Il Pranzo di Babette Titolo originale: Babette`s Feast. Regia: Gabriel

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Il Pranzo di Babette Titolo originale: Babette`s Feast. Regia: Gabriel
Il Pranzo di Babette
Titolo originale: Babette’s Feast.
Regia: Gabriel Axel.
Soggetto: da un racconto di Karen Blixen
Sceneggiatura: Annemarie Aaes.
Fotografia: (colore) Bierger Bohm.
Montaggio: Gabriel Axel.
Musica: Kobenhavns Kammertrio.
Produzione: Danimarca, 1987, Just Betzer.
Durata: 100’.
Interpreti: Stéphane Audran (Babette), Birgitte Federspiel (Martina), Bodil Kjer
(Filippa).Premi: Oscar 1987, miglior film straniero.
Danimarca, costiera dello Jutland, 1883. In un piccolo paese vive una setta protestante, di
pochi membri e rigidissimi costumi. A guidarla sono le figlie ormai anziane del pastore
fondatore, Martina e Filippa. Da giovani erano state di una bellezza radiosa, ma il padre aveva
sempre rspinto ogni corteggiatore. Tra questi, il giovane ufficiale Löwenhielm che, dovendo
rinunciare a Martina, si era dedicato esclusivamente alla carriera. Stessa sorte era toccata a
Papin, celebre tenore francese, conquistato dalla voce sublime di Filippa, ma messo alla porta
dall’austero genitore. Dopo i tragici fatti della Comune di Parigi, Martina e Filippa avevano
accolto come governante una profuga francese, Babette Hersant. In occasione del centenario
della nascita del Pastore, Babette decide di impiegare i diecimila franchi vinti alla lotteria per
offrire alla comunità “un vrai diner français”, preparato con l’abilità e la classe della
grande chef che era stata un tempo, a Parigi.
· Nel dono di sé che Babette compie imbandendo una cena squisita, quali significati possiamo
richiamare? Si può riconoscere, in filigrana, l’offerta di Gesù nell’ultima cena?
· Quali sono i dettagli che caratterizzano lo stile di Babette a servizio presso Martina e
Filippa?
· Quali aspetti evidenzia il regista, durante e dopo la cena, per sottolineare il cambiamento
interiore dei membri della comunità?
È possibile leggere il film di Gabriel Axel come metafora del banchetto eucaristico e del dono
di sé che Gesù fa per amore.
Il Vangelo di Giovanni non riporta l’istituzione dell’Eucaristia come i sinottici, ma racconta la
stessa ultima sera con alcuni elementi particolari, introdotti da una frase che è la chiave di
volta: «Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1). È proprio
da queste parole che si può partire per rileggere l’esperienza di Babette e riconoscere in
filigrana il volto di Cristo. Anche lei dona la vita per quelli che ama, dona tutto di sé, tutto ciò
che ha perché altri abbiano la vita. Investe tutte le possibilità di futuro che le si aprono
davanti con la vincita alla lotteria, per realizzare un banchetto specialissimo che non è solo
una sinfonia di cibi d’alta classe, ma è prima di tutto un atto d’amore. Non trattiene nulla per
sé, tutto è gratuito.
Un banchetto è il luogo in cui Gesù si rivela come Maestro e Signore, ed a Emmaus è ancora
una cena l’occasione per manifestarsi risorto: l’identità di Babette si svela nella medesima
occasione. Il regista suggerisce l’identificazione tra Babette e Gesù con diversi dettagli: il
crocifisso che la donna porta sempre al collo e che, nel momento della decisione di realizzare
la cena, ella stringe forte nella mano. Quando sta per iniziare a cucinare, c’è l’inquadratura
prolungata di un quadro che rappresenta Gesù nel Getzemani: anche Babette sta per donarsi,
allacciandosi il grembiule, gesto che ci rimanda a Gesù che si mette a servire i suoi con la
lavanda dei piedi, proprio durante l’Ultima Cena.
