Famiglie malate. - Auto

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Famiglie malate. - Auto
Famiglie malate.
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PARTE 5
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Indice.
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Il male. Bambino maltrattato. Perdonare i genitori?
Pag. 479
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Bambino maltrattato ed amore malato nell’adulto.
Pag. 508
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Torture e maltrattamenti. Battaglia SNOM-DEVI. SMS ed E-mail.
Pag. 537
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Il male. Bambino maltrattato.
Perdonare i genitori?
RINGRAZIAMENTO - 23 GENNAIO 2004.
Si ringrazia il Dott. Gavino Ledda per la generosa autorizzazione a citare gratuitamente
gli ampi passi di “Padre padrone” che corredano la recensione del libro presentata
da QUATTRO e che illustrano il concetto fondamentale di “tempo del minore”,
di vissuto interiore del bambino maltrattato ed isolato.
PRIORITA’ DI DENUNCIA.
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Anche QUATTRO - come al mondo tantissime altre persone che hanno ricercato in se stesse le tracce
della loro infanzia - ama, rispetta ed ammira profondamente Alice Miller, la sua figura morale,
il suo pensiero, il suo coraggio civile. Ma nella ricerca della verità, questa deve prevalere sui sentimenti
umani. Alice Miller, nata a Zurigo, vissuta nella colta e civilmente democratica Svizzera,
laureata in filosofia da 26 anni, psicoterapeuta formata con due training psicoanalitici, a 56 anni
scrisse (nel 1979) il libro “Il dramma del Bambino dotato”.
Era il suo primo proclama di una acuta ed appassionata difesa dei bambini che occuperà poi tutto
il percorso professionale della Miller come scrittrice. Tuttavia la Miller non era la prima ad occupare
questa posizione. Una voce si era già levata, almeno quattro anni prima, a proclamare il diritto
del bambino non solo all’amore da parte dei genitori, ma più in generale e più in profondità,
il diritto alla libertà, alla possibilità di essere se stesso, alla lotta contro la schiavitù e contro la violenza
fisica e morale che schiaccia con il terrore. Era la voce di un giovane sardo nato in un paese
sulle basse montagne vicino a Sassari, un giovane che dai 6 anni fino a 19 anni fece il servo pastore
ed il contadino servendo il padre, trattato come uno schiavo, come una bestia da lavoro.
Livello di istruzione originario: analfabetismo (il padre lo portò via dalla classe dopo pochi giorni
di scuola, per farlo lavorare come pastore). La licenza elementare gli fu “concessa” a 19 anni,
perché potesse arruolarsi volontario nell’Esercito. Poi - una volta congedato dall’Esercito, 4 anni dopo una escalation impressionante:
• 1960 - 23 anni:
• 1961 - 24 anni:
• 1962 - 26 anni:
• 1969 - 31 anni:
• 1970 - 32 anni:
• 1971 - 33 anni:
• Estate 1970:
licenza media.
licenza ginnasiale.
maturità liceo classico.
laurea in lettere e filosofia
ingresso all’Accademia linguistica nazionale (Accademia della Crusca).
Assistente Universitario alla Cattedra di Filologia romanza e linguistica sarda.
(a 31 anni, laureato in lettere da 6 anni) scrive sotto forma di saggio - “Padre padrone”.
• Nel 1972-74:
lo stende sotto forma di narrazione, che sarà pubblicata in due libri separati.
• Primavera 1975: esce “Padre padrone”, Feltrinelli, Milano.
• 1977:
esce “Lingua di falce”, Feltrinelli, Milano.
Qui sospendiamo il racconto della vita e della produzione letteraria di uno scrittore che ancora oggi
stupisce i lettori per la passione, l’inventiva, lo spirito di esplorazione della comunicazione che tra
uomo e uomo avviene attraverso lo strumento linguistico. Ci fermiamo perché nello spirito
del nostro sito è importante mantenere l’attenzione su alcuni temi che Gavino Ledda ha sviluppato
in “Padre padrone”. “Padre padrone” è il racconto che l’Autore fa della sua vita, racconto
(ai fini del suo inserimento nel tessuto del nostro sito di auto-aiuto) impreziosito dal sigillo
della autenticità e dall’incisività della parola che nasce dal ricordo e dalle riflessioni che la vita
descrittavi ha fatto nascere. Questo libro, tuttavia, non è un testo di psicologia bensì un’opera
letteraria, scritta da un uomo che l’ha composta impastando con il lievito della propria intelligenza
e cultura il sangue e la carne delle proprie sofferenze, umiliazioni, paure, smarrimenti, difficoltà,
scoraggiamenti, desideri, speranze. Ed è un’opera che parla della crescita dell’animo di un essere
umano lungo un ampio arco della sua vita, dall’infanzia fino alla gioventù piena.
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Tuttavia l’intento di QUATTRO è quello di portare testimonianza culturalmente significativa
sulla priorità storica di una denuncia che ha squarciato il sipario del silenzio sui maltrattamenti
inflitti ad un bambino. Quella che QUATTRO intende proporre è una lettura di “Padre padrone”
in chiave dichiaratamente psicologica. Per potere privilegiare l’esposizione dell’aspetto dei vissuti
di smarrimento e dolore infantili, sarà quindi necessario limitarsi a citare molte gemme sparse
lungo il romanzo, anche se esse - al di là della bellezza descrittiva - sono elementi sostanziali
che l’Autore impiega per dipingere la condizione di vita estraniata dalla comune umanità sociale,
a cui egli è stato sottoposto per più di dodici anni:
• L’angoscia che colma l’animo degli uomini dinanzi al flagello - di ieri ancora,
come dai più remoti tempi biblici - delle cavallette, seminatrici di devastazione e di carestia.
• Il tormento delle pulci, per gli uomini pena antica dalle radici millenarie.
• La sessualità: la riservatezza ci impone di lasciare al mondo della crescita emozionale
di un essere umano (dalla sua infanzia fino alla gioventù) la descrizione - pur limpida
nella sua sincerità - che Ledda fa della scoperta e dello sviluppo della sessualità in un giovane
pastore isolato nella sua solitudine di vita su un monte in Sardegna.
Lo stesso rispetto si deve avere per la pur sapida descrizione degli incontri dei pastori
(costretti dall’isolamento a forzata astinenza) con le mogli.
• La precisa descrizione delle diverse fasi dell’addestramento che il ragazzo ha ricevuto,
nel corso degli anni, per imparare ad essere
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



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Pastore.
Mietitore.
Aratore.
Spaccalegna.
Mungitore.
Potatore.
È un vero e proprio affresco (costruito passo a passo come un tappeto sardo tessuto a mano in casa)
di un insegnamento tramandato da secoli, severo, rigoroso, duro fino alla spietatezza, con lo scopo
di formare un giovane a possedere gli strumenti di controllo sull’ambiente naturale, per potervi
sopravvivere. QUATTRO desidera soltanto sottolineare ciò che non bisogna dimenticare.
Al di sotto della vivezza della descrizione letteraria pulsa e sanguina il dolore di una interminabile fatica
distruttiva, disumana e disumanante, l’assenza di una affettività normalmente umana.
Il violento, il tiranno, lo sfruttatore spietato nel trattare come uno schiavo la sua vittima,
è il padre stesso. Che salvezza può mai esservi per chi non riceve aiuto e speranza nemmeno
dal proprio padre? Per chi non può essere protetto dalla propria madre? E tuttavia bisogna tacere.
Parlare non è un diritto che si possa pensare di avere; ed è un’imprudenza pericolosa per le sue
conseguenze. A parere di QUATTRO “Padre padrone” è un libro che deve essere letto non dall’esterno
(cioè guardando alla descrizione delle azioni, dei gesti, degli ordini, degli insegnamenti),
bensì dall’interno. Ciò che costituisce la vera atmosfera interiore esplosiva nella sua forza di denuncia,
è il mondo delle emozioni che si immaginano vissute dall’animo del bambino e poi ragazzo; un mondo
di sentimenti non solo inespressi ma forse anche non chiaramente percepiti; un affollarsi - lungo anni
ed anni - di pensieri di protesta e di ribellioni sicuramente non manifestati.
La vera rivoluzione è questo silenzio obbediente che ha murato nelle proprie profondità ogni segno
di indipendenza e di esistenza per poterne conservare protetta la fiamma; questa esteriore immobilità
apparente, alla quale soltanto le idee che noi lettori ci assumiamo la responsabilità di innestarvi
possono far risuonare di vita manifesta.
