietario di unità abitativa all’uso dell’area predisposta
per il parcheggio degli autoveicoli passa, in caso di locazione dell’alloggio, al conduttore di questo
nonostante la clausola contrattuale che ne esclude il passaggio, affetta da nullità parziale. Il
principio di conservazione del contratto si combina con un altro principio che è quello
dell’integrazione del contratto (art. 1374); il contenuto di questo è determinato, oltre che dalla
volontà delle parti, anche da disposizioni di legge. La giurisprudenza ha precisato che l’indagine
sull’essenzialità della clausola “va condotta con criterio oggettivo, con riferimento alla perdurante
utilità del contratto rispetto agli interessi con esso perseguiti”; ha, infine, ricercato il giusto punto
di equilibrio fra esigenze di conservazione del contratto e protezione dell’autonomia contrattuale,
precisando che la nullità parziale può essere dichiarata “soltanto allorché occorra amputare una
parte del contratto senza la quale i contraenti avrebbero ugualmente raggiunto l’accordo e non
pure nel caso in cui occorrerebbe procedere, da parte del giudice, ad adeguamento e rettifiche delle
complessive prestazioni al fine del loro equilibrio”. Altra applicazione del principio di
conservazione è nei contratti plurilaterali con comunione di scopo: la nullità (art. 1420) o
l’annullabilità (art. 1446) della partecipazione al contratto di una delle parti non comporta nullità
dell’intero contratto se la sua partecipazione al contratto non debba, secondo le circostanze,
considerarsi essenziale, e se il contratto, pertanto, può ugualmente avere attuazione con le parti
restanti.
Invalidità ed inefficacia
Dall’invalidità del contratto si deve distinguere l’inefficacia del contratto, che a differenza della
prima non trova nel codice civile una considerazione unitaria e generale. Il contratto invalido è
anche inefficace, improduttivo dell’effetto, proprio del contratto (art. 1321), di costituire, regolare
od estinguere fra le parti un rapporto giuridico patrimoniale. La sentenza che dichiara la nullità o
che pronuncia l’annullamento del contratto lo rende improduttivo di effetto, tanto fra le parti
quanto rispetto ai terzi, ed elimina, di regola, anche gli effetti che si siano nel frattempo prodotti
(effetto retroattivo della sentenza), salvi nel caso di annullamento i diritti acquistati a titolo oneroso
dai terzi di buona fede (art. 1445). L’inefficacia presenta tuttavia un’estensione maggiore
dell’invalidità. Consegue, di regola, all’invalidità del contratto, ma può investire anche contratti in
sé validi, ponendosi in tal caso quale categoria concettuale autonoma rispetto a quella
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dell’invalidità. La sua nota saliente sta nella maggiore elasticità di questa figura, nella sua idoneità
a meglio “realizzare il trattamento corrispondente agli interessi in gioco”, in contrasto con la
rigidità della disciplina dell’invalidità. Le cause che provocano inefficacia possono essere
variamente classificate:
1) A volte sono cause dello stesso ordine di quelle che producono nullità del contratto: così la
contrarietà del contratto a norme imperative determina, di regola, la sua nullità; ma la stessa
norma che, all’art. 1418, I comma, enuncia questa regola formula la riserva “salvo che la legge
disponga diversamente”. Può in tal modo accadere che il contratto contrario a norme imperative
sia annullabile anziché nullo, ma può, altresì, accadere che la contrarietà a norme imperative trovi
nella legge una sanzione diversa dall’invalidità, quale l’inefficacia del contratto. La giurisprudenza
ha avuto modo di avvedersene con riguardo alla vendita immobiliare conclusa in violazione di
una prelazione legale. La vendita, sebbene in contrasto con la norma imperativa che impone
all’alienante di un fondo rustico od urbano di farne offerta all’affittuario o al locatario, è contratto
valido, ma inefficace nei confronti dell’avente diritto alla prelazione, cui è legislativamente
concesso il rimedio, diverso dall’azione di nullità, del riscatto dell’immobile nei confronti del terzo
acquirente. Del pari, le clausole vessatorie sono “inefficaci” a norma dell’art. 1341 se non approvate
per iscritto, ma, non senza contraddizione, sono considerate nulle dall’art. 36 del Codice del
consumo, in quanto clausole che contravvengono alla norma imperativa di cui all’art. 33 dello
stesso codice;
2) Altre volte le cause che producono inefficacia sono dello stesso ordine di quelle che producono
annullabilità del contratto: così gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento sono
inefficaci nei confronti dei creditori, e ciò quantunque la condizione del fallito, privato
dell’amministrazione e della disponibilità del suo patrimonio, si presti ad essere descritta in
termini d’incapacità legale;
3) Produce inefficacia, e non nullità, la simulazione del contratto: inefficacia fra le parti (art. 1414),
inefficacia rispetto a determinate serie di terzi (art. 1415-1416). Qui il contratto è voluto, sicché non
può parlarsi di nullità ai sensi dell’art. 1418; non ne sono però voluti gli effetti, ciò che è
legislativamente valutato come compatibile con la validità e come produttivo di una sola relativa
inefficacia del contratto;
4) E’ inefficace il contratto in frode ai creditori nei confronti del creditore che abbia esercitato
l’azione revocatoria;
5) Altre volte l’inefficacia del contratto consegue al mancato assolvimento di un onere da parte dei
contraenti: così i contratti soggetti a trascrizione (artt. 2643, 2645), se non trascritti, “non hanno
effetto” riguardo ai terzi che abbiano acquistato diritti in base ad un atto trascritto o iscritto
anteriormente alla trascrizione dei medesimi (art. 2644);
6) L’inefficacia può, ancora, conseguire al difetto di legittimazione del soggetto che ha posto in
essere l’atto, ossia dell’idoneità del soggetto a disporre del rapporto che forma oggetto dell’atto. È
il caso del contratto concluso dal falsus procurator, ed impropriamente l’art. 1398 s’esprime al
riguardo in termini d’invalidità del contratto;
7) Va, infine, menzionata l’inefficacia dipendente da condizione volontaria o legale: il contratto
può essere, in tali casi, temporaneamente inefficace (in attesa del verificarsi della condizione
sospensiva) o solo temporaneamente efficace (in attesa del verificarsi della condizione risolutiva).
Caratteristiche costanti dell’inefficacia non dipendente da invalidità sono:
a) La sua relatività, in contrasto con l’inefficacia assoluta del contratto nullo. Sotto questo aspetto si
manifesta la maggiore elasticità del concetto d’inefficacia rispetto a quello di nullità, la sua idoneità
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a meglio rispondere alle esigenze di regolazione degli interessi in gioco. Così la simulazione rende
inefficace il contratto solo nei confronti dei terzi indicati negli artt. 1415 e 1416;
b) La sua convalidabilità, in contrasto con l’inconvalidabilità del contratto nullo (art. 1423): così,
ammette ratifica il contratto del falsus procurator (art. 1399). Sotto questi aspetti l’inefficacia
sembra assimilabile all’annullabilità; da questa, tuttavia, differisce per l’imprescrittibilità
dell’azione relativa, in quanto azione di accertamento, in contrasto con la soggezione alla
prescrizione quinquennale dell’azione di annullamento (art. 1442);
c) La sua non convertibilità, per contro, in contrasti con la convertibilità del contratto nullo a
norma dell’art. 1424;
d) La non operatività, nel caso d’inefficacia parziale, dell’eccezione di essenzialità della clausola
inefficace, in contrasto con il principio espresso per la nullità parziale dell’art. 1419.
CAP. 9°: LA SIMULAZIONE E L’APPARENZA
La simulazione
C’è simulazione quando i contraenti creano, con la propria dichiarazione, solo le parvenze esteriori
di un contratto, del quale non vogliono gli effetti (art. 1414), oppure creano le parvenze esteriori di
un contratto diverso da quello da essi voluto. La simulazione può, in particolare, assumere tre
forme:
a) simulazione assoluta (art. 1414, I comma): ricorre quando le parti concludono un contratto e, con
separato e segreto accordo (detto controdichiarazione), dichiarano di non volerne alcun effetto. Il
loro intento è di creare, di fronte ai terzi, l’apparenza del trasferimento di un diritto dall’una
all’altra o l’apparenza dell’assunzione di un’obbligazione dell’una rispetto all’altra. È un intento
che può derivare dalle più diverse ragioni: alla simulazione assoluta ricorre, principalmente, chi
vuole occultare i propri beni agli occhi dei creditori per sottrarli alle loro pretese o chi vuole
nasconderli al fisco per sottrarli alla tassazione. Alla simulazione si fa ricorso anche per eludere un
divieto di legge o un’obbligazione contrattuale di non fare: così chi non può, per legge, esercitare il
commercio o chi si è obbligato, per contratto, a non fare concorrenza elude il divieto di legge o il
patto di non concorrenza simulando un affitto dell’azienda, che a questo modo appare esercitata
dal fittizio affittuario;
b) simulazione relativa (art. 1414, II comma): si ha quando le parti creano l’apparenza di un
contratto diverso da quello che esse effettivamente vogliono. Se ne possono distinguere due specie:
b1) la simulazione relativa totale: qui si hanno due contratti, il contratto simulato, che è quello
destinato solo ad apparire all’esterno, ed il contratto dissimulato, che è quello realmente voluto
dalle parti. Il primo può essere diverso dal secondo per il tipo contrattuale: si simula, ad esempio,
una vendita, mentre in realtà si fa una donazione;
b2) la simulazione relativa parziale: qui la simulazione investe solo una clausola contrattuale,
sicché il contratto dissimulato è (parzialmente) diverso per il suo contenuto: così in una vendita
può essere simulato il prezzo, che nel contratto simulato è indicato in una somma inferiore a quella
reale;
c) interposizione fittizia di persona: è una particolare specie di simulazione relativa, che investe
l’identità di una delle parti: nel contratto simulato appare come contraente un soggetto (detto
interposto) che è persona diversa dal reale contraente (interponente). Così, chi si accinge ad
acquistare un bene, ma non vuole che il bene che sta per acquistare appaia suo agli occhi dei terzi
(dei suoi creditori, del fisco, ecc.), fa figurare come compratore un compiacente parente od amico.
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E così si dà vita ad una vendita simulata, nella quale appare compratore l’interposto, e ad una
sottostante vendita dissimulata, nella quale il compratore è l’interponente, ossia il compratore
effettivo. Nel linguaggio della pratica si parla, in questi casi, d’intestazione fittizia di un bene,
alludendo al fatto che il bene acquistato appare, a seguito della trascrizione del contratto simulato
nei registri immobiliari, come appartenente ad un fittizio proprietario. L’interposizione fittizia è
solo una delle molteplici tecniche mediante le quali risulta attuabile l’interposizione di persona,
ossia la frapposizione di uno scherma fra l’interessati ed i terzi. Si deve distinguere,
fondamentalmente, fra interposizione fittizia ed interposizione reale di persona, e quest’ultima, a
sua volta, può presentarsi nella forma del contratto fiduciario oppure in quella della
rappresentanza indiretta (o mandato senza rappresentanza). La volontà di concludere un contratto
simulato o, nel caso dell’interposizione fittizia, di farlo concludere da altri risulta da un apposito
accordo di simulazione, detto anche controdichiarazione: nel caso della simulazione assoluta le parti
dichiarano di non volere affatto gli effetti del contratto fra esse concluso; in quello della
simulazione relativa dichiarano di volere, in luogo del contratto simulato, un diverso contratto.
L’accordo di simulazione è (quanto meno) un accordo a due nella simulazione assoluta e in quella
relativa deve essere (quanto meno) un accordo a tre nell’interposizione fittizia di persona, giacché
qui partecipano alla controdichiarazione sia le parti del contratto simulato sia il terzo interponente.
Non basta un accordo a due fra interposto e interponente: occorre la partecipazione del terzo o,
quanto meno, la sua adesione successiva all’accordo. Il diretto contraente dell’interposto, se non
fosse partecipe della controdichiarazione, potrebbe esigere dall’interposto, anziché
dall’interponente, l’esecuzione del contratto.
La natura dell’accordo di simulazione è controversa: per alcuni si tratta di un patto, non di un
contratto, mentre per altri non si tratta neppure di un atto di volontà, ma di una dichiarazione di
scienza, contenente riconoscimento dell’inesistenza di un contratto apparentemente stipulato, nel
caso della simulazione assoluta; dell’esistenza di un contratto diverso, realmente voluto dalle parti,
nel caso della simulazione relativa; e da ciò la Cassazione desume l’inammissibilità della
risoluzione dell’accordo di simulazione per mutuo dissenso. Ma si tratta di posizione incoerente,
giacché la Cassazione conferisce natura di contratto al contratto d’accertamento, che ha natura solo
dichiarativa, e considera dichiarazione di volontà, fonte di obbligazione, la ricognizione di debito.
Si deve dire piuttosto che il mutuo dissenso è concepibile per i contratti dispositivi, non anche per
quelli dichiarativi.
Ragionando con logica astratta si dovrebbe pervenire alla conclusione che il contratto simulato sia
nullo: non c’è valido contratto senza volontà delle parti, e il contratto simulato è, per l’appunto, un
contratto non voluto. Ubbidendo a questa logica astratta la giurisprudenza in passato prevalente
ha parlato di nullità del contratto simulato, ed alla medesima conclusione sono pervenute anche
accorte dottrine. Questo modo di argomentare ha radici culturali alquanto evidenti, le quali
risiedono nella premessa che il contratto è un negozio giuridico e questo è, per definizione, la
dichiarazione di volontà diretta a produrre effetti giuridici, sicché la dove manca, come manca
nella simulazione, la volontà degli effetti, non si può dire di essere in presenza di un negozio
giuridico né, di conseguenza, di un contratto. È però un fatto che, nel sistema del vigente codice
civile, il requisito dell’accordo delle parti, prescinde dalla volontà degli effetti, come è reso palese
dalla norma che, all’art. 1433, subordina l’annullamento del contratto per errore ostativo alla
riconoscibilità da parte dell’altro contraente, rendendo così inattaccabile e vincolante per l’errante,
se l’errore non è riconoscibile da parte dell’altro contraente, un contratto non voluto. È del pari un
fatto che il codice civile qualifica non come nullo, bensì come inefficace, il contratto simulato (art.
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1414), distingue l’azione di simulazione dall’azione di nullità (art. 2652) e regola la simulazione in
modo affatto diverso dalla nullità: se mai l’inefficacia di cui parla l’art. 1414 fosse nullità, essa
sarebbe una ben singolare nullità, essendo una nullità in opponibile ai terzi protetti dagli artt.
1415-16. Anche chi si esprime in termini di nullità finisce poi con il contrastare che la simulazione,
a differenza della nullità, non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, che è insuscettibile di
conversazione e che, per contro, ammette convalida. Al pari dell’azione di nullità, l’azione di
simulazione è imprescrittibile, ma ciò non deriva dall’appartenenza della seconda al genere della
prima, bensì all’appartenenza di entrambe ad un più vasto genere, che è quello delle azioni di
accertamento. Talora si è ritenuta soggetta a prescrizione ordinaria l’azione di simulazione relativa,
ma poi si è chiarito che non l’azione di simulazione è, in tal caso, soggetta a prescrizione, bensì
l’azione diretta ad ottenere l’adempimento del contratto dissimulato. Si coglie in verità l’essenza
della simulazione se si considera la duplice direzione lungo la quale si muove la volontà dei
contraenti, che da un lato vogliono il contratto simulato e dall’altro dichiarano che il contratto così
posto in essere è tra loro inefficace, o che è tra loro efficace un contratto diverso. Il contratto
simulato resta pur sempre un contratto. La simulazione è causa d’inefficacia solo relativa del
contratto: determina conseguenze profondamente diverse fra le parti e rispetto ai terzi. Fra le parti
il contratto simulato è inefficace (art. 1414) e, se si tratta di simulazione relativa o d’interposizione
fittizia di persona, l’inefficacia del contratto simulato comporta l’efficacia del contratto
dissimulato, sempre che sussistano i requisiti di sostanza e di forma necessari per la sua validità
(art. 1414). L’art. 1414 non si pronuncia sulla forma richiesta per la controindicazione nella
simulazione assoluta. Al riguardo la giurisprudenza ritiene di poter trarre argomento dalla
premessa che la controdichiarazione sia dichiarazione di scienza e non dichiarazione di volontà e
conclude che “l’intesa simulatoria non è necessario che risulti da controdichiarazione scritta”,
anche quando si riferisce a contratto simulato che richiede la forma scritta a pena di nullità, sicché
“la relativa prova soggiace alle normali limitazioni legali ed, in particolare, al divieto di prova
testimoniale ed a quello per presunzione”, mentre sono ammesse la confessione ed il giuramento.
Il punto è che la controdichiarazione, se non è espressione di volontà dispositiva, è pur sempre
espressione di volontà dichiarativa e dà luogo ad un contratto, come è tale il contratto di
accertamento. E, se il contratto simulato è un contratto immobiliare, la controdichiarazione è un
contratto avente indiretto oggetto immobiliare, in quanto tale soggetto alla stessa forma richiesta
per contratto simulato. Tutt’altro discorso vale rispetto ai terzi. Nei loro confronti il contratto
simulato può, a seconda dei casi, essere inefficace oppure efficace: è inefficace rispetto a quei terzi i
cui diritti sono pregiudicati dal contratto simulato (art. 1415), è, invece, efficace per quei terzo che,
in buona fede, hanno fatto affidamento sull’apparenza creata dal contratto simulato (artt. 1415 e
1416). Entrambe le regole proteggono i terzi, ma sono ispirate da esigenze tra loro diverse. La
prima mira a sventare il danno che, con il contratto simulato, si vuole arrecare ai terzi; la seconda
regola è applicazione, in materia di simulazione, di quel generale principio, che domina l’intero
codice civile, che è la sicurezza nella circolazione dei beni. Proprio perché si tratta di regole poste a
protezione di diverse serie d’interessi, può accadere che gli interessi protetti dall’una vengano a
trovarsi in conflitto con gli interessi protetti dall’altra. Così, l’interesse protetta dalla prima regola
può venire in conflitto con l’interesse, protetto dalla seconda regola. Quale dei due interessi
prevale sull’altro? La risposta è nell’art. 1415: la simulazione non può essere opposta dai creditori
del simulato alienante ai terzi che in buona fede hanno acquistato diritti dal titolare apparente.
Prevale, in altre parole, il principio, sommo, della sicurezza nella circolazione dei beni. Altro
possibile conflitto può insorgere fra diversi creditori: fra i creditori del simulato alienante e i
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creditori del simulato acquirente. Prevalgono i primi, se il loro credito è anteriore all’atto simulato
(art. 1416): il criterio ispiratore della norma è che l’affidamento fondato sulla realtà deve prevalere
sull’affidamento fondato sull’apparenza. Gli artt. 1415-16 hanno lasciato margine per una serie di
casi dubbi:
a) può la simulazione della vendita essere opposta al locatario o all’affittuario con diritto di
prelazione dal proprietario, che abbia agito in giudizio per ottenere la dichiarazione d’inefficacia
della vendita? Può la simulazione della vendita di quota ereditaria essere opposta al coerede che
vuole esercitare il retratto? Gli artt. 1415-16 si esprimono in termini di “simulato alienante” e di
“titolare apparente”, con ciò mostrando di fare riferimento solo alla simulazione assoluta e solo a
quella concernente i contratti traslativi. È, tuttavia, comune opinione che essi siano applicabili
anche alla simulazione relativa e che valgano, oltre che per i contratti traslativi, anche per quelli
con effetti solo obbligatori. Di qui ulteriori problemi applicativi:
b) può la simulazione del prezzo di vendita essere dal compratore opposta al legittimario
dell’alienante, che sulla base del prezzo dichiarato nel contratto ritenga lesi i propri diritti?
c) può la simulazione del prezzo di vendita, in caso di fallimento del venditore, essere dal
compratore opposta al curatore che abbia agito in revocatoria?
La serie di casi sub a, variamente decisa in giurisprudenza, va risolta alla luce della considerazione
che il codice civile non dice che la simulazione non è opponibile ai terzi, bensì dice che non è
opponibile a determinati terzi, giudicati meritevoli di protezione in rapporto a specifiche
situazioni. Se mai esistesse una regola di genere inopponibilità della simulazione ai terzi, l’avente
diritto alla prelazione o al retratto ne trarrebbe ingiustificato profitto, giacché acquisterebbe l’altrui
proprietà nonostante la volontà del proprietario di non alienare. La soluzione legislativa del
problema dell’opponibilità della simulazione ai terzi rivela come al vigente codice civile sia
estraneo un giudizio di riprovazione della simulazione, giudizio che, all’opposto, sembra ispirare
alcune soluzioni giurisprudenziali. Così può dirsi per l’ingiustificata soluzione negativa del caso di
cui sub b, prima che la Cassazione mutasse indirizzo come, per la corrispondente soluzione del
caso di cui sub c. la prova che il prezzo effettivo era diverso da quello dichiarato vale ad escludere
ogni pregiudizio per il legittimario come per la massa dei creditori consensuali, e rende del tutto
ingiustificata l’applicazione estensiva delle norme in esame.
La prova che un contratto è simulato è una prova che l’art. 1417 rende molto rigorosa per le parti;
più agevole per i terzi in genere, cui è concesso di darne prova per testi “senza limiti”. Le parti non
possono dare prova per testimoni dell’accordo di simulazione tra esse intervenuto; i terzi possono,
invece, provare la simulazione, oltre che per testimoni, per presunzioni. Anche le parti, tuttavia,
possono provare per testimoni la simulazione quando il contratto dissimulato sia illecito, ossia un
contratto con oggetto o causa o motivo illecito o in frode alla legge, o quando ricorra una delle
eccezioni al divieto di prova testimoniale di cui all’art. 2724. Qui la più agevole prova della
simulazione anche fra le parti è resa opportuna dall’esigenza di favorire la dichiarazione di nullità
del contratto illecito o discende dalla presenza di uno dei presupposti richiesti dall’art. 2724. I
successori delle parti si considerano terzi se sono succeduti a titolo particolare, sono sottoposti al
medesimo onere probatorio delle parto se successori a titolo universale. Diverso è però il caso dei
legittimati che impugnano per simulazione gli atti del de cuius, non potendo soddisfare sul relictum
il loro diritto alla quota di riserva, e che vanno considerati quali terzi agli effetti della norma in
esame. Più complesso problema si pone per il curatore fallimentare. In linea di principio si deve
dire che egli è terzo per le azioni che nascono dal fallimento, come l’azione revocatoria, e per le
quali agisce quale rappresentante della massa dei creditori, mentre è parte per le azioni o le
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eccezioni che trova nel patrimonio del fallito e per le quali agisce quale rappresentante o sostituti
processuale di quest’ultimo, come quando agisce per il recupero di un credito del fallito. Le norme
sulla simulazione, oltre che ai contratti, si applicano anche agli atti unilaterali che siano destinati a
persona determinata (cioè agli atti unilaterali recettizi), se sono simulati per accordo fra il
dichiarante ed il destinatario della dichiarazione (art. 1414). Così può essere simulata, ad esempio,
una promessa di pagamento (art. 1988) per accordo fra promittente e promissario. Non è, invece,
possibile parlare di simulazione per gli atti unilaterali non recettizi, come la promessa al pubblico
(art. 1989), mancando un destinatario determinato della dichiarazione, con il quale stabilire
l’accordo di simulazione. L’eventuale controdichiarazione unilaterale (c.d. riserva mentale) non ha
alcun valore giuridico, neppure se redatta per iscritto. La giurisprudenza applica le norme sulla
simulazione anche agli atti unilaterali diversi dalle dichiarazioni di volontà: è il caso della c.d.
ricevuta di comodo, che il debitore, pur non avendo pagato, si fa rilasciare dal creditore per
ottenere un rimborso o per detrarre fiscalmente il relativo importo. Se poi, alla richiesta di
pagamento, il debitore oppone al creditore la quietanza in suo possesso, il creditore farà valere
l’accordo di simulazione ed otterrà, in giudizio, la dichiarazione d’inefficacia della simulata
quietanza.
Si può parlare di quietanza simulata solo quando la quietanza sia emessa dal debitore sulla base di
un accordo di simulazione con il debitore, precedente o contemporaneo all’emissione della
quietanza. Non ogni quietanza rilasciata in contrasto con la realtà è quietanza simulata, soggetta al
relativo regime probatorio. Se per errore di fatto il creditore dichiara di avere ricevuto il
pagamento e dà in giudizio la prova per testi della non rispondenza al vero della propria
dichiarazione e dell’errore in cui è incorso nel rilasciarla, non potrà il debitore eccepire che, a
norma dell’art. 1417, non è ammessa la prova per testi della simulazione. Qui il creditore ha errato,
non già simulato, nel rilasciare la quietanza, sicché la sua prova dell’errore non incontra limitazioni
di sorta. Non si può invece ritenere, come è dato di leggere in una sentenza della Cassazione, che
la confessione può essere resa inefficace solo per errore di fatto e per violenza, a norma dell’art.
2732, “per cui sono da ritenersi irrilevanti il dolo e la simulazione”. Perciò, chi ha emesso una
ricevuta di comodo non potrebbe limitarsi a dare la prova dell’accordo di simulazione intervenuto
con il debitore; dovrebbe, invece, affrontare la più difficile prova della non veridicità della sua
dichiarazione, ossia del fatto negativo del mancato pagamento. Ma l’art. 2732 ammette, oltre che
l’impugnazione per errore di fatto, che richiede la dimostrazione della non veridicità del fatto
confessato, anche l’impugnazione per violenza, la quale prescinde dalla predetta dimostrazione.
Non può perciò dirsi accolta dal codice civile la concezione della confessione qui postulata dalla
Cassazione.
Il principio dell’apparenza giuridica
Si perpetua nella nostra dottrina il luogo comune secondo il quale la giurisprudenza farebbe
costante applicazione di un generale principio dell’apparenza, concepito come clausola generale
atta a proteggere l’affidamento altrui in una serie potenzialmente illimitata di casi. La tutela
dell’affidamento suscitato dall’apparenza è sicuramente la ratio di singole norme: dell’art. 534 che
protegge il terzo che, in buona fede, abbia a titolo oneroso acquistato diritti dall’erede apparente,
dell’art. 1189, che libera il debitore che abbia pagato nelle mani del creditore apparente, degli artt.
1415 e 1416 che rendono in opponibile la simulazione a chi abbia in buona fede acquistato diritti
dal titolare apparente ed ai creditori di questo. Un esame attento dell’enorme produzione
giurisprudenziale in materia mette, tuttavia, in evidenza, due dati: la tendenziale tipizzazione
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delle fattispecie giurisprudenziali cui il principio dell’apparenza viene applicato, sostanzialmente
circoscritte ai casi della società apparente, della procura apparente, della cessione d’azienda non
pubblicizzata; la presenza di importanti sentenza del Supremo Collegio che respingono la generica
invocazione del principio generale in discorso adducendo che “la c.d. apparenza di diritto non
integra un istituto a carattere generale con connotazioni definite e precise, ma, al contrario, opera
nell’ambito dei singoli negozi giuridici secondo il vario grado di tolleranza di questi in ordine alla
prevalenza dello schema apparente su quello reale”.
La precisazione è stata formulata con riferimento alla procura apparente. La Cassazione chiarisce
che “l’apparenza colposa può assumere rilievo nel caso in cui si accerti un malizioso o negligente
comportamento del rappresentato apparente tale da far presumere la volontà di conferire al
procuratore i suddetti poteri”. L’apparente rappresentato è vincolato verso il terzo quando ha
assunto un comportamento concludente dal quale si desume la tacita volontà di conferire una
procura. Aggiunge il Supremo Collegio che la tutela dell’apparenza non opera quando sussista
“una colpa inescusabile”, nel soggetto che versa in errore; colpa la quale sussiste sia qualora
l’errore avrebbe potuto essere evitato mediante l’impiego della normale prudenza nella condotta
degli affari, sia nell’ipotesi in cui il conferimento dei poteri rappresentativi debba assumere la
forma scritta ad substatiam. Orbene, con la prima precisazione siamo ancora sul terreno della
valutazione di concludenza del comportamento dell’apparente rappresentato, non potendo dirsi
concludente il comportamento che appaia tale solo agli occhi di chi lo esamini “colpa
inescusabile”; la seconda precisazione fa (inavvertito) riferimento al ben noto principio per il quale
la volontà non può essere tacitamente manifestata quando per la sua espressione sia richiesta la
forma scritta. Questa seconda precisazione è la ratio decidendi della sentenza: la Cassazione ritiene
“non invocabile la tutela dell’apparenza al fine di ritenere sussistente una procura a vendere un
bene immobile”. Procura apparente altro non è, allora, se non procura tacita simulata. Che la
procura possa essere tacita, quando non debba assumere la forma scritta, è fuori discussione,
altrettanto incontrovertibile è che la procura, in quanto atto unilaterale, recettizio nei confronti del
rappresentante, possa essere simulata per accordo fra il dichiarante ed il destinatario, a norma
dell’art. 1414.
Di qui un’illazione: la tutela dell’apparenza altro non è se non l’inopponibilità della simulazione ai
terzi di buona fede; la negata tutela, per l’ipotesi di procura a concludere un contratto immobiliare,
altro non è se non nullità della procura per mancanza di forma, opponibile in quanto nullità a
qualsiasi terzo, anche di buona fede. Come la procura apparente, così anche l’ipotesi della cessione
d’azienda non pubblicizzata è riconducibile ai principi della simulazione. L’ipotesi è quella
dell’imprenditore individuale che cede la propria azienda pur conservando la titolarità della
licenza di commercio: ipotesi sulla quale viene costruita la massima secondo la quale, “in forza del
principio della tutela dell’affidamento nell’apparenza del diritto, il terzo che abbia contrattato con
il cessionario dell’azienda nel ragionevole convincimento, derivante da errore scusabile, di entrare
in rapporto con il cedente, può pretendere l’adempimento degli obblighi contrattuali anche dal
cedente quale obbligato solidale”. Tuttavia, fin dalle prime sentenze, il Supremo Collegio ha
tenuto a precisare che non basta il non colposo convincimento della coincidenza fra titolare attuale
della licenza e imprenditore attuale. Esso ha aggiunto che “il terzo che intenda far dichiarare il
titolare della licenza responsabile delle obbligazioni contratte verso di lui dal gestore dell’azienda
deve provare con fatti concludenti di avere ragionevolmente ritenuto per particolari circostanze
che il suo contraente non ha contrattato in proprio, bensì in rappresentanza della persona che
risulta intestataria”. La Cassazione dà rilievo alla circostanza che il cessionario, presente nei locali
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dell’impresa, dichiarava al terzo fornitore di agire come factotum del cedente. Con il che riemerge,
sotto le mentite spoglie della non codificata apparenza del diritto, la codicistica figura della
simulazione; in particolare, la preposizione institoria simulata: i comportamenti del cedente e del
cessionario debbono essere univocamente interpretabili, agli occhi del terzo, come attuativi di una
preposizione institoria.