Nella celebrazione Eucaristica confluiscono due ascolti: l’ascolto della Parola di Dio e l’ascolto
del grido dell’umanità. Babette vive entrambe le dimensioni: va di fronte al mare, in
atteggiamento di preghiera e si pone in ascolto dei bisogni della “sua” comunità. Poi chiede il
permesso a Martina e Filippa di far loro questo regalo: l’amore non s’impone, non mette
nessuno con le spalle al muro, non obbliga ad accettare: si offre.
Babette dà il meglio di sé per preparare la cena, stila con cura la lista dei cibi e si assenta per
alcuni giorni per far arrivare gli ingredienti dalla Francia. A cena ormai conclusa spiegherà lei
stessa che quel pasto è stato un modo di manifestare la sua interiorità. Con quel dono ha
comunicato la sua identità, ha rivelato chi essa è veramente: «Per tutto il mondo risuona un
lungo grido che esce dal cuore dell’artista: consentitemi di dare tutto il meglio di me!».
Vedendola all’opera in cucina, possiamo comprendere quanto sia stato grande il sacrificio che
si è imposta nei lunghi anni a servizio delle due sorelle, mortificando la sua abilità, la sua
creatività di vera artista, per farsi come loro: da chef si è fatta serva, imparando a preparare
l’umile zuppa di birra e pan secco. Così Babette adotta la logica dell’Incarnazione, di un Dio
che si abbassa a farsi uomo come noi. E sceglie il nascondimento, infatti gli ospiti non la
vedranno nemmeno: rimane sempre dietro la porta della cucina, ma raggiunge ugualmente
ciascuno con il suo dono.
Libera di esprimersi, si impegna senza risparmio nella cura dei minimi dettagli: non prepara
solo le pietanze, ma anche l’ambiente, perché l’amore non è mai sciatto o superficiale. La sua è
una vera liturgia e tutti i paramenti sono disposti con rispetto: le stoviglie pregiate, i
candelabri, la tovaglia stirata direttamente sul tavolo perché sia perfetta. Spiega lei
stessa: «Potevo renderli felici quando davo tutto il meglio di me». Mentre lavora, sudando tra
i fornelli, Babette non viene meno alla sua grazia abituale nei modi e nel sorriso. Anche
indaffarata, è serena, sorridente, canticchia tra sé e si rallegra del risultato. Il suo
banchetto, come l’Eucaristia, è per tutti: gli ultimi sono trattati come i principi, così il vecchio
cocchiere, che ha trovato rifugio in cucina, viene reso partecipe del pasto succulento e dei vini
pregiati. È l’ospite d’onore, quasi, poiché è l’unico che ha il piacere di vedere le abili mani di
Babette creare i cibi deliziosi al gusto ma anche alla vista, per l’eleganza con cui vengono
disposti nei piatti. Sarà proprio il cocchiere il primo a ringraziarla, al termine della serata.
Babette è generosa senza misura: il generale chiede un secondo bicchiere di Clos Vougeot e lei
invita il giovane cameriere: «Lasciagli l’intera bottiglia!».
I commensali si erano seduti a tavola sospettosi e pieni di reciproci rancori. Dopo il pasto sono
trasformati: i loro volti sono sereni e si scambiano il perdono. Gli sguardi si incontrano senza
amarezza, le mani si intrecciano, ci si riconcilia con il proprio passato. La comunità ritrova
attorno alla mensa la comunione e l’armonia: chiamiamo abitualmente il banchetto eucaristico
“comunione”, proprio perché ci fa crescere in questa dimensione, verso il Signore e i fratelli,
così come accade agli ospiti di Babette. La celebrazione Eucaristica è vera quando è vissuta
disponendoci interiormente alla comunione autentica e lasciando che essa si accresca fra tutti
coloro che vi partecipano. Quanti ci nutriamo di Eucaristia siamo chiamati ad essere segno
credibile di comunione:«da questo tutti sapranno che siete miei discepoli»
(Gv 13,35).
D. De Simeis, in …
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