• In quali condizioni subumane di povertà spirituale si vivesse quando si era pastori al servizio
di padroni negli anni ’40-‘50 ce lo lascia immaginare la scena del pasto dei 4 servi pastori,
esseri non rimasti umani ma divenuti quasi bestie.
• Sintetica ma penetrante è l’analisi sociologica che Gavino Ledda fa dell’inconsapevolezza
della società pastorizia sarda di essere sorpassata dai tempi e defunta come forma sociale vitale.
Ugualmente breve è l’accenno lucidissimo al fenomeno dell’emigrazione all’estero
(America, Australia, Europa). Quasi come il coro di un’antica tragedia greca, il paese intero
accompagna i compaesani che per sfuggire alla miseria partono per scendere nelle miniere
di carbone di Marcinelle, o verso altri destini di fatica, dolore, forse morte.
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• Il morso del freddo sulle membra di un bambino: il lettore può chiedersi: chi oggi deve sopportare
il freddo che pativa un bambino di 7-8 anni, percorrendo da solo in groppa ad un asino
gli 8 chilometri di strada che separavano la terra del pascolo dal paese?
“Immobile in groppa, il freddo era insopportabile. Io non potevo rischiare di scendere per scaldarmi
sui passi. Mi sarebbe toccato fare tutto il cammino a piedi. E questo sarebbe stato ancora il meno.
Se per caso cadevo dal basto o cadeva la bestia o me ne scendevo disperato tutto intirizzito
dal freddo, una volta a terra il somaro si fermava: non camminava più e si metteva di traverso
per la strada. Mi toccava quindi affrontare la situazione in groppa. Già dopo un quarto d’ora
di strada, il freddo mi prendeva ai piedi ed alle gambe pendenti e nude fuori dei pantaloni
arrotolati. A metà strada, a Riu Rùzu, i piedi li avevo già cancrenati al punto che mi mettevo
a strillare e a piangere disperatamente dentro il cappotto del babbo. Il volto livido, con il corpo
rattrappito e curvo sul basto in balia del passo della bestia, quasi per inerzia mi tenevo con le mani
nude e screpolate dal freddo. Le mie urla e il mio pianto riempivano le vallate ora brinate
e ora annebbiate lungo la strada maestra, e spesso impietosivano qualche pastore che veniva,
umanamente, a soccorrermi...”. (Pag. 68).
Incominciamo ora a prendere in esame gli aspetti psicologici specifici a cui si è accennato all’inizio,
quando si parlava della chiave di lettura scelta nell’esaminare il libro:
IL PRIMO TRAUMA: LO SRADICAMENTO DA SCUOLA E DA CASA.
Dall’incipit del libro di Gavino Ledda parte la descrizione di un preciso percorso educativo le cui tracce
sono sparse lungo tutto il testo. Per dare di “Padre padrone” una lettura psicologica, potremo
quindi partire dalla presentazione di questo metodo educativo mirato ad uno scopo specifico,
e descriverlo come se fosse il testo di un manuale. Si tratta sicuramente di un manuale del tutto
particolare. Il suo preciso scopo di spezzare uno spirito libero per farne uno schiavo ubbidiente
ciecamente agli ordini terrorizzanti di un padrone spietato, ha delle impressionanti analogie
con il processo di distruzione fisica e mentale che la psicoterapeuta francese Françoise Sironi descrive
a proposito delle torture applicate ai prigionieri politici in “Persecutori e vittime. Strategie di violenza”.
Di questo libro sarà fatta una minuziosa analisi (a cura di tre membri del team del sito) a motivo
del suo grandissimo interesse, sia per se stesso. Sia per i collegamenti della pedagogia nera
commentato da Alice Miller. I principi fondamentali del manuale educativo la cui applicazione
è descritta in “Padre padrone” potrebbero essere formulati nel modo che segue.
Prendete un bambino di 5 anni e 8 giorni. Mandatelo a scuola circa tre mesi più tardi degli altri
bambini. Mettetelo in classe con altri compagni che abbiano per lo più compiuto i 6 anni magari
da parecchio tempo, e che siano già affiatati tra loro da alcuni mesi, e che quindi spesso lo deridano
per la sua incapacità a scrivere e a leggere. Lasciategli ricuperare gran parte di questo handicap
in un mese di tenaci ed orgogliosi sforzi di impegno continuo. Poi di colpo - dopo poco più di un mese
- fatelo strappare letteralmente da scuola da suo padre, alla presenza di tutti i compagni e della
maestra, la quale può tentare solo un accenno di opposizione nel tentativo di trattenere il bambino
in classe. (È il 1944 ed il Codice Penale Rocco, come ha ricordato 24 nel suo contributo “La legge
è uguale per tutti” è stato emanato già da più di 13 anni. Ma un padre padrone in Sardegna può
permettersi di ignorarne l’obbligo legale della istruzione elementare da fare avere ai figli, ed il divieto
di abuso di mezzi di correzione o persino divieto di maltrattamenti a minori). Che vergogna può avere
provato questo bambino per il comportamento del padre in presenza della maestra e dei compagni?
Non lo sapremo mai, perché Ledda non lo dice. Lo scrittore parla invece di 3 reazioni sviluppatesi nella
sua mente infantile, in immediata successione: paura, adattamento, confusione e senso di colpa.
Paura.
“Io me ne stavo lì paralizzato, davanti alla lavagna, come se quel discorso mi avesse inchiodato
i piedi alla predella. Di colpo però, di fronte al terribile “discorso della realtà”, non ho potuto
far altro che piangere ed aggrapparmi alla maestra quasi per lasciar smorzare nell’orizzonte della
nuova realtà la luce terribile del fulmine ed il boato del tuono esplosi sugli occhi e sulla bocca
di mio padre, dilagando per l’aula e tempestando la mente degli scolari come un oscuro
presentimento. Così appoggiato alla maestra con la faccia affossata sul mio braccio destro, quella luce
terribile scomparve subito ed il tuono che nella mia mente sembrava annunciare cose tremende,
si ammutolì scorrendo sul cielo e sui boschi delle campagne che io mi stavo già immaginando.
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La maestra mi lasciò sfogare un po’ nel pianto e subito cominciò a prepararmi anche lei alla triste
realtà, persuadendo la mia innocenza.
“Diventerai un grande pastore. Tuo padre ti insegnerà a mungere le pecore e le mucche.
Sono molto belle, sai! In campagna, poi, ci sono tanti fiori, molta erba e tanti alberi pieni
di uccelli che pigolano e cantano. Fanno i nidi nei cespugli, per terra, sugli alberi
e tu ne potrai prendere quanti ne vorrai. Qui a Siligo non c’è nulla!”.
Mi sussurrò queste cose lisciandomi i capelli, cercando di calmare il mio pianto, asciugandomi
le lacrime con il suo fazzoletto. Mio padre stava lì, rigido nel suo abbigliamento pastorale,
aspettando che mi adattassi alla verità, giunta troppo in fretta. Ma dalla sua rigidezza traspariva
un insopportabile imbarazzo”. (Pag. 11).
Meccanismi di adattamento.
“Con le lacrime agli occhi e con quel tuono che stava ancora rintronandomi nella testa diedi così
l’ultimo sguardo, penetrante, a tutta l’aula, quasi me la volessi portare via passando in rassegna
frettolosamente tutti i banchi. Nel mio silenzio salutai tutti i compagni imprimendoli nella mente
per non scordarli più. Ancora una volta fissai i particolari dell’aula che avevano colpito di più
la mia fantasia: la lavagna, la cattedra, e le carte geografiche.
“ Beh ! Buongiorno, signora maestra”.
“Coraggio, Gavino” sussurrò la maestra facendo scomparire pian piano il suo volto sorridente,
accostando i battenti della porta”. (Pag. 12).
Confusione e Senso di colpa.
“Uscito dall’aula, improvvisamente, mi sentii come la lepre snidata dal covo (iscovada dae sa tana),
messa in fuga dai cani e sparata dai cacciatori che non potevo vedere anche se i loro spari
mi stavano già ferendo. Scendendo le scale del municipio, nel cervello mi rimbombavano le parole,
le frasi del discorso del babbo:
“Mi custodirà le pecore mentre io marrerò il grano... poterò la vigna...
per i suoi fratellini più piccoli... Lui è il fratello maggiore e deve aiutare gli altri
a farli grandi e a non farli morire di fame...”.