Il linguaggio giurisprudenziale spesso impiega come sinonimi le locuzioni “società di fatto”,
“società occulta” e “società apparente”. La prima attiene propriamente alla formazione del
contratto di società: fuori dalle ipotesi del conferimento d’immobili in proprietà oppure in
godimento ultranovennale o a tempo indeterminato, il contratto di società può formarsi anche
oralmente e può, altresì, formarsi tacitamente, ossia desumersi dal comportamenti concludente
delle parti. È quest’ultimo, appunto, il caso della c.d. società di fatto: due o più persone si
comportano, in fatto, come soci senza che tra esse sia intervento alcun esplicito contratto di società.
La società occulta, per contro, non può non essere, e normalmente non è, una società di fatto: il
contratto di società occulta viene, di solito, stipulato per iscritto, solo che l’esistenza del contratto
non viene esteriorizzata; una persona agisce, nei rapporti con i terzi, quale imprenditore
individuale, e, tuttavia, egli ha uno o più soci, che restano occulti ai terzi. La mancata
esteriorizzazione del rapporto sociale è, però, irrilevante: ai terzi è dato di provare che i debiti
assunti, in nome proprio, dall’imprenditore apparentemente individuale sono, in realtà, debiti di
una società della quale egli è l’amministratore, e d’invocare, conseguentemente, la responsabilità
illimitata e solidale degli altri soci e la loro soggezione al fallimento. Dalla società occulta va tenuta
distinta la società apparente: questa ricorre quando due o più persone, fra loro non legate da alcun
contratto di società, si comportano in modo da ingenerare nei terzi l’opinione che esse agiscono
come soci, e da indurle a fare affidamento sull’esistenza della società e sulla responsabilità solidale
degli uni per le obbligazioni assunte dagli altri. Un simile comportamento potrebbe essere assunto
solo come fonte di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043, o di responsabilità precontrattuale
ex art. 1398, di chi ha ingenerato nel terzo il falso convincimento dell’esistenza della società, ma la
nostra prevalente giurisprudenza nega al socio apparente la possibilità di eccepire al terzo
l’inesistenza della società, e lo assoggetta alle medesime conseguenze che sarebbero derivate
dall’effettiva esistenza della società, compresa, nel caso di apparente società commerciale, la
dichiarazione di fallimento della società e dei suoi apparento soci. In queste decisioni si parla
dell’esteriorizzazione del rapporto sociale come condizione sufficiente, e non già come condizione
necessaria, per l’assoggettabilità al fallimento: la società può essere dichiarata fallita anche se non
esteriorizzata, ma se esteriorizzata, può essere dichiarata fallita anche se non esiste. I concetti di
società occulta e di società apparente esigono ulteriori precisazioni. Società occulta non significa
società segreta: la società resta occulta anche se i terzi sono a conoscenza della sua esistenza, resta
occulta fino a che nei rapporti esterni agisce, con la spendita del proprio nome, un sedicente
imprenditore individuale. Perciò, i segni rivelatori del rapporto sociale non trasformano una
società occulta in una società palese. Essi sono, semmai, proprio i segni in forza dei quali può
essere dai terzi provata, al di là di un’apparente impresa individuale, l’esistenza di un’impresa
sociale. Simmetrica precisazione deve essere formulata per la società apparente. Questa non è la
società riconoscibile dai terzi, sulla base del comportamento dei soci, ma è la società dichiarata dai
soci negli atti posti in essere con i terzi, o comunque, nelle comunicazioni a terzi. C’è società
apparente, secondo il tradizionale concetto che ha elaborato la giurisprudenza, solo quando c’è
esteriorizzazione del rapporto sociale, quantunque inesistente nei rapporti interni, e
l’esteriorizzazione del rapporto sociale è, per questa tradizionale giurisprudenza, la spendita del
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nome sociale. I contratti di società occulta e di società apparente sono logicamente contrapposti e
non ammettono sovrapposizioni: o la società è occulta, perché esistente quantunque non
esteriorizzata, oppure è apparente, perché esteriorizzata quantunque non esistente.
Nella soggezione al fallimento della società e dei soci apparenti si è spesso ravvisato un equitativo
principio di creazione giudiziaria, non giustificato da regole legislative. Un attento riesame della
questione induce a disattendere questo diffuso giudizio; rivela che una ragione di stretto diritto
sarebbe necessaria per escludere, non già per fondare, la responsabilità e la soggezione al
fallimento della società e dei soci apparenti. La società apparente è, tecnicamente, una società
simulata, retta dagli specifici principi della simulazione nei contratti. Come ogni contratto simulato
il contratto di società apparente è voluto dalle parti contraenti, quanto meno tacitamente. Ma nulla
esclude che il contratto simulato, quando non sia un contratto per il quale la legge esige la forma
scritta, possa essere tacitamente concluso. Il punto è che le esigenze di protezione dei terzi che
siano entrati in rapporti con la società simulata sono soddisfatte dai principi comuni di cui agli
artt. 1415 e 1416. La simulazione è in opponibile da parte dei soci ai creditori sociali; può, tuttavia,
essere fatta valere dai creditori particolari dei soci e, nel conflitto con i creditori chirografari della
società, i primi sono preferiti se il loro credito è anteriore alla costituzione della società.
Quest’ultima proposizione, tratta del II comma dell’art. 1416, comporta la conseguenza per la
quale il creditore particolare del socio apparente, le cui ragioni di credito siano anteriori alla
costituzione della società apparente, sarà preferito ai creditori sociali nella ripartizione dell’attivo
del fallimento personale del socio non debitore. Il fenomeno della società apparente non è
dissimile da quello che si manifesta quando un imprenditore occulto si avvale di un prestanome,
sotto il cui nome l’impresa viene esercitata. In tal caso il prestanome assume la qualità
d’imprenditore ed è assoggettabile al fallimento. La circostanza che egli sia imprenditore solo in
apparenza è giudicata irrilevante; egli è l’imprenditore agli effetti dell’art. 1 legge fall., essendo il
soggetto nel cui nome gli atti d’impresa vengono compiuti; egli è, ai sensi dell’art. 5 legge fall.,
l’imprenditore insolvente, avendo speso il proprio nome, e non quello dell’occulto preponente, nei
rapporti con i terzi. Si può discutere se al fallimento sia sottoposto anche l’imprenditore occulto,
ma nessuno nega che il prestanome fallisca, quantunque imprenditore solo apparente. Nel caso
della società apparente c’è di diverso solo questo: un imprenditore tiene occulta ai terzi la propria
qualità d’imprenditore individuale avvalendosi, quale apparente socio, di uno o più prestanomi.
Orbene, costoro o hanno speso il proprio nome quali soci oppure hanno consentito che altri lo
spendesse. In entrambi i casi essi hanno posto in essere atti giuridici idonei ad obbligarli nei
confronti dei terzi ad imputare a sé gli atti dell’impresa. L’imprenditore apparente non può
opporre ai terzi – perché glielo impedisce l’art. 1705 – l’intero patto che lo lega all’imprenditore
occulto e che fa del primo un semplice mandatario del secondo. Una regola analoga, ma non
identica, impedisce ai soci apparenti di opporre ai terzi l’interno accordo di simulazione: regola
non del tutto identica perché i soci apparenti possono sottrarsi all’azione del terzo di mala fede,
ossia consapevole della simulazione; mentre all’imprenditore apparente non può giovare, perché
lo esclude l’art. 1705, il fatto che il terzo avesse conoscenza del mandato. Ad essere simulato, nel
caso della società, non già i singoli atti posti in essere in nome della società apparente. Questi
vengono in considerazione quali atti di esecuzione del simulato contratto di società, quali
comportamenti concludenti rivelatori del tacito contratto intervenuto fra gli apparenti soci. Perciò
non basta il compimento sporadico di uno o più atti in nome della società, occorre una loro
interazione, con la spedita del nome sociale nei confronti della generalità dei creditori, non di
alcuni soltanto, al punto che la società si riveli notoria. Raggiunta la sicura prova della tacita
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conclusione di un tale contratto, la società apparente ed i suoi soci saranno assoggettabili al
fallimento. Tuttavia, ciascuno dei soci apparenti potrà, nel suo fallimento personale, contestare il
credito del terzo in mala fede, allegando la prova della sua conoscenza dell’accordo di
simulazione, ed altrettanto potranno fare i suoi creditori particolari. Diverso è però il caso di chi è
sì apparente socio, ma è reale imprenditore, titolare di una dissimulata impresa individuale: a
costui non potrà giovare la conoscenza della simulazione da parte del terzo; egli non potrà
contestarne il credito né nel fallimento sociale, né nel proprio fallimento personale. Le norme sulla
simulazione offrono, a questo modo, giusti criteri di contemperamento degli interessi dei creditori
sociali e di quelli dei creditori particolari dei soci; e, se non evitano che del fallimento possano
trarre profitto creditori che non avevano fatto affidamento sul patrimonio dei soci apparenti,
impediscono però che possano trarne indebito vantaggio i terzi di mala fede, consapevoli della
natura solo apparente della società e dei soci falliti.
CAP. 10°: LA RAPPRESENTANZA
Di norma le parti del contratto sono, al tempo stesso, le parti del rapporto giuridico patrimoniale
da costituire, regolare od estinguere. Questa coincidenza fra le parti del rapporto e parti del
contratto viene meno, in tutto o parzialmente, quando le prime utilizzano la figura della
rappresentanza: un soggetto, il rappresentante, partecipa alla conclusione del contratto una
propria dichiarazione di volontà; un altro soggetto, il rappresentato, subisce gli effetti giuridici
della dichiarazione di volontà del rappresentante, acquistando i diritti e assumendo le obbligazioni
che dal contratto derivano. L’art. 1387 indica due fonti della rappresentanza: il potere di
rappresentanza può essere conferito dall’interessato (c.d. rappresentanza volontaria) oppure
derivare dalla legge (c.d. rappresentanza legale, dei genitori rispetto ai figli minori o del tutore
rispetto all’incapace affidato alla sua tutela). Nel primo caso il conferimento ad altri del potere di
rappresentanza è manifestazione di autonomia del soggetto, nel secondo caso, invece, manca un
atto di autonomia del rappresentato: qui un soggetto è posto, indipendentemente dalla sua
volontà, in balia del suo legale rappresentante, che conclude contratti produttivi di effetti nei suoi
confronti. Si ha, perciò, una situazione antitetica all’autonomia: si suole parlare, a questo riguardo,
di eteronomia. Sulla distinzione tracciata dall’art. 1387 bisogna sovrapporne un’altra: la
rappresentanza legale è specie di un più ampio genere, che è quello della rappresentanza
necessaria. Vi rientra la rappresentanza legale degli incapaci, ma vi rientra anche la c.d.
rappresentanza organica degli enti collettivi. In tutti i casi, il contratto concluso del rappresentante
“produce direttamente effetto nei confronti del rappresentato” (art. 1388): se il rappresentante
dichiara di comperare o di vendere, compra o vende il rappresentato. Perché ciò accada è però
necessaria una preliminare condizione: il rappresentante deve concludere il contratto “in nome del
rappresentato”. Non basta che egli abbia agito per conto altrui; non basta che l’altro contraente
sapesse che egli non contrattava nel proprio interesse, bensì nell’interesse di altra persona. Occorre
la c.d. spendita del nome o, secondo il linguaggio tradizionale, la contemplatio domini: il contratto
deve essere concluso in nome del rappresentato e, se si tratta di contratto scritto, deve essere
formato con la menzione del suo nome. Se un soggetto agisce in nome proprio, quantunque per
conto altrui, omettendo di spendere il nome di colui per conto del quale agisce, il contratto
produrrà effetti nei suoi confronti: sarà lui ad acquistare i diritti e ad assumere le obbligazioni che
derivano dal contratto, e ciò anche se l’altro contraente sapeva che egli agiva non per conto
proprio, ma per conto altrui, e sapeva per contro di chi agiva. Lo si desume dall’art. 1705, I comma.
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Può però accadere che un soggetto sottoscriva il contratto con il solo proprio nome, senza ulteriore
specificazione, ma in presenza di circostanze che non lasciano dubbi sul fatto che egli agisse in
nome altrui: ad esempio, perché l’altrui procura, anche se non menzionata nel contratto, era stata a
questo allegata. Si può configurare una contemplatio domini tacita? A questo interrogativo la
giurisprudenza dà risposte uniformi: talora esige che la spendita del nome risulti dal contratto,
talaltra ammette che possa risultare aliunde. La chiave di lettura della giurisprudenza in materia
può essere questa: i giudici hanno disatteso l’eccezione del rappresentato, che per sottrarsi alle
conseguenze del contratto concluso dal suo rappresentante faceva valere la mancata menzione del
proprio nome, tutte le volte che una simile eccezione appariva, date le circostanze, un formalistico
pretesto contrario alla buona fede. In linea di principio può dirsi che una spendita del nome tacita
o presunta è sicuramente ammessa per i contratti verbali. La quotidiana contrattazione dei
commessi di negozio prescinde da una formale spendita del nome dell’imprenditore. La
tradizionale giustificazione, del resto, che si dà alla valida contrattazione dei minori dotati di
capacità naturale d’intendere e di volere, considerati quali rappresentanti dell’esercente la potestà
su di essi, si regge proprio sull’ammissibilità di una contemplatio domina presunta. Se tutto ciò è
vero, sarà difficile sostenere che la spendita del nome altrui debba necessariamente essere espressa
quando il contratto abbia forma scritta. Un punto, tuttavia, dovrà essere ben chiaro: i fatti
concludenti o gli elementi presuntivi utilizzabili non potranno mai riferirsi alla mera altruità
dell’interesse gestito, essendo perfettamente ammissibile contrattare in nome proprio per un
interesse altrui. Dovranno riferirsi, invece, all’altruità del rapporto giuridico dedotto in contratto:
essere tali, cioè, da indurre con sicurezza ad escludere che il contraente avesse inteso acquistare
per sé i diritti o ad assumere su di sé le obbligazioni formanti materia del contratto.
L’effetto rappresentativo si attua solo se il rappresentante è investito del potere di rappresentanza.
Nella rappresentanza legale questo potere più che derivare dalla legge è prerogativa inerente ad
una qualità del rappresentante quella di genitore esercente la potestà, o è inerente all’ufficio di
tutore del rappresentato. Nella rappresentanza organica, esso si ricollega ad una specifica
funzione, quella di amministratore, che al soggetto è attribuita entro l’organizzazione collettiva.
Nella rappresentanza volontaria, il potere rappresentativo talora inerisce al contenuto legale di
uno specifico tipo contrattuale che lega il rappresentante al rappresentato, come nel caso della
rappresentanza commerciale. Fuori da queste specifiche ipotesi, nelle quali il potere
rappresentativo costituisce elemento di una più complessa posizione soggettiva, la rappresentanza
trova la propria fonte in una tipica dichiarazione di volontà del rappresentato: la procura. Questa è
un atto unilaterale, con il quale un soggetto investe un altro soggetto del potere di rappresentarlo,
ed è un atto unilaterale recettizio nei confronti del rappresentante, non recettizio nei confronti dei
terzi: sotto questo aspetto non può dirsi rivolto ad un destinatario determinato, ma a tutti coloro
con i quali il rappresentante si troverà a contrattare in nome del rappresentato. La procura può
essere speciale, ossia riguardare un singolo determinato affare, oppure generale, relativa ad una serie
determinata di affari o relativa a tutti gli affari del rappresentato. Si ritiene generalmente che la
procura generale non comprende gli atti che eccedono l’ordinaria amministrazione, se non sono
espressamente indicati nella procura, in analogia con quanto l’art. 1708, dispone per il mandato. Al
pari del mandato, la procura può avere per oggetto, oltre che la conclusione di contratti, anche il
compimento di altri “atti giuridici” (art. 1703), siano essi l’oggetto esclusivo della procura oppure
atti accessori al contratto da concludere (art. 1708). La procura deve avere la stessa forma del
contratto o dell’atto giuridico da concludere (art. 1392). Quando non sia dalla legge richiesta la
forma scritta per la validità o per la prova dell’atto da compiere, la procura può anche essere tacita,
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ossia desumersi dal comportamento concludente del rappresentato e del rappresentante nei loro
interni rapporti e nei confronti dei terzi, e può essere tacita anche quando per l’atto da compiere
siano state le parti, a norma dell’art. 1352, a richiedere la forma scritta.
Può accadere che qualcuno contratti come rappresentante altrui senza averne i poteri, può, ancora,
accadere che qualcuno, pur investito di poteri rappresentativi, ecceda i limiti di questi poteri: si
parla, in entrambi i casi, di falsus procurator. Il falso rappresentante ha agito in nome altrui: il
contratto, perciò, non può produrre effetti nei suoi confronti. Tanto meno il contratto potrà
produrre effetti nei confronti della persona in nome della quale il falso rappresentante ha agito,
non avendogli questa conferito il potere di rappresentanza (o avendogli conferito un potere
minore di quello che il falso rappresentante si è arrogato). Si tratta, dunque, di contratto invalido
(art. 1398) o, come si preferisce qualificarlo, inefficace per difetto di legittimazione del contraente,
improduttivo di effetti nei confronti del dominus. Quest’inefficacia può essere fatta valere solo dal
dominus o dai suoi eredi, esclusa l’azione del terzo contraente o di altri terzi interessati; né può
essere rilevata d’ufficio dal giudice. La relativa azione, come ogni azione di accertamento, è
imprescrittibile. La persona in nome della quale il falso procuratore ha contrattato o gli eredi di
essa possono però ratificare il contratto (art. 1399), con una successiva dichiarazione unilaterale di
volontà, la ratifica appunto, avente la stessa forma richiesta per la procura e diretta a sanare
l’originario difetto di potere rappresentativo di chi ha contratto. La ratifica è atto unilaterale
recettizio, produttivo di effetti in quanto portato a conoscenza del terzo contraente; può anche
essere sollecitata dal terzo contraente (ma, nel silenzio dell’interessato, s’intende negata: art. 1399)
e, se, dichiarata, ha effetto retroattivo: il contratto ratificato, cioè, diventa efficace dalla sua data,
non da quella della ratifica, che dunque assume a posteriori lo stesso valore giuridico di
un’originaria procura. Come la procura, così la ratifica può essere tacita. L’art. 1399, II comma, fa
salvi i diritti dei terzi. Il che vale quanto a dire che la ratifica non produce effetti: nei confronti
degli aventi causa del dominus, che abbiano da lui acquistato diritti in epoca successiva al
contratto del falsus procurator e anteriore alla ratifica; nei confronti dei creditori che, nel
medesimo periodo, abbiano compiuto atti di esecuzione sui beni del dominus.
È controverso se la norma valga:
c) nei confronti degli aventi causa del terzo contraente che, nel medesimo periodo, abbiano
acquistato diritti da quest’ultimo e che, per effetto retroattivo della ratifica dell’acquisto del falsus
procurator, verrebbero a trovarsi nella condizione di acquirenti a non domino. La questione, se
mancano i presupposti di un acquisto a non domino mediante il possesso di buona fede, è in ogni
caso risolto secondo il criterio dell’anteriorità dell’acquisto e della sua opponibilità all’acquirente
successivo.
L’inefficacia del contratto protegge adeguatamente il soggetto il cui nome sia stato falsamente
speso. Non altrettanto può dirsi del terzo contraente, il quale contava nell’efficacia del contratto
(altrimenti non lo avrebbe concluso): l’inefficacia del contratto sacrifica il suo interesse. Il rischio
d’imbattersi in un falso rappresentante è dalla legge addossato al terzo contraente, anziché al
soggetto il cui nome sia stato falsamente speso. Il terzo contraente può solo rivolgersi al falso
rappresentante e pretendere da questo il risarcimento dei danni per avere senza colpa confidato
nell’efficacia del contratto (art. 1398), ma deve avervi confidato senza colpa. La legge gli addossa
l’onere, oltre che il diritto (art. 1393), di accertare l’esistenza e l’estensione dei poteri
rappresentativi di colui con il quale contratta: se egli poteva, con l’uso dell’ordinaria diligenza,
rendersi conto di contrattare con un falso rappresentante, non ha neppure diritto al risarcimento
del danno. La responsabilità del falsus procurator s’inquadra nella più generale figura della
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responsabilità precontrattuale. Il danno risarcibile è, in questi casi, il c.d. interesse contrattuale
negativo: questo non consiste nel guadagno che l’altro contraente sperava di ricavare dal contratto e
che, per l’invalidità di questo, non ha ricavato; consiste nel danno subito a causa dell’infruttuosa
contrattazione: una somma corrispondente alla diminuzione patrimoniale che il terzo contraente
non avrebbe subito (danno emergente) e al vantaggio che il terzo contraente avrebbe ottenuto
(lucro cessante) se non avesse contrattato con il falsus procurator. Sotto il primo aspetto vengono
in considerazione le spese sostenute per la contrattazione, sotto il secondo aspetto assume rilievo il
danno, c.d. danno delle occasioni perdute, che è derivato al terzo contraente dalla rinuncia ad altri
vantaggiosi contratti. La ratifica dell’interessato esclude, di regola, la responsabilità del falsus
procurator nei confronti del terzo contraente. Principi affatto diversi valgono in materia di
cambiale e di assegno: chi appone la firma sulla cambiale o sull’assegno bancario quale
rappresentante di una persona per la quale non ha il potere di agire è obbligato per la cambiale o
per l’assegno “come se avesse firmato in proprio”, e la medesima norma vale per il rappresentante
che abbia ecceduto dai poteri conferitigli. Il diverso principio per cui il falsus procurator anziché
porre in essere un atto inefficace, obbliga se stesso s’incontra anche in recenti riforme societarie.
Così il d.p.r. 30 del 1986, dopo avere vietato ai soci fondatori e agli amministratori di società per
azioni di sottoscrivere azioni, in sede di costituzione della società o di aumento del capitale sociale,
in nome della società, non fa seguire alla violazione del divieto la conseguenza di diritto comune
dell’inefficacia della sottoscrizione, bensì la conseguenza per cui le azioni sottoscritte in nome della
società s’intendono sottoscritte in proprio dai soci fondatori e dagli amministratori. I principi
cambiari e societari sono entrambi principi “d’importazione”: il primo deriva dalla convenzione
internazionale di diritto cambiario uniforme, il secondo è attuazione della seconda direttiva
comunitaria di armonizzazione del diritto delle società. Il rappresentato può sempre revocare la
procura e modificarne il contenuto. La revoca della procura o la sua modificazione è anch’essa,
come la procura, un atto unilaterale, che il rappresentato ha però il difficile onere di portare a
conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Altrimenti il contratto concluso dall’ex rappresentante è
efficace nei suoi confronti, salva solo la prova che il terzo era a conoscenza della revoca o della
modificazione della procura al momento della conclusione del contratto (art. 1396). Qui la
situazione è invertita rispetto all’ipotesi prima esaminata.
Il rappresentante deve contrattare “nell’interesse” del rappresentato (art. 1388): non può utilizzare
il potere di rappresentanza che gli è stato conferito per realizzare, anziché quello del
rappresentato, il proprio interesse (o l’interesse di un terzo). Il che può accadere quando il
rappresentante concluda un contratto in una situazione di conflitto d’interessi con il rappresentato:
quando l’interesse dell’uno e dell’altro, cioè, si trovino in concorrenza fra loro, e la realizzazione
del primo comporti il sacrificio del secondo. Il contratto conclusa dal rappresentante in conflitto
d’interessi con il rappresentato è annullabile su domanda del solo rappresentato (art. 1394),
secondo le norme generali sull’annullabilità del contratto (il termine quinquennale di prescrizione
decorre, secondo la regola generale dell’art. 1442, II comma, dalla data del contratto, non da quella
della successiva scoperta de4l conflitto d’interessi). La situazione obiettiva di conflitto d’interessi è
da sola causa di annullabilità del contratto: basta, per ottenere l’annullamento, la prova
dell’esistenza della situazione di conflitto in cui il rappresentante versava al momento della
conclusione del contratto; non occorre l’ulteriore prova che il rappresentante ne abbia tratto
effettivo profitto, realizzando il proprio e sacrificando l’interesse del rappresentato. La situazione
di conflitto d’interessi deve però essere influente sul contenuto del contratto. Un limite di
annullamento è posto nell’interesse del terzo contraente: il conflitto d’interessi doveva essere noto
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o riconoscibile da questo (art. 1394). Così, il contratto non potrà essere annullato se il
rappresentante compratore era socio occulto della società venditrice, e partecipava a questa
attraverso un prestanome. Ipotesi tipica di contratto concluso dal rappresentante in conflitto
d’interessi con il rappresentato è quella del contratto che il rappresentante conclude con se stesso:
ha, ad esempio, una procura per vendere e, giovandosi di questa, vende a se stesso.
L’autorizzazione del rappresentato è, in linea di principio, sufficiente, non dovendosi, in presenza
di essa, fornire l’ulteriore prova dell’impossibilità del conflitto d’interessi. Tuttavia, l’art. 1395
richiede un’autorizzazione “specifica”, al fine di evitare che il rappresentante abusi
dell’autorizzazione ricevuta, contrattando con se stesso a condizioni di netto sfavore per il
rappresentato. Questo requisito di specificità viene interpretato dalla giurisprudenza in modo
rigoroso: l’autorizzazione, per essere valida, deve predeterminare il contenuto del contratto.
Il rappresentante agisce per procura del rappresentato, conclude contratti i cui effetti si producono
non nei propri confronti, ma nei confronti del rappresentato. Ciò spiega perché la capacità legale di
agire, richiesta per la conclusione del contratto, debba essere presente nel rappresentato: è questi, e
non il rappresentante, che dispone dei propri diritti; questi, dunque, deve essere legalmente capace
di disporre (art. 1389). Se la procura è stata conferita da persona legalmente incapace di agire, il
contratto sarà annullabile, anche se concluso da un rappresentante pienamente capace. La stessa
ragione spiega perché non sia necessaria la capacità legale di agire del rappresentante: questi non
dispone dei propri diritti, ma dei diritti altrui, e il contratto è valido anche se il rappresentante è un
minorenne, privo di capacità legale di agire. Basta, per la validità del contratto, la capacità naturale
di agire, avuto riguardo al contenuto ed alla natura del contratto (art. 1389). Il rappresentante è
investito dal rappresentato del potere di determinare, trattando con l’altro contraente, il contenuto
del contratto da concludere. Se la procura non pone limiti, questo potere comprende ogni elemento
del contratto: scelta della persona dell’altro contraente, determinazione dell’oggetto del contratto,
del corrispettivo contrattuale e cos’ via. Il rappresentante dichiara, in nome altrui, la propria
volontà, e ciò produce una conseguenza: i vizi del consenso renderanno annullabile il contratto
solo se sono vizi della volontà del rappresentante (art. 1390). Ugualmente, gli stati soggettivi, come
lo stato di buona o di mala fede, di conoscenza o di riconoscibilità di circostanze rilevanti, debbono
essere considerati con riguardo alla persona del rappresentante (art. 1391). Ma può accadere che
alcuni degli elementi del contratto siano predeterminati nella procura. In questo caso a
determinare il contenuto del contratto concorrono la volontà del rappresentato (per gli elementi da
questo predeterminati) e la volontà del rappresentante. Il rappresentante, perciò, dichiara una
volontà solo in parte sua, e da ciò deriva una specifica conseguenza: i vizi del consenso, che
riguardino elementi del contratto predeterminati dal rappresentato renderanno annullabile il
contratto solo se risulta viziata la volontà del rappresentato (art. 1390); altrettanto vale per gli stati
soggettivi. Può, infine, accadere che tutti gli elementi del contratto da concludere siano stati
predeterminati dal rappresentato, e che il rappresentante si limiti a dichiarare una volontà in tutto
e per tutto altrui. In quest’ultimo caso siamo fuori dal campo della rappresentanza vera e propria;
siamo, piuttosto, in quello della c.d. ambasceria o nunciatio. Chi agisce in nome altrui è qui
semplice portavoce della volontà di un altro soggetto; è, secondo un’altra espressione, un messo o,
con espressione tradizionale, un nuncius, incaricato di dichiarare la volontà altrui. In questo caso i
vizi della volontà e gli stati soggettivi che vengono in considerazione sono sempre e soltanto quelli
del rappresentato. È però rilevante l’errore ostativo del portavoce, in quanto errore nella
dichiarazione: se questi sbaglia nel dichiarare la volontà del rappresentato, il contratto è
annullabile, sempre che l’errore, s’intende, sia riconoscibile dall’altro contraente (art. 1433).
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Diversa da quella del portavoce è la figura della persona o dell’ufficio incaricato solo di
trasmettere la dichiarazione; il portavoce è, pur sempre, parte del contratto, emette in nome altrui
una propria dichiarazione, anche se con essa dichiara una volontà in tutto altrui. L’altra non
partecipa al contratto: è solo lo strumento mediante il quale una delle parti trasmette all’altra la
propria dichiarazione e, perciò, conclude essa stessa il contratto.
La procura è l’atto mediante il quale il rappresentato investe il rappresentante del potere di agire
in suo nome. Essa è atto unilaterale del rappresentato, in forza del quale il rappresentante si
legittima come tale di fronte ai terzi. Non riguarda l’interno rapporto fra il rappresentato ed il
rappresentante: questo interno rapporto è regolato da un contratto, dal quale nasce l’obbligazione
del rappresentante di agire in nome e nell’interesse del rappresentato. Fonte di questa
obbligazione può essere un contratto di lavoro, un contratto d’agenzia, può essere, infine, un
contratto di mandato. Questa è l’ipotesi di portata generale: quando l’interno rapporto in base al
quale un soggetto riceve una procura da un altro soggetto non è altrimenti qualificabile, si dovrà
concludere di essere in presenza di un mandato, ossia del contratto con il quale un soggetto, il
mandatario, si obbliga nei confronti di un altro, il mandante, a compiere uno o più atti giuridici per
conto di questo (art. 1703). Mandato e procura svolgono funzioni diverse: in forza del mandato,
che può essere mandato espresso oppure tacito, il mandatario è obbligato ad agire per conto del
mandante, e questi, a sua volta, è obbligato a corrispondergli il compenso; in virtù della procura, il
mandatario è altresì legittimato ad agire, di fronte ai terzi, in nome del mandante (art. 1704). E però
possibile che un soggetto conferisca ad un altro un mandato, e non anche una procura, secondo il
modello del mandato senza rappresentanza. In questo caso, il mandatario agirà per conto del
mandante, ma in nome proprio, con la conseguenza che lui, e non il mandante, acquisterà i diritti ed
assumerà le obbligazioni derivanti dal contratto concluso con il terzo (art. 1705). L’interno
contratto di mandato, che lo lega al mandante, con un nuovo contratto, i diritti che ha acquistato;
ed ha il diritto di essere rimborsato dal mandante per quanto, essendosi obbligato in proprio
nome, ha dovuto pagare al terzo contraente. Del mandato senza rappresentanza si suole parlare
anche come di rappresentanza indiretta, alludendo al fatto che, indirettamente, si perviene ad un
risultato corrispondente a quello della rappresentanza. Si parla d’interposizione reale di persona per
distinguere questa ipotesi da quella della simulazione per interposizione fittizia di persona.