Io volevo bene ai miei fratelli e non volevo che morissero di fame. Per un attimo, nella mia fantasia,
vidi i miei fratellini in pericolo che mi esortavano a seguire mio padre. Per questo, dopo i primi pianti,
mi rassegnai a seguirlo senza che mi divenisse odioso. E il tempo che trascorse tra l’uscita dall’aula
e l’arrivo in casa, bastò a prepararmi alla partenza”. (Pag. 13).
E, nell’arco di poco più che un’ora, il volo di un giovane essere libero e pieno di possibilità
di crescere trovando nel suo futuro pienamente se stesso, è spezzato per i prossimi 15 anni:
“Mariantòò!! Mintòò!!”, fece mio padre una volta in casa. “Eccomi”, rispose preoccupata
la mamma dal solaio dove stava preparando le provviste per il babbo e per il cane mettendole nella
bisaccia di lana (in sa bértula). “Prepara Gavino. Subito! Lo porto in campagna con me”, urlò
furiosamente. La mamma non fece storie. Forse era già al corrente della cosa. Così in meno di
mezz’ora fui trasformato: pantaloni di fustagno, scarponi e cappotto. Un vero pastore! Nel frattempo,
lui di fuori aveva imbastato il somaro. Spalancò le imposte ed entrò in casa frettolosamente.
“Sei pronto?”. Risposi con il mio silenzio, dirigendomi verso la porta d’ingresso. (Pag. 13)...
“Ripassammo subito davanti alla scuola. Tanti pensieri mi turbinavano nella mente in quel momento.
Ma io non ero più un alunno. Ero già un pastore. E il somaro, nel suo trotto, lasciava indietro
la scuola con i compagni che mi ero impresso nella mente. Io, rivoltato indietro, guardavo la scuola
dalla groppa del somaro il cui passo me la faceva vedere tremolante, quasi fosse ancora scossa
dal terremoto del discorso. E subito scomparve dalla mia vista l’apice del suo tetto, dietro il rinculo
della groppa. Così la mia scuola sprofondò per sempre nel buio vivo del ricordo.
E lasciate alle spalle le ultime case di Siligo, solo dopo un poco di trotto, fummo in aperta campagna.
La bestia andava veloce sulla strada polverosa e cosparsa di ghiaia, e posando gli zoccoli tra una pietra
e l’altra, in fretta, si allontanava da Siligo: mi trasportava come spesso aveva trasportato le provviste
per il cane, il mangime per i maiali, e le sementi che mio padre seminava sempre sul maggese.
Ora anch’io ero una semente e dovevo nascere e germogliare (naskere e tuddire)
solo sul nostro campo e seguire le leggi del regno vegetale sul maggese della solitudine,
come tutti i pastorelli della Sardegna”. (Pag. 14).
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Ma il violento, il prepotente che schiaccia la sua vittima indifesa
senza alcun rispetto né pietà per i suoi sentimenti, che cosa pensa?
Ha veramente - come sembra essere dalle sue azioni - la convinzione di avere
potere assoluto di vita sull’altro essere umano?
Ha realmente la certezza di essere sempre nel giusto quando segue
i suoi desideri, progetti, bisogni?
Cerchiamo di intuire le risposte ascoltando le risposte di chi ha dovuto subire tali imposizioni per anni:
esploriamo le annotazioni che Ledda fa sulla mentalità del suo padre padrone, vissuta sulla propria
pelle (si vedrà che tale termine è da prendere alla lettera) lungo gli anni.
La prima formulazione delle proprie idee e della pretesa che gli altri vi obbediscano viene
dal padre fatta - dinanzi alla maestra ed a tutta la classe (come il colpo di stato di un dittatore
che prende con la forza il potere politico, alla presenza di tutto il popolo) - quando il figlio
è un bambino di 5 anni e 2 mesi:
“Sono venuto a riprendermi il ragazzo. Mi serve a governare le pecore e a custodirle...
È mio. E io sono solo. Non posso continuare a lasciare il gregge incustodito...
Io non faccio solo il pastore, per tirare avanti onestamente e senza derubare il vicino,
mi tocca coltivare una parte della tanca a grano per il fabbisogno della casa (pro su fittu
de domo). Gavino, anche se è piccolo, custodirà le pecore... Incustodite, potrebbero assalirmi
la vigna o il grano, e non possiamo stare un anno senza pane... senza di lui non potrei più
andare avanti. Questa è stata sempre la storia di noi pastori. Ci sono banditi dappertutto
e lei lo sa benissimo, signora maestra”.
“... Non è necessario che il ragazzo sia grande per custodire le pecore. Quanto ai banditi, poi,
basta un respiro umano. Avrà fiato sufficiente per chiamarmi da un vallata all’altra,
se sarà il caso... Anch’io ho trascorso la mia infanzia in questo modo. Infanzia! Puh!
Sono dovuto diventare adulto prima del tempo... e le pecore le ho custodite lo stesso
anche se avevo bisogno più del capezzolo della mamma che di quello della pecora”.
A questo punto seguì un momento di silenzio come se in aula non vi fosse nessuno al di fuori
della sua volontà. La maestra e gli alunni, anzi, sembravano volerselo ascoltare. Quel silenzio terribile.
“Saprò fare di lui un ottimo pastore capace di produrre latte, formaggio e carne.
Lui non deve studiare. Ora deve pensare a crescere. Quando sarà grande la quinta
elementare la farà come fanno molti prima di arruolarsi.
Lo studio è roba da ricchi: quello è per i leoni e noi non siamo che agnelli”. (Pagg. 9-10-11).
ATTENZIONE.
Dobbiamo forse dedurre che tutti i bambini erano regolarmente sottoposti a questo
trattamento? Era forse questa la consuetudine che stabiliva il comportamento di tutti
i padri verso i loro figli, in quel periodo storico, ed in quelle condizioni sociali, economiche
e culturali della Sardegna di quegli anni? Assolutamente No.
Dal libro, così scrupoloso nel riferire minuziosamente mille particolari, non risulta
che alcun altro bambino di quella classe sia stato strappato dalla scuola.
Anzi un passaggio descrittivo precisa, più avanti, che la vita degli altri compagni
di scuola proseguì normalmente nel centro abitato del paese:
“Nel primo periodo, mio padre, quando andava a Siligo per portarvi il latte o a fare provviste,
non mi lasciava mai in campagna da solo, ma mi portava sempre con sé in groppa e spesso mi lasciava
in paese per uno o due giorni. E questo per adattarmi in modo più graduale e meno violento
alla solitudine del pastore. Per me erano giorni di sollievo. In quei due giorni rinfrescavo l’amicizia
con i miei compagni di Siligo ma per mio padre, dopo, diventava più difficile ricondurmi all’ovile.
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Per qualche mese mio padre non applicò completamente i rigori dell’educazione alla vita dei campi.
Quando ritornava a Siligo, dopo due o tre giorni, per le provviste, mi riportava a casa per farmi lavare
da mia madre e per farmi riprendere fiato. Così alternavo la vita campestre a quella paesana.
Però in campagna ci andavo sempre più malvolentieri”. (Pag. 18).
Il lettore del sito potrà riconoscere in altre fonti (Il documentato commento di Alice Miller sulla
“Pedagogia nera” nel suo “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”, oppure lo studio
di Françoise Sironi sulla tecnica distruttiva dei torturatori politici in “Persecutori e vittime. Strategie
di violenza”) una progressione dei mezzi di distruzione della volontà di ribellione, la quale si articola
in una sua nefanda scala di scientificità malvagia. Sentiamone ora in “Padre padrone” una descrizione
riferita alla sua istintiva applicazione (non per questo meno brutalmente efficace, sia chiaro):
“Così si attuarono il distacco dall’ambiente paesano, l’allontanamento forzato dalla scuola, e la
conseguente “deportazione a Baddevrustana”, a otto chilometri da Siligo, anche se tra uno
zucchero e l’altro li stavo accettando per amore dei miei fratelli, che avrebbero corso il rischio di morire
di fame. Ma non potei seguire mio padre passivamente. Anche se non possono fare niente contro
i grandi, i bambini protestano. Magari soltanto con il loro querulo pianto. Certo io non ne avevo colpa
se ormai gli zuccherini del babbo non ottenevano più l’effetto desiderato. Lui, però, doveva pure
svezzarmi. Già al terzo mese l’educazione divenne più severa, Mio padre passò al secondo stadio.