L’interposizione è qui reale perché il mandatario senza rappresentanza è un reale contraente e non,
come nell’interposizione fittizia, un contraente simulato. In entrambi i casi, tuttavia, si crea
un’interposizione: un soggetto (il mandante o il contraente interponente) frappone tra sé ed i terzi
un altro soggetto (il mandatario senza rappresentanza o il contraente interposto); e lo scopo è,
spesso, lo stesso: il mandante si avvale del mandatario senza rappresentanza come prestanome,
per lo svolgimento di attività che, per legge o per contratto, gli sono vietate, oppure è un
imprenditore occulto. Il terzo contraente non può, in nessun caso, agire nei confronti del mandante
e pretendere da lui l’adempimento del contratto concluso dal mandatario senza rappresentanza,
neppure se ha “avuto conoscenza del mandato” (art. 1705). L’interesse del mandante è, invece,
intensamente protetto. Per le cose mobili acquistate dal mandatario senza rappresentanza non
occorre neppure un contratto di ritrasferimento: il mandante può direttamente rivendicarle come
proprie anche nei confronti dei terzi, salvi naturalmente i diritti del terzo possessore di buona fede
(art. 1706). Al mandante è, inoltre, concesso di esigere direttamente i crediti derivanti dal contratto
concluso dal mandatario senza rappresentanza (art. 1705). Il diritto del mandante sui beni mobili
acquistati per suo conto dal mandatario senza rappresentanza è, infine, protetto contro le pretese
dei creditori del mandatario, i quali non possono agire su di essi, se il mandato risulta da scrittura
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avente data certa anteriore al pignoramento (art. 1707). Le norme degli artt. 1705 e 1706, si
presentano come il prodotto della combinazione dei principi sul mandato senza rappresentanza
con il principio consensualistico, codificato all’art. 1376. Gli uni comportano che il mandante non
può esercitare i diritti che derivano dal contratto concluso, in proprio nome, dal mandatario.
L’altro principio permette, tuttavia, allo stesso contratto di mandato di produrre l’effetto traslativo,
dal mandatario al mandante, dei diritti che il primo ha acquistato per conto del secondo: un effetto
che è ritardato ad un momento successivo all’espressione del consenso contrattuale, ma che,
quando è in grado di prodursi. Perciò le azioni ex contractu spettano al mandatario, ed a lui
soltanto; le azioni ex re spettano al mandante, come appunto l’azione di rivendica. Se altrettanto
non accade nel mandato ad acquistare beni immobili o beni mobili registrati, ciò è per la
contraddizione nella quale incorrerebbe un mandato senza rappresentanza sottoposto all’onere
della pubblicità: esso perderebbe la sua ragion d’essere, che sta nella segretezza dell’incarico, se
dovesse procedersi alla sua trascrizione nei pubblici registri. Per gli immobili registrati non vale
neppure la segnalata norma che, all’art. 1707, sottrae le cose mobili all’azione esecutiva dei
creditori del mandatario: se per le cose mobili la norma si spiega per la considerazione che esse
non sono nel patrimonio del mandatario, per gli immobili e mobili registrati è coerente l’ulteriore
norma dell’art. 1707, che sottrae le cose all’azione de creditori del mandatario solo per l’epoca
successiva alla trascrizione dell’atto di ritrasferimento o della relativa domanda giudiziale. Non
solo la procura è un atto (unilaterale) distinto dal (contratto di) mandato; la diversa funzione
dell’una e dell’altro fa si che possa configurarsi, oltre che un mandato senza procura, anche una
procura senza mandato. Le condizioni di validità della procura sono diverse da quelle del
mandato: così, è annullabile il mandato conferito ad un minore, secondo i principi generali sui
contratti, se in suo nome non lo aveva concluso il suo legale rappresentante; ma l’annullamento del
mandato per incapacità di uno dei contraenti non pregiudica la validità della procura, se il minore
aveva la capacità naturale d’intendere e di volere, e non fa del rappresentante un falsus procurator.
Il difetto di (valido) mandato produce queste conseguenze: il rappresentante ha, in forza della
procura, il potere di agire in nome del rappresentato, ma, in mancanza di un sottostante rapporto
di mandato, non sarà obbligato ad agire per il rappresentato, non risponderà per inadempimento
se omette di agire né, se agisce, avrà diritto al compenso.
La rappresentanza organica
Il concetto di organo trae la propria origine dall’ottocentesca concezione organica della persona
giuridica, quale entità sociale che, a somiglianza dell’uomo, forma una propria volontà (entro
l’assemblea) e la porta ad esecuzione (mediante gli amministratori). L’uso di questo concetto,
entrato anche nel linguaggio legislativo, prescinde ormai da ogni adesione alla teoria organica:
indica, semplicemente, coloro che hanno il potere di compiere atti giuridici vincolati per
un’organizzazione collettiva, siano essi atti interni, come le deliberazioni assembleari, oppure atti
esterni, come i contratti conclusi dagli amministratori. Al rapporto definito, in contrapposizione
con la rappresentanza, come rapporto “organico” si è tradizionalmente attribuita la virtù di
“rendere alieno l’atto rispetto al suo autore” permettendo che l’atto sia attribuito ad un soggetto
diverso; esso ha consentito l’imputazione, all’ente collettivo, di tutti “in genere i comportamenti
giuridicamente rilevanti, leciti ed illeciti, esterni ed interni, e persino i fatti di coscienza, come la
buona fede”; e, perciò “oltre i confini in cui il nostro diritto positivo riconosce operante il
fenomeno della rappresentanza”. L’individuazione di questo concetto ha assolto, nella
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ricostruzione del più ampio concetto di persona giuridica, una funzione di grande importanza: ha
rimosso tutta una serie di “immunità” delle quali le persone giuridiche avevano goduto per il
passato. Ma al concetto di “organo” si era, al tempo stesso, fatto ricorso per giustificare una nuova
“immunità”: esso implicava “l’alienità” dell’illecito rispetto al suo autore e, per ciò stesso, rendeva
quest’ultimo personalmente irresponsabile nei confronti del danneggiato. Quest’ultima
“immunità” è stata eliminata dal diritto positivo. Per le società di capitali l’art. 2395 stabilisce che
le disposizioni dei precedenti articoli, relativi alla responsabilità degli amministratori verso la
società e verso i creditori sociali, “non pregiudicano il diritto al risarcimento del danno spettante al
singolo socio o al terzo che sono stati direttamente danneggiati da atti colposi o dolosi degli
amministratori”. La disposizione si applica agli illeciti commessi dagli amministratori
nell’esercizio delle loro funzioni: l’articolo successivo l’estende ai direttori generali, che sono
dipendenti dalla società. Gli artt. 2395 e 2396 sono formulati riguardo alle società: essi non tardano,
tuttavia, a rivelarsi espressione di più generali principi, destinati ad operare in ogni ente collettivo.
La norma dell’art. 2395 ha indotto taluno ed escludere la qualità di “organi” degli amministratori:
se costoro rispondono direttamente verso il danneggiato, ciò significa che l’atto illecito non può
dirsi “alieno” rispetto al suo autore e che costui, pertanto, non è legislativamente considerato quale
“organo” della persona giuridica. La disciplina legislativa, che espone a responsabilità diretta
l’autore dell’illecito, ha richiamato il concetto di rappresentante: si è concluso che gli
amministratori sono rappresentanti della persona giuridica, mentre la concorrente responsabilità
di quest’ultima è stata qualificata come “responsabilità indiretta”, ossia come responsabilità ex art.
2049. La conclusione desta notevoli perplessità: l’art. 2049, relativo alla responsabilità di “padroni e
committenti”, può spiegare perché la persona giuridica, sebbene agente per mezzi di
rappresentanti, sia responsabile per l’illecito degli amministratori; essa esaurisce, tuttavia, la
propria sfera di applicazione nel campo della responsabilità, c.d. indiretta, per il fatto illecito dei
“commessi”. Altri comportamenti degli amministratori sarebbero, invece, improduttivi di effetti
per la persona giuridica: questa non subirebbe gli effetti degli stati soggettivi degli amministratori,
quali la mala fede o l’ignoranza, verserebbe in una situazione di “incapacità” rispetto agli atti, i c.d.
“atti personalissimi”, che non possono essere posti in essere per mezzo dei rappresentati.
L’inaccettabilità delle conseguenze induce a rivedere le premesse del ragionamento: una di queste
risiede nella considerazione che, se gli amministratori fossero “organi”, l’illecito commesso sarebbe
ad essi “alieno”; essi non ne sarebbero, giuridicamente, gli autori e non potrebbero, pertanto,
essere chiamati a risponderne. Una seconda premessa attiene al modo di concepire la
responsabilità civile: si ragiona sul presupposto che debba, in linea di principio, rispondere del
danno chi possa esserne definito come l’autore, e che solo in via di eccezione gli artt. 2047 ss.
prevedano, in modo tassativo, le ipotesi in cui risponde altri che non l’autore del danno. Sarebbe,
perciò, conforme ai principi la responsabilità della persona giuridica per l’illecito del suo “organo”,
ma contraria agli stessi principi la responsabilità personale dell’organo, il quale non è l’autore
dell’illecito, né occupa posizione corrispondente a quella dei soggetti, diversi dall’autore
dell’illecito, che sono dichiarati responsabili dagli artt. 2047 ss. Sarebbe, ancora, conforme ai
principi la responsabilità personale degli amministratori, se concepiti quali rappresentanti e,
perciò, quali autori, giuridicamente, del fatto dannoso; e conforme ai principi, da questo punto di
vista, anche la concorrente responsabilità della persona giuridica, dal momento che questa,
sebbene soggetto diverso dall’autore del danno, occupa la medesima posizione di quei soggetti,
non autori del danno, che sono dichiarati responsabili dall’art. 2049. Si postula, insomma, la
persistenza, nell’ordinamento vigente, di un sistema “chiuso” della responsabilità civile, fondato
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sulla tipizzazione d’ipotesi definite. Ma il vigente sistema della responsabilità civile è, tutto
all’opposto, un sistema aperto: gli artt. 2047 ss. indicano alcuni, ma non tutti, i possibili criteri di
collegamento di un fatto dannoso ad un soggetto chiamato a risponderne. Ciò che si è detto per la
società di capitali vale anche per le società di persone, come è reso palese da una norma
significativa: nel regolare la restituzione ai soci dei beni conferiti in godimento, l’art. 2281 dispone
che, “se i beni sono periti o deteriorati per causa imputabile agli amministratori, i soci hanno
diritto al risarcimento del danno a carico del patrimonio sociale, salva l’azione contro gli
amministratori”. Non c’è dubbio che il diritto del socio al risarcimento del danno sia un diritto che
al socio compete nella qualità di proprietario della cosa conferita in godimento, e cioè come
“terzo”; è indubbio, pertanto, che questa norma presuppone la responsabilità della società per gli
illeciti commessi dagli amministratori. La norma fa, inoltre, “salva l’azione contro gli
amministratori”: essa mostra, in tal modo, che la materia non è diversamente regolata nelle società
con e nelle società senza personalità giuridica; rivela che, nel sistema vigente, il concetto di organo
è ormai disancorato da quello di persona giuridica e vale per ogni organizzazione collettiva con
attività esterna, anche se non elevata al rango di persona giuridica. Si può dire, in conclusione, che
il concetto di rappresentanza organica ha in parte perduto e in parte conservato la sua valenza
originaria: ha perduto quel suo carattere che rendeva il fatto o l’atto dell’organo “alieno” rispetto
all’autore, ha, tuttavia, conservato quell’ulteriore carattere originario che consente l’imputazione
all’ente, oltre che degli atti giuridici, anche dei fatti illeciti e, in generale, dei fatti giuridici posti in
essere dall’organo nell’esercizio delle sue funzioni: che consente, inoltre, l’imputazione all’ente
anche degli stati soggettivi, di buona o di mala fede, di scienza o d’ignoranza, come la buona e la
mala fede rilevante agli effetti dell’acquisto a non domino delle cose mobili (art. 1153), come lo stato
di scienza o d’ignoranza rilevante agli effetti dell’azione revocatoria ordinaria (art. 2901) o
fallimentare. Per altri aspetti può dirsi che la rappresentanza organica ha guadagnato ulteriore
terreno rispetto al passato: un tempo si riteneva che il dolo dell’organo, in particolare del pubblico
dipendente, interrompesse il rapporto organico; oggi, per contro, si afferma che all’ente sono
riferibili anche i fatti dolosi dei propri organi, sempre che posti in essere nell’ambito delle loro
attribuzioni e per realizzare i fini dell’ente. La norma dell’art. 1388 vale, per regola generale, anche
per i contratti conclusi all’organo: l’ente ne resta vincolato solo se l’organo abbia agito in suo nome,
salva la possibilità di ammettere, in rapporto alle circostanze, una contemplatio domini tacita oppure
presunta. La regola trova, tuttavia, una rilevante eccezione nelle società di persone, in forza
dell’interpretazione estensiva che la nostra giurisprudenza dà all’art. 147. Secondo un naturale
negotii del contratto di società di persone ciascun socio è, disgiuntamente dagli altri,
amministratore della società (art. 2257) e ciascun socio amministratore è, in quanto tale,
rappresentante della società (art. 2266). Il potere rappresentativo ha, dunque, la propria fonte nel
contratto di società: un’apposita clausola è necessaria non per fondare, ma per escludere il potere
del socio di amministrare la società o il suo potere di rappresentarla. Orbene, perché un socio
obblighi la società è, di conseguenza, gli altri soci illimitatamente responsabili non è affatto
necessario che egli spenda il nome della società. Ben può il socio agire in nome proprio: egli
ugualmente obbligherà la società e gli altri soci, se i creditori potranno provare che il loro
contraente è socio di una società commerciale di persone e che egli non ha agito nel (solo) proprio
interesse, ma nell’interesse della società. A tanto la giurisprudenza arriva applicando
estensivamente l’art. 147, II comma, legge fall., che prevede testualmente l’estensione del
fallimento ai soci occulti di società palese. Alla base di questa giurisprudenza operano due
premesse incontestabili: il potere rappresentativo del socio non deriva, nella società di persone, da
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un apposito atto, bensì è inerente al contenuto legale dello stesso contratto di società, come emerge
dai citati artt. 2257 e 2266; perché l’effetto rappresentativo si verifichi non occorre, nelle società di
persone, la contemplatio domini: se in una società di tre soci, uno dei quali occulto, questo fallisce
quantunque il suo nome non sia stato speso, si dovrà concludere che fallisce anche il socio occulto
di una società di due soci, non potendosi ammettere che la conclusione debba mutare per il solo
fatto che i soci siano due anziché tre.
Per provare la responsabilità della società occulta e dei suoi soci è, dunque, sufficiente dare la
prova dell’esistenza del rapporto sociale: si è, con ciò stesso, data la prova del potere
rappresentativo di colui che ha agito come apparente imprenditore individuale.
CAP. 11°: L’INTERPRETAZIONE E LA QUALIFICAZIONE
Criteri soggettivi ed oggettivi di interpretazione del contratto
Il contratto, quando non è un contratto tacito, è fatto di parole, scritte in un documento (contratto
scritto) o dette a voce (contratto verbale), ed il senso delle parole può dare luogo a controversie. Di
qui l’opportunità di criteri di legge per l’interpretazione del contratto: sono criteri che vincolano le
parti, allorché dal testo contrattuale desumono i diritti loro spettanti o le obbligazioni loro
derivanti; e sono, soprattutto, criteri dei quali si avvale il giudice, allorché è controversa fra le parti
l’interpretazione del contratto dedotto in un giudizio. I criteri d’interpretazione enunciati dalla
legge sono di duplice ordine: alcuni, detti criteri d’interpretazione soggettiva, si basano sulla
ricerca della comune intenzione delle parti 8artt. 1362-65); altri, detti d’interpretazione oggettiva, si
rifanno al concetto di buona fede contrattuale o ad altri oggettivi elementi non riconducibili
all’intenzione delle parti (artt. 1366-70). Il primo ordine di criteri muove dal principio fissati
dall’art. 1362, I comma. La norma enuncia due concetti: il senso letterale delle parole, al quale non
ci si deve limitare e la comune intenzione delle parti, che si deve ricercare al di là del senso
letterale delle parole. Ma anche le norme sull’interpretazione sono, a loro volta, oggetto
d’interpretazione; e l’interpretazione che la Cassazione dà dell’art. 1362 è tutt’altro che univoca.
Coesistono, anzitutto, due orientamenti generali:
a)l’orientamento secondo il quale il senso letterale delle parole è criterio “fondamentale e
prioritario”, con la conseguenza che, “ove le espressioni usate nel contratto siano di chiara ed in
equivoca significazione, la ricerca della comune volontà è esclusa”;
b)l’orientamento secondo il quale il giudice “non può mai prescindere dalla ricerca della comune
intenzione delle parti, rispetto alla quale il senso letterale delle parole adoperate dai contraenti si
pone come il primo degli strumenti d’interpretazione”. Secondo questo orientamento, la ricerca
della comune intenzione delle parti può dirsi “conclusa”, ma non “esclusa”, quando le espressioni
usate siano di chiara ed univoca significazione.
L’orientamento sub a si rifà all’antico brocardo “in claris non fit interpretatio”, ma è tutt’altro che
coerente con l’art. 1362, che esorta a non limitarsi al senso letterale delle parole. Le parole, prese a
sé, possono tradire l’intenzione dei contraenti. Come scoprire, al di là delle parole, la reale
intenzione delle parti? La legge fornisce alcuni criteri: un primo criterio, di carattere storico, è
quello secondo il quale occorre valutare il comportamento complessivo delle parti, anche
posteriore alla conclusione del contratto (art. 1362, II comma). In virtù del criterio storico può
venire in considerazione, quale comportamento anteriore, la corrispondenza intercorsa fra le parti
durante le trattative o, se si tratta d’interpretare un contratto definitivo, si possono trarre lumi dal
contratto preliminare, quantunque il primo resti l’unica fonte di diritti ed obbligazioni fra le parti.
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Quale comportamento posteriore può assumere rilievo il comportamento delle parti in sede di
esecuzione del contratto: se esse hanno costantemente attribuito, in sede d’esecuzione, un dato
significato al contratto, non potrà una parte successivamente insorgere pretendendo che le parole
del contratto vadano diversamente interpretate. Ma a questo riguardo si delinea un ulteriore
contrasto negli ordinamenti della Cassazione:
c) solidale con l’orientamento sub b è l’indirizzo che qualifica il criterio basato sul comportamento
posteriore delle parti come “criterio concorrente e non sussidiario rispetto al tenore letterale della
convenzione menzionato al I comma dello stesso articolo, atteso che un testo apparentemente
chiaro non può esserlo più di fronte al comportamento diverso dei contraenti che hanno inteso
concretamente il loro rapporto in altro senso”.
Altri tre criteri d’interpretazione soggettiva hanno carattere logico. Per l’art. 1363 occorre
interpretare le singole clausole le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il significato
che risulta dal complesso dell’atto: a questo modo l’intenzione delle parti viene ricostruita
considerando il contratto nel suo insieme, e il significato letterale di una clausola può apparire
contrario all’intenzione delle parti se la clausola viene intesa alla luce dell’intero regolamento
contrattuale. Per l’art. 1364 le espressioni usate, per quanto generali, non comprendono che gli
oggetti sui quali si sono proposte di contrattare; l’art. 1365, infine, adotta simmetrico criterio per le
espressioni esemplificative, in quanto tali non preclusive dell’applicazione delle clausole che le
utilizzano ad altri casi, “secondo ragione”. Un generale criterio d’interpretazione oggettiva è
quello secondo il quale il contratto deve essere interpretato secondo buona fede (art. 1366): esso
impone di dare al contratto il significato che gli attribuirebbero contraenti corretti e leali, anche se
in concreto entrambe o una delle parti del contratto da interpretare non lo sono affatto. Il più delle
volte l’interpretazione secondo buona fede serve proprio per vincere l’atteggiamento cavilloso
della parte che invoca, a proprio vantaggio, ciò che il contratto testualmente dice o testualmente
non dice. Altri criteri oggettivi, che prescindono dall’intenzione delle parti, valgono per le clausole
ambigue, ossia per le clausole contrattuali alle quali si possono attribuire più sensi. Significativa è
la norma dell’art. 1369: le espressioni che possono avere più sensi debbono, nel dubbio, “essere
intese nel senso più conveniente alla natura e all’oggetto del contratto”, ossia dando rilievo
all’oggettiva funzione economico sociale di quel dato tipo contrattuale e all’oggettiva destinazione
economica del bene dedotto in contratto. Vale, ancora, il principio di conservazione del contratto: la
clausola s’interpreta nel senso in cui è valida o è efficace, anziché in quello per il quale sarebbe
invalida o inefficace (art. 1367). Valgono, inoltre, i c.d. usi interpretativi, che non sono usi in senso
tecnico (art. 8 prel.), ma pratiche contrattuali: la clausola ambigua s’interpreta secondo ciò che
generalmente si pratica nel luogo in cui il contratto è stato concluso (art. 1368). Una regola diversa
vale per l’ipotesi in cui una delle parti sia un imprenditore: il II comma dell’art. 1368 dispone, in
deroga al primo, che “nei contratti in cui una delle parti è un imprenditore, le clausole ambigue
s’interpretano secondo ciò che si pratica generalmente nel luogo in cui è la sede dell’impresa”;
luogo che può essere diverso da quello in cui il contratto è stato concluso. La norma assolve, in
sede d’interpretazione del contratto, una funzione corrispondente a quella assolta, in sede di
determinazione del regolamento contrattuale, dell’art. 1341: essa assicura all’imprenditore
un’uniformità d’interpretazione dei contratti sa lui stipulati in luoghi diversi e soddisfa l’esigenza
propria di un sistema di produzione o di distribuzione di massa, di un’attività contrattuale
condotta secondo schemi uniformi. S’intende poi che, se entrambe le parti del contratto siano
imprenditori, si applicherà il I comma: ciò rende evidente come la norma del II comma dia
destinata a regolare i rapporti fra imprenditori e consumatori o utenti. Ancora: le clausole che
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pongono condizioni generali di contratto s’interpretano, nel dubbio, contro l’autore della clausola,
ossia nel senso più favorevole all’altro contraente (art. 1370), che è il contraente più debole. Il
concetto è stato reso esplicito dall’art. 35 del Codice del consumo, con riferimento ai contratti fra
professionista e consumatore. Infine, se il contratto rimane ancora oscuro, si applicano questi
estremi criteri: il contratto a titolo oneroso s’interpreta nel senso che realizzi l’equo
contemperamento degli interessi delle parti, ossia il migliore equilibrio possibile tra prestazione e
controprestazione; il contratto a titolo gratuito s’interpreta nel senso meno gravoso per il
contraente obbligato (art. 1371). Qui il favore per il debitore prende il posto, trattandosi di atti
gratuiti, del più generale favore del creditore. In quale rapporto i criteri d’interpretazione
oggettiva si pongono rispetto ai criteri d’interpretazione soggettiva? Nel rispondere a questo
interrogativo la più antica giurisprudenza della Cassazione si mostrava sensibile ad un’esigenza di
massimo rispetto della volontà delle parti; timorosa che il giudice di merito “venga a sovrapporre
la propria soggettiva opinione all’effettiva volontà dei contraenti”: essa attribuiva a tutti i criteri
interpretativi di cui agli artt. 1366-70 carattere sussidiario rispetto ai criteri basati sulla ricerca della
comune intenzione delle parti. Il che non sembra controvertibile per i canoni interpretativi di cui
agli artt. 1367-70, ciascuno dei quali è legislativamente formulato per l’ipotesi di “dubbio “ o di
“ambiguità” o di “oscurità” del contenuto contrattuale; mentre è da respingere per il canone
dell’interpretazione secondo buona fede, e non solo perché l’art. 1366 non subordina affatto
l’applicazione di questo criterio alla sussistenza di dubbi o ambiguità o oscurità. Vale, soprattutto,
la considerazione che il dovere di buona fede, come viola le parti nella formazione e
nell’esecuzione del contratto, così non può non vincolarle in sede d’interpretazione del contratto.
In questo senso ha finito con il pronunciarsi la più recente giurisprudenza della Cassazione,
facendo del canone della buona fede nell’interpretazione del contratto un criterio d’interpretazione
correttiva del testo contrattuale, e ciò “anche quando l’interpretazione delle clausole che
concorrono alla formazione del testo negoziale, compiuta sulla base del senso letterale delle parole,
conduca a risultati di certezza”.
Qualificazione del contratto
La qualificazione è l’operazione mirante ad identificare l’astratto tipo contrattuale cui sussumere il
concreto contratto, in vista dell’assoggettamento del secondo alla disciplina particolare del primo.
La Cassazione suole scomporre l’operazione in due fasi, “l’una consistente nell’individuazione
della comune intenzione delle parti, l’altra concernente l’inquadramento, della fattispecie nello
schema legale corrispondente”. Questa seconda fase viene ulteriormente scomposta in
“descrizione del modello della fattispecie giuridica” e giudizio sulla “rilevanza giuridica
qualificante degli elementi di fatto in concreto accertati”. Il tutto per concludere che solo la prima
fase è di pertinenza esclusiva del giudice di merito, mentre la seconda è suscettibile di riesame in
sede di legittimità anche per ciò che attiene alla “rilevanza giuridica qualificante”. Un problema di
qualificazione sorge in molteplici ordini di casi: anzitutto quando nessun nomen iuris è fornito dalle
parti, come nel caso del contratto tacito. Un problema di qualificazione sorge, in secondo luogo,
quando c’è uno scarto fra il nomen iuris dato dalle parti al contratto e l’effettivo contenuto di
questo: le parti, ad esempio, hanno scritto di volere l’una “vendere” e l’altra “comperare” l’edificio
che sarà costruito dalla seconda, ma la seconda risulta obbligata verso la prima ad eseguire la
costruzione. Maggiore gravità il problema di qualificazione presenta quando il concreto contratto
oppone resistenza alla sua riconduzione ad un dato tipo legale: o per la presenza in esso di
elementi estranei alla fattispecie del tipo legale o per la contemporanea presenza di elementi
caratterizzanti più tipi legali. In questo ordine di casi l’operazione di qualificazione del contratto
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concreto può condurre ad esiti clamorosi, addirittura drammatici. Una società a responsabilità
limitata, con clausola statutaria che prevedeva un’illimitata partecipazione dei soci alle perdite
della società, è stata qualificata come società in nome collettivo, con soci esposti a responsabilità
illimitata nei confronti dei terzi. Analoghi esiti drammatici l’operazione di qualificazione può
avere nel caso delle società di comodo. Sempre in questo ordine di casi l’operazione di
qualificazione ammette una soluzione ulteriore rispetto alla scelta di uno tra i diversi tipi
contrattuali aventi una disciplina particolare: ammette, a norma dell’art. 1322, la qualificazione del
contratto come contratto atipico. È però un fatto che il codice civile, mentre pone le condizioni di
validità dei contratti atipici, che debbono essere “diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela
secondo l’ordinamento giuridico”, non offre criteri per la loro disciplina. Ad essi sono certamente
applicabili le norme sui contratti in generale (art. 1323), ma è altrettanto certo che queste non
possono da sole soddisfare le esigenze di disciplina normativa del contratto atipico. Ciò fa
comprendere perché la nostra giurisprudenza abbia imboccato una drastica, ma non condivisibile,
strada, che l’ha condotta ad approdare a questo duplice principio:
a) ”la qualificazione di un contratto nominato non è alterata dalla presenza di elementi estranei a
quello che caratterizzano lo schema tipico, ove gli stessi rimangono preminenti, con la
conseguenza che per la sua regolazione occorre far capo alla disciplina dello schema negoziale
prevalente”;
b) ”un contratto nel quale siano commisti e combinati elementi di due tipi contrattuali potrà essere
qualificato come contratto misto, ma andrà sottoposto alla disciplina di uno dei due tipi di
contratto, in base al criterio della prevalenza degli elementi distintivi dell’una o dell’altra figura
negoziale”.
A questo modo, il contratto traslativo della proprietà di un immobile contro un corrispettivo
costituito in parte da una somma di danaro e in parte dall’esecuzione di un’opera viene qualificato
come contratto misto di vendita e di appalto, ma viene al tempo stesso sottoposto interamente alle
norme sulla vendita, in base alla valutazione di preminenza del “carattere traslativo del contratto”:
si esclude, in particolare, l’applicazione dell’art. 1667 e del relativo termine di prescrizione. C’è
un’evidente contraddizione fra la qualificazione del contratto come contratto con causa mista e la
sua sottoposizione alla disciplina relativa alla causa giudicata prevalente. Si finisce, a questo modo,
con il frustare lo stesso principio di atipicità, giacché “contratto complesso e contratto misto si
riducono sempre a contratto tipico, secondo la regola della prevalenza”. Un criterio rispettoso
dell’autonomia contrattuale è quello dell’integrazione, anziché della prevalenza, delle discipline
relative alle diverse cause che si combinano entro il contratto misto. Nel contratto misto di vendita
ed appalto, alla prestazione del compratore-appaltatore si addice la disciplina propria dei vizi
dell’opera, anche sotto l’aspetto del termine di prescrizione dell’azione di cui all’art. 1667. Anche il
codice civile, del resto, suggerisce il criterio dell’integrazione allorché detta, all’art. 1677, che
all’appalto-somministrazione si applicano, in quanto compatibili, le norme sull’appalto e quelle
sulla somministrazione. Analoghe valutazioni vanno formulare per i contratti associativi atipici,
che si collocano in posizione intermedia fra l’associazione (della quale presentano l’elemento dello
scopo non lucrativo) e la società (della quale hanno gli elementi della struttura chiusa o del voto
rapportato alla quota di partecipazione al contratto, come nel caso dei consorzi di urbanizzazione).