Incominciò a lasciarmi solo con il gregge quando si recava a Siligo. Ma per non farmi pesare troppo
il distacco dai miei fratelli e da mia madre, continuava a portarmi in paese una volta alla settimana.
Ora, però, non mi rilasciava più a Siligo; e nello stesso giorno - quasi sempre nella stessa mattinata mi riconduceva all’ovile. In questo modo la mia permanenza con i miei fratelli e con qualche vecchia
amicizia si riduceva a una o due ore al massimo. Eppure quel tempo bastava per rinsaldare con loro
un legame di inseparabilità. Per cui io non ripartivo mai senza piangere”. (Pag. 19).
Conferma specifica.
Un altro passo del libro, successivo a quello citato, (e riferito all’età di 9 anni del bambino),
indica chiaramente che altri adulti viventi nelle stesse condizioni sconsigliarono vivamente il padre
circa la sua intenzione di portare tutta la famiglia in montagna, criticando espressamente l’idea:
“Mio padre era sempre desideroso di farsi onore: di accrescere il peculio familiare, di finire l’oliveto
che aveva già iniziato. E si lamentava sempre del fatto che perdeva troppo tempo nell’andirivieni tra
Siligo e Baddevrustana per fare provviste. L’unica soluzione gli sembrava quella di ritornare all’antico:
deportare tutta la famiglia all’ovile, come avevano fatto i suoi zii e suo padre. Il suo proposito si diffuse
subito per il paese. E nel parentado e nella famiglia destò scalpore e sgomento insieme.
Era un’abitudine antichissima far risiedere la famiglia all’ovile. Ma già nel ‘49 per Siligo e dintorni era
una cosa sorpassata. I pastori, nonostante tutto, facevano il possibile perché le loro mogli rimanessero
in paese con i loro figlioletti in modo che frequentassero la scuola elementare. Allora le famiglie fuori
dall’ufficialità storica e segregate in campagna, erano solo sette o otto. E quasi tutte queste famiglie
erano barbaricine o dell’interno dell’isola. L’idea di mio padre quindi non poteva più trovare orecchie
amiche tra gli abitanti di Siligo. I parenti più stretti si scagliarono contro di lui. L’ultimo tentativo
lo fece il nonno materno. Come tante altre volte, capitò in campagna, a Baddevrustana...
Si vedeva che era venuto per qualche cosa insolita. Lui si mise a lavorare con il babbo.
Fece finta di nulla. Tra una faccenda e l’altra, però trovò il modo di scivolare sull’argomento.
“Ho sentito che vuoi portarti la donna qui all’ovile. Ma che ti salta in testa (ite ti pigada
a conca?) Sei geloso? Non credo sia questa la ragione”.
Il babbo, dopo un momento di imbarazzo e di silenzio iniziale, che superò aumentando il ritmo
del suo lavoro, gli rispose con la solita foga:
“Certamente! Qui, come vedi, ho molto da lavorare. Non posso perdere il mio tempo
per strada. Tra Siligo e Baddevrustana. Il ragazzo è ancora piccolo. Non può stare sempre
a pane e formaggio. Io stesso quando qui ci sarà la donna, starò meglio.
Lavorerò di più: anche lei mi aiuterà in alcuni lavori. Gavino è già grande. Ha nove anni,
ormai, e mi potrà aiutare nell’agricoltura, se nel gregge lo sostituisce Filippo, che ne ha già
sei. Insomma quando la famiglia è qui, cambierà tutto. Il lavoro è in casa. Tutti produrranno.
La questione è tutta qui. Ognuno si deve produrre quello che si mangia”.
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Il discorso era concitato. Il babbo si dimenava e si sforzava per vincere l’imbarazzo e darsi più autorità.
La sua foga mi ricordò il discorso che quattro anni prima aveva fatto alla maestra.
Il nonno per un attimo fu travolto, Rimase allibito e mortificato. Disarmato. Si rifugiò nel silenzio
e piombò in uno stato di disagio. Un attimo di attesa. Il ritmo del lavoro salì vertiginosamente
sui filari della vigna. L’unico mezzo che le circostanze offrivano per vincere l’uno il disagio dell’altro.
Le zappe salivano e scendevano rivoltando le zolle, risalendo di nuovo come impazzite.
Di colpo, il nonno si armò nella riflessione. Si rizzò. Si appoggiò il fianco sul manico della zappa
sul filare e si scaricò in una tirata di rabbia.
“E che vuol dire perdere tempo per strada? A Siligo ci dovrai andare lo stesso a fare
provviste e a portarci il latte. Anche quando qui ci avrai la donna. Questa storia non regge.
Tu non puoi e non devi assolutamente disporre della famiglia a seconda dei tuoi comodi.
Devi fare gli interessi della famiglia. Devi fare come fanno gli altri, È una vergogna.
Una beffa. Tu guasti l’onore della famiglia. Vergognati! Questo lo ha potuto fare tuo padre
in su Colominzu! Erano altri tempi. Ora ci sono le scuole e devi mandare i figli a studiare”.
“Studiare? Scuola? Prima bisogna campare. Io non posso mandarli a scuola tutti quanti.
Se ne mando uno nascono le invidie tra quelli che non potrò mandare. Non farò parzialità.
Il governo? Il governo ci deve pensare. Perché non ci pensa lui? Mi dia un tanto a figlio.
Cosa vogliono questi?”.
“Pastori molto più poveri di te li mandano. La famiglia lasciano in paese. E tu?
Tu che possiedi questa tanca. Io ti posso aiutare. Non fare questa beffa”.
“Ma che beffa! Beffa est a furare! La tanca è tutta piena di cisto: est unu mudejazu.
Bisogna bonificarla. Sennò il pascolo e l’oliveto non crescono”.
Mio nonno era abbastanza saggio e forse comprendeva bene quale “rovina sociale” sarebbe stata
la “deportazione” della famiglia. E anche se la decisione del babbo gli suonava come
“uno scandalo del casato”, una “vergogna”, il suo discorso era giusto; ma solo per il fatto
che la morale comune si vergognava già di fare un’azione del genere.
“Io ho allevato otto figli”, continuò il nonno. “Il pastore l’ho fatto prima di te, e anche
in tempi più duri. Come tu sai, io ero un servo pastore. Lo sai che mi sono fatto da solo.
Quando mi sono sposato non avevo nulla. La mia fidanzata cambiò il gherone alla camicia,
l’unica che avevo. Eppure, la famiglia non me la sono portata all’ovile anche se mi avrebbe
fatto comodo. Si sa che la donna piace averla sempre giorno per giorno...
All’ovile ci venivano tutti. Io pretendevo molto da loro, anche dalla donna. Ma questa beffa
non l’ho fatta, io. Un conto è farli lavorare qui occasionalmente, un altro segregarli qui
come le tue bestie, per sempre nel silenzio. Se questo l’hai fatto con Gavino, ora non farlo
con gli altri. La donna è bella di notte, ma il dovere, il dovere è un’altra cosa”.
Mio padre quel discorso lo capiva benissimo. Altri motivi e altri intenti, tuttavia, glielo rendevano
banale, estraneo, non importante, quasi fosse un lunghissimo raglio di somaro come ne sentiva
tanti durante i suoi lavori. Il divagamento di Baddevrustana da soli parlava a favore di mio padre.
Si mangiava quasi sempre asciutto. I vestiti sempre sporchi e unti, sudore e latte. La solitudine, poi,
di quel bosco ci divorava e ci inghiottiva. Ci masticava e ci digeriva nelle sue selve”. (Pagg. 105-108).
NOTA BENE.
Il padre portò tutta la famiglia (moglie e tutti i figli) all’ovile e ve li fece abitare ininterrottamente
per 10 anni, fino a quando il giovane Gavino partì per arruolarsi volontario nell’esercito.
Forti dell’esempio di questo allontanamento che sfidava l’autorità paterna, pare che gli altri figli
abbiano posto fine al soggiorno forzato nell’ovile sul monte ricorrendo all’artificio di una serie
di incendi “casuali” della casa e delle costruzioni, dopodiché il padre smantellò tutto e riportò
la famiglia in paese, a Siligo.
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GLI STRUMENTI PER SPEZZARE LA RIBELLIONE:
LE PERCOSSE E LO SFINIMENTO DA LAVORO.
Le percosse.
Sembrano avere accompagnato tutta la vita del figlio fino a quando è rimasto sotto il dominio
del padre padrone, usate per spezzare ogni forma di autonomia di vita, pensiero, sentimento
che il padre considerasse (in un suo imperscrutabile diritto assoluto di valutazione e di comando)
come pericolosamente indipendente e perciò ribelle:
• A 5-6 anni, appena strappato da scuola:
“... allora passavo subito al pianto di protesta, con la vana speranza di convincere il babbo
di lasciarmi a Siligo. Io però ero un agnello da svezzare (fio un anzone de istittare) che mio padre
doveva portare in un gregge estraneo perché non poppasse più la mamma. Era venuta l’ora
che la mamma la mungesse il pastore tutta per sé e che l’agnello si nutrisse solo di erbe e di arbusti.
Come un agnello anch’io belavo il mio dolore. Ma mio padre applicò tutto il rigore dell’educazione
che conosceva e che anche lui forse aveva subito. Il mio pianto e i miei belati non avrebbe potuto
sentirli. Una volta riuscii ad eluderlo con l’astuzia. Restai nascosto. E quando all’ora della partenza
sentii il suo richiamo non uscii dal mio covo come il somaro al richiamo del padrone che lo deve
imbastare. Mio padre aveva fretta di ritornare tra le pecore e non poteva spendere molto tempo
a cercarmi. Allora ripartì da solo e per tutta la sera e fino al suo ritorno potei scorrazzare
con i miei compagni per Siligo, imparare i giochi che loro conoscevano...
Due giorni dopo mio padre fece ritorno a Siligo e mi picchiò, sonoramente”. (Pagg. 20-21).
• A meno di sei anni:
“Il babbo continuava comunque a ricondurmi a Siligo almeno una volta la settimana.
Ne approfittavo per mettermi con la solita combriccola. Una volta, stavamo facendo un gioco molto
bello, sentii il richiamo del babbo all’ora della partenza. Allora scoppiai nel pianto più dirotto
e belai più del solito sbattendo i piedi per terra. Ancora non avevo contratto la soggezione
alla patriarcalità. Ma mio padre, quella volta, forse perché stufo di ricorrere ai suoi zuccherini
o perché convinto che fosse venuta l’ora di attuare il massimo rigore nell’educazione selvaggia
ed agreste, passò improvvisamente dal paterno al patriarcale. Mi rincorse e mi picchiò, alternando
gli schiaffi ai colpi di bastone e ai calci che tirava alla rinfusa, finché nella disperazione del dolore
mi uscì di bocca: “Non piangerò più... vengo con te...”. Tutto trafelato, con il livore in faccia,
afferrò la fune del somaro. Mi aggavignò e mi sbatacchiò in groppa come aveva sempre lanciato
la bisaccia o i sacchi di biada. Saltò sul basto anche lui. Scrollò nervosamente le gambe addosso
alla bestia e via in silenzio. Nonostante avessi rimediato una buona dose di colpi e di rimproveri,
appena ci lasciammo dietro le ultime case del paese, alla vista dei primi campi, anzi il terrore
di restare di nuovo solo in campagna mi turbinarono nel cervello, mi rivoltarono le viscere.
Subito mi pervase uno stato d’animo misto di sentimenti contrastanti, instabili e fugaci:
l’uno in preda all’altro. La paura della solitudine. Il terrore quasi incontenibile della furia
di mio padre (che ora già conoscevo) e il piacere di giocare con i miei coetanei di Siligo che io stavo
sognando in groppa. Era un brutto stato d’animo sollecitato da tanti pensieri in lotta furibonda.
Incominciai così a piagnucolare. Non sapevo come fare dato che lui mi minacciava e mi picchiava
solo perché piangevo. Seduto sul basto si rivoltava e mi scandiva qualche schiaffo di ammonizione.
Il somaro, come sempre, trottava sulla strada bianca. Io però volevo scappare. Improvvisamente
smisi di piangere e mi preparai per scivolare giù. Il ritmo degli zoccoli della bestia sembrava potesse
confondere i miei movimenti ed eludere la sorveglianza di mio padre. Scivolai di groppa.
Caddi a culo per terra, come un oggetto. Morendo dal dolore mi sollevai subito, in silenzio!
Mi misi a correre senza fiatare con tutte le forze, disperatamente, verso Siligo. Il tonfo che feci
nella caduta, purtroppo, avvertì il babbo. Io, poi, avevo le gambe corte ed il mio tentativo di fuga
finì lì. Dopo una breve rincorsa, mi scaldò la faccia di schiaffi e di pugni. Mi lanciò di nuovo
in groppa con tutte le mie urla e le mie proteste e via di nuovo. Quel giorno però evidentemente
ero risoluto a tutto ed ostinato. Certo, ero terrorizzato all’idea di stare solo in quel bosco pieno
di cose e di animali di cui allora avevo ancora paura. E poi quella solitudine mi sembrava un silenzio
interminabile: ascoltarlo mi stordiva l’esistenza. Un nuovo attacco di pensieri in lotta, bastò a farmi
fare un altro tentativo. Così mi gettai per terra una seconda volta. Sgusciai giù, ma senza ottenere
nient’altro che un uragano di percosse. Il mio corpicino, però, doveva resistere alle torture
educative. Io ero ribelle e indocile. Ma la mia ora era giunta e il babbo doveva svezzarmi e domarmi
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però ero ostinato come uno di quegli agnelli terribili che immersi improvvisamente nel gregge
estraneo in cui svezzano, si turbano e belano paurosamente assordando tutti. E mi gettai a terra
per una terza volta. Mio padre allora mi impastoiò. Come senz’altro aveva visto fare ai ragazzi ribelli
in casi analoghi, decise di legarmi. Spiegò la fune del basto. E dopo avermela fatta assaggiare
a duri colpi me la cinse alla vita: ero prigioniero della sua volontà. E tuonando una fiumana
di improperi, mi lasciò per terra. Cavalcò su tutte le furie e ripartì sbraitando. Quasi per ricuperare
il tempo che gli avevo fatto perdere, scrollava continuamente le gambe addosso alla bestia
facendola correre più del solito anche per farmi paura. Per non rischiare di essere trascinato, allora,
io dovevo seguire meticolosamente il trotto e cercare di non inciampare. In quel modo feci molta
strada. Per mia fortuna con quel trotto sfrenato raggiungemmo altri pastori che conversavano
animosamente sui loro somari. I loro rimproveri decisero mio padre a cedere.
E costretto dall’imbarazzo di avere applicato la massima punizione, mi slegò e mi rimise in groppa.
Per quel giorno il supplizio era finito ma mi guardai bene dal piangere ancora.
Il mio divagamento ferino era iniziato...
... Tutto ora era diventato più rigido. Le lezioni si facevano sempre più severe e più rigorose.
Era ormai tempo di passare alla pratica. Il periodo introduttivo richiedeva ancora molto tempo.
E almeno in certe cose mio padre volle passare subito ai fatti.
La prima prova che mi fece sostenere fu quella di condurre le pecore (de jughere sas biveghes)
da un punto ad un altro del pascolo”. (Pagg. 22-24).
• A sette anni:
“Avevo sette anni. Secondo mio padre avrei già dovuto essere un pastore completo.
Non potevo più starmene a pancia al sole... Il mio lavoro allora, negli intervalli che mi consentiva
la custodia delle pecore, consisteva nello sbrigare le faccenduole dell’ovile: asportare il letame
dal porcile o dal recinto (dae s’arula o dae su corrale), fare qualche fascio di legna per Siligo
o assiepare i muri di confine (inchesubrare sos muros de sas làccanas). Io, naturalmente, quello che
potevo lo facevo quasi sempre. Traducevo quasi sempre in lavoro le mie risorse anche perché con
mio padre era inutile fingere o lavorare a mala voglia (a mala gana). Al suo ritorno controllava
e stimava sempre il mio lavoro. Quasi sempre le cose filavano lisce, ma i patriarchi erano
troppo severi ed esigevano che i loro bambini divenissero uomini contro il tempo.