Esse vanno ripetute anche per il caso della qualificazione della società a responsabilità limitata
come associazione non riconosciuta: qui non si potrà assoggettare il rapporto a tutte le norme sulle
associazioni, si dovrà qualificare il contratto come contratto associativo atipico e, secondo il criterio
dell’integrazione, “salvare” quelle fra le norme sulla società che risultano confacenti all’atipico
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rapporto posto in essere dalle parti. Il tema della qualificazione del contratto rende necessario un
chiarimento ulteriore. C’è la tendenza a vedere dovunque contratti atipici a causa mista, anche
laddove c’è un contratto tipico a causa semplice. Se un simile ragionamento fosse esatto, qualsiasi
contratto di vendita sarebbe contratto misto, perché l’obbligazione di consegnare la cosa implica
quella di custodirla fino alla consegna (art. 1177); sarebbe un contratto misto di vendita e di
deposito. Una prestazione accessoria e strumentale rispetto alla prestazione che caratterizza il tipo
contrattuale non trasforma il contratto tipico in contratto atipico. Decisiva è la causa: quando il
venditore adempie l’obbligazione di custodire la cosa fino alla consegna, questo non fa per una
causa di deposito ulteriore e diversa rispetto alla causa della vendita, ma sempre sulla base della
causa della vendita. La sua custodia trova causa nella vendita, e solo in questa.
CAP. 12°: LA FIDUCIA
Il concetto di fiducia è impiegato dal linguaggio giuridico per indicare due diversi fenomeni: per
indicare una particolare specie di proprietà, definita come proprietà fiduciaria e caratterizzata
dalla peculiarità che le facoltà di godere e di disporre di un dato bene sono attribuite al
proprietario non per soddisfare un interesse proprio, bensì un interesse altrui; per indicare una
particolare specie contrattuale, definita come contratto (o negozio) fiduciario, in forza della quale
la proprietà di un bene viene trasferita da un soggetto ad un altro con il patto, il c.d. pactum
fiduciae, che il secondo se ne serva per un dato fine, raggiunto il quale deve ritrasferire il bene al
primo. Fra i due fenomeni non c’è un nesso di necessaria consequenzialità: la proprietà fiduciaria,
nei limitati casi in cui risulta ammissibile nel nostro sistema, non necessariamente nasce da un
contratto fiduciario; il contratto fiduciario, d’altra parte, non produce, di regola, l’effetto costitutivo
di una proprietà fiduciaria. Si può parlare di proprietà fiduciaria in senso tecnico solo quando il
vincolo di destinazione del bene al servizio di un interesse altrui presenta il carattere di un vincolo
reale, come nel trust del common law: il bene è sottratto all’azione esecutiva dei creditori personali
del proprietario fiduciario; il vincolo di destinazione è opponibile ai terzi aventi causa del
proprietario fiduciario e così via. A questo modo la proprietà fiduciaria dà vita ad una dualità di
situazioni proprietarie su un medesimo bene: la proprietà di diritto comune coesiste con una
diversa proprietà di più ridotto contenuto. Non si può, invece, parlare di proprietà fiduciaria in
senso tecnico quando il vincolo di destinazione del bene al servizio di un interesse altrui sia, come
accade nel caso del contratto fiduciario, oggetto di un rapporto puramente obbligatorio fra il
titolare dell’interesse e il proprietario del bene, in quanto tale inopponibile ai terzi creditori del
proprietario e ai suoi aventi causa. Nel nostro sistema, dominato dal principio della tipicità dei
diritti reali, la proprietà fiduciaria non può essere il prodotto dell’autonomia contrattuale. Può
però derivare dall’applicazione del c.d. trust interno, ammesso dalla convenzione dell’Aja,
ratificata in Italia dalla legge 364/1989; può derivare, inoltre, dalla ricorrenza di speciali figure
presenti anche nel nostro ordinamento. Forme legislativamente ammesse di proprietà fiduciaria
vengono comunemente individuate:
a) nelle società fiduciarie, regolate da diverse leggi speciali: sono le società che, “comunque
denominate, si propongono, sotto forma d’impresa, di assumere l’amministrazione di beni per
conto di terzi”. Vale la regola secondo la quale “le società fiduciarie che abbiano intestato al
proprio nome titoli azionari appartenenti a terzi sono tenute a dichiarare le generalità degli
effettivi titolari dei titoli stessi”. C’è, dunque, un affidamento di titoli in “amministrazione”, e,
tuttavia, la società che li amministra ne diventa “intestataria al proprio nome”, senza che
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l’affidante cessi di essere “effettivo titolare” degli stessi. Qui è certo che i creditori della società
fiduciaria non possono aggredire i titoli ad essa intestati per conto altrui, che “l’effettivo titolare”
può rivendicarli presso i terzi aventi causa della società fiduciaria, che si tratta, insomma, di una
proprietà fiduciaria. Altrettanto indubbio è che la peculiare situazione giuridica dei beni affidati
alle società fiduciarie trova la propria giustificazione, ed il proprio limite di applicazione, nei
particolari controlli pubblici cui sono sottoposte queste società, oltre che nella circostanza che esse
si presentano istituzionalmente ai terzi come società “fiduciarie”, intestatarie di beni per conto
altrui;
b) nelle società di gestione dei fondi comuni d’investimento mobiliare, regolate dal T.U.
dell’intermediazione finanziaria;
c) nella c.d. fondazione fiduciaria, costituita per atto fra vivi o a causa di morte. Qui emergono due
particolarità: l’interesse altrui, al cui perseguimento è vincolato il proprietario fiduciario, deve
corrispondere ad un fine di pubblica utilità; c’è sul bene una proprietà vincolata al perseguimento
di un simile fine, ma non c’è, come nelle altre figure di proprietà fiduciaria, il contemporaneo
diritto di proprietà di un altro soggetto (c’è, invece, una serie indeterminata, seppure
determinabile, di beneficiari della gestione fiduciaria). Sicché l’ipotesi appare sensibilmente
diversa dalle altre, oltre che lontana dalla struttura trust; in essa l’impiego del concetto di fiducia ci
deriva, piuttosto, dalla tradizione della pandettistica tedesca. Fuori dei casi nei quali la legge
consente di configurare una proprietà fiduciaria, il contratto traslativo attribuisce al fiduciario una
proprietà di diritto comune; il vincolo fiduciario resta un vincolo puramente interno, non
opponibile ai terzi. Ne deriva che la violazione del patto da parte del fiduciario attribuisce al
fiduciante solo un’azione di danni per inadempimento, e che le cose fiduciariamente trasferite al
fiduciario non sono sottratte all’azione esecutiva dei suoi creditori.
Secondo la concezione classica, attinta dalla dottrina tedesca dell’800, si è in presenza di un
contratto fiduciario quando la causa del contratto eccede lo scopo che le parti perseguono
attraverso il contratto. Questo eccesso della causa rispetto allo scopo dei contraenti risulta da uno
specifico patto fra essi intercorso, il patto fiduciario, figurante quale clausola del medesimo
contratto oppure formante oggetto di una separata scrittura, che ha la funzione di riportare il
contratto entro i limiti dello scopo dei contraenti. La teoria dell’eccesso della causa rispetto allo
scopo non è, tuttavia, idonea a dare piena ragione del contratto fiduciario. Il trasferimento della
proprietà dal fiduciante al fiduciario non è, di regola, un “eccesso” rispetto allo scopo perseguito
dalle parti, giacché lo scopo delle parti non può concretamente realizzarsi se non investendo il
fiduciario della formale proprietà del bene del fiduciante. Si pensi all’ipotesi, che è statisticamente
la più frequente, dell’intestazione fiduciaria di beni: qui è vero che il fiduciario è incaricato di
agire, sostanzialmente, quale mandatario del fiduciante, giacché si è vincolato ad eseguire le sue
istruzioni, in ordine al godimento o alla disposizione del bene, ma è vero pure che l’intento
perseguito dal fiduciante, e concordato con il fiduciario, è di non apparire di fronte ai terzi quale
proprietario del bene. Il mandato ad amministrare è un minus rispetto allo scopo delle parti; il
quale non può compiutamente realizzarsi se non con il trasferimento della proprietà del bene dal
fiduciante al fiduciario. Più corretto è, dunque, qualificare il contratto fiduciario come il contratto
mediante il quale si persegue uno scopo diverso dalla causa del contratto prescelto, avendo il
pactum fiduciae la funzione di piegare il contratto prescelto alla realizzazione dello scopo
perseguito. In rapporto ai casi fin qui menzionati si parla di fiducia cum amico; si parla, invece, di
fiducia cum creditore quando il contratto fiduciario intercorre fra debitore e creditore: il primo vende
al secondo un bene con il patto che, all’atto dell’estinzione del debito, il creditore rivenderà il bene
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al debitore. È la vendita a scopo di garanzia, mirante a realizzare un risultato analogo al pegno o
all’ipoteca. Si distingue, ancora, fra fiducia dinamica, implicante un atto traslativo dal fiduciante al
fiduciario, e fiducia statica: qui il fiduciario è già proprietario del bene, ma in forza del pactum
fiduciae si obbliga verso il fiduciante ad esercitare il proprio diritto secondo le istruzioni di
quest’ultimo ed a ritrasferirglielo su sua richiesta. Il contratto fiduciario si distingue dal contratto
simulato per il fatto che, a differenza di questo, mira a realizzare effetti che sono voluti dalle parti:
queste vogliono sia il trasferimento della proprietà da un contraente all’altro sia, in forza del patto
fiduciario, il suo ritrasferimento. Esso è, in linea di principio, valido ed efficace (salvo che non
rivesta gli estremi del contratto in frode alla legge) e, nel caso d’inadempimento del patto
fiduciario, si potrà agire in giudizio per l’adempimento, anche in forma specifica. Tuttavia, il patto
fiduciario ha efficacia meramente obbligatoria, non efficacia reale: vincola le parti fra loro, ma non
è opponibile ai terzi. Chi acquista un bene con contratto fiduciario ne acquista la piena proprietà,
non una proprietà limitata, e può validamente disporne. Se il fiduciario, violando il patto, vende
ad un terzo, questi acquista validamente, ed il fiduciante avrà perduto il bene. Altro non potrà
ottenere se non la condanna del fiduciario infedele al risarcimento dei danni. Si è più volte tentato,
in passato, di costruire il contratto fiduciario come un unitario contratto, avente una propria causa,
la causa fiduciae, ma è tentativo da tempo abbandonato. La costruzione oggi accreditata è quella
secondo la quale il contratto traslativo ed il patto fiduciario costituiscono contratti separati, anche
se tra loro collegati e la nozione di cause fiduciae altro non esprime se non il collegamento fra i due
contratti.
Gli autori che hanno dubitato della validità del contratto fiduciario ritenendo che l’atto traslativo
sia un atto traslativo astratto, in quanto tale incompatibile con il nostro sistema, non hanno
considerato che l’atto traslativo ha una propria causa, di per sé idonea a trasferire la proprietà, e a
trasferire una proprietà piena, che abilita l’acquirente a disporre validamente del diritto acquistato.
I limiti alla facoltà del proprietario-acquirente non sono intrinseci al contratto traslativo, ma
derivano dal superato patto fiduciario, avente efficacia puramente interna. Bisogna richiamare, per
comprendere il fenomeno, la distinzione fra causa in astratto e causa in concreto. Negli interni
rapporti fra fiduciante e fiduciario la causa della vendita opera solo in astratto: il prezzo della cosa,
la cui menzione nel contratto vale a qualificare questo come vendita, non potrà essere preteso. In
concreto opera la causa del mandato: se il venditore, ad esempio, agisce ex vendita per il
pagamento del prezzo, il compratore gli eccepirà vittoriosamente il pactum fiduciae, in forza del
quale la sua posizione è, in concreto, quella di un mandatario. Nei confronti dei terzi, invece, la
causa della vendita opera anche in concreto, non soltanto in astratto, e il fiduciario è, a tutti gli
effetti, un compratore: i suoi creditori possono agire sul bene a lui trasferito senza che il fiduciante
possa in alcun modo impedirlo. La causa in astratto della vendita domina tutti i rapporti fra le
parti e i terzi; la causa in concreto del mandato vale solo per gli interni rapporti fra le parti. Unico
rimedio può essere, di fronte ai terzi, l’exceptio doli: se il rapporto fiduciario è inconfondibile, e il
terzo creditore non può avere fatto alcun ragionevole affidamento sui beni fiduciariamente affidati
al fiduciario, l’azione del terzo creditore potrà essere vittoriosamente contrastata da un’exceptio
doli. Diverso discorso vale nel caso di affidamento di titoli a società fiduciarie: qui la legge
ammette, in capo alla società, una vera e propria proprietà fiduciaria; non c’è una duplicità di
contratti collegati, ma un unico contratto, e questo è contratto costitutivo, in capo alla società, di
una proprietà fiduciaria. È, perciò, contratto tipico, avente una propria causa riconosciuta dalla
legge. Qui non c’è ragione di parlare di mandato: le modalità di uso della cosa fiduciariamente
trasferita sono regolate da questo stesso contratto, non da un separato mandato. Il contratto
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fiduciario è nullo quando costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa
e si rivela, perciò, un contratto in frode alla legge (art.1344). Ipotesi esaminata in giurisprudenza di
contratto fiduciario illecito per frode alla legge è quella dell’unico socio di società di capitali che,
per eludere l’applicazione dell’art. 2362 o dell’art. 2497, trasferita fiduciariamente una frazione
minima del capitale sociale ad un compiacente intestatario, e in questi casi la prova della frode alla
legge – e dello stesso pactum fiduciae – può essere data anche per presunzioni. Dichiarata la nullità
del trasferimento delle azioni o delle quote al fiduciario, il fiduciante si trova ad essere unico socio,
come tale illimitatamente responsabile delle obbligazioni sociali. Altrettanto rigore la Cassazione
manifesta in materia di fiducia cum creditore. Sia la vendita con patto di riscatto, sia quella con
patto di retrovendita, utilizzate come vendite a scopo di garanzia, vengono considerate nulle
perché dirette ad aggirare il divieto del patto commissorio (art. 2744).
Contratto indiretto
Si parla di contratto indiretto quando un determinato contratto viene utilizzato dalle parti per
realizzare non la funzione che corrisponde alla sua causa, ma: a) la funzione corrispondente alla
causa di un diverso contratto, oppure b) uno scopo non realizzabile mediante alcun contratto. A
differenza che nel contratto fiduciario, il diverso scopo risulta realizzabile in forza del solo
contratto utilizzato, senza necessità di un separato patto che lo pieghi alla funzione voluta dalle
parti. Il limite di validità del contratto indiretto è lo stesso del contratto fiduciario: esso è nullo se
risulta concluso in frode alla legge. Emblematica del caso sub a è la vendita per una lira o,
comunque, per una somma assolutamente irrisoria, dove la causa della vendita appare utilizzata
per realizzare la funzione propria della donazione. Altrettanto netta è la differenza rispetto al
contratto simulato, caratterizzato dall’antitesi fra dichiarazione e controdichiarazione delle parti,
fra la volontà che costoro ostentano ai terzi e la contraria o diversa volontà che essi esprimono nei
loro interni rapporti. Se Tizio, volendo donare a Caio, stipula con lui una vendita, indicando il
prezzo di una lira, non si potrà dire di essere in presenza di una vendita simulata che dissimula
una donazione. Qui non c’è una volontà delle parti, consacrata nel contratto, difforme dalla
volontà che essi celano nel loro interno rapporto. La volontà dei contraenti non si dissocia in
dichiarazione e controdichiarazione, ma si manifesta mediante un unico atto di volontà. Si sarà in
presenza di un contratto indiretto e, in particolare, di una donazione indiretta: le parti hanno
utilizzato un tipo contrattuale, avente quale causa lo scambio di cosa con prezzo, per realizzare la
funzione propria di un altro tipo contrattuale, avente causa la liberalità. Emblematica del caso sub
b è la società di comodo, che ha rappresentato la prima ipotesi intorno alla quale si è discusso di
contratto indiretto. L’art. 2248 contrappone alla società “la comunione costituita o mantenuta al
solo scopo del godimento di una o più cose”; assolve all’interno del sistema la funzione di
delimitare gli ambiti di applicazione rispettivi delle norme sulla comunione, contenute nel III libro
del codice civile, e delle norme sulle società, contenute nel V libro. Esclude, in particolare,
l’ammissibilità di una società di solo godimento: se due o più persone concludono un contratto,
che definiscono come società, in base al quale “conferiscono beni”, ossia mirano a formare un
patrimonio sociale, ma non si obbligano ad esercitare, con questo patrimonio sociale, un’attività
d’impresa, allora il contratto dovrà, nonostante il nome datogli dalle parti, essere considerato come
costitutivo di una comunione volontaria. L’art. 2248 è esplicito nell’assoggettare alle norme del III
libro “la comunione costituita o mantenuta al solo scopo del godimento di una o più cose”. La
norma si propone, fra l’altro, di sventare un abuso quanto mai diffuso: quello di sottrarre ai propri
creditori e, fra questi, al fisco tutti o parte dei propri beni. Si costituisce una “società” . c.d. società
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di comodo – e si conferiscono, in essa, i propri beni, ma la si costituisce al solo scopo di trarre
vantaggio dalla condizione giuridica dei beni conferiti quale patrimonio autonomo, sottratto alle
pretese dei creditori dei singoli conferenti. D’altra parte, la pretesa società non svolge alcuna
attività economica, ed i beni “conferiti” non sono, perciò, esposti ad alcun rischio. Ma le “società di
comodo” esistono, nonostante la norma dell’art. 2248. Alla repressione di questi abusi si è accinta
la giurisprudenza: la Cassazione ha giudicato irrilevante la prospettazione dell’esercizio di
un’attività imprenditoriale nell’atto costitutivo di società per azioni, quando risulti che la società
non abbia svolto attività di tal genere, ma si sia limitata al godimento di un bene immobile. Ne ha
tratto la conseguenza che questo bene deve considerarsi oggetto di comproprietà, con l’ulteriore
illazione che la cessione delle azioni è cessione dell’immobile, e con il corollario secondo il quale,
l’immobile essendo un fondo rustico dato in affitto, l’affittuario può opporre al terzo acquirente il
suo diritto di prelazione. La frode alla legge è, in questa fattispecie, di tutta evidenza e tuttavia
bisogna superare le strettoie della tassatività dei casi di nullità della società per azioni (art. 2332).
La Cassazione ha preferito argomentare in termini di simulazione del contratto di società: essa ha
ritenuto che le norme sul contratto simulato possono trovare applicazione al contratto di società
tutte le volte in cui le parti, pur avendo indicato, nell’atto costitutivo, quale oggetto sociale, una
determinata attività imprenditoriale, si siano accordate per svolgere non già un’attività
imprenditoriale, bensì solo ed esclusivamente un’attività di concessione a terzi, in locazione o in
affitto, dei beni strumentalmente intestati alla società medesima.
Successivamente la Cassazione ha corretto il tiro: la semplice in esecuzione dello scopo sociale non
basta, di per sé, ad integrare la prova della simulazione dell’atto costitutivo, essendo a tal fine
necessario dimostrare che l’inattuazione di esso è stata preordinata da tutte le parti dell’asserito
accordo simulatorio. Bisogna dire, in verità, che neppure l’idea della simulazione permette di
superare le strettoie dell’art. 2332: è difficile ritenere che manchi l’atto costitutivo, ai sensi del n. 1,
o che manchi la pluralità dei fondatori, ai sensi del n. 8, quando l’atto costitutivo risulta essere
simulato, o quando risulta essere simulata la pluralità dei fondatori, essendo stata la società
costituita da una sola persona insieme con uno o più compiacenti prestanomi. In casi per qualche
aspetto analoghi la Cassazione aveva battuto altra strada. Essa aveva posto non già un problema di
simulazione, bensì di qualificazione del contratto, suscettibile di essere risolto con il superamento
del senso letterale delle parole usate dai contraenti e qualificando il contratto in modo coerente con
la volontà effettiva dei contraenti emergente dal contenuto contrattuale. Il caso presenta però una
rilevante differenza. Negli altri casi ricordati il giudice utilizzava, per correggere il nome iuris di
società, oppure di società di capitali, le clausole stesse del contratto, rivelatrici della volontà di
costituire un’associazione, oppure di costituire una società di persone, anche se l’operazione di
riqualificazione comportava che veniva disatteso un intento elusivo dell’applicazione di norme
imperative perseguito dai contraenti. Nel caso in discussione veniva, all’opposto, in
considerazione un asserito accordo fra i contraenti, esterno rispetto all’atto costitutivo della società
e desumibile, sul piano probatorio, dal loro successivo comportamento, consistente nello
svolgimento di un’attività di mero godimento, in contrasto con l’imprenditoriale oggetto sociale
enunciato nell’atto costitutivo. C’era, dunque, la disarticolazione della volontà dei contraenti in
due separati atti di volontà, dichiarazione e controdichiarazione, propria della simulazione. Alla
tecnica del contratto indiretto è riconducibile l’ipotesi, frequente nell’esperienza, del contratto di
società utilizzato in funzione traslativa della proprietà di un bene produttivo. Tizio intende
trasferire a Caio un’azienda, ma, anziché stipulare una vendita, costituisce con Caio una società,
nella quale conferisce l’azienda; quindi vende a Caio le quote da lui sottoscritte. Ci può essere, in
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questa ipotesi, un intento di elusione fiscale, giacché il conferimento in società, seguito dalla
cessione delle quote sociali, non ha altra giustificazione economica se non il risparmio d’imposta
che a quel modo si realizza. Ma una giustificazione economica è presente quando fra le parti sia
pattuito che il prezzo debba essere pagato a rate: avendo le parti sostituito all’azienda le quote di
una società conferita ria della stessa, è possibile convenire che l’alienante ceda le quote in più
tranches, in corrispondenza del pagamento delle singole rate. Qui non c’è simulazione: non c’è un
meccanismo contrattuale formato da più contratti collegati che dissimula una compravendita. Le
parti vogliono produrre gli effetti propri dei contratti che concludono, vogliono, in particolare,
dare vita ad una società, per poi cedere le relative quote. Le parti pervengono, alla fine, ad un
risultato sostanzialmente corrispondente alla vendita del bene produttivo, ma pervengono ad un
risultato che è, a ben guardare, solo sostanzialmente corrispondente, giacché il compratore non
avrà nel proprio patrimonio, alla fine, un bene produttivo, ma le quote di una società proprietaria
del bene produttivo.
CAP. 13°: GLI EFFETTI DEL CONTRATTO
Il contratto è, come atto, fonte di obbligazioni e di diritti delle parti: l’esercizio dei diritti e
l’adempimento delle obbligazioni che nascono dal contratto è il rapporto contrattuale.
L’adempimento, da parte dei contraenti, delle obbligazioni assunte con il contratto prende il nome
di esecuzione, o attuazione, del contratto stesso. L’esecuzione può esaurirsi rapidamente e può,
all’opposto, protrarsi nel tempo; il rapporto contrattuale può costituirsi e, simultaneamente,
estinguersi e può, invece, avere una lunga durata. Sotto questo aspetto assume rilievo la
distinzione tra contratti ad esecuzione istantanea, contratti ad esecuzione differita, contratti ad esecuzione
continuata o periodica. Sono ad esecuzione istantanea i contratti il cui adempimento si esaurisce, per
ciascuna delle parti, nel compimento di un solo fatto, simultaneo alla conclusione del contratto o
senza apprezzabile intervallo di tempo rispetto ad essa (es. la vendita si esegue, da parte del
venditore, con il solo fatto della consegna della cosa e, da parte del compratore, con il solo fatto del
pagamento del prezzo). Ma può accadere, nella stessa vendita, che per l’adempimento
dell’obbligazione di pagare il prezzo o per quella di consegnare la cosa, o per entrambe, sia fissato
un termine: avremo, in tal caso, un contratto ad esecuzione differita; differita, rispetto alla
conclusione del contratto, al momento della scadenza del termine pattuito. In questi contratti può
accadere che l’adempimento, anziché esaurirsi nel compimento di un solo fatto, si frazioni in una
pluralità di fatti: è il caso della vendita con pagamento del prezzo a rate. Del termine si parla, in
questi casi, come di termine per l’adempimento delle singole obbligazioni contrattuali, non già
come termine del contratto. I contratti ad esecuzione istantanea o differita ammettono un termine
contrattuale iniziale; non ammettono, per loro stessa natura, un termine finale. Sono ad esecuzione
continuata o periodica, invece, i contratti che obbligano le parti, o una di esse, ad una prestazione
continuativa o che dev’essere periodicamente ripetuta nel tempo. Continuativa o periodica può
essere una prestazione di dare (es. la somministrazione ex art. 1559 differisce dalla vendita per il
fatto che il somministrante si obbliga ad una prestazione di dare continuata nel tempo); può essere
una prestazione di fare (es. contratto di lavoro); può essere, infine, una prestazione di non fare (es.
contratto che obbliga un imprenditore a non fare concorrenza ad un altro imprenditore). Si tratta
di contratti la cui esecuzione si protrae nel tempo, a volte per molti anni: li si definisce, sotto questo
aspetto, come contratti di durata. Il contratto, una volta concluso, ha forza vincolante per le parti. Il
c.c. esprime questo concetto dicendo che, per esse, il contratto ha “forza di legge” (art. 1372): è sì,
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per ciascuna della parti, un atto di autonomia privata, che esse possono compiere o non compiere;
ma, una volta che l’accordo si è perfezionato, le parti sono tenute a rispettarlo allo stesso modo con
cui sono tenute ad osservare la legge.
Per sciogliere il contratto occorre un nuovo atto di autonomia contrattuale, uguale e contrario al
precedente: è necessario, in linea di principio, il c.d. mutuo dissenso (art. 1372), ossia un nuovo
accordo fra le parti diretto ad estinguere il già costituito rapporto contrattuale. Il mutuo dissenso è
figura contrattuale a sé stante, che non partecipa del tipo contrattuale cui appartiene il contratto da
risolvere: lo si può definire come il contratto avente la funzione di risolvere un precedente
contratto. Quanto alla forma del mutuo dissenso, un problema si pone per il caso in cui il contratto
precedente avesse richiesto la forma solenne. In tal caso si afferma che il contrarius consensus non
partecipa della medesima causa del rapporto da sciogliere. Se questo era una donazione
immobiliare, la sua risoluzione consensuale, essendo contrato con mediato oggetto immobiliare,
richiederà la forma scritta. Se invece si trattava di una donazione mobiliare, varrà il principio
generale della libertà di forme. Resta da dire della trascrizione. Secondo una remota
giurisprudenza il contrarius consensus di una vendita immobiliare andrebbe trascritto a norma
dell’art. 1643. Ma si è ragionato sull’erroneo presupposto che il contrarius consensus equivalga a
retrovendita. Si dovrà, invece, applicare, l’ultimo comma dell’art. 2655: l’atto va annotato a
margine del precedente atto, siccome convenzione risolutiva di esso. Al pari della risoluzione
giudiziale del contratto, la risoluzione consensuale ha fra le parti effetto retroattivo, ma non
pregiudica i diritti acquistati dai terzi. Non è equiparabile ad una sentenza dichiarativa della
nullità del contratto, il cui effetto retroattivo travolge anche i diritti acquistai dai terzi. Che un atto
di autonomia privata possa produrre effetto retroattivo è attestato dall’art. 1399, il quale attribuisce
effetto retroattivo alla ratifica del contratto del falsus procurator; ma tale norma ha cura di fare
salvi i diritti dei terzi.
Come per risolvere un precedente contratto, così per modificare il contenuto del contratto è
necessario, in linea di principio, il consenso dei contraenti, che può anche desumersi dal loro
comportamento concludente quando non sia richiesta la forma scritta. Una modificazione del
contratto per volontà unilaterale di uno dei contraenti è possibile solo se prevista dal contratto
originario (es. l. 154/1992: la banca può variare in senso sfavorevole al cliente il tasso di interesse
ed ogni altro prezzo o condizione del contratto bancario solo se questa eventualità è espressamente
indicata nel contratto con clausola approvata specificatamente dal cliente). Il contratto può anche
consentire ad una delle parti o ad entrambe la facoltà di sciogliere lo stesso con il recesso
unilaterale (art. 1373), in deroga al principio per il quale il contratto non può essere sciolto che per
mutuo consenso (art. 1372). Questo è l’atto unilaterale di una parte e non richiede l’accettazione
dell’altra: basta che venga portato a sua conoscenza e produce l’effetto di sciogliere il contratto
secondo la regola propria degli atti unilaterali (art. 1334), nel momento stesso in cui viene
comunicato. Naturalmente, se il contratto dal quale si recede ha forma scritta ad substantiam,
anche la dichiarazione di recesso deve assumere questa forma. La giurisprudenza sottopone la
validità della clausola che introduce la facoltà di recesso ad una condizione molto rigorosa:
dev’essere previsto il termine entro il quale il recesso può essere esercitato, giacché altrimenti
l’efficacia del contratto resterebbe in definitivamente subordinata all’arbitrio della parte titolare di
tale diritto, con conseguente irrealizzabilità delle finalità perseguite con il contratto stesso. Nei
contratti ad esecuzione istantanea ed in quelli ad esecuzione differita la facoltà può essere
esercitata, salvo patto contrario, solo prima che il contratto abbia avuto un principio di esecuzione
(art. 1373): se la parte ha già eseguito o ha cominciato ad eseguire la sua prestazione, non può più
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recedere né può recedere l’altra parte. Al contrario, nei contratti ad esecuzione continuata o
periodica il recesso è possibile anche se è già iniziata l’esecuzione, ma, salvo patto contrario, non
ha effetto per le prestazioni già eseguite o in corso di esecuzione. In ogni caso, il recesso scioglie il
rapporto contrattuale senza effetto retroattivo: il contratto conserva piena efficacia per tutto il
tempo anteriore alla data di efficacia del recesso e le parti non possono pretendere la restituzione
di ciò che, fino a quella data, hanno prestato. Il carattere proprio dei contratti di durata, che
instaurano fra le parti un vincolo destinato a protrarsi nel tempo, pone problemi di protezione
della libertà contrattuale dei contraenti e, in particolare, del contraente più debole. Il c.c. è ispirato
da un principio di sfavore per i rapporti contrattuali perpetui che vincolino le parti per tutte la loro
esistenza. All’ammissibilità di vincoli perpetui si oppongono, d’altra parte, anche esigenze di
protezione dell’interesse generale: lo sviluppo dipende dal più proficuo impiego delle risorse
materiali ed umane; e vincoli contrattuali perpetui, impedendo il mutamento della destinazione
delle risorse, sarebbero un ostacolo al loro impiego più proficuo. Per soddisfare queste esigenze la
legge utilizza due figure: il termine (finale) massimo, il recesso legale. Per alcuni contratti ad
esecuzioni continuata o periodica è considerato requisito essenziale del contratto la previsione di
un termine di durata (così per il contratto di società di capitali, l’art. 2328), per altri è direttamente
stabilito un termine massimo di durata: così la locazione non può durare oltre 30 anni (art. 1573).
Un più elastico concetto è utilizzato per il patto di non alienare, che deve essere “contenuto entro
convenienti limiti di tempo” (art. 1379). Per altri contratti è ammessa, invece, una durata a tempo
indeterminato, ma riconoscendo alle parti la facoltà di recesso. Bisogna al riguardo distinguere fra
due forme di recesso: a volte è concesso alla parte il recesso puro e semplice, quale mero atto di
autonomia del singolo, che non richiede giustificazione, altre volte è riconosciuto solo il recesso per
giusta causa, che deve essere giustificato dal contraente che recede. Il recesso puro e semplice è
concesso talvolta a ciascuna delle parti, come nella somministrazione (art. 1569), talaltra ad una
sola parte: solo al lavoratore nel contratto di lavoro (legge 604/1966). Resta il problema se siano
ammissibili contratti atipici perpetui. A rigore, questi sarebbero soggetti alla regola generale
dell’art. 1373, per il quale il recesso unilaterale è ammissibile solo se previsto dal contratto; né si
potrebbero applicare loro, per analogia, le norme sui singoli contratti dai quali è espressamente
ammesso il recesso unilaterale, trattandosi di norme che fanno eccezione a principi generali.
S’impone però l’opinione che l’inammissibilità di vincoli contrattuali perpetui sia un principio di
ordine pubblico: il contratto perpetuo è, perciò, nullo o può, tutt’al più, convertirsi a norma
dell’art. 1424 in contratto a tempo indeterminato, con facoltà di recesso delle parti.
Gli effetti del contratto rispetto ai terzi
Il contratto vincola le parti ma, per regola generale, non produce effetto rispetto ai terzi (art. 1372).
È quanto si è definito come l’aspetto negativo dell’autonomia contrattuale. Le eccezioni alla regola
debbono essere previste per legge e sono di duplice ordine: a) casi nei quali il contratto produce
effetti per i terzi come atto, essendo la volontà delle parti diretta a procurare effetti per un terzo
estraneo al contratto: è il caso del contratto a favore di terzo; b) casi nei quali il contratto produce
effetti per i terzo quale semplice fatto giuridico. Li si può così classificare:
1) contratti traslativi o costitutivi di diritti: il contratto che trasferisce la proprietà o che trasferisce o
costituisce altro diritto reale o che cede un diritto di credito ha, per l’art. 1376, effetto reale:
produce una modificazione delle situazioni giuridiche preesistenti rilevante anche per i terzi. Di
regola, i contratti con effetti obbligatori vincolano solo i contraenti. Ci sono tuttavia:
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2) contratti con effetti obbligatori attributivi di diritti opponibili ai terzi; come nel caso della
prelazione legale, che attribuisce all’avente diritto il potere di riscattare la cosa presso il terzo
acquirente;
3) contratti, sempre con effetti obbligatori, che sono contratti opponibili ai terzi. È il caso
contemplato dall’art. 1380, che risolve il conflitto fra più diritti personali di godimento.
In linea di principio, il contratto che attribuisce un diritto personale di godimento è fonte di un
diritto di credito al conseguimento del godimento, che il creditore può vantare nei confronti del
debitore suo diretto contraente, ma che non può far valere nei confronti del terzo che abbia
successivamente conseguito dal medesimo dante causa un uguale diritto sulla medesima cosa. A
rigore, egli avrebbe azione nei confronti del suo diretto contraente, non anche nei confronti del
terzo. Sennonché, l’art. 1380 stabilisce un rapporto di diretto conflitto fra più diritti personali di
godimento, e pone criteri per la soluzione del conflitto fra i rispettivi titolari. Chi ha, per contratto,
conseguito il diritto al godimento di una cosa può fare valere questo diritto nei confronti di un
terzo al quale il proprietario abbia successivamente concesso il godimento del medesimo bene. A
norma del II comma egli può, sulla base di documento avente data certa anteriore, opporre il
contratto al terzo. Ricorre, dunque, uno dei casi nei quali la legge consente di opporre il contratto
ai terzi. Non può, invece, farlo valere se il terzo abbia già conseguito il godimento del bene. Vale
allora il criterio posto dal I comma: fra i due aventi diritto al godimento del bene prevale quello
che per primo lo abbia conseguito. Chi ha un contratto di data successiva potrà vittoriosamente
eccepire, nel giudizio promosso dall’altro, che egli ha per primo conseguito il godimento. La
soluzione di cui al II comma è in linea con l’art. 1599, che consente al conduttore di opporre il
contratto di locazione al terzo acquirente della cosa, se il suo contratto ha data certa anteriore
all’acquisto del terzo. La soluzione di cui al I comma rievoca, per contro, l’art. 1155, relativo al
conflitto fra più aventi causa del diritto di proprietà sul medesimo bene trasmesso loro dal
medesimo dante causa. Il criterio preferenziale è, per l’art. 1380, il conseguimento della detenzione,
come per l’art. 1155 è il conseguimento del possesso. C’è però questa rilevante differenza: l’art.
1155 opera solo a vantaggio del possessore di buona fede, per l’art. 1380 la buona fede è, invece,
ininfluente e prevale chi ha per primo conseguito il godimento, anche se in mala fede. Una parziale
simmetria c’è anche con l’art. 1599, che impedisce al conduttore di opporre il contratto al terzo
acquirente della cosa che ne abbia conseguito il possesso in buona fede. Ma la simmetria è solo
parziale, essendo qui necessaria la buona fede. L’art. 1380 si riferisce a contratto consensuali
attributivi di diritti personali di godimento; non risulta applicabile ai contratti reali. Tuttavia, il
criterio di cui al I comma fa sì che colui il quale acquisti per contratto un diritto personale di
godimento può dirsi sicuro del proprio diritto solo dopo avere conseguito il godimento della cosa,
e ciò finisce con l’attribuire un certo carattere di realità ad ogni contratto che abbia per oggetto il
godimento di una cosa. Se si tratta di locazione ultranovennale, come tale soggetta a trascrizione,
la prevalenza fra i diversi acquirenti del diritto personale di godimento è assegnata dalla priorità
della trascrizione, che supera l’eventuale priorità nel conseguimento del godimento. Sul conflitto di
diritti il codice civile detta molteplici criteri: per i diritti reali mobiliari vale il criterio dell’art. 1155,
basato sul conseguimento del possesso di buona fede; per i diritti reali immobiliari vale il sistema
della trascrizione, che fa prevalere chi ha per primo trascritto, per i diritti di credito vale il criterio
di cui all’art. 1265, che fa prevalere il cessionario che abbia per primo notificato la cessione al
debitore ceduto o la cui cessione sia stata per prima accettata da quest’ultimo. Ed anche in questo
caso il criterio di preferenza opera indipendentemente dallo stato soggettivo di buona fede del
cessionario preferito.
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Le regole ora rievocate riguardano specifiche fattispecie, ma non esauriscono ogni possibile ipotesi
di conflitto di diritti. Il problema si è posto, in giurisprudenza, per il caso di doppia attribuzione di
diritti su opere dell’ingegno, come il contratto di edizione concluso dall’autore con più editori per
una medesima opera, ma può porsi per i beni immateriali in genere, come nel caso della doppia
licenza di marchio in esclusiva e in altri casi simili. Per i beni immateriali il problema non può
essere risolto in base alla considerazione che essi sono oggetto di un diritto reale e ne seguono la
disciplina. Neppure può valere il più generale principio che esprime l’art. 1380, facendo prevalere
chi ha un contratto di data certa anteriore. Questa norma attribuisce, eccezionalmente, efficacia
esterna la contratto. Una norma che fa eccezione a regole generali non è suscettibile di applicazione
analogica ad altri casi (art. 14 prel.). Tanto meno è sufficiente il fatto di disporre di un contratto
avente data certa anteriore. Questa consente, a norma dell’art. 2704, di fare valere la scrittura
privata nei confronti dei terzi quando la scrittura contenga un contratto che sia per legge
opponibile ai terzi. I casi ora considerati sono sottoposti alla regola generale dell’art. 1372, ossia a
quella dell’inefficacia del contratto nei confronti dei terzi. Il che significa che nessuno dei diversi
acquirenti del diritto di utilizzazione di un bene immateriale avrà azione nei confronti dell’altro;
ciascuno di essi avrà azione soltanto nei confronti del dante causa, il quale si troverà nella
condizione di dovere scegliere a favore di quale dei diversi suoi contraenti adempiere e nei
confronti di quale sopportare le conseguenze dell’inadempimento. Oltre che nei casi di doppia
cessione dei diritti sui beni immateriali, la regola varrà per qualsiasi altro caso non rientrante
nell’ambito di applicazione delle regole di conflitto legislativamente previste.
Il patto di non alienare, contenuto in un contratto, è valido: Tizio, ad esempio, vende a Caio, il
quale si obbliga a non rivendere a sua volta. Le imprese industriali talvolta includono questo patto
nelle condizioni generali di vendita dei propri prodotti. Tuttavia, al patto di non alienazione l’art.
1379 attribuisce effetti limitati. Anzitutto esso ha effetto solo fra le parti: il patto è valido solo se il
divieto di alienare è contenuto entro convenienti limiti di tempo e, inoltre, se risponde ad un
apprezzabile interesse di una delle parti. Ma il divieto contrattuale di alienazione non può avere
lunga durata: esso contraddice una fondamentale esigenza economica, che è quella della libera
circolazione della ricchezza. Il limite di tempo “conveniente” varia da caso a caso: può essere più
esteso per gli immobili (nelle convenzioni urbanistiche fra comuni e privati proprietari arriva fino
a 20 anni), ma è molto ridotto per le cose mobili, destinate ad un’intensa circolazione (e i 6 mesi di
durata del divieto di rivendere le autovetture sono il massimo che le case automobilistiche sono
riuscite a pattuire). Se il limite di tempo è “conveniente”, il patto è nullo: qui al giudice non è dato
di sostituirsi alle parti nella determinazione del contenuto contrattuale e di fissare il termine
giudicato come conveniente. In rapporto agli immobili il principio che limita l’efficacia del divieto
di alienazione assume anche questo significato: il divieto può essere l’oggetto di un’obbligazione
personale negativa, ma non un peso imposto su un bene. In altre parole, su un immobile non può
essere costituita una servitù di non alienare. Coerente con il principio di cui all’art. 1372 è la
disciplina del patto che va sotto il nome di promessa del fatto o dell’obbligazione del terzo. La
parte che, per contratto, promette la prestazione di un terzo assume una valida obbligazione
contrattuale, ma obbliga solo se stesso: se il terzo rifiuta di obbligarsi o non compie il fatto
promesso, il promittente dovrà indennizzare l’altro contraente (art. 1381). Con la promessa del
fatto o dell’obbligazione del terzo il promittente assume il rischio di un evento non dipendente
dalla propria volontà: la dottrina suole qualificare la sua obbligazione come un’obbligazione di
garanzia. Dalla fideiussione la promessa ex art. 1381 differisce per il fatto che il terzo non è legato
da precedenti vincoli nei confronti del promissario: l’impegno di chi promette l’altrui
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adempimento di una già sorta obbligazione non è promessa del fatto del terzo, ma fideiussione. La
giurisprudenza ha talora ritenuto che il promittente assuma un’obbligazione avente ad oggetto
una prestazione propria: quella di adoperarsi affinché il terzo si obblighi o compia il fatto
promesso, sicché l’indennizzo altro non sarebbe se non il risarcimento del danno per
inadempimento di questa prestazione propria del promittente. Questa costruzione è stata, tuttavia,
abbandonata quando si è trattato di distinguere fra promessa del fatto del terzo e vendita di cosa
altrui: chi vende la cosa altrui assume, per l’art. 1478, un’obbligazione avente ad oggetto il fatto
proprio, consistente nell’acquisto della proprietà del bene; mentre nel caso della promessa del fatto
dei terzi la promessa ha direttamente ad oggetto il consenso del terzo proprietario al trasferimento
della proprietà. Quella costruzione è del pari abbandonata quando, per distinguere l’indennizzo di
cui all’art. 1381 dal risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, si precisa che
quest’ultimo è sanzione per un comportamento illegittimo, mentre il primo è compenso per
equivalente monetario della mancata realizzazione dell’interesse altrui, non dipendente da alcun
comportamento illegittimo. Il punto è che la prestazione dedotta in contratto è una prestazione di
garanzia: il promittente si obbliga a corrispondere all’altro contraente un indennizzo per
l’eventualità che il terzo non assuma l’obbligazione o non compia il fatto cui l’altro contraente ha
interesse.
Il contratto per persona da nominare ed il contratto a favore del terzo
Al momento della conclusione del contratto una delle parti può riservarsi la facoltà di nominare
successivamente la persona che acquisterà i diritti e assumerà le obbligazioni derivanti dal
contratto (art. 1401). La formula ricorrente nella prassi contrattuale è “per sé o per persona da
nominare”, ma la più ristretta formula “per persona da nominare”, è considerata equivalente ad
ogni effetto. Questa riserva di nomina del contraente può avere una duplice ragion d’essere: a) può
trarre origine da una preesistente procura rilasciata dalla persona da nominare (la “procura
anteriore al contratto” di cui all’art. 1402); b) può essere, in mancanza di una preesistente procura,
basarsi sulla semplice aspettazione della parte che un terzo accetterà, successivamente alla
conclusione del contratto, di acquistare i diritti e di assumere le obbligazioni che ne derivano
(“l’accettazione della persona nominata”). In entrambi i casi il contratto per persona da nominare
rimanda al fenomeno della rappresentanza. Nel primo caso la riserva di nomina del contraente
equivale a riserva di successiva contemplatio domini: gli effetti che nella rappresentanza
discendono dalla spendita, da parte del rappresentante, del nome del rappresentato qui sono
prodotti dalla successiva nomina della persona del contraente. Una volta che la parte abbia sciolto
la riserva e nominato il contraente, il contratto per persona da nominare non differisce in nulla dal
contratto concluso a mezzo di rappresentante. Ma la parte può non sciogliere la riserva e decidere
di restare essa stessa nella condizione di contraente. Il caso corrisponde a quello del mandatario
che, benché munito di procura, abbia omesso la contemplatio domini. Nel secondo caso il termine
di confronto è il contratto concluso dal falsus procurator, suscettibile di ratifica da parte del
dominus: l’accettazione da parte del terzo nominato rende efficace la dichiarazione di nomina, con
effetto retroattivo, ossia dal momento della conclusione del contratto (art. 1404). La dichiarazione
di nomina del contraente (c.d. electio amici) dev’essere fatta nel termine stabilito nel contratto o, in
mancanza, entro tre giorni (art. 1402). La giurisprudenza non ammette una riserva senza limiti di
tempo. La electio dev’essere accompagnata dall’accettazione del terzo o dalla dimostrazione della
procura da questo rilasciata. Dichiarazione di nomina, procura ed accettazione del terzo debbono
rivestire la stessa forma che le parti hanno usato per il contratto, anche se non prescritta dalla legge
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(art. 1403); se per il contratto sono previste forme di pubblicità, come la trascrizione nei registri
immobiliari, deve agli stessi effetti essere resa pubblica anche la dichiarazione di nomina. In
mancanza di nomina o di accettazione, il contratto produce effetto tra i contraenti originari (art.
1405); questo fa differire il contratto per persona da nominare dal contratto del falso procuratore,
che in mancanza di ratifica è inefficace. Tale differenza si spiega per la considerazione che la parte
contratta “per sé o per persona da nominare”: se il terzo non accetta, cade la seconda alternativa,
ma resta la prima.
Nel contratto per persona da nominare non c’è deroga al principio generale dell’inefficacia del
contratto rispetto ai terzi, giacché occorre una precedente procura o l’accettazione successiva del
terzo. Un’eccezione al principio generale è, invece, nel contratto a favore di terzo; ma è
un’eccezione che si giustifica per il solo fatto che il terzo non assume obbligazioni, ma solo
acquista diritti. Le parti del contratto sono qui: lo stipulante, che è colui che contratta a favore del
terzo; il promittente, che è colui che si obbliga verso lo stipulante ad eseguire la prestazione a
favore di un terzo. Il contratto a favore di terzo può avere il contenuto più diverso: verso il terzo
promittente può assumere un’obbligazione di dare, di fare o di non fare, ma può anche trasferire al
terzo o costituire a suo favore un diritto reale. Si è anche ammesso la transazione a favore di terzo e
si è qualificato contratto a favore di terzo il contratto fra socie con il quale questi si obbligano
reciprocamente a reintegrare il capitale della società.
Dal contratto a favore di terzo possono nascere diritti, non anche obbligazioni in capo al terzo.
Tuttavia, un preliminare di vendita può essere stipulato a favore di terzo: a ciò non osta il fatto che
dal definitivo, se il terzo vorrà profittare della stipulazione a suo favore, nasceranno anche
obbligazioni a suo carico. Queste nasceranno dal definitivo, se ed in quanto il terzo vorrà
concluderlo; dal preliminare a suo favore non nasce che il diritto di concluderlo. Una figura tipica
è l’assicurazione sulla propria vita a favore di un terzo (art. 1920); l’assicurato contratta con
l’assicuratore e si obbliga a pagargli i premi dell’assicurazione, ma alla morte dell’assicurato
pagherà un capitale o una rendita al terzo designato dall’assicurato. Perché ricorra la figura del
contratto a favore di terzo non è però sufficiente che un terzo ricavi un indiretto beneficio da un
contratto intercorso fra altri: è necessario, precisa la Cassazione, che questi ultimi abbiano inteso
direttamente attribuirglielo, nel senso che essi, nella qualità di contraenti, abbiano previsto e
voluto una prestazione a favore di un terzo estraneo al contratto.
Nel contratto a favore di terzo, a differenza che nel contratto per persona da nominare, non occorre
l’accettazione del terzo: questi acquista il diritto verso il promittente per effetto della stipulazione a
suo favore (art. 1411). È però possibile che il terzo dichiari di non voler profittare della stipulazione
a suo favore; è possibile, ancora, che lo stipulante revochi la stipulazione a favore del terzo (ma
solo finché questi non abbia dichiarato di volerne profittare). La prestazione, in questi casi, resta a
beneficio dello stipulante, salvo che le parti non abbiano diversamente disposto o che la natura del
contratto non lo consenta. La stipulazione a favore di terzi è valida solo se lo stipulante vi abbia
interesse: ciò si comprende se si considera che ogni contratto deve avere una causa, ossia una
giustificazione economico-sociale. Questo suo interesse può essere di natura patrimoniale o non
patrimoniale: nel primo caso deriva dal fatto che fra stipulante e terzo preesiste un interno
rapporto (c.d. rapporto di provvista), in forza del quale lo stipulante sia debitore del terzo. La
mancanza di un interesse dello stipulante rende nulla la stipulazione a favore di terzo. Non
necessariamente però l’interesse dello stipulante ha natura patrimoniale e presuppone un
preesistente rapporto di provvista tra lui ed il terzo: chi stipula un’assicurazione sulla propria vita
a favore del coniuge o dei figli vi ha certo interesse, ma questo interesse si basa sui rapporti
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affettivi che lo legano alla propria famiglia e non ha natura patrimoniale. In questo caso la causa
dell’atto di disposizione è lo spirito di liberalità. Ma se il matrimonio venisse annullato cadrebbe
l’assicurazione sulla propria vita a favore del non più coniuge: la liberalità, giustificata dal
rapporto coniugale, non sorreggerebbe più l’atto di disposizione a favore altrui.
Il promittente può opporre al terzo le eccezioni basate sul contratto, ma non quelle fondate su altri
rapporti con lo stipulante (art. 1413). Così, se è obbligato a pagare una somma di denaro al terzo,
non potrà opporre al terzo l’eccezione di compensazione con un proprio credito verso lo
stipulante. Il che vale quanto dire che il terzo acquista, in forza della stipulazione a suo favore, un
proprio diritto verso il promittente e non acquista diritti quale cessionario dello stipulante.
CAP. 14°: LA RISOLUZIONE DEL CONTRATTO
Il difetto funzionale della causa e risoluzione per inadempimento
La causa del contratto può essere onerosa o gratuita: entrambe le parti, nel primo caso, sono
obbligate l’una nei confronti dell’altra; una sola delle parti, nel secondo caso, assume
un’obbligazione. Si distingue così fra contratto a titolo oneroso e contratti a titolo gratuito. La causa
dei primi risiede nello scambio tra le prestazione delle parti. Ciascuna delle parti si obbliga ad una
prestazione per avere in cambio la prestazione cui si p obbligata l’altra parte e ciascuna prestazione
è, rispetto all’altra, una controprestazione. Dei contratti a tiolo oneroso è, rispetto all’altra, una
controprestazione. Dei contratti a titolo oneroso si parla anche, perciò, come di contratti a
prestazioni corrispettive. Si possono individuare diversi schemi causali: “do perché tu dia”, “do
perché tu faccia”, “faccio perché tu dia”, “do perché tu non faccia”, “non faccio perché tu non
faccia”. Nella terminologia latina si parla di contratti do ut des, do ut facias, faci out des ecc. Questo
rapporto di corrispettività tra le prestazioni è, tradizionalmente, detto sinallagma, con una
locuzione tramandata dal code Napoléon (art. 1102). Il sinallagma risulta dal contratto, ne
costituisce la causa (c.d. sinallagma genetico), ma si realizza nella fase d’esecuzione del contratto,
quando ciascuna delle parti esegue la propria prestazione (c.d. sinallagma funzionale). Solo allora
lo scambio previsto dal contratto si compie effettivamente; la funzione economico-sociale del
contratto si attua in concreto. Può, però, accadere che una delle parti non adempia la propria
prestazione, può, ancora, accadere che la prestazione di una delle parti diventi impossibile per una
causa ad essa non imputabile; può, infine, accadere che la prestazione di una delle parti diventi
eccessivamente onerosa rispetto alla prestazione dell’altra. Si parla, a questo riguardo, di difetto
funzionale della causa, in antitesi con la sua mancanza originaria o con la sua illiceità, che è detta
difetto genetico della causa. Questo investe il contratto come atto, e comporta la nullità del
contratto; il difetto funzionale, invece, si manifesta in sede di esecuzione del contratto: investe,
anziché il contratto, il rapporto contrattuale, e comporta la risoluzione del contratto. Risoluzione
altro non significa se non scioglimento del contratto: le ragioni che la rendono possibile si
collocano tra quelle “cause ammesse dalla legge” per le quali il contratto può sciogliersi senza
necessità del mutuo consenso delle parti (art. 1372). A differenza della dichiarazione di nullità,
dell’annullamento e della dichiarazione d’inefficacia originaria, che sono vicende del contratto, la
risoluzione è una vicenda del rapporto contrattuale: il contratto, in sé considerato, è e resta valido,
ma il rapporto contrattuale si scoglie. Il difetto funzionale della causa produce conseguenze meno
drastiche del suo difetto genetico. La mancanza di causa, rendendo nullo il contratto, può essere
fatta valere da chiunque vi abbia interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. La risoluzione
si produce, invece, solo su iniziativa della parte interessata. Inoltre, se si tratta di risoluzione per
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inadempimento, il contratto si risolve con effetto retroattivo tra le parti (art. 1458). Rispetto ai terzi,
invece, l’effetto retroattivo della risoluzione non si produce, salvi gli effetti della trascrizione della
domanda di risoluzione (art. 1458). La distinzione tra vicende del contratto e vicende del rapporto
assume particolare rilievo per i contratti ad esecuzione continuata o periodica: in questi l’effetto
della risoluzione non s’estende alle prestazioni già eseguite (art. 1458), analogamente a quando
accade nei casi della condizione risolutiva (art. 1360) e del recesso unilaterale (art. 1373). Nei
contratti plurilaterali vale la solita regola: la risoluzione del contratto rispetto ad una parte non
importa scioglimento dell’intero contratto, salvo che la prestazione mancata non debba, secondo le
circostanze, considerarsi essenziale (artt. 1459, 1466). La legge prevede tre generali cause di
risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive: risoluzione per inadempimento, risoluzione
per impossibilità sopravvenuta della prestazione, risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuto
dalla prestazione. Le tre generali figure di risoluzione valgono quando la legge non preveda, nella
disciplina dei singoli contratti, una diversa e più specifica figura. L’inadempimento di una parte,
che permette la risoluzione del contratto, deve presentare anzitutto i requisiti inerenti al comune
concetto d’inadempimento. La risoluzione per inadempimento, al pari della responsabilità del
debitore (art. 1218), è esclusa quando la parte inadempiente provi che la prestazione è diventata
impossibile per causa ad essa non imputabile. Con una tale prova essa consegue la propria
liberazione, a norma dell’art. 1256 ed il contratto si risolve, anziché per inadempimento, per quella
ulteriore causa di risoluzione, prevista dall’art. 1463, che è la risoluzione per impossibilità
sopravvenuta della prestazione. Ai requisiti propri dell’inadempimento si aggiunge, ai fini della
risoluzione, l’ulteriore requisito dell’importanza dell’inadempimento. Si deve trattare di un
inadempimento di non scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra parte (art. 1455):
occorre, cioè, che l’inadempimento di una parte sia tale da rendere non più giustificata la
controprestazione dell’altra. In alcuni casi è la stessa legge a stabilire quando l’inadempimento di
una parte è di scarsa importanza e non legittima la risoluzione del contratto: così, nella vendita a
rate, non basta il mancato pagamento di una sola rata, a meno che questa superi l’ottava parte del
prezzo (art. 1525). Bisogna anche distinguere tra inadempimento delle obbligazioni principali ed
inadempimento delle obbligazioni accessorie: nella locazione di case per abitazione, ad esempio, il
mancato pagamento di una mensilità del canone (obbligazione principale) giustifica la risoluzione
del contratto, ma il mancato pagamento degli oneri accessori giustifica la risoluzione se ammonta
ad una somma pari a due mensilità del canone. In mancanza di criteri di legge, sarà il giudice a
stabilire, caso per caso, quando l’inadempimento debba considerarsi d’importanza “non scarsa”.
Può però accadere che lo stesso contratto ricolleghi alla mancata o all’inesatta esecuzione di una
data prestazione contrattuale la conseguenza della risoluzione. In tal caso sarà al giudice sottratta
ogni valutazione sull’importanza dell’inadempimento. La risoluzione per inadempimento può
assumere due forme:
1) risoluzione giudiziale: se una delle parti di un contratto a prestazioni corrispettive non adempie
la propria obbligazione, l’altra parte ha una scelta (art. 1453): a) può agire in giudizio per
l’inadempimento, chiedendo al giudice di condannare l’inadempiente ad eseguire la prestazione
mancata (ed offrendosi di eseguire la propria, se già non l’ha eseguita); b) può agire per la
risoluzione, chiedendo al giudice di sciogliere il contratto. Otterrà, in questo secondo caso, di
essere esonerato dall’eseguire la propria prestazione o, se l’aveva già eseguita, chiederà al giudice
di pronunciare, oltre alla risoluzione del contratto, anche la condanna dell’altra parte alla
restituzione della prestazione ricevuta. Se opta per la prima strada, potrà sempre domandare,
finché non ha ottenuto la controprestazione dovutagli, e in ogni stato e grado del giudizio, la
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risoluzione del contratto, ma, se ha optato per la seconda, non può più chiedere l’adempimento
(art. 1453), né la controparte può, dalla data della domanda di risoluzione, adempiere più la
propria obbligazione. Un problema insorge quando alla domanda dell’attore di risoluzione del
contratto per inadempimento del convenuto questi opponga a sua volta una propria,
riconvenzionale, domanda di risoluzione per inadempimento dell’attore, ma il giudice accerta che
nessuno dei due dedotti inadempimenti presenta i caratteri richiesti per la risoluzione del contratto
e, perciò, respinge entrambe le domande. La soluzione discende dalla considerazione che le parti
non possono ottenere la risoluzione del contratto per inadempimento e tuttavia, avendola chiesta,
non possono più agire per l’adempimento, a norma dell’art. 1453. Perciò, dalle domande di
risoluzione il giudice desume la comune intenzione delle parti di sciogliere il contratto, che perciò
si risolve per mutuo consenso;
2) risoluzione stragiudiziale. Se ne conoscono tre forme:
a) il contratto può essere risolto per inadempimento sena necessità di un provvedimento
giudiziario nelle forme, anzitutto della diffida ad adempiere: la parte adempiente può intimare per
iscritto all’altra parte di adempiere entro un dato termine, che non può però essere inferiore a 15
giorni, con l’avvertenza che, altrimenti, il contratto s’intenderà senz’altro risolto (art. 1454). La
diffida produce l’effetto di rimettere il debitore in termini fino alla data fissata; allo spirare del
termine il contratto è risolto di diritto (art. 1454), senza necessità per la parte adempiente di
domandare al giudice di pronunciare la risoluzione. S’intende che la diffida ad adempiere non
elimina il requisito dell’importanza dell’inadempimento: perciò, il debitore potrà neutralizzare
l’effetto risolutivo della diffida assumendo l’iniziativa di un accertamento giudiziale della scarsa
importanza del suo inadempimento;
b) altra forma di risoluzione stragiudiziale può essere prevista dallo stesso contratto: è la clausola
risolutiva espressa. Le parti possono convenire che, se una di esse sarà inadempiente, il contratto si
risolverà di diritto, senza necessità di rivolgersi al giudice. Non basta però il solo fatto
dell’inadempimento: occorre anche che la parte adempiente dichiari all’altra che intende valersi
della clausola risolutiva (art. 1456). Sarà, perciò, questa dichiarazione a provocare la risoluzione del
contratto, anche se la provocherà con effetto dalla data del contratto. Vale anche in questo caso la
prova liberatoria di cui all’art. 1218: se il debitore prova che la mancata esecuzione della
prestazione è dipesa da impossibilità sopravvenuta per causa a lui non imputabile, la risoluzione
sarà effetto di questa, a norma dell’art. 1463, non della clausola risolutiva. La previsione di una
clausola risolutiva espressa per l’inadempimento del contratto esonera dalla necessità di valutare
l’importanza dell’inadempimento, questa essendo già stata valutata dai contraenti. È frequente la
clausola secondo la quale la mancata esecuzione di una qualsiasi delle obbligazioni previste dal
contratto provoca la risoluzione automatica di questa. Una simile clausola è considerata clausola di
stile, ove risulti, tuttavia, che le parti abbiano inteso escludere il requisito dell’importanza
dell’inadempimento per tutte le obbligazioni nascenti dal contratto, quella clausola produrrà i
propri effetti;
c) infine, il contratto è di diritto risolto per inadempimento, se per la prestazione di una parte era
fissato un termine, da considerarsi essenziale nell’interesse dell’altra. Questa può ancora richiedere
la prestazione entro 3 giorni dalla scadenza del termine, ma, in mancanza di richiesta, il contratto è
risolto di diritto (art. 1457).