Dovevano produrre da uomini. Le bagatelle non trovavano giustificazione.
Tutto doveva essere saggezza e maturità.
Una mattina mio padre, mentre partiva per Siligo, mi lasciò le sue disposizioni: asportare il letame
delle pecore dal recinto con la carriola. Non appena scomparve all’orizzonte disseminando,
come al solito, ordini ed urlando avvertimenti, mi sentii libero. Il “re” di Baddevrustana.
E certo fino al suo ritorno lo ero veramente. Quel senso di libertà illimitata mi ingigantiva!
E come un gigante, padrone della natura, divorai la solita zuppa di latte e sale.
Sullo spiazzo uscii forte come un leone. Pronto a sbranare il lavoro. Ascoltai il tintinnio del gregge.
Era pacato. Tutto regolare. Pasceva tranquillo. Io potevo lavorare! Diedi di piglio alla carretta
e mi diressi verso il recinto. Ma la voce melliflua e melodiosa di Nicolau (un pastore vicino,
a duecento metri dalla nostra capanna) mi raggiunse e mi avvinse... Il solito canto in “re”
mi appese all’incertezza e mi fece oscillare tra gli ordini del babbo e la fuga verso Nicolau.
Ero ansioso di andare a trovarlo, di parlare con lui e di sentirlo cantare. Ed ora che mio padre
trottava verso Siligo, con Pacifico, potevo spiccare il volo per dove volevo!...
Il “re-do” di Nicolau bastò ad aprirmi le ali ed a farmi spiccare il volo. Abbandonai subito la carriola
sul letame (sa carretta subra eissu ladamine) ed in un baleno percorsi i duecento metri sull’erba
bagnata e più alta di me. Saltai il muro della nostra tanca e sbucai sullo spiazzo dell’ovile di Nicolau.
Cantava col cuore, mentre con la mente sbrigava le sue faccende, come fanno i “buoni pastori”.
Stava spostando il recinto della mungitura (sa mandra ‘e mulghere) e rinforzando la siepe dell’ovile
(sa chesubra de issu corrale).
“Ciao, Gavinè! Come mai sei potuto venire qui?”.
“Il babbo è andato via, a Siligo. Oggi tocca a lui”.
“Ah... beh!... capisco...”...
Nicolau, come d’abitudine, cantava e lavorava insieme. Sentirlo, ascoltare ed imparare
il suo canto e i versi, era un piacere.
“E tu non hai nulla da fare? Mi sembra strano che Abramo non ti abbia detto
di fare qualcosa!”.
“Sì. Debbo portare via un po’ di letame dae su corrale”.
“Eh, allora... non trattenerti molto”...
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... Per me non esisteva più nulla, né muriccioli né siepi: quel canto era tutto! Il letame poteva
anche aspettare. Nella peggiore delle ipotesi avrei preso i soliti colpi. Temporale più temporale
meno, ormai mi c’ero abituato. Meglio un piacere che cento malanni (mezzus unu gustu
che chentus mal’annos). La mattina così passò senza accorgermene, tra un canto e l’altro
di Nicolau. Sul tardi purtroppo mi venne un forte mal di testa. Gli ordini del babbo non li potei
eseguire. Tentai di sforzarmi, ma le fitte alla testa mi toglievano ogni brio e dovetti accasciarmi
sul letame. Quel giorno finì che avevo asportato solo cinque-sei carriole di letame.
Verso le cinque del pomeriggio, il raglio poderoso di Pacifico, in lontananza, mi raggiunse
agghiacciandomi e scaraventandomi nella disperazione. Cercai di reagire. Di recuperare almeno
in quell’ultimo quarto d’ora.
Le tempie mi stavano scoppiando. E inesorabilmente il padrone fece irruzione nello spiazzo.
Insistere era inutile. Mi trovò all’opera. Ma lavoro fatto non ce n’era. Con il suo sguardo torvo,
terrificante ed esperto, lesse la mia “colpa”.
Subito si accorse che a lavorare avevo incominciato solo da poco “E’ inutile che ti faccia trovare
al lavoro! Che incominci a lavorare quando senti il raglio del somaro (su orriu de s’ainu)”.
“No! No! Io... ho cercato di lavorare, ma mi è venuto un forte mal di testa.
Non ce l’ho fatta! Non ce la faccio più!”.
Il mal di testa mi giustificò e calmò mio padre che mi si stava avventando. Tutto sembrava finito.
L’alibi del malessere si oppose, per il momento, al decalogo pastorale. Sul tardi però il babbo capitò
da Nicolau e il giubbino che, in seguito al raglio del somaro mi ero dimenticato lì, fu il segno
inconfutabile che io vi ero stato. Nicolau cercò di giustificarmi, ma non convinse il patriarca.
E in mio padre si scatenò l’uragano punitivo. Il mal di testa, ora, era una scusa, non esisteva più.
In un baleno, lui si spiegò la mia disubbidienza tutta a modo suo.
“Mi hai mentito. Sei stato da Nicolau”, mi disse sbattendomi il giubbino addosso.
“La cosa è grave, ora la paghi”.
E afferrato il primo cespuglio che gli capitò sotto mano (unu arrasolu de mattisuja), mi aggredì
urlando come una furia e mi tempestò di colpi senza guardare dove andassero a finire,
come si faceva con le bestie. Io mi misi a correre disperatamente, cercando di schivare i suoi attacchi
in attesa che si sfogasse. Ma lui mi veniva dietro colpendomi continuamente.
Uno dietro l’altro si correva forsennatamente intorno all’ovile. E mentre io correvo per schivare
i suoi colpi, non appena avevo un margine di sicurezza, mi voltavo disperatamente per vedere
se finalmente la tempesta fosse finita. Dietro di me, purtroppo, vedevo sempre i nembi e i lampi
della sua rabbia. Come un cane idrofobo e privo della serenità della ragione, mi raggiungeva
continuamente e mi colpiva di nuovo. Preso dal fantasma della violenza educativa, non guardava.
Colpiva e basta. Mi sbatteva ritmicamente il cespuglio in faccia. Il suo braccio era divenuto
il pendolo della sua rabbia. Ogni volta che mi voltavo lo prendevo in faccia netto.
Questa “aia cruenta” si protrasse per oltre dieci minuti sgattaiolando tra i rovi, i cespugli e i massi
dei dintorni della capanna. E durò più del solito per una ragione che allora non conoscevo.
Perché cercavo scampo nella corsa. Io non lo sapevo che avrei dovuto subire la punizione e i colpi
stando fermo. L’istinto mi suggeriva la fuga. Non conoscevo quelle regole!
Così si verificò il tragico paradosso, che tanto più cercavo scampo tanto più subivo la violenza
e tanto più lui mi s’aizzava contro.
Finalmente dopo dieci minuti di “aia cruenta”, quando mi vide sanguinante in faccia,
con gli occhi gonfi e arrossati (con sos ojos rujos dae su sàmbene).
Il ciclone pedagogico cessò. Il “maestrale” fugò quei nembi come per incanto.
Il ruggito educativo ammutolì nella schiarita, ma era troppo tardi. Lì per lì, non si rese conto
della gravità della cosa. Mi lasciò al pianto desolato appoggiato ad un macigno. Sbraitò.
Mi spruzzò le sue bestemmie che riepilogavano la lezione e andò a portare la mucca per mungerla.
Dopo un quarto d’ora mi passò davanti trascinandosi dietro la bestia con la fune tra le corna.
Mi gettò uno sguardo frettoloso, e quando mi vide sfregiato nel volto, deformato dal gonfiore,
si spaventò. Il leone si mutò in agnello. Il suo ruggito in belato.
“Ci vedi?” fu la sua domanda preoccupata.
“Ci vedo! Ma gli occhi... gli occhi mi friggono. Mi fanno molto male. Il volto mi brucia”,
gli dissi con paura. Di corsa abbandonò la mucca. Entrò nella capanna e prese la tintura di iodio.
Mi medicò le ferite e i solchi scavati dal continuo sbattere del cespuglio, e mi lasciò con il volto
quasi arroventato e giallognolo.
“Oh, Nicolà! Oh, Nicolààà!”.
“Oh! Ehi... Abrà!”.
“Avvicinati!”.
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“Che c’è?!!”.
“Debbo portare il ragazzo in paese, subito. Ho esagerato. Gli occhi... gli occhi
mi preoccupano. Non mi capiterà più di usare i cespugli. Basterà una verga o la cintola”.
“Lo hai capito... finalmente!”.
“Ti prego di mungermi la mucca. Le pecore le mungerò domattina.
Per una sera non succederà nulla. Dai uno sguardo all’ovile. Io torno subito”.
Così mise il basto a Pacifico. Mi infilò nel suo cappotto. Mi imbavagliò di altri cenci e via.
“Ci vede? Ci vedi?”.
“Sì. Sì”.
“Chiudi il destro”.
“Sì”.
“Chiudi il sinistro”.
“Sì”.
“Tu non dovevi correre! Guai a te se scapperai un’altra volta che meriterai
una punizione!”.
“Ma io non lo sapevo”.
Era già buio. Le tenebre della notte ci assalirono calando dai monti mentre la bestia ci trasportava
a casa entrambi addolorati. Giunti a Siligo fu una tragedia. La mamma mi riconobbe a stento.
Più dal corpo e dall’abbigliamento che dall’aspetto. Si mise a piangere.
“Che hai fatto? Io vado in caserma. Ti denuncio”.
“Lo so! Questa volta ho sbagliato io! Chiama il dottore per ora. Poi si vedrà cosa fare.
Corri... il dottore!”.
“Il dottore!”, fece la mamma infilandosi lo scialle nero e precipitandosi nel buio della strada.
Tornò col dottor Ruju, quello stessa che mi aveva guarito dalla broncopolmonite.
“Che è successo?”.
La sua domanda non ebbe risposta. Mi guardò stizzito e preoccupato dentro gli occhi,
sgranandomeli con le dita.
“Siete fortunati! Fortunati: gli occhi sono salvi”, fece quasi con un respiro di sollievo.
“Il resto guarirà da solo. Col tempo. Ma come si fa a fare queste cose. È pazzesco!”.
“È caduto in un burrone: dentro un macchione di rovi e di sterpi”, disse la mamma,
cercando di salvare la faccia del marito una volta che sentì che gli occhi erano salvi.
“In un macchione? Queste sono percosse! Sono colpi!”.
Il babbo stava lì al focolare. Voleva quasi sprofondare nel pavimento dalla vergogna:
e rannicchiato in silenzio subì, senza smentire, la tirata violenta del medico.
“Voi vi mettete a educare i figli come le bestie che educate alla soma o al giogo!
Usate sempre la frusta e il bastone! Educare è difficile e non si educa col bastone
o coi cespugli, ma con la parola. Ti dovrei denunciare, caro Abramo!
Non lo faccio perché mi rendo conto della vostra condizione e non voglio aggiungere
miseria alla miseria che vi sta addosso da tutte le parti. Ma ti serva da lezione!”.
Il dottore uscì di casa lasciando mio padre mogio mogio come un cane picchiato dal padrone.
“Beh!, il gregge è incustodito. Io me ne torno all’ovile”.
E uscì di casa per non subire oltre il peso della sua situazione. Mia madre mi riportò a letto
e mi mise sul materasso e sul guanciale che non ricordavo più. Il volto e le ferite mi prudevano
ancora. E nel silenzio della stanza tra il dormiveglia rivissi i brani salienti dell’attacco iracondo.
Sul guanciale mi veniva quasi spontaneo contorcermi, scrollare il capo e chiudere gli occhi in tempo,
prima che il cespuglio mi si sbrandellasse in faccia e mi accecasse... Ero stanco e indolenzito.
E il sonno mi avvinse e mi tolse dall’episodio mentre stavo schivando il cespuglio che mi stava
tempestando ancora le tempie.
La mattina, sul dormiveglia, “ero” all’ovile: mi sembrava strano però il fatto che non sentissi
il linguaggio dell’alba di Baddevrustana (che ascoltavo sulla stuoia, mentre il babbo mungeva
le pecore). Lo ascoltavo tra le coperte, e non sentivo l’abbaiare dei cani, lo scampanio delle greggi
del vicinato. Quella mattina la natura non rideva.
Le upupe non cantavano, i cuculi e le piche non modulavano il loro canto.
Eppure io “ero” sulla stuoia, nella capanna. Non appena mi rivoltai, le ferite strisciando
sul guanciale mi richiamarono alla realtà e mi piombarono sull’aia della sera prima.
Mia madre si avvicinò al letto con una tazza di latte zuccherato.
“Ora non devi uscire con questa faccia! È vergogna. Finché non sarai guarito resterai
in casa”. Mi tenne chiuso in casa per una settimana. Doveva salvare la reputazione del marito.
La cosa agli occhi della gente sarebbe stata uno scandalo. Una sera il babbo mi ridette la libertà.
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Al buio mi ricondusse all’ovile. E la mia faccia turgida, abbruciacchiata dalla tintura di iodio,
riacquistò il colore e le proporzioni normali all’aria di Baddevrustana. È rimasta solo qualche traccia
ancora visibile agli zigomi, e nell’animo il ricordo dolente che mi prude ancora”. (Pagg. 79-87).
• A 14-15 anni:
“Ormai mi dedicavo completamente ai lavori agricoli: alla vigna e all’oliveto.
E a quattordici quindici anni zappavo a gara con mio padre. Di pomeriggio, appena ritornava
da Siligo, mi raggiungeva per zappare al mio fianco. Prima di incominciare, come al solito,
controllava la mia resa (sa faina mia).
“Beh! Oggi sei stato bravo. Ne hai fatto abbastanza. Le zolle, però, le devi rivoltare
meglio. L’erba va sotterrata completamente. Altrimenti ricresce di nuovo...”.
... Se invece il mio lavoro era poco o fatto male, al suo arrivo, spesso mi picchiava
con il manico della zappa o se riusciva a trattenersi, sbraitava per tutta la giornata.
Mi dava il filare guida e mi incalzava dietro a ritmo sfrenato.
“Oggi non hai fatto nulla. No as zappadu terrinu de ti coscare: malu fa’ineri
(oggi non hai zappato nemmeno il tratto che basta per sdraiarti: pessimo lavoratore).
Quello che hai fatto lo hai fatto male. Se vede che te ne sei stato a fare i tuoi comodi.
Poi hai zappato alla menefrego”. (Pag. 116-117).
• A 15 anni:
“Compiuti i quindici anni avvenne un’altra evoluzione. Non fu una conquista, però, come quella
che mi consentì di cavalcare il somaro a sette anni e di andare a Siligo da solo.
Ora, man mano che crescevo, la vita diventava più aspra e più austera. Per potermi usare meglio,
il babbo allora mi comprò i buoi. Così a me ora toccava fare di giorno l’agricoltore e di notte il
pastore. Posseduto dal demone del peculio e del potere patriarcale, poteva, come era abitudine,
senza rendersi conto della sfacciataggine, sezionarmi in due, pretendere che lavorassi
in continuazione come lo scorrere del tempo: che oscillassi come un pendolo fra le due attività
fuori dalle leggi biologiche. Se aravo nel capo o nel vicinato, alla giornata, la mattina ancora prima
dell’alba dovevo mungere le pecore con lui. All’alba partivo per arare. La sera, al ritorno, dovevo
ri mungere con lui all’imbrunire.
Durante la notte, spesso, dovevo vigilare il gregge, condurlo al pascolo, schiacciato dal sonno
senza sfogo. Era una bufera interminabile dal buio alla luce.
Spesso al pascolo mi associavo al sonno dei macigni, all’aperto. La stanchezza mi faceva dimenticare
quello che stavo facendo; e ancora un po’ e sarei morto. La vita cessata.
Ero un pendolo che oscillava tra la vita e la morte senza saperlo. E nulla è più dolente
di questa tragica oscillazione. I buoi mi resero la vita ancora più brutale. Piccolo di statura,
quando aravo, se avanzavo dentro il solco, solo la testa folta di ciuffi sfiorava la stiva dell’aratro.
Eppure dovevo arare. Quando la giornata arativa mi usciva fuori zona (fora de issa cussosa)
le cose andavano peggio. Ogni giorno dovevo fare la spola tra Baddevrustana e il campo da arare,
quello che capitava...
... Il più delle volte il campo da arare distava otto dieci chilometri da Baddevrustana:
Melédu, Chercos, sas Baddes, sa Pedrosa. Per percorrerli ci voleva oltre un’ora e mezzo di marcia
lenta, sulla brina o sotto la pioggia e altrettanto al ritorno, durissimo più che l’andata.