La risoluzione stragiudiziale consente di risolvere rapidamente il contratto, senza necessità di un
preliminare giudizio e di un provvedimento giudiziario che accerti l’effettiva sussistenza
dell’inadempimento e la sua non scarsa importanza. Chi ricorre alle forme della risoluzione
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stragiudiziale lo fa però a proprio rischio: l’altra parte può successivamente assumere l’iniziativa
di un giudizio e dimostrare che il lamentato inadempimento non sussista o che era di scarsa
importanza o che il termine non era essenziale, con la conseguenza che il giudice dichiarerà
inefficace la risoluzione stragiudiziale del contratto, e la parte che se ne era illegittimamente
avvalsa verrà essa a trovarsi nella condizione di parte inadempiente, tenuta a risarcire il danno. In
nessun caso la risoluzione del contratto può essere fatta valere dalla parte che, anche per fatti
concludenti, abbia prestato acquiescenza all’altrui inadempimento ed abbia, in tal modo,
tacitamente rinunciato al rimedio della risoluzione.
Il rapporto di corrispettività fra le prestazioni contrattuali legittima anche ciascuna parte al rifiuto
di adempiere la propria prestazione se l’altra parte non adempie o non offra di adempiere
contemporaneamente la propria, sempre che per l’adempimento non siano previsti termini diversi
(art. 1460). È la c.d. eccezione d’inadempimento. L’eccezione d’inadempimento opera
stragiudizialmente: è il legittimo rifiuto di adempiere nelle mani di chi sia, a sua volta,
inadempiente. Non va confusa con la domanda riconvenzionale di risoluzione, che si propone in
giudizio quando la parte inadempiente si dia rivolta al giudice per ottenere la condanna della
controparte all’adempimento: in questo caso la controparte, per sottrarsi all’adempimento, fa
valere in via riconvenzionale l’inadempimento altrui chiedendo al giudice di pronunciare la
risoluzione del contratto. In sé considerata, l’eccezione di altrui inadempimento vale a sospendere
l’obbligazione di eseguire la propria prestazione, fino a quando non sia cessato l’inadempimento
altrui. Non ha effetto risolutivo del contratto, né ha effetto definitivamente liberatorio per il
debitore; i quali effetti si possono conseguire solo con la domanda di risoluzione, con la diffida ad
adempiere e così via. Il rifiuto di adempiere, se legittimo ex art. 1460, ha inoltre effetto preclusivo
della domanda dell’altro contraente di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del
danno, impedisce, infine, l’operatività della clausola risolutiva espressa. Il principio è che può
avvalersi della risoluzione del contratto, giudiziale o stragiudiziale, solo la parte adempiente; non
può invocarla chi è stato inadempiente ed ha dato causa al comportamento dell’altra parte, che si è
legittimamente astenuta dall’eseguire la controprestazione. Il II comma dell’art. 1460 impedisce di
opporre l’eccezione d’inadempimento quando il rifiuto della propria prestazione appaia contrario
alla buona fede. È un’applicazione specifica della clausola generale di buona fede contrattuale. In
questa materia la giurisprudenza ha enunciato generici criteri, come quello secondo il quale “la
parte che oppone l’eccezione può considerarsi in buona fede, solo se il rifiuto di esecuzione del
contratto si traduca in un comportamento che risulti oggettivamente ragionevole e logico, nel
senso che trovi concreta giustificazione nel rapporto tra prestazioni ineseguite e prestazioni
rifiutate, in relazione ai canoni legali di corrispettività e contemporaneità delle medesime”. La
giurisprudenza si è attenuta ai seguenti criteri: a) l’eccezione è contraria alla buona fede quando
non c’è proporzionalità fra la prestazione ineseguita e quella rifiutata; b) l’eccezione è contraria alla
buona fede quando la mancata esecuzione della controprestazione è dovuta a ragioni scusabili,
come nel caso dell’utente che non paga, perché pervenutagli durante la sua assenza per ferie, la
bolletta recapitatagli alla metà di agosto, ed al ritorno trova il telefono della sua abitazione muto o
la corrente elettrica staccata; c) l’eccezione è contraria alla buona fede quando si sia prestata
acquiescenza all’asserito inadempimento della controparte: in particolare, quando sia opposta, per
contrastare l’altrui domanda di adempimento, dopo che sia trascorso un lungo lasso di tempo
dell’eccepito inadempimento altrui, nel corso del quale ci si è astenuti dal dolersi del
comportamento della controparte. L’eccezione ex art. 1460 è ammessa anche per inadempimenti
relativi a contratti diversi, se si tratta di contratti fra loro collegati. L’eccezione d’inadempimento
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presuppone che le reciproche prestazioni contrattuali siano contemporaneamente dovute. Analoga
all’eccezione d’inadempimento è l’eccezione basata sul mutamento delle condizioni patrimoniali
dell’altro contraente, divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della
controprestazione: in questo caso la parte, che per contratto sia tenuta ad eseguire la propria
prestazione prima dell’altra, può sospendere l’esecuzione della prestazione dovuta, salvo che
l’altra parte non offra idonee garanzie (art. 1461). Un’ulteriore ipotesi non risulta contemplata:
quella in cui il conseguimento della controprestazione sia posto in pericolo dalla dimostrata
incapacità tecnica di eseguire la specifica prestazione contrattuale, come nel caso dell’appaltatore
che si sia rivelato non in grado di eseguire l’opera e, tuttavia, pretenda alle scadenze pattuite il
pagamento dei ratei del corrispettivo. È valida la clausola con la quale le parti rinunciano ad
opporre le eccezioni ex
art. 1460 e 1461 e, in genere, le eccezioni diverse dalle irrinunciabili
eccezioni di nullità, annullabilità e rescissione del contratto (art. 1462). In presenza di una simile
clausola, ciascuna delle parti sarà tenuta alla propria prestazione, nonostante l’inadempimento
dell’altra o il mutamento delle sue condizioni patrimoniali. Tuttavia, il giudice può, ricorrendo
gravi motivi, sospendere la condanna ed imporre una cauzione.
Danno, clausola penale e caparra
La parte inadempiente è in ogni caso tenuta a risarcire il danno cagionato alla controparte, sia che
l’altra parte abbia agito per l’adempimento oppure per la risoluzione del contratto: il danno per
l’inadempimento o il danno per il ritardo, se la parte esegua con ritardo la prestazione; il danno
per la risoluzione del contratto, se a causa del suo inadempimento il contratto è risolto (art. 1453).
S’intende che il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo non è legato ai
presupposti della risoluzione: può essere ottenuto anche se l’inadempimento non rivesta il
requisito dell’importanza di cui all’art. 1455 o, in caso di ritardo, anche se il termine non fosse
qualificabile come essenziale ai sensi dell’art. 1457. L’offerta del debitore di un adempimento
tardivo non impedisce al creditore di ottenere la risoluzione del contratto; non è, tuttavia, priva di
effetti sul risarcimento del danno, valendo ad impedire la maturazione degli interessi ulteriori e
degli ulteriori danni. La parte che chiede il risarcimento del danno ha l’onere di provare di avere
subito un danno per l’altrui inadempimento o per il ritardo nell’adempimento e di provare, altresì,
l’ammontare del danno subito. Il contratto può però prevedere una penale per l’inadempimento o
per il ritardo con il duplice effetto: a) di dispensare dall’onere di provare il danno, essendo la
penale dovuta per il fatto stesso dell’inadempimento o del ritardo (art. 1382), b) di limitare il
risarcimento all’ammontare della penale pattuita, salvo che non sia prevista la risarcibilità del
danno ulteriore (art. 1382). La clausola penale può essere prevista dal contratto o per
l’inadempimento o per il semplice ritardo. Se prevista per il semplice ritardo, non opera in caso
d’inadempimento, e non impedisce alla parte adempiente di agire per l’ordinario risarcimento del
danno. Le penali per il ritardo sono spesso quantificate dal contratto in ragione di una data somma
di danaro per ogni giorno di ritardo. La previsione della clausola penale non impedisce al creditore
di agire per l’adempimento. Egli non può, tuttavia, esigere l’adempimento e, al tempo stesso, la
penale (divieto di cumulo), salvo che non si tratti di rapporto di durata, potendo in tal caso esigere
la penale per le prestazioni già maturate ed agire per l’adempimento di quelle successive. Il
debitore, d’altra parte, non può liberarsi dell’obbligazione principale offrendo la penale. Se la
prestazione è divenuta impossibile per causa non imputabile al debitore, la penale non è dovuta,
ma l’onere della relativa prova incombe sul debitore. La clausola in base alla quale il debitore deve
una somma al creditore per il solo fatto della mancata esecuzione della prestazione, anche se
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dovuta a caso fortuito o forza maggiore, è considerata valida, ma non è qualificata come clausola
penale: è clausola di assunzione del rischio. Oggetto della penale è, per l’art. 1382 “una
determinata prestazione”: normalmente si tratta di una somma di danaro, ma la lata espressione
legislativa consente di pattuire anche prestazioni di natura diversa. Al giudice è attribuito, in
questa materia, il potere correttivo dell’autonomia contrattuale. Egli può equamente ridurre la
penale pattuita fra le parti in due casi (art. 1384): se l’obbligazione principale è stata eseguita in
parte, se l’ammontare della penale è “manifestamente eccessivo”, avuto riguardo all’interesse del
creditore all’adempimento. La penale può essere ridotta dal giudice d’ufficio, non solo su istanza
del debitore e sull’allegazione delle ragioni della sua eccessività. La clausola che preveda una
penale manifestamente eccessiva è considerata clausola diretta a realizzare interessi non meritevoli
di tutela; sicché l’equità del giudice è qui diretta a correggere un’espressione di autonomia
contrattuale che darebbe luogo, altrimenti, ad una clausola nulla, come tale sottoposta al principio
della rilevabilità d’ufficio.
Si discute sulla funzione della penale: se la penale abbia funzione risarcitoria, di reintegrazione del
patrimonio del creditore, leso dall’inadempimento o dal ritardo del debitore, o se abbia funzione di
“pena privata”, ossia di misura afflittiva diretta, analogamente alle pene comminate dallo Stato, ad
assicurare il rispetto del regolamento contrattuale, o se possa infine assolvere entrambe le funzioni.
Il problema si pone per l’ipotesi in cui una penale sia prevista per la trasgressione di una
determinazione contrattuale, per sua natura insuscettibile di provocare un danno patrimoniale.
Prevale l’opinione che la clausola penale possa assolvere sia una funzione risarcitoria sia una
funzione punitiva. L’esonero dalla prova del danno è suscettibile di essere intesa tanto come
esonerato dall’onere di provare l’entità del danno subito tanto come irrilevanza del danno. La
riducibilità della penale manifestamente eccessiva è, d’altra parte, rapportata non all’entità del
danno, ma all’interesse del creditore all’adempimento. Un punto fermo è, tuttavia, il carattere
necessariamente patrimoniale della pena privata, in conformità del carattere patrimoniale che deve
rivestire, a norma dell’art. 1174, la prestazione contrattuale. Perciò, le sanzioni aventi contenuto
“morale”, suscettibili d’incidere sull’onore o sulla reputazione del contraente inadempiente, non
sono riconducibili alla disciplina della clausola penale. Ad escludere l’ammissibilità di pene
private di tal genere concorrono altri elementi di giudizio, strettamente legati alla tecnica di
previsione contrattuale della pena, cui l’inadempiente soggiace in forza della sua adesione al
contratto. Questa adesione è atto di disposizione dei propri diritti, valido solo in quanto abbia per
oggetto diritti disponibili. E non sono diritti disponibili il diritto all’onore e il diritto alla
reputazione, siccome diritti della personalità, per loro natura indisponibili. Il contraente
all’opposto ne dispone allorché si assoggetta all’applicazione di pene morali. Ci sono casi nei quali
l’effettività di un’obbligazione contrattuale non può essere altrimenti assicurata se non dalla
previsione di una penale per l’inadempimento. Così è, ad esempio, per i patti parasociali di
sindacato di voto o di blocco: qui l’estrema difficoltà se non l’impossibilità, di fornire la prova di
un danno per l’inadempimento altrui scoraggerebbe qualsiasi reazione alla violazione del patto,
assicurando l’immunità a chi lo abbia violato. Di qui l’utilità delle pene contrattuali, le quali
offrono il vantaggio di una predeterminazione delle conseguenze patrimoniali
dell’inadempimento e possono così operare come efficace deterrente alla violazione del patto. Alla
clausola penale si attribuisce una propria causa, distinta dalla causa del contratto cui afferisce; essa
non è equiparata a qualsiasi altra clausola contrattuale, ma è considerata come contratto a sé, anche
se collegato al contratto cui afferisce. L’invalidità del contratto principale travolge la clausola
penale, ma non necessariamente l’invalidità di questa travolge il contratto principale, dovendosi al
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riguardo valutare se il creditore lo avrebbe ugualmente concluso anche in difetto della penale. La
penale è prevista dal contratto, ma è versata solo in caso d0inadempimento o di ritardo. Diversa
dalla penale è la caparra, che è una somma di danaro che, talvolta, una parte dà all’altra nel
momento stessa della conclusione del contratto: normalmente, del contratto preliminare di
vendita. Possono allora verificarsi tre possibili situazioni: 1 )se la parte che ha dato la caparra
adempie il contratto, l’altra parte dovrà restituirgliela o imputarla alla prestazione dovuta (art.
1385), 2) se la parte che ha dato la caparra non adempie il contratto, l’altra parte può trattenere la
caparra e recedere dal contratto e 3) se è inadempiente, invece, la parte che ha ricevuto la caparra,
chi l’ha data può esigere il doppio della caparra e recedere dal contratto (art. 1385). L’avere dato o
ricevuto una caparra non comporta però rinuncia ad agire per l’inadempimento o per la
risoluzione, né comporta rinuncia a chiedere il risarcimento del danno (art. 1385). Il recesso dal
contratto, trattenendo la caparra ricevuta o esigendo il doppio di quella versata, è una mera facoltà
della parte adempiente.
La caparra confirmatoria (o caparra penale) è data al momento della conclusione del contratto: il
patto ad essa relativo ha, dunque, natura reale; si perfeziona, cioè, solo al momento della dazione
della somma, o si altra quantità di cose fungibili. La datazione della caparra attiene perciò alla
conclusione del contratto, non alla sua esecuzione. Il patto relativo alla caparra è clausola che fa
parte integrante del contratto cui inerisce; non già contratto a sé stante, come è invece la clausola
penale. Perciò, il contratto nel quale si prevede una caparra, da determinare per successivo accordo
fra le parti, è un contratto non ancora concluso, mancando l’accordo delle parti su ogni elemento
del contratto. Le parti non ne saranno vincolate, come non sono vincolate da un accordo solo
parziale. Dal fatto che il patto sulla caparra sia clausola del contratto cui inerisce e sia, al tempo
stesso, patto reale deriva che la mancata datazione della caparra menzionata nel contratto,
impedendo il perfezionamento del patto sulla caparra, impedisce anche la conclusione del
contratto. A questo modo la realità della caparra si comunica al contratto, quantunque si tratti di
contratto per sua natura consensuale. La denominazione di questo tipo di caparra quale caparra
“confirmatoria” è tradizionale: deriva dall’ulteriore funzione della caparra quale conferma o prova
dell’avvenuta conclusione del contratto. L’avere nelle proprie mani l’altrui dichiarazione d’avere
ricevuto una data somma a titolo di caparra, con la menzione del bene compravenduto e del
relativo prezzo, equivale ad avere la prova scritta dell’avvenuto contratto. Dalla caparra definita
come caparra confirmatoria, va tenuta distinta la caparra penitenziale. Questa è data, sempre al
momento della conclusione del contratto, come corrispettivo del recesso: il recedente perde la
caparra data o deve il doppio di quella ricevuta (art. 1386). Nel dubbio la caparra è confirmatoria e
non penitenziale, né basta il nomen iuris di caparra penitenziale, essendo necessaria la previsione
del patto di recesso.
Risoluzione per impossibilità sopravvenuta e per eccessiva onerosità sopravvenuta
L’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile al debitore comporta
l’estinzione dell’obbligazione. Qui si deve considerare l’ipotesi che l’obbligazione estinta derivasse
da un contratto a prestazioni corrispettive: l’impossibilità sopravvenuta di una prestazione rende,
in tal caso, priva di ogni giustificazione la controprestazione. Essa comporta, perciò, la risoluzione
del contratto, dal quale l’obbligazione estinta derivava, e comporta, quindi, anche l’estinzione
dell’obbligazione estinta dell’altra parte. Ne consegue che la parte liberata dall’obbligazione per la
sopravvenuta impossibilità della propria prestazione non può chiedere la controprestazione e, se
l’ha già ricevuta, deve restituirla (art. 1463). La risoluzione del contratto opera qui di diritto: la
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controparte non ha bisogno di promuovere un giudizio che accerti preliminarmente la legittimità
del rifiuto, lo dovrà promuovere se aveva già eseguito la sua prestazione e l’altra parte si rifiuti di
restituirla. L’impossibilità sopravvenuta della prestazione può essere solo parziale: il contratto, in
tal caso, non si risolve, ma l’altra parte ha diritto ad una corrispondente riduzione della
controprestazione dovuta, e potrà recedere dal contratto (ipotesi di recesso per giusta causa) se
non abbia interesse ad un’esecuzione solo parziale della prestazione (art. 1464). Norma
corrispondente non è invece concepibile in caso d’inadempimento. Può accadere che la prestazione
sia diventata impossibile per causa imputabile al creditore. Si può, nel silenzio della legge
prospettare una duplice sanzione: si può ritenere che il contratto non si risolva, con la conseguenza
che il contraente che ha reso impossibile la propria prestazione è tenuto ad eseguire la
controprestazione, di per sé possibile, mentre l’altro contraente è liberato a norma dell’art. 1256, la
sua prestazione essendo diventata impossibile per causa a lui non imputabile, oppure si può
ammettere che l’impossibilità produrrà risoluzione del contratto e liberazione del debitore, ma
esporrà il creditore a responsabilità per i danni che la controparte ha subito a causa della mancata
esecuzione del contratto. A favore della prima soluzione si è addotto che l’impossibilità causa di
risoluzione ex art. 1463 deve essere un’impossibilità non imputabile a nessuna delle parti; a
sostegno della seconda soluzione milita il nesso di corrispettività fra le prestazioni contrattuali, che
rende incongrua la pretesa di una prestazione ove la controprestazione non possa essere eseguita.
Sotto l’aspetto economico, peraltro, le due soluzioni, tendono a coincidere, giacché dalla pretesa
d’adempimento contrattuale si dovrebbero pur sempre detrarre i risparmi ed i guadagni realizzati
dal debitore per non avere eseguito la prestazione. La disciplina della sopravvenuta impossibilità
di una delle prestazioni fa emergere un altro carattere che è presente nei contratti a prestazioni
corrispettive: non c’è solo un rapporto di corrispettività fra le prestazioni, c’è anche un più
specifico rapporto di corrispettività fra il valore economico dell’una e quello dell’altra. Se, per la
sopraggiunta impossibilità parziale della sua prestazione, una parte esegue a favore dell’altra una
prestazione minore di quella originariamente pattuita, perde correlativamente la propria
giustificazione l’ammontare del corrispettivo pattuito, il quale si ridurrà in misura corrispondente
al minor valore economico della prestazione eseguita.
La disciplina della risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta riguarda i
controlli la cui esecuzione è destinata a protrarsi nel tempo, siano essi contratti ad esecuzione
differita oppure contratti ad esecuzione continuata o periodica: può accadere che, nel tempo
intercorrente fra il momento della conclusione del contratto e quello dell’esecuzione di una delle
prestazioni, sopraggiungano avvenimenti straordinari ed imprevedibili, come un abnorme tasso
d’inflazione monetaria, per effetto dei quali la prestazione di una delle parti diventi
eccessivamente onerosa rispetto al valore della prestazione dell’altra. In questi casi la parte che
deve la prestazione diventata eccessivamente onerosa può domandare la risoluzione giudiziale del
contratto (art. 1467) e l’altra parte, se vuole evitare la risoluzione, può offrire di modificare
equamente le condizioni contrattuali (art. 1467): a seconda dei casi, di ridurre l’ammontare della
prestazione diventa eccessivamente onerosa oppure di accrescere l’ammontare della propria
prestazione. L’onerosità sopravvenuta deve essere eccessiva: deve cioè consistere in un forte
squilibrio tra il valore economico delle due prestazioni, che abbia reso il contratto sensibilmente
iniquo per una delle parti. Per poter risolvere il contratto, occorre che questo non sia ancora stato
eseguito quando sopraggiunge l’evento straordinario ed imprevedibile: se l’evento interviene
quando il prezzo della vendita è già stato pagato, il venditore subisce le conseguenze
dell’inflazione su una somma di danaro che ormai non è più in rapporto con la vendita del bene,
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avendo il contratto già esaurito la propria funzione. Lo squilibrio fra le prestazioni, determinatosi
nel corso dell’esecuzione del contratto, deve dipendere da un evento straordinario ed
imprevedibile: non sono tali quegli eventi che rientrano nella c.d. alea normale del contratto (art.
1467), ossia nel rischio naturalmente insito in ogni contrattazione. Essi non permettono di
domandare la risoluzione contrattuale. Chi vuole sottrarsi ad essi deve ottenere l’inserimento nel
contratto di un’apposita clausola che preveda l’aggiornamento delle condizioni contrattuali con il
variare delle condizioni di mercato. Le norme sulla risoluzione del contratto per eccessiva
onerosità sopravvenuta non si applicano ai contratti aleatori o di sorte (art. 1469). Sono i contratti
nei quali un contraente si obbliga ad una prestazione, ma è incerto, al momento della conclusione
del contratto, se gli sarà dovuta la controprestazione; accetta, perciò, il rischio di dover eseguire la
propria prestazione senza ricevere nulla in cambio. Ma è aleatorio anche il contratto per il quale sia
incerta, al momento della sua conclusione, l’entità della controprestazione: qui il rischio cui il
contraente è esposto è di dovere eseguire una prestazione di valore superiore alla
controprestazione. Il contratto può essere aleatorio per sua natura, come il contratto di
assicurazione (art. 1882), o per volontà delle parti, come può essere la vendita di cosa futura (art.
1472). Nell’assicurazione una parte, l’assicurato, si obbliga a pagare somme periodiche
all’assicuratore, dette premi; ma l’assicuratore gli dovrà la controprestazione, ossia l’indennizzo,
solo se si verificherà l’evento coperto dall’assicurazione, ossia il sinistro. La vendita di cosa futura
può essere voluta dalle parti come vendita commutativa oppure come vendita aleatoria: il
compratore, nel secondo caso, si obbliga a pagare il prezzo anche nell’eventualità che la cosa non
venga ad esistenza. I contratti aleatori sono contratti a prestazioni corrispettive, e ad essi si
applicano le norme sulla risoluzione per inadempimento e per impossibilità sopravvenuta della
prestazione; si distinguono, tuttavia, dai contratti commutativi e, a differenza di questi, non sono
sottoposti alle norme sulla risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
CAP. 15°: LA CONGRUITA’ DELLO SCAMBIO CONTRATTUALE
La corrispettività che caratterizza i contratti di scambio rende le prestazioni contrattuali
giuridicamente interdipendenti fra loro; non comporta, almeno in linea di principio, che esse siano
economicamente equivalenti. Ciascuno è libero di contrattare a condizioni a sé svantaggiose e
vantaggiose per la controparte. In linea di principio, al giudice non è consentito di sindacare
l’equivalenza delle prestazioni, ogni determinazione circa la congruità dello scambio contrattuale
essendo rimessa all’autonomia dei contraenti, secondo il generale principio dell’art. 1322 o, se si
preferisce, secondo l’altro generale principio dell’art. 1372, per il quale il contratto ha forza di
leggere fra le parti. In economia di mercato il giusto prezzo è il prezzo di mercato, quale si
determina nelle libere contrattazioni. Può trattarsi, però, di una libertà solo formale, come nel caso
in cui il contraente più debole subisca, di fatto, le condizioni contrattuali imposte dal contraente
più forte, e in tal caso lo squilibrio fra le prestazioni non è, ad parte del contraente debole, il frutto
di una libera scelta, da imporre in nome della libertà contrattuale. Possono, allora, intervenire
specifiche norme dirette a reprimere l’abuso o l’approfittamento di un contraente a danno
dell’altro, oppure fonti d’integrazione del contratto imitatrici dell’autonomia contrattuale. Talvolta
il prezzo di mercato è legislativamente assunto come giusto prezzo: così, per l’art. 1474, quando le
parti della vendita, anziché determinare il prezzo, si siano riferite al “giusto prezzo”, questo è
determinato in corrispondenza al prezzo di borsa o di mercato, risultante da listini o da mercuriali.
Altre volte vale, sempre in mancanza di una determinazione contrattuale del corrispettivo, il
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criterio del corrispettivo adeguato al valore della controprestazione. Così è per il contratto d’opera
manuale, a norma dell’art. 2225; così, è ancora, per il contratto di società: a norma dell’art. 2263. A
norma dell’art. 33 del Codice del consumo, introdotto per direttiva comunitaria, sono vessatorie, e
perciò nulle ai sensi del successivo art. 36, le clausole dei contratti fra “professionista” e
“consumatore” che, “malgrado la buona fede”, “determinano a carico del consumatore un
significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. La norma si segnala
sotto un duplice aspetto: anzitutto per il rilievo che attribuisce all’equilibrio contrattuale, ossia alla
congruità dello scambio, anche se qui si tratta dell’equilibrio giuridico del contratto, e non di
quello economico, giacché l’art. 34, precisa che la vessatorietà della clausola “non attiene
all’adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi”. In secondo luogo per la portata che nella
norma riveste la buona fede contrattuale: lo squilibrio contrattuale, produttivo della nullità della
clausola squilibrante, è posto in rapporto con la violazione, da parte del contraente che ha imposto
la clausola (del “professionista”, quale contraente forte), del canone della buona fede nella
formazione del contratto, sicché la norma mette capo al principio secondo il quale la violazione di
questo canone può condurre alla nullità del contratto concluso con mala fede. Va, dunque, ribadito
che lo squilibrio originario fra le prestazioni non rileva in sé e per sé, ma solo in quanto sia
rivelatore di una diversa e ulteriore anomalia del contratto. Questa può essere la lesione ultra
dimidium nel contratto concluso con approfittamento dell’altrui stato di bisogno (causa rescissione
del contratto), e può essere, ancora, la mala fede del “professionista” ai sensi dell’art. 33. La
materia è regolata con riferimento al contratto che intercorre fra le parti così definite. Un
professionista, intendendosi per tale la persona, fisica o giuridica, privata o pubblica, che
nell’ambito della sua attività imprenditoriale o professionale, conclude contratti aventi per oggetto
la cessione di beni o la prestazione di servizi. L’espressione “professionista” è, dunque, impiegata
per indicare chiunque, sia esso un imprenditore, individuale o collettivo, oppure un ente a scopo
ideale oppure una pubblica amministrazione oppure un esercente una professione intellettuale,
svolga in modo non occasionale (e perciò professionale) un’attività diretta alla produzione o alla
distribuzione di beni oppure alla prestazione di servizi. Un consumatore, intendendosi per tale solo
il consumatore finale, cioè la persona fisica che si procura, per contratto, i beni o i servizi del
professionista per utilizzarli a fini solo estranei alla propria eventuale attività imprenditoriale o
professionale, ossia a fini personali. Non sono mai consumatori, perciò, le persone giuridiche, né
sono consumatori i professionisti che utilizzano i beni o i servizi di altri professionisti per
l’esercizio della propria attività professionale. Il contratto intercorrente fra soggetti così
qualificabili è legislativamente valutato come contratto con il quale il contraente forte, ossia il
professionista, può avvalersi della propria forza contrattuale per imporre al consumatore,
contraente debole, condizioni contrattuali che provocano, a danno del secondo, uno squilibrio dei
diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. È definita come vessatoria la clausola contrattuale che
provoca un “significativo squilibrio” dei diritti e degli obblighi reciproci e questo squilibrio è
assunto come rivelatore, in sé considerato, della mala fede del professionista che ha predisposto la
clausola. Basta, cioè, il fatto in sé della presenza, nel contratto, di un significativo squilibrio dei
diritti e degli obblighi da esso derivanti; non è richiesto alcun elemento di ordine soggettivo, come
l’intento del professionista di profittare della propria forza contrattuale per piegare il consumatore
a condizioni contrattuali inique. Lo squilibrio del quale si parla non è lo squilibrio economico fra le
prestazioni. Attiene solo all’equilibrio dei diritti e dei doveri che dal contratto derivano a favore
dell’una o dell’altra parte. Posto questo concetto di clausola vessatoria, l’art. 33 introduce una serie
di presunzioni relative, che ammettono cioè la prova contraria da parte del professionista. Si
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presumono vessatorie, fino a prova contraria, le clausole che hanno per oggetto o per effetto di: 1)
escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del
consumatore, risultante da un fatto o da un’omissione del professionista; 2) escludere o limitare le
azioni o i diritti del consumatore nei confronti del professionista o di un’altra parte in caso
d’inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista; 3)
escludere o limitare l’opponibilità da parte del consumatore della compensazione di un debito nei
confronti del professionista con un credito vantato nei confronti di quest’ultimo; 4) prevedere un
impegno definitivo del consumatore, mentre l’esecuzione della prestazione del professionista è
subordinata ad una condizione il cui adempimento dipende unicamente dalla sua volontà; 5)
consentire al professionista di trattenere una somma di denaro versata dal consumatore se
quest’ultimo non conclude il contratto e ne recede, senza prevedere il diritto del consumatore di
esigere dal professionista il doppio della somma corrisposta se è quest’ultimo a non concludere il
contratto oppure a recedere; 6) imporre al consumatore, in caso d’inadempimento o di ritardo
nell’adempimento, il pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento, clausola penale
o altro titolo equivalente d’importo manifestamente eccessivo; 7) riconoscere al solo professionista
e non anche al consumatore la facoltà di recedere dal contratto, nonché consentire al professionista
di trattenere anche solo in parte la somma versata dal consumatore a titolo di corrispettivo per
prestazioni non ancora adempiute, quando sia il professionista a recedere dal contratto; 8)
consentire al professionista di recedere da contratti a tempo indeterminato senza un ragionevole
preavviso, tranne nel caso di giusta causa; 9) stabilire un termine eccessivamente anticipato
rispetto alla scadenza del contratto per comunicare la disdetta al fine di evitare la tacita proroga o
rinnovazione; 10) prevedere l’estensione dell’adesione del consumatore a clausole che non ha
avuto la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto; 11) consentire al
professionista di modificare unilateralmente le clausole del contratto, ovvero le caratteristiche del
prodotto o del servizio da fornire, senza un giustificato motivo indicato nel contratto stesso; 12)
stabilire che il prezzo dei beni o dei servizi sia determinato al momento della consegna o della
prestazione; 13) consentire al professionista di aumentare il prezzo del bene o del servizio senza
che il consumatore possa recedere se il prezzo finale è eccessivamente elevato rispetto a quello
originariamente convenuto; 14) riservare al professionista il potere di accertare la conformità del
bene venduto o del servizio prestato a quello previsto nel contratto o conferirgli il diritto esclusivo
d’interpretare una clausola qualsiasi del contratto; 15) limitare la responsabilità del professionista
rispetto alle obbligazioni derivanti dai contratti stipulati in suo nome dai mandatari o subordinare
l’adempimento delle suddette obbligazioni al rispetto di particolari formalità; 16) limitare od
escludere l’opportunità dell’eccezione d’inadempimento da parte del consumatore; 17) consentire
al professionista di sostituire a sé un terzo nei rapporti derivanti dal contratto, anche nel caso di
preventivo consenso del consumatore, qualora risulti diminuita la tutela dei diritti di quest’ultimo;
18) sancire a carico del consumatore decadenze, limitazioni della facoltà di opporre eccezioni,
deroghe alla competenza dell’autorità giudiziaria, limitazioni all’allegazione di prove, inversioni o
modificazioni dell’onere della prova, restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi; 19)
stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o
domicilio elettivo del consumatore; 20) prevedere l’alienazione di un diritto o l’assunzione di un
obbligo come subordinati ad una condizione sospensiva dipendente dalla mera volontà del
professionista a fronte di un’obbligazione immediatamente efficace del consumatore. La categoria
delle clausole vessatorie resta però una categoria aperta: le 20 ipotesi legislativamente tipizzare
sono ipotesi per le quali opera la presunzione (relativa) di vessatorietà, ma il consumatore può
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sempre, fuori da queste 20 ipotesi, dare la prova che una data clausola provoca un significativo
squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto e che è, perciò, una clausola vessatoria.