Dopo nove ore di aratura, per far contento il padrone dietro l’aratro senza sosta, sulla strada
che tante volte mi aveva sentito ululare, dal freddo, mi sentivo tutto d’un pezzo, rattrappito
in un dolore unico. Solo i piedi, gonfi e sbucciati dentro gli scarponi sempre grandi, e il culo scaldato
e irritato dallo sfrigolio delle natiche sui solchi, riuscivo a sentirmeli separatamente.
Morivo dal bruciore. La notte fregavo, di nascosto, il borotalco alla mamma.
Me lo sbattevo in culo. E cascavo nel sonno più profondo. La mattina alle due mio padre
mi scuoteva dal sonno con la sua voce imperiosa che usciva dal suo letto.
“Oh! Gavì! Gavì!”.
“Hummm! Uhmmmm...”.
“Alzati! Foraggia i buoi! Metti loro la biada! (sa proenda) ci mettono molto per mangiare.
Alle quattro devono essere pronti per partire”.
Io lo facevo quasi meccanicamente, cascante dal sonno. Poi riandavo a dormire.
Alle quattro puntualmente, la voce di mio padre mi ricolpiva: entrava nel tepore dolce del riposo.
“Oh! Gavìì! Oh!, Gavìì!”.
“Ohoo! UhMMMmmm! Ehhh”.
“È ora. Parti!”.
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Partivo a cavalcioni su Boita, il bue più giovane del giogo (de su giù), mentre il compagno,
Piloro (Pelodoro) seguiva trascinato dalla fune alle corna e all’orecchio. Meno male che Boita
si lasciava cavalcare. Mi risparmiava le gambe, i piedi sudati e sanguinanti. Solo che la schiena
del bue, con il deretano in quelle condizioni, non era certo una comoda poltrona.
Una mattina, stanco ed esausto dall’intera fatica della stagione arativa, mio padre, come al solito
alle due ruggì dal suo letto. Io risposi al suo richiamo, subito, come sempre. E nel sonno gli feci
capire di avere sentito. Ma non mi alzai. Non ce la facevo. Il sonno come un cumulo repressivo
era più pesante di me. Mi schiacciava come una montagna e mi inchiodava al letto.
Il padrone mi richiamò ancora per qualche volta ad intervalli di pochi minuti. Non poteva concepire
ribellioni o cambiamenti. Io continuavo a non sentirlo. Ero morto, sfinito, crollato, non mi era
mai successo. Allora lui senza preoccuparsi di nulla, se mi sentissi male o mi fosse accaduto qualcosa
si spiegò il fatto in sé e per sé: io avevo disubbidito. Dovevo pagare. Avrei potuto anche essere
morto in quel momento: avrei disubbidito lo stesso. Avrei pagato lo stesso. Uscì fuori.
Prese una delle due bacinelle in cui noi si metteva la biada ai buoi. Rientrò in casa a lunghi passi
e nervosi. Mi strappò violentemente le coperte di dosso. Mi fregò in testa ed in faccia la bacinella
di zinco tutta brinata (totta iddiada) e smaltata di ghiaccio. Mi richiamò alla vita.
Una cosa terribile. Poi prese un cespuglio di quercia e mi percosse a sangue per un paio di minuti,
sfogando la sua solita ira incontrollata.
“Se ti succede un’altra volta”, ruggì per finire “ti caccio di casa: qui si lavora. Non si mangia
pane a tradimento. Se non ti va, te ne vai a servire (ti che andas a therraccu).
Sei libero di fare come vuoi!”.
Mal conciato dalle botte e dal dolore, nel pianto, andai a foraggiare i buoi. Quella mattina,
naturalmente, non riandai a dormire dalle due alle quattro...”
“... Il problema più grosso venne per la mietitura (sa messera) Alla fine della primavera le cose
si complicarono. A fine maggio, prima l’orzo e l’avena, poi il grano, in giugno, s’indorarono.
La prima mietitura mi attendeva. Io non la conoscevo. I mietitori li avevo sempre visti disposti
in schiera lungo le spighe e davanti ai covoni in piedi sin da piccolo dal basto del somaro
che mi faceva fare capolino sui seminati mentre mi recavo a Siligo, ma la falce non l’avevo
mai impugnata. Quello che mi faceva paura dinanzi a mio padre era il fatto che ragazzi come Nanni
mietevano sin dai dieci anni così bene come io a otto sapevo fare il pastore. Era il suo mestiere.
E ora la mietitura era lì anche per me. Mio padre me l’avrebbe insegnata sempre con due o tre
lezioni fugaci e cicloniche. Toccò al grano di sa Pedrosa inaugurare l’impresa.
La mattina del giorno di San Pietro piombammo sul campo, vicino a Siligo, armati di falci.
Giunti sul grano per mio padre iniziò la battaglia, per me la lezione. In fretta e furia mi insegnò
subito come fare. Come tenere la falce. Come tagliare le spighe e tenerle in mano.
Come fare la manciata e legarla e come fare i covoni (comente la incrabistare e comente fàghere
sos mannùjos). Non era passata mezz’ora dall’inizio della lezione che lui pretendeva fossi già
divenuto un mietitore, quasi lui fosse il creatore che avesse la facoltà di infondermi in un attimo
tutta la sua esperienza e mi rendesse simile a lui con un balenìo del suo cervello.
“Tu non sei buono a nulla. Nanni sa mietere da quando era piccolo. E ora è capace
di legarti dentro il covone, insieme alle manciate. Smidollato. Non vedi che ti cadono tutte
le spighe che tagli? Sei un disastro”.
“Non ci riesco perché non l’ho mai fatto”.
“Così devi fare! Uhmmmm! Hummmm! Così! Così!”, infuriava tondendo furiosamente
le stoppie.
“Prova! Su! Su!”.
Io mi sforzavo al massimo, fino allo spasimo. La cosa non era facile. Sotto la tempesta, poi,
impossibile. E quando si accorse che le spighe che tagliavo non riuscivo a tenerle tutte per mano
e che molte mi cadevano tra le stoppie tosate, la sua bocca tuonò di nuovo.
“Rammollito! Poltrone! Mangiapane a tradimento! Mangione! (budegone)!”.
Con quanta rabbia aveva in corpo mi faceva vedere nervosamente ancora una volta come mietere.
Evidentemente, preoccupato, per altre ragioni, si angosciava ancora di più per il tempo che stava
perdendo ad insegnarmi a fare le manciate. Che io sapessi mietere dopo mezz’ora, purtroppo,
non era possibile. È un’arte che apprende con il tempo. Come al solito, la lezione da rabbiosa
si fece feroce. Come se le spighe che mi cadevano fossero una parte del suo sangue e avesse paura
di essere dissanguato, perse la calma. Risuonò con le sue bestemmie quasi per suscitare il temporale
delle sue botte. Subito fischiò la bufera. Dietro di me sentii il turbine. I nembi si addensarono
e l’uragano scoppiò subito. Fu la grandine dei suoi colpi. Mi percosse atrocemente.
491
Gli schiaffi si alternavano ai pugni sull’aiuola che avevo mietuto, mentre i suoi calci uno mi atterrava
e l’altro mi rimetteva in piedi per ricolpirmi con le mani. Uno dei suoi pugni, purtroppo, mi prese
alla nuca. Il buio mi sommerse. Vidi le stelle, un turbinio di luci, di bagliori, e caddi per terra
stramortito, privo di sensi sulle stoppie. Mi lasciò lì, finalmente; lui si sfogò mietendo covoni
a catena...”. (Pagg. 118-124, passim).
• A 18 anni:
“Avevo 18 anni, e da sempre oltre alla passione per lo studio soffocata, ma rimasta viva
nel mio intimo, c’era anche la musica.
... Una volta, di ritorno a Baddevrustana, uscendo da Siligo, mi venne incontro un giovanotto
baffuto suonando una smagliante fisarmonica rossa. Dietro c’era la solita donna che
con il pappagallo vendeva la fortuna ai passanti. Il giovanotto suonava speditamente un bel valzer
brillante. E io che procedevo dietro Pacifico, senza accorgermene mi fermai - incantato per ascoltarlo. Ammaliato e vinto da quelle note e da quei bassi, trasportato quasi da una forza
magica, tallonai il suonatore che