La sorte delle clausole vessatorie è diversa a seconda che ricorrano le ipotesi di cui ai n. 1, 2 e 10
oppure le altre ipotesi: nel primo caso la clausola è sempre e comunque nulla, nel secondo ordine
di casi la clausola è inefficace solo se sia stata unilateralmente predisposta dal professionista, al di
fuori di una trattativa individuale con il consumatore. Ed anche a questo riguardo opera una
presunzione: se il contratto è stato concluso mediante la sottoscrizione, da parte del consumatore,
di moduli o formulari predisposti dal professionista, si presume che la clausola sia stata
unilateralmente predisposta, ed incombe sul professionista l’onere di provare che essa sia stata
oggetto di trattativa individuale. La nullità è, in ogni caso, una nullità relativa: opera solo a
vantaggio del consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice; non può essere fatta valere
dal professionista. Si tratta, inoltre, di nullità parziale, che non colpisce l’intero contratto, ma solo la
singola clausola definibile come vessatoria, mentre il contratto resta valido ed efficace per il resto.
Giova un confronto fra le nuove norme e le preesistenti norme dell’art. 1341. Queste riguardano
solo una specifica tecnica di contrattazione, per condizioni generali di contratto predisposte
unilateralmente da una delle parti, mentre le nuove norme toccano, quando si versa nelle ipotesi di
cui ai n. 1, 2 e 10, anche clausole che abbiano formato oggetto di trattativa individuale. Sotto questo
aspetto le nuove norme presentano un ambito di applicazione più vasto, potendo condurre alla
qualificazione di vessatorietà anche di clausole che non sarebbero vessatorie per l’art. 1341. Ma
sotto altri aspetti le nuove norme presentano un più ristretto ambito di applicazione. Per l’art. 1341
la controparte del predisponente può essere chiunque: anche una persona giuridica, ed anche un
imprenditore, come ad esempio nel caso del contratto di agenzia concluso con un agente di
commercio; le nuove norme, invece, trovano applicazione solo quando la controparte del
predisponente sia una persona fisica, la quale sia definibile come consumatore. Diverse, in ogni
caso, sono le conseguenze della qualificazione di una clausola come vessatoria. L’art. 1341 si limita,
nel II comma, a richiedere la specifica approvazione per iscritto delle clausole vessatorie, le quali
assumono piena efficacia se non state a questo modo approvate. Per le nuove norme, invece, la
vessatorietà di una clausola comporta, in linea di principio, la sua inefficacia. In conclusione: l’art.
1341 sopravvive alle nuove norme per i contratti nei quali l’altro contraente non sia definibile come
consumatore. Le nuove norme prevalgono, invece, sull’art. 1341 quando si sia in presenza di un
contratto definibile, alla stregua di esse, come contratto fra professionista e consumatore. Alla
tutela individuale del consumatore, repressiva delle clausole vessatorie, sia aggiunge una tutela
collettiva: una volta accertata la vessatorietà di una data clausola, le associazioni di consumatori o
di professionisti e le camere di commercio possono chiedere al giudice d’inibire, anche con
provvedimento d’urgenza, l’uso o la raccomandazione all’uso di quella clausola al professionista o
alle associazioni di professionisti che la utilizzano. Le nuove norme proteggono solo il
consumatore finale, non operano nei contratti fra professionisti di disuguale forza contrattuale, nei
quali pure può manifestarsi uno squilibrio dei diritti e degli obblighi reciproci. Al riguardo è
intervenuta la l. 192/1998 sulle subforniture nelle attività produttive e, in particolare, l’art. 9 di
questa legge, repressivo dell’abuso di dipendenza economica. L’art. 1 comincia con il definire quale
subfornitore l’imprenditore che “s’impegna ad effettuare per conto di un’impresa committente
lavorazioni su prodotti semilavorati o su materie prime forniti dalla committente medesima, o
s’impegna a fornire all’impresa prodotti o servizi destinati ad essere incorporati o comunque ad
essere utilizzati nell’ambito dell’attività economica del committente o nella produzione di un bene
complesso, in conformità a progetti esecutivi, conoscenze tecniche e tecnologiche, modelli o
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prototipi forniti dall’impresa committente”. L’art. 9 vieta “l’abuso da parte di una o più imprese
dello stato di dipendenza economica nel quale si trova, nei suoi o nei loro riguardi, un’impresa
cliente o fornitrice. Si considera dipendenza economica la situazione in cui un’impresa sia in grado
di determinare, nei rapporti commerciali con un’altra impresa, un eccessivo squilibrio di diritti e di
obblighi. La dipendenza economica è valutata tenendo conto anche della reale possibilità per la
parte che abbia subito l’abuso di reperire sul mercato alternative soddisfacenti”; ed aggiunge che
“l’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nell’imposizione di
condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nell’interruzione arbitraria
delle relazioni commerciali in atto”. Dopo di che il III comma dispone che “il patto attraverso il
quale si realizzi l’abuso di dipendenza economica è nullo”.
La rescissione del contratto
Al principio generale dell’incensurabilità dell’autonomia contrattuale sono tradizionalmente
apportati due temperamenti, che vanno sotto il nome di rescissione del contratto. Rescissione altro
non significa se non scioglimento o risoluzione del contratto: il termine ha però, nel linguaggio del
codice civile, un preciso significato tecnico ed indica lo scioglimento del contratto per due
specifiche causa. Una prima causa di rescissione investe il contratto concluso in stato di pericolo: chi,
per contratto, assume obbligazioni a condizioni inique, ossia con forte sproporzione tra il valore di
ciò che dà e di ciò che riceve, per la necessità, nota alla controparte di salvare sé o altri dal pericolo
attuale di un danno grave alla persona, può chiedere al giudice la rescissione del contratto (art.
1447). Il concetto di danno grave alla persona è inteso in senso ampio, comprensivo di ogni lesione
a diritti della personalità e non solo all’integrità fisica. Più importante, e in pratica più frequente, è
l’ipotesi del contratto concluso in stato di bisogno: se c’è sproporzione tra la prestazione di una parte
e quella dell’altra, e la sproporzione è dipesa dalla situazione, anche momentanea, di bisogno
economico di una parte, della quale l’altra parte ha approfittato, la prima può chiedere la
rescissione del contratto (art. 1448). È la c.d. rescissione per lesione: è il caso di chi (persona fisica o
ente collettivo), trovandosi in difficoltà economiche, svende i propri beni pur di realizzare danaro,
ed il compratore, che sa delle condizioni di bisogno del venditore, ne approfitta acquistando per
un prezzo irrisorio. L’estremo dello stato di bisogno non è inteso nel senso d’indigenza assoluta,
ma “come situazione di difficoltà economica che incida sulla libera determinazione a contrattare e
funzioni come motivo dell’accettazione della sproporzione fra le prestazioni”. L’altro estremo,
quello dell’approfittamento, è ritenuto presente quando sussiste “la duplice consapevolezza dello
stato di bisogno dell’altro contraente e della grave sproporzione esistente fra le prestazioni, sicché
volere il contratto equivale a profittare del predetto stato di bisogno”. Qui la legge fissa però un
criterio per stabilire quando c’è sproporzione fra le prestazioni: occorre una lesione oltre la metà
(ultra dimidium); la prestazione ricevuta deve essere inferiore alla metà del valore che la
prestazione eseguita aveva al tempo del contratto, e questa sproporzione deve perdurare fino al
momento in cui è proposta l’azione di rescissione. Di norma è chi profitta dell’altrui stato di
bisogno ad offrire il prezzo iniquo, ma questo non è ritenuto estremo necessario
dell’approfittamento. La rescissione per lesione non può essere domandata per i contratti aleatori,
né può essere domandata per i contratti a titolo gratuito. La si è ritenuta ammissibile per la
fideiussione, prestata in considerazione dello stato di bisogno di un familiare, ma l’assunto non
può essere condiviso. Non è ammesso considerare rilevante, oltre che lo stato di bisogno del
contraente, anche lo stato di bisogno altrui, come lo stato di bisogno del debitore, che induce un
familiare a prestare fideiussione, con approfittamento del creditore. Come nel caso dell’eccesiva
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onerosità sopravvenuta, la parte contro cui è chiesta la rescissione del contratto può evitarla
offrendo di modificare le condizioni del contratto in modo da ricondurle ad equità (art. 1450). Il
codice civile s’esprime in termini di contratto “a condizioni inique”, di riconduzione del contratto
“ad equità”. L’impiego del concetto di “equità”, retaggio dell’antica filosofia del “giusto prezzo”, è
qui da considerarsi improprio: le norme in materia di rescissione non alludono ad un principio
etico, bensì alla congruità economica del corrispettivo contrattuale. Il termine di riferimento per
giudicare sull’iniquità delle condizioni contrattuali o sulla loro riduzione “ad iniquità” altro non è
se non il valore di mercato della prestazione dedotta in contratto. Le cause di rescissione sono, a
rigore, difetti genetici, e non funzionari del contratto: riguardano la formazione del contratto, non
la sia esecuzione. Tuttavia, la legge le prende in considerazione come cause di scioglimento del
rapporto contrattuale, assimilandole come cause di risoluzione piuttosto che a quelle (logicamente
più affini) di annullamento del contratto. La scelta legislativa si coordina con gli interessi che le
norme in materia mirano a proteggere: esse non tutelano la libertà del contraente, che non potrà
mai liberarsi del vincolo contrattuale per il solo fatto di avere contratto in stato di pericolo o in
stato di bisogno. Proteggono solo il contraente che, versando in un tale stato, abbia contrattato “a
condizioni inique”; pongono rimedio allo squilibrio determinatosi fra le prestazioni contrattuali.
Non è ammessa, perciò, la convalida del contratto rescindibile (art. 1451); è, invece, ammessa la sua
riconduzione ad equità, come per il contratto soggetto a risoluzione per eccessiva onerosità
sopravvenuta. Anche gli effetti della rescissione rispetto si terzi sono regolati (art. 1452) in modo
corrispondente alla risoluzione. L’azione di rescissione è, in entrambi i casi, soggetta al breve
termine di prescrizione di un anno, che decorre dalla conclusione del contratto (art. 1449). Al
medesimo termine di prescrizione è sottoposta anche l’eccezione di rescissione: se la parte che ha
tratto vantaggio dall’altrui stato di pericolo o di bisogno chiede l’esecuzione del contratto decorso
un anno dalla sua conclusione, l’altra parte non può più eccepirgli la rescindibilità del contratto. È
una deroga al principio generale sulla non prescrivibilità delle eccezioni, accolto invece in materia
di annullabilità del contratto (art. 1442). L’art. 1449 fa salva l’ipotesi che il fatto non costituisca
reato: in tal caso vale il termine di prescrizione del reato. Oltre i limiti della rescissione del
contratto, sulla base della sola sproporzione originaria fra le prestazioni, ed a prescindere dagli
specifici requisiti dello stato di bisogno di un contraente e dell’approfittamento dell’altro
contraente, nonché dalla misura ultra dimidium della sproporzione, opera per i contratti
commerciali internazionali la figura della Gross disparity, che è causa di annullamento del
contratto che si rilevi affetto da grave squilibrio fra le prestazioni, la cui misura rilevante, ossia
gross, è di volta in volta giudizialmente accertata (Principi Unidroit). Qui è l’iniquità del contratto,
in sé considerata, la causa d’invalidità, e resta solo un tacito presupposto, che non necessita di
apposita dimostrazione, la causa di questa iniquità, dovuta al prepotere del contraente forte sul
contraente debole.
L’oggettivazione dello scambio e la presupposizione
Il tema dello scambio contrattuale si presta per riassumere alcune tendenze di fondo, del codice
civile prima, della giurisprudenza sul codice civile poi. Una prima è la tendenza verso
l’oggettivazione dello scambio contrattuale, in adesione alle esigenze di sicura, rapida ed ampia
circolazione della ricchezza. Il fenomeno s’iscrive in un più vasto disegno, che passa attraverso
l’unificazione dei codici di diritto privato e la “commercializzazione” dei rapporti civili che con
essa si attua. L’interesse dominante è “l’interesse superiore della produzione”; il bene
sommamente tutelato è la circolazione, “da rendere la più ampia, la più celere e la più sicura
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possibile”, ed “è chiaro che gli accennati indirizzi provocano restrizioni all’efficacia del c.d. dogma
della volontà”. L’oggettivazione dello scambio si manifesta, anzitutto, nella disciplina dello scambio
fra imprenditori ed utenti dell’impresa, posta dall’art. 1341: la sostituzione della conoscibilità alla
conoscenza del regolamento contrattuale, che è funzionale alle esigenze della contrattazione di
massa, fa sì che il regolamento contrattuale sia vincolante per una delle parti, anche se questa non
lo aveva conosciuto e non poteva, quindi, averlo voluto, e finisce con il contraddire lo stesso
concetto di contratto, fissato dall’art. 1321, oltre che il principio “dell’accordo delle parti” quale
requisito del contratto, richiesto a pena di nullità. Se l’oggettivazione dello scambio attiene qui al
rapporto diretto imprenditore utente e si manifesta da un solo lato, dalla parte dell’utente,
comprimendo la sua “libertà del voluto”, altrove essa investe ogni sorta di scambio, anche se
attuato fra parti nessuna delle quali sia un imprenditore, ed agendo sulla stessa “libertà del
volere”. Così l’art. 1335, che fa presumere conosciute, nel momento in cui giungono all’indirizzo
del destinatario, la proposta, l’accettazione, la loro revoca e ogni altra dichiarazione diretta ad una
persona determinata. Così l’art. 1431, che subordina l’azione di annullamento alla riconoscibilità
dell’errore. L’oggettivazione dello scambio tende, da un lato, a far prevalere la dichiarazione sulla
volontà, quando la divergenza fra la prima e la seconda non sia riconoscibile dal destinatario della
dichiarazione. Tende, per altro verso, a spostare l’asse del contratto dal requisito del consenso a
quello della causa. Va ricordata la norma che, all’art. 1432, consente la rettificazione del contratto
viziato da errore, insieme a tutte le norme che consentono a riconduzione ad equità del contratto
rescindibile o risolubile per eccessiva onerosità. È significativa, in tal senso, anche la disciplina del
dolo: qui il rimedio dell’annullamento non mira tanto a proteggere la libera formazione del volere
del contraente vittima dell’altrui dolo quanto, piuttosto, a riparare la lesione del suo interesse,
come è reso manifesto dalla norma sul dolo del terzo, per la quale è il “vantaggio ingiusto”,
ottenuto da uno dei contraenti a danno dell’altro, a giustificare l’azione di annullamento (art.
1439), oltre che dalla norma sul dolo incidente (art. 1440), là dove le “condizioni diverse” sono le
condizioni più svantaggiose per la vittima del dolo.
Si può osservare quest’ulteriore generale tendenza: il legislatore del 1942 ha, per un verso,
spogliato l’atto di scambio di molti dei tradizionali caratteri di volontarietà, superando l’antico
dogma della “signoria del volere”, e tendendo, a questo modo, verso una “oggettivazione” dello
scambio, ma ha, per altro verso, accentuato molto più che in passato l’elemento causale del
contratto, ed ha instaurato, con le clausole generali di meritevolezza dell’interesse perseguito (art.
1322), di equità contrattuale (art. 1374). La visione meramente quantitativa della circolazione, che
emerge dal superamento del dogma della volontà e del favore per la più sicura, rapida ed ampia
circolazione della ricchezza, trova così un correttivo nell’adozione dei principi ora ricordati, i quali
ristabiliscono, secondo un diverso aspetto, una considerazione qualitativa della circolazione,
permettendo al giudice di verificare la congruità causale del contratto, la giustificazione economica
dello scambio. Si segnalano, in questa prospettiva, le norme che, in tema di risoluzione e di
rescissione del contratto, pongono rimedio alla sproporzione fra le prestazioni, adottando quale
parametro i valori di mercato. La giurisprudenza ha poi proseguito l’opera del legislatore
introducendo, sulla base delle norme sull’equità quale fonte d’integrazione del contratto (art. 1374)
e della buona fede nella formazione (art. 1337), nell’interpretazione (art. 1366) e nell’esecuzione del
contratto, i concetti di giustizia e di equità del contratto: l’equità ex art. 1374 è così diventata equità
correttiva del contratto, da fare valere in sede d’interpretazione del testo contrattuale, e la
violazione del dovere di buona fede nella formazione del contratto è stata assunta come violazione
di norma imperativa, comportante la nullità del contratto o di sue clausole, mentre la violazione
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della buona fede nell’esecuzione è stata, volta a volta, assunta come inadempimento contrattuale,
implicante la risoluzione del contratto o l’invalidità dell’atto d’esecuzione, come il voto del socio in
assemblea esercitato con abuso del diritto o come il recesso inopinato dal contratto. La valutazione
qualitativa della circolazione, a ben guardare, solo apparentemente contraddice le esigenze di
rapidità e di sicurezza delle contrattazioni. In una corretta analisi economica del diritto la giustizia
contrattuale si rivela, essa stessa, un potente fattore di sviluppo: incrementa la fiducia dei
contraenti deboli, accresce la loro propensione a contrattare. L’oggettivazione dello scambio è, ben
s’intende, fenomeno di tendenza ed è una tendenza che coesiste con la protezione dell’autonomia
contrattuale, non già che la soppianta. Un’opera di sistemazione teorica della materia deve
ricercare nel sistema della legge il punto di equilibrio fra l’uno e l’altra, senza cedere ad apriorismi
o ad ideologismi, senza sovrapporre alle scelte legislative visioni personali dell’interprete. Un
significativo terreno sul quale si è manifestato il controllo giudiziario sulla funzione economica
dello scambio è quello al quale ci si riferisce con il nome di presupposizione. Questa è una causa di
risoluzione del contratto non prevista dalla legge, ma riconosciuta dalla giurisprudenza e consiste
in un presupposto oggettivo del contratto che le parti hanno avuto presente al momento della sua
conclusione, ma che non hanno menzionato nel contratto: al successivo venir meno di quel
presupposto viene ricollegata la possibilità, per il contraente che vi ha interesse, di ottenere dal
giudice la risoluzione del contratto. La presupposizione ha origine antica; aveva preso vita entro la
teoria del dogma della volontà, che le attribuiva rilevanza quale tacita condizione del consenso,
apparendo il mancato verificarsi dell’evento presupposto come alterazione della volontà, e non
potendo concepirsi un effetto giuridico che non corrispondesse all’effettiva volontà del contraente.
I casi intorno ai quali la giurisprudenza si è pronunciata sono di questo genere: un imprenditore
edile compera un terreno edificabile con l’intento, non dichiarato nel contratto, di utilizzarlo per la
costruzione, ma, a vendita conclusa, sopraggiunge una modificazione del piano regolatore
comunale che la vincola a “verde agricolo”. Il caso è diverso da quello dell’errore sui motivi: qui si
tratta non di erronea conoscenza della situazione presente al momento del contratto, ma di
sopravvenienza di una situazione diversa da quella allora esistente. Per molto tempo, la dottrina
ha negato valore giuridico alla presupposizione, adducendo che i motivi del contratto sono
irrilevanti per il diritto e che, per acquistare rilievo, debbono tradursi in una volontà contrattuale
condizionata, ossia in una condizione, sospensiva o risolutiva, apposta al contratto. L’opposta
soluzione, oggi accolta con maggiore frequenza, tende a basarsi sull’applicazione della clausola
generale di buona fede nell’esecuzione del contratto: si dà rilievo al fatto che l’evento sopraggiunto
ha prodotto un’alterazione funzionale della causa, rendendo non più giustificato lo scambio fra le
prestazioni contrattuali, che l’evento sopravvenuto ha reso non più equivalenti fra loro. La
possibilità d’invocare la presupposizione viene dalla giurisprudenza circondata da alcune
limitazioni. La situazione non deve presentare carattere d’incertezza, dovendo ritenersi altrimenti
che il contraente aveva accettato il rischio del successivo mutamento; deve essere comune ad
entrambi i contraenti o, comunque, percepibile dalla controparte. Non è sempre richiesto che il
contraente che invoca la presupposizione non abbia ancora eseguito la propria prestazione, sicché
la presupposizione appare invocata non solo per sottrarsi all’esecuzione della prestazione, ma
anche per ripetere la già eseguita prestazione. Il punto esige un chiarimento. La risoluzione per
eccessiva onerosità sopravvenuta può essere domandata dalla parte che non ha ancora eseguito la
prestazione divenuta eccessivamente onerosa. Altrettanto si deve dire per la presupposizione. La
presupposizione assume un diverso valore a seconda che abbia per oggetto una situazione
falsamente presupposta come esistente al momento della conclusione del contratto oppure
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riguardi il successivo mutamento della situazione originariamente presupposta. Nel primo caso il
contratto è nullo per mancanza di causa (della causa in concreto), non essendo in grado di
assolvere la funzione economico-sociale che gli è propria; nel secondo caso è, invece, affetto da un
vizio funzionale che ne determina la risoluzione.
CAP. 16°: IL DOVERE DI BUONA FEDE E L’ABUSO DEL DIRITTO
Alle norme che regolano la formazione e l’esecuzione del contratto si accompagnano altre norme,
le quali formulano un generale criterio di comportamento delle parti contraenti. Sono le norme
che impongono loro di comportarsi, l’una nei confronti dell’altra, secondo buona fede. “Buona
fede” altro non significa se non correttezza o lealtà. Ha un significato del tutto diverso dalla buona
fede di cui si parla in materia di possesso (possesso di buona fede) e nelle tante norme che, in
materia di invalidità del contratto, fanno salvi i diritti dei terzi di buona fede. Là buona fede indica
uno stato soggettivo: significa ignoranza di ledere l’altrui diritto (art. 1147); qui esprime un dovere;
il dovere delle parti contraenti di comportarsi con correttezza e lealtà. Per distinguere questo
concetto della buona fede come dovere di comportamento da quello come stato soggettivo si parla
comunemente di buona fede contrattuale o di buona fede oggettiva. Il dovere generale di buona
fede contrattuale ha la funzione di colmare le inevitabili lacune legislative: la legge, per analitica
che sia, non può prevedere tutte le possibili situazioni; essa prevede solo le situazioni più
frequenti, sventa gli abusi più ricorrenti: molti riprovevoli comportamenti sfuggirebbero alle pur
fitte maglie della legge, se si dovesse considerare permesso ogni comportamento che nessuna
norma vieta o solo facoltativo ogni comportamento che nessuna norma di legge rende
obbligatorio. Il principio generale della correttezza e della buona fede realizza la c.d. chiusura del
sistema legislativo: offre, cioè, criteri per colmare le lacune che questo può rivelare nella varietà e
molteplicità delle situazioni della vita economica e sociale.
Le regole, non scritte, della correttezza e della lealtà sono regole di costume: corrispondono a ciò
che un contraente di media correttezza o lealtà si sente in dovere di fare o di non fare; si dovrà
tenere conto del livello medio di correttezza di quel dato settore economico o sociale cui il
contratto si riferisce. Spetta, quindi, al giudice stabilire in concreto ciò che è secondo buona fede o è
contrario alla buona fede; ma il giudice non si avvale di un proprio concetto di correttezza o di
lealtà; egli deve tenere conto delle regole del costume, che possono essere molto più elastiche e
spregiudicate del suo personale concetto di correttezza. L’applicazione della clausola generale di
correttezza non è altro che propriamente diritto giurisprudenziale, ossia diritto che nasce dalla
considerazione dei casi concreti, ma non equivale a giustizia caso per caso. L’uso che la nostra
giurisprudenza ha fatto della clausola generale del danno ingiusto di cui all’art. 2043 mostra come
anche la giurisprudenza, non meno della legislazione, proceda per grandi tipizzazioni delle
fattispecie: essa ha creato la regula iuris per cui è danno ingiusto la lesione di un diritto assoluto,
poi quella per cui è tale la lesione di un diritto relativo, ora manifesta la tendenza a ravvisare
l’ingiustizia del danno nella lesione di un interesse meritevole di tutela.
Nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto il dovere di buona fede, assume,
innanzitutto, il carattere di un dovere di informazione di una parte nei confronti dell’altra:
ciascuna di esse ha il dovere di dare notizia delle circostanze che appaiono ignote all’altra e che
possono essere determinanti del suo consenso. Al dovere di informazione si collega la figura della
reticenza: la violazione del dovere di informazione può dare luogo, se ad essa segue il contratto, ad
un’azione di annullamento per dolo omissivo. L’omessa informazione può però assumere rilievo
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indipendentemente dall’annullamento del contratto: lo si è ritenuto per l’ipotesi in cui il
committente abbia omesso di informare l’appaltatore su circostanze che rendono notevolmente più
onerosa la sua prestazione. Un’ipotesi fortemente tipizzata dalla giurisprudenza è quella del
recesso senza giusta causa dalle trattative precontrattuali. Si considera contraria alla buona fede
un’improvvisa ed ingiustificata rottura delle trattative, intervenuta nel momento in cui l’altra parte
aveva motivo di fare affidamento sulla futura conclusione del contratto ed aveva, perciò, effettuato
delle spese per far fronte all’adempimento delle obbligazioni contrattuali o aveva rinunciato ad
altri contratti. Le principali regole giurisprudenziali che governano la materia sono le seguenti:
occorre che le parti abbiano preso in considerazione gli elementi essenziali del contratto che si
propongono o sperano di stipulare; è irrilevante l’eventuale breve durata od il numero minimo
degli incontri intervenuti tra le parti, ove l’interruzione ad opera di una delle parti risulti priva di
ogni ragione giustificativa e tale perciò da sacrificare il legittimo affidamento che la controparte
poteva avere fatto sulla conclusione del contratto; non c’è giusta causa di recesso se il recedente
adduce circostanze già note all’inizio della trattativa o conoscibili con l’ordinaria diligenza; c’è
giusta causa di recesso se una parte si avvede di essere stata indotta alla trattativa dal dolo
dell’altra parte che aveva già alienato a terzi lo stesso bene; non c’è giusta causa di recesso da parte
della pubblica amministrazione se questa, dopo avere invitato la controparte privata a dare inizio
all’esecuzione della prestazione in attesa delle autorizzazioni amministrative alla conclusione del
contratto, recede dalla trattativa per una ragione diversa dal mancato ottenimento delle
autorizzazioni. Chi, violando il dovere di buona fede nelle trattative contrattuali, ha cagionato un
danno all’altra parte è tenuto a risarcirlo (c.d. responsabilità precontrattuale): la fonte di tale
responsabilità viene dalla giurisprudenza identificata in un fatto illecito che ha preceduto o
accompagnato la formazione del contratto. È, perciò, considerata una forma di responsabilità
aquiliana, regolata dalle norme a questa relative, inclusa quella di cui all’art. 2947, concernente il
termine di prescrizione dell’azione. Un punto è certo: se il contratto non è concluso per
l’ingiustificata rottura delle trattative, la misura del danno risarcibile si determina con il criterio
dell’interesse contrattuale negativo ed il lucro cessante consisterà nel danno per le occasioni
perdute, non già nel danno conseguente alla lesione dell’interesse contrattuale positivo, consistente
nel guadagno che al contraente è mancato per la mancata conclusione del contratto. Se, invece, il
contratto è concluso e la sua conclusione è stata viziata dalla mancata informazione di un
contraente nei confronti dell’altro, allora il danno risarcibile non sarà la lesione dell’interesse
contrattuale negativo ed il risarcimento del danno sarà commisurato all’interesse contrattuale
positivo. Controvertibile è, tuttavia, il titolo della responsabilità.
Alla giurisprudenza sembra difficile concepire una responsabilità contrattuale che non derivi
dall’inadempimento di obbligazioni nascenti da un già concluso contratto, ma la responsabilità che
si suole definire contrattuale è, in realtà, la responsabilità nascente dall’inadempimento di
un’obbligazione (art. 1218), quale che sia la fonte, contrattuale o non contrattuale, dalla quale
l’obbligazione inadempiuta derivi. Qui c’è appunto un’obbligazione inadempiuta: quella che trova
la propria fonte nel fatto giuridico dell’instaurazione, fra le parti, di una trattativa precontrattuale e
che ha per oggetto il comportamento secondo buona fede di ciascuna di esse. Diversa è l’ipotesi in
cui la trattativa sia stata preceduta da un programma contrattuale, che è già di per sé un contratto:
in tal caso, il comportamento delle parti in pendenza della trattativa potrà essere valutato come
esecuzione di un contratto e la rottura ingiustificata della trattativa equivarrà ad un vero e proprio
inadempimento contrattuale. Per determinare l’entità del danno risarcibile non basterà fare capo al
concetto di interesse contrattuale negativo, che presuppone la violazione della semplice buona
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fede precontrattuale, ma bisognerà avere riguardo all’interesse contrattuale positivo, da
determinare secondo il criterio equitativo di cui all’art. 1126. Un ragionevole criterio di
determinazione sarà quello basato sul grado di probabilità che la trattativa, considerato il punto in
cui era pervenuta e l’importanza delle clausole già concordate, sarebbe pervenuta alla sua
conclusione; in pari misura sarà determinato l’interesse contrattuale positivo risarcibile. Una
specifica ipotesi di responsabilità precontrattuale è prevista dall’art. 1338: la parte che, conoscendo,
o dovendo conoscere con l’uso dell’ordinaria diligenza, l’esistenza di una causa di invalidità del
contratto non ne dà notizia all’altra, è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere
confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto. L’altra parte potrà sì ottenere
l’annullamento del contratto, con la restituzione della prestazione eventualmente eseguita, ma ciò
può non avere interamente eliminato il danno da essa subito: può esserci l’interesse contrattuale
negativo, quale danno emergente, consistente nelle spese sostenute, e quale lucro cessante,
derivante dalle occasioni perdute. L’altra parte, se prova di avere subito questo danno, ha diritto di
esserne risarcita. Null’altro che un’applicazione di questa regola è la responsabilità del falsus
procurator.
Oltre che come fonte di responsabilità precontrattuale, la buona fede nella formazione del
contratto agisce anche sul piano della validità del contratto: secondo l’art. 33 del codice del
consumo è nulla la clausola che determina un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi
derivanti dal contratto, denotando la violazione, da parte del professionista, del dovere di buona
fede nella formazione del contratto. La norma può considerarsi applicazione di un più generale
principio: il contraente che, facendo valere la propria maggiore forza contrattuale, imponga
clausole tali da provocare un sensibile squilibrio fra le prestazioni contrattuali pone in essere una
clausola nulla, imposta in violazione dell’art. 1337 e, perciò, affetta da nullità per violazione di
norma imperativa (artt. 1418 e 1419). La nullità della clausola contrattuale per violazione del
canone della buona fede nella formazione del contratto ha trovato anche applicazioni
giurisprudenziali: è stata dichiarata la nullità, per violazione dell’art. 1337, della clausola del
contratto di leasing che attui l’inversione del rischio fra i contraenti, facendo gravare
sull’utilizzatore il rischio della mancata consegna della cosa del contratto. La norma che impone
alle parti di eseguire il contratto secondo buona fede è comunemente considerata una norma che
concorre a formare il contenuto legale del contratto, a norma dell’art. 1374, sicché la violazione del
dovere di esecuzione secondo buona fede è violazione del contratto, inadempimento contrattuale,
idoneo di per sé solo a giustificare, ove s rilevi di non scarsa importanza per l’altra parte, la
risoluzione del contratto per inadempimento. Due specifiche applicazioni di legge della buona
fede nell’esecuzione vanno solo richiamate: a) l’obbligo di comportarsi seconda buona fede in
pendenza della condizione, per conservare integre le ragioni dell’altra parte (art. 1358), ossia
custodendo con diligenza la cosa che sia stata alienata sotto condizione sospensiva o acquistata
sotto condizione risolutiva; b) il divieto di rifiutare la propria prestazione, avvalendosi
dell’eccezione d’inadempimento, se il rifiuto è contrario alla buona fede (art. 1460). Oltre questa
duplice tipizzazione legislativa, c’è l’ormai vasta casistica giurisprudenziale, quanto mai
molteplice e varia. In sede generale possono indicarsi queste tre categorie: c) la buona fede
nell’esecuzione del contratto implica il dovere di ciascuna parte di realizzare l’interesse
contrattuale dell’altra o di evitare di recarle danno, anche con l’adempimento di obblighi non
previsti dalla legge o dal contratto, come l’obbligo di prestazioni accessorie rispetto a quelle
contrattuali; d) la buona fede nell’esecuzione del contratto importa l’obbligo d’informazione su
circostanze sopraggiunte che la controparte non è in grado di conoscere. Così se la prestazione di
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una parte sta per diventare temporaneamente o definitivamente impossibile, la parte dovrà darne
pronta notizia all’altra, per consentirle di procurarsi altrimenti la prestazione o, comunque, di
attrezzarsi in modo da non subire danno; e) la violazione del dovere di buona fede nell’esecuzione
del contratto può anche configurarsi come abuso del diritto: accade quando un contraente esercita
verso l’altro i diritti che gli derivano dalla legge o dal contratto per realizzare uno scopo diverso da
quello cui questi diritti sono preordinati.
Un caso frequente, si manifesta nella società per azioni: la maggioranza delibera un aumento di
capitale al solo scopo di liberarsi di una scomoda minoranza, sapendo che questa non sarà in
grado di sottoscrivere le azioni di nuova emissione. In casi di questo genere la giurisprudenza
aveva in passato fatto ricorso analogico alla figura dell’eccesso di potere, attinta dal diritto
amministrativo; ora, s’esprime, invece, in termini di violazione della buona fede nell’esecuzione
del contratto e di abuso del diritto. Altro caso si è manifestato in relazione al recesso ad nutum dal
contratto di apertura di credito. Qui viene in considerazione il recesso del contratto, qual diritto
potestativo del contraente di sciogliere con unilaterale atto di volontà il vincolo contrattuale.
Quando per l’efficacia del recesso non è richiesta una giusta causa e si tratta, perciò, di recesso ad
nutum, l’effetto estintivo del vincolo contrattuale dovrebbe, a rigore, prodursi per mera volontà del
recedente. Ma anche a questo riguardo si è finito con il fare applicazione dell’art. 1375, essendo ad
nutum atto di esecuzione del contratto dal quale si recede. La violazione del dovere di buona fede
comporta, di regola, l’obbligazione di risarcire il danno che si è cagionato alla controparte, ma può
anche comportare conseguenze diverse, valutabili come una sorta di esecuzione in forma specifica
del dovere di buona fede. Così può comportare, se la violazione della buona fede riveste il dovuto
carattere di gravità, la risoluzione del contratto per inadempimento; comporta, se il recesso della
banca è stato arbitrario, la reiezione della domanda di rientro delle somme anticipate al cliente, e
comporta, se si prova che la maggioranza ha abusato del diritto di voto, l’invalidità della
deliberazione assembleare di aumento del capitale sociale. Ulteriore rimedio diverso dall’azione di
danni è quello che va sotto il nome dell’exceptio (e della replicatio) doli generalis, invocabile quando
l’altrui pretesa (o eccezione) si manifesti, in quanto contraria ai principi della buona fede o della
correttezza, come doloso esercizio di un diritto: esso è diretto a provocare la reiezione dell’altrui
pretesa od eccezione. Per diritto romano l’exceptio (o la replicatio) doli era rimedio generale,
suscettibile di sventare ogni forma di abuso del diritto, sue moderne applicazioni legislative sono,
in materia di titoli di credito, gli artt. 1993 cod. civ., 21 legge cambiale e 25 legge assegno, in
materia di società, l’art. 2384. Al dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto si ricollega
anche il tema della rinegoziazione contrattuale nei contratti a lunga scadenza, ossia destinati ad avere
esecuzione per un lasso di tempo, nel corso del quale possono determinarsi mutamenti profondi
nelle situazioni di fatto sussistenti al momento della conclusione del contratto. Possono darsi due
ipotesi: a) che lo stesso contratto preveda l’obbligo delle parti di rinegoziare il contratto o singole
clausole nell’eventualità che si verifichino determinati eventi o, più semplicemente, al
raggiungimento di determinate scadenze; b) che nessuna clausola in tal senso figuri nel contratto e
che, ciò non di meno, nel corso dell’esecuzione del contratto si verifichino eventi tali da modificare
sensibilmente le situazioni di fatto sulla base delle quali i contraenti avevano determinato il
contenuto contrattuale. Nel primo caso viene in considerazione il rifiuto del contraente di prestarsi
alla rinegoziazione contrattualmente pattuita o viene in considerazione la c.d. trattativa maliziosa,
condotta dal contraente al solo scopo di creare le sembianze esteriori di una negoziazione pur
nell’intento di non pervenire ad alcun accordo. Si sarà in presenza, in tal caso, di un
inadempimento contrattuale, che potrà giustificare la domanda giudiziale di controparte di
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risoluzione del contratto per inadempimento. Nel secondo caso il rifiuto ingiustificato di
rinegoziare potrà essere valutato come violazione del dovere, imposto dall’art. 1375, di eseguire il
contratto secondo buona fede, ed alla stessa valutazione potrà prestarsi la trattativa rivelatasi
maliziosa. Anche in questo caso la violazione del dovere di buona fede potrà integrare gli estremi
dell’inadempimento contrattuale, tali da giustificare la risoluzione del contratto.
Il principio di buona fede ha ricevuto intensive applicazioni giurisprudenziali in relazione al
contratto di lavoro. Una prima decisione delle sezioni unite, da più parti giudicata “fondamentale”,
ha istituito un controllo giudiziario sulla discrezionalità del datore di lavoro in materia di
promozione dei dipendenti, con conseguente pronuncia d’invalidità dell’atto adottato in
violazione del dovere di buona fede. Alla buona fede nella formazione del contratto, anziché nella
sua esecuzione, si ricollegano poi le sentenze che ammettono un sindacato giudiziario sui concorsi
per l’assunzione di dipendenti. Ancora alla buona fede nell’esecuzione del contratto si riconduce il
controllo giudiziario “sull’esercizio del potere conferito al datore di lavoro nell’attribuzione delle
note di qualifica, soggetto al sindacato giurisdizionale al fine di verificare se, per l’iniquità o
l’intento discriminatorio del giudizio adottato, vi sia stata violazione della correttezza e buona fede
nell’esecuzione del contratto di lavoro”m e, soprattutto, nella scelta dei lavoratori da collocare in
cassa integrazione guadagni, oltre che in sede di trasferimento dei lavoratori. Particolare
significato sembra assumere la giurisprudenza che ammette il riesame, secondo il criterio della
buona fede, del licenziamento del lavoratore: qui il dovere di buona fede è inteso come dovere di
“non perseguire intenti discriminatori e di non scegliere sulla base di motivi irragionevoli, in
quanto non inerenti al dipendente nella sua specifica qualità di lavoratore”. Va considerato che la
giurisprudenza lavoristica è mossa da ben specifiche esigenze di tutela del lavoratore. La
protezione del lavoratore va oltre la protezione del contraente in quanto tale: attiene alla
protezione di un diritto fondamentale, garantito dalla Costituzione (artt. 4, 36), e di un diritto che
non si è mancato d’iscrivere nel catalogo dei diritti dell’uomo. La stessa nostra giurisprudenza
lavoristica si astiene dall’applicare al rapporto di lavoro il dovere di buona fede quando la sua
applicazione andrebbe a danno, anziché a vantaggio, del lavoratore, come emerge dalla singolare
massima secondo la quale “ai fini della valutazione sulla legittimità delle forme c.d. anomale di
sciopero non è fondato il ricorso agli artt. 1175 e 1375 cod. civ., in quanto il dovere di correttezza
attiene alla fase esecutiva del contratto di lavoro, non invece alla sospensione del rapporto quale si
verifica in caso di sciopero”. Altra rilevante applicazione riguarda il contratto di società per azioni.
La giurisprudenza inglese ripete, dal principio del secolo, la massima secondo la quale il voto deve
essere esercitato dall’azionista “bona fide nell’interesse dell’intera società”; una variante di questa
massima è quella secondo la quale il giudice può annullare “una deliberazione che sia tale che
nessuna persona ragionevole potrebbe considerarla utile per la società”. Questa forma di controllo
giudiziario del voto è largamente ammessa anche dalla nostra giurisprudenza: essa conduce
all’annullamento della deliberazione presa con abuso del diritto di voto. In materia di vendita il
dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto è stato tradotto nell’obbligo del venditore di
non vendere a terzi prima che il compratore non abbia, con la trascrizione dell’atto, reso
opponibile l’acquisto. Il dovere di buona fede nell’esecuzione del contratto ha trovato estesa
applicazione in materia di fideiussione: qui la giurisprudenza ha imposto alla banca di osservare
nei confronti del fideiussore le regole della correttezza e della buona fede, pena “l’inefficacia del
vincolo”; la premessa è “il carattere non meramente potestativo della facoltà della banca di
allargare il credito garantito con operazioni successive, regolate da un calcolo di convenienza e non
affidate a mero arbitrio”.
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CAP. 17°: GLI ATTI UNILATERALI FRA VIVI AVENTI CONTENUTO PATRIMONIALE
La categoria trova considerazione generale nell’art. 1324, che sottopone alle norme sui contratti, in
quanto compatibili, gli atti unilaterali fra vivi, aventi contenuto patrimoniale. Essa è tutt’altro che
omogenea: comprende sia atti di disposizione patrimoniale che, come l’atto di fondazione,
imprimono sulle cose un vincolo perpetuo di destinazione ad un dato scopo, sia atti che, come la
promessa di pagamento, producono il limitato effetto di invertire l’onere della prova circa
l’esistenza di un rapporto obbligatorio. Tale categoria, inoltre, è concettualmente più vasta di
quella del contratto, essendo l’art. 1324 comunemente giudicato applicabile tanto alle dichiarazioni
unilaterali di volontà quanto alle dichiarazioni di scienza ed alle comunicazioni o partecipazioni.
Gli atti unilaterali di volontà possono, a loro volta, essere definiti e classificati sulla scorta dell’art.
1321: ricorrono tutte le volte che la costituzione o regolazione o l’estinzione di un rapporto
giuridico patrimoniale non richieda l’accordo di tutte la parti del rapporto da costituire, regolare o
estinguere, ma è prodotta dalla dichiarazione unilaterale di una o più parti soltanto, di per sé
sufficienti a costituire, regolare o estinguere un rapporto che investe anche altre parti. Ancora sulla
traccia dell’art. 1321 gli atti unilaterali di volontà possono essere così classificati:
a) Atti unilaterali diretti a costituire rapporti giuridici patrimoniali (es. promessa al pubblico, art.
1989);
b) Atti unilaterali diretti a regolare rapporti giuridici patrimoniali. È la categoria più vasta ed
eterogenea; una sottoclassificazione permette di distinguere tra: atti unilaterali attuativi di
preesistenti rapporti già intercorrenti fra le parti (es. istruzioni del mandante al mandatario, art.
1711); atti unilaterali dichiarativi di preesistenti rapporti già intervenuti fra le parti (es. promessa
di pagamento, art. 1988); atti unilaterali modificativi di preesistenti rapporti fra le parti (es. offerta
di rettifica del contratto annullabile, art. 1432) ed atti unilaterali con effetto sanante (es. convalida
del contratto annullabile, art. 1444).
c) Atti unilaterali diretti ad estinguere rapporti giuridici patrimoniali (es. recesso unilaterale, art.
1373).
La distinzione fra contratti con effetti reali e contratti con effetti obbligatori ha riscontro in materia
di atti unilaterali di volontà, anche se solo l’art. 1173 menziona, fra le fonti di obbligazioni, gli atti,
oltre ai contratti, mentre l’art. 922 non li menziona fra i modi di acquisto della proprietà, pur
facendo generico riferimento agli “altri modi stabiliti dalla legge”. Possiamo, infatti, distinguere
fra: d) atti unilaterali produttivi di effetti reali (es. atto di fondazione); e) atti unilaterali produttivi
di effetti obbligatori (es. promesse unilaterali, come la ricognizione del debito e la promessa di
pagamento). La dottrina dubita che in quest’ultimo caso si possa effettivamente parlare di fonti di
obbligazioni: la promessa di pagare una somma di denaro o il riconoscimento di un debito non
varrebbe, di per sé, a costituire un rapporto obbligatorio, avente per oggetto il pagamento della
somma promessa o l’adempimento del debito riconosciuto; costituirebbe solo, a favore del
destinatario della promessa o della ricognizione, un mezzo di prova circa l’esistenza di
un’obbligazione che trova altrove la propria fonte (es. un preesistente contratto). Bisogna però
considerare che la qualificazione legislativa della promessa di pagamento e della ricognizione di
debito, quali atti di volontà, fonti di obbligazione, anziché quali dichiarazioni di scienza con natura
di semplice prova, non è priva di conseguenze giuridiche di rilievo. Il promittente può sì
neutralizzare la pretesa del promissario eccependo la mancanza del rapporto fondamentale;
tuttavia, se non può o non vuole provarne la mancanza, egli è obbligato ex promissa ed il suo
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inadempimento è inadempimento dell’obbligazione ex promissa, sottoposto alle medesime regole
della responsabilità contrattuale: il promissario non dovrà provare la colpa del promittente ai sensi
dell’art. 1218. Sulla circolazione del credito ex promissa si basa l’atipica figura dei commercial
papers: alla promessa è abbinata una garanzia bancaria a prima richiesta, di modo che il
cessionario del credito ottiene sempre il pagamento (se non dal debitore, che può opporre la
mancanza del rapporto fondamentale, dalla banca garante, che non può opporla). La circolazione
dei crediti ex promissa è poi la base su cui si regge la teoria del titolo di credito e del titolo
cambiario in particolare: la dichiarazione cartolare altro non è se non promessa unilaterale di
pagamento nel senso dell’art. 1988 e l’eccezione di mancanza del rapporto fondamentale è dal
debitore cartolare opponibile al suo diretto promissario quale eccezione a lui personale (art. 1993).
Egli non potrà opporla ai successivi portatori del titolo, ma per la semplice ragione che il titolo di
credito circola secondo la legge di circolazione delle cose mobili; onde gli aventi causa del
promissario, avendo acquistato a titolo originario la proprietà del titolo (art. 1994), hanno a titolo
originario acquistato la titolarità del credito. Indiscussa fonte di obbligazione è la promessa al
pubblico (art. 1989): è la dichiarazione di chi, rivolgendosi al pubblico, promette una prestazione a
chi si trova in una data situazione o compie una data azione; il promittente è vincolato dalla sua
unilaterale dichiarazione non appena questa è resa pubblica (es. persona che promette una somma
a chi gli riporterà un oggetto smarrito). Un’ipotesi diffusa di promessa al pubblico è la c.d. vendita
a premi, normalmente associata alla raccolta di figurine collocate in prodotti industriali (il
fabbricante di prodotti industriali, al fine di incrementare le vendite, promette in premio un
oggetto al compratore dei suoi prodotti che vi avrà trovato una figurina). Ipotesi diversa, anche se
il fine è lo stesso, è quella della vendita con buoni sconto: il compratore del prodotto può trovarvi
un buono che gli attribuisce il diritto di comprare con uno sconto sul prezzo una nuova unità del
prodotto. Si tratta in questo caso di offerta contrattuale al pubblico: è proposta di comperare quel
dato prodotto a condizione di favore, rivolta a chi si dimostra possessore del buono sconto. Il
promittente è vincolato per un anno, salvo che alla promessa non sia apposto un termine diverso
(art. 1989); finché il termine non è scaduto, il promittente può revocare la promessa solo per giusta
causa e solo rendendo pubblica la revoca nella stessa forma o con forma equivalente alla promessa
(art. 1990).
Ulteriori figure di atti unilaterali non appaiono equiparabili al contratto, in quanto non diretti a
costituire, regolare o estinguere rapporti giuridici patrimoniali. Sono atti per la loro stessa natura
unilaterali: f) l’accettazione dell’eredità (art. 459), la rinuncia dell’eredità (artt. 519 ss.), ma non la
revoca della rinuncia (art. 525), la rinuncia al legato (artt. 649 ss.) e gli atti unilaterali di rifiuto; g)
atti unilaterali di consenso al fatto giuridico altrui (es. consenso dei creditori alla trasformazione
della società, art. 2500 novies). Altro criterio di classificazione degli atti unilaterali distingue tra: h)
Atti unilaterali recettizi: producono effetti dal momento in cui sono portati a conoscenza della
persona alla quale sono destinati, art. 1334; secondo la definizione dell’art. 1414, sono gli atti
destinati ad una persona determinata. Per essi (es. costituzione in mora) vale, come per la proposta
e per l’accettazione contrattuale, la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335, nel senso che si
reputano conosciuti nel momento in cui giungono all’indirizzo del destinatario, se questi non
prova di essere stato, senza sua colpa, nell’impossibilità di averne notizia. Gli stati soggettivi del
destinatario sono del tutto irrilevanti: l’atto produce i suoi effetti, se portato a conoscenza del
destinatario nei modi di legge, anche nel caso in cui il destinatario non fosse, per propria
incapacità naturale, il grado di apprezzarne il significato.
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i)Atti unilaterali non recettizi: sono gli atti unilaterali non rivolti a destinatario determinato e, di
conseguenza, produttivi di effetti indipendentemente dalla loro comunicazione, come nel caso
della promessa al pubblico. Per risolvere i casi dubbi si è suggerito il criterio che considera
necessariamente recettizi gli atti unilaterali diretti a provocare effetti dannosi per altri: essi, per
produrre tali effetti, non possono prescindere dalla comunicazione a coloro che sono destinati a
subirli.
Gli atti unilaterali non trovano nel codice una disciplina specifica; la ritrovano solo nelle norme sui
contratti in quanto risultino con essi compatibili e sempre che si tratti di atti unilaterali tra vivi
aventi contenuto patrimoniale (art. 1324). Una volta risolto positivamente il giudizio di
compatibilità, le norme sui contratti sono applicare agli atti unilaterali direttamente, non per
analogia. Quest’applicazione è fatta con una certa larghezza dalla giurisprudenza. I generali criteri
che possono orientare l’interprete in sede di formulazione del giudizio di compatibilità possono
essere desunti dallo stesso codice: l’art. 428, ad esempio, ammette l’annullabilità dell’atto
dell’incapace naturale, ma distingue fra atto e contratto quanto alle condizioni per l’annullamento
del primo e del secondo. In linea di massima i criteri saranno: sono compatibili le norme che non
presuppongono la bilateralità (o pluralità dell’atto), come le norme sul contratto condizionato e
quelle che regolano la ratifica del contratto concluso dal falsus procurator; sono incompatibili le
norme che questa bilateralità (o plurilateralità) presuppongono, come le norme che
presuppongono il concorso di più soggetti alla formazione del contenuto contrattuale.
Promesse unilaterali e lettera di patronage
Per i contratti vige la norma (art. 1322) che consente alle parti di creare contratti atipici; per gli le
promesse unilaterali vige opposta norma: ai sensi dell’art. 1987 “la promessa unilaterale di una
prestazione non produce effetti obbligatori fuori dei casi ammessi dalla legge”. Tale norma ha
sollevato due problemi: se essa davvero imponga un principio di tipicità delle promesse
unilaterali; se ammesso che questo principio viga per le promesse, la regola dell’art. 1322 non
debba avere il sopravvento per gli altri atti unilaterali diversi dalle promesse. Al primo
interrogativo si dà risposta affermativa: che promesse unilaterali siano ammissibili solo nei casi
previsti dalla legge è valutazione ricorrente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza. In tempi
recenti, tuttavia, ha trovato un certo seguito la tesi favorevole al riconoscimento di una maggiore
autonomia privata in fatto di promesse unilaterali, soprattutto con riferimento alla promessa
unilaterale avente ad oggetto una prestazione di fare. La lettura tradizionale dell’art. 1987 è da
condividere. La tesi innovativa poggia su un sottile distinguo: l’art. 1987 farebbe riferimento alle
nude promesse, decretando l’inammissibilità di atipiche promesse astratte, ma non sarebbe
d’ostacolo alla validità di promesse atipiche causali, che risultino cioè dirette a realizzare interessi
meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. L’obiezione risulta non da ciò che l’art. 1987
vieta, ma da ciò che esso ammette: non lo si può leggere nel senso che, nei casi previsti dalla legge,
una promessa unilaterale astratta produce effetti obbligatori; e non si può per la semplice ragione
che il nostro sistema è retto dal principio di causalità e che nessuna obbligazione da dichiarazione
astratta risulta ammissibile. L’eccezione alla regola solitamente indicata, quella della dichiarazione
cartolare, non è affatto tale: la promessa cambiaria non è astratta promessa in incertam personam,
ma promessa di pagamento a persona determinata nei termini dell’art. 1988; l’inopponibilità delle
eccezioni ex causa agli aventi causa del promissario non deriva dall’astrattezza di tale promessa,
bensì dall’acquisto a titolo originario del credito del promissario, a sua volta conseguente
all’acquisto a titolo originario del titolo che menziona il credito. Ne consegue che l’art. 1987 non
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può essere letto come norma che ammette, nei casi eccezionali previsti dalla legge, una promessa
astratta, ma va letto come norma che circoscrive ai casi tipici, espressamente previsti dalla legge, la
validità di promesse unilaterali, siano esse promesse causali (es. promessa al pubblico) oppure
promesse solo processualmente astratte (es. promessa di pagamento). Un ulteriore argomento, che
è poi alla radice dell’art. 1987, come risulta dai lavori preparatori, emerge dalla risposta al secondo
quesito: se il principio di tipicità valga per tutti gli atti unilaterali o solo per le promesse, cui fa
esclusivo riferimento l’art. 1987. E’ stato detto che questa norma, facendo eccezione al generale
principio dell’autonomia privata, non può essere estesa a tutti gli altri atti unilaterali, diversi dalle
promesse. Si deve però precisare che l’art. 1987 non si riferisce solo agli atti contemplati nel titolo
quarto del libro delle obbligazioni e che, ai sensi degli artt. 14 e 15 del libro primo, il regolamento
della fondazione comprende indubbiamente la possibilità che essa sorga da una promessa
unilaterale obbligatoria, soggetta alla particolare normativa dettata riguardo alla revoca. Ne deriva
la necessaria operatività dell’art. 1987 per tutti gli atti unilaterali. Un sistema come il nostro, basato
sulla causalità del contratto, non può tollerare l’atomizzazione degli elementi costitutivi di questo,
la quale spezzerebbe il rapporto di corrispettività fra le due operazioni: finirebbe con l’assecondare
la prepotenza della parte più forte, la quale avrebbe tutto l’interesse a frantumare un contratto
tipico in due o più atti unilaterali atipici, aventi ad oggetto, ciascuno, una prestazione non legata
alle altre, con il vantaggio di rendere del tutto discrezionale il se ed il quando del proprio
adempimento. Dal confronto fra l’art. 1322 e l’art. 1987 emerge, quindi, come la contrattualità sia la
regola nel nostro sistema, mentre l’unilateralità è circoscritta a fattispecie tipiche, sulla cui
meritevolezza di tutela si è storicamente consolidato un sicuro giudizio.
Una linea molto sottile sembra separare il contratto con obbligazioni per il solo proponente (art.
1333), cui sono normalmente sottoposte la fideiussione e la promessa del fatto del terzo, dall’atto
unilaterale soggetto al rifiuto del destinatario, quale è la remissione del debito. È una linea che può
scomparire agli occhi di chi si limiti a considerare la modalità di formazione del vincolo. Quella
linea di demarcazione rivela, tuttavia, tutto il suo spessore se si guarda oltre il momento
perfezionativo del vincolo: dall’essere questo un vincolo contrattuale, quantunque formato a
norma dell’art. 1333, deriva la sua soggezione indiscriminata a tutte le norme regolatrici dei
contratti, mentre all’atto unilaterale si applicano le norme sui contratti che siano compatibili con la
sua unilateralità, ossia con l’assenza di un soggetto definibile come “l’altro contraente”.
Soprattutto vale la considerazione che l’accettazione desumibile dal silenzio a norma dell’art. 1333
è, in quanto tacita espressione di volontà, sottoposta alle norme sull’incapacità e sui vizi del
consenso del tacito accettante.
Il principio di tipicità riguarda le dichiarazioni di volontà, quali fonti di obbligazione o quali atti
produttivi di effetti reali. Non riguarda le dichiarazioni di scienza, né si riferisce alle partecipazioni
ed alle comunicazioni. In questa materia l’autonomia privata può estrinsecare tutta la propria
creatività ed un esemplare significativo è la c.d. lettera di patronage. Secondo lo schema più
frequentemente utilizzato, una società che è a capo di un gruppo invia alla banca, dalla quale una
delle società del gruppo aspira ad avere un finanziamento, una lettera nella quale dichiara: di
possedere una partecipazione di controllo sulla società da finanziare; che controllerà che questa
adempia regolarmente le obbligazioni di restituzione oppure che eserciterà la propria influenza
affinché ciò accada; che non cederà la propria partecipazione di controllo fino a quando il debito
non sarà stato estinto oppure che comunicherà tempestivamente l’eventuale cessione della propria
partecipazione di controllo. Una simile dichiarazione non è fideiussione, dal momento che manca
l’espressa volontà di assumere l’obbligazione fideiussoria richiesta dall’art. 1937; neppure si tratta
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di mandato di credito, giacché la banca non si obbliga verso la capogruppo a fare credito alla
controllata (art. 1958). L’esclusione di una responsabilità contrattuale della capogruppo è, anzi, il
tratto saliente del patronage, la cui funzione è di mutare il titolo di responsabilità: da
responsabilità contrattuale, come sarebbe nel caso di assunzione di obbligazione fideiussoria, in
responsabilità extracontrattuale. Questo mutamento del titolo della responsabilità corrisponde alla
precisa intenzione delle parti: della controllante, da un lato, che vuole evitare di iscrivere in
bilancio, appesantendone il passivo, obbligazioni fideiussorie; della banca, dall’altro, che trova
accresciute possibilità di impiego delle proprie disponibilità senza pregiudizio delle proprie
ragioni, giacché sa di poter contare, sia pure a titolo di responsabilità extracontrattuale, sul
patrimonio della controllante. Si parla, a volte, di patronage forte: la società madre dichiara che
manterrà la controllata in condizioni di solvibilità (c.d. dichiarazione di solvibilità) e che non
pregiudicherà l’attuale situazione finanziaria della controllata (c.d. dichiarazione di divieto di
svuotamento). Il patronage forte espone, pur sempre, a responsabilità extracontrattuale: la
controllante sarà chiamata a rispondere a titolo di concorso colposo nell’inadempimento della
controllata, non avendola posta in grado di adempiere alla propria obbligazione. Non è mancato
un giudice di merito che nella lettera di patronage ha ravvisato una promessa unilaterale: la
capogruppo non promette l’adempimento della controllata, ma promette il fatto proprio (es.
esercizio della propria influenza) e risponde per inadempimento della promessa (art. 1218) se il
fatto promesso non si avvera. Questa qualificazione è errata: con il patronage la capogruppo non
dichiara una volontà, ma effettua una comunicazione; non promette di fare, ma comunica ciò che
si ripromette di fare, generando affidamento della banca, tutelabile ex art. 2043. Opportunamente,
la Cassazione ha distinto tra patronage informativo e patronage impegnativo e ricollegato solo al
secondo effetti obbligatori in capo al dichiarante, anche se in questo secondo caso non si tratta di
un vero e proprio patronage, per sua natura solo informativo, bensì di fideiussione.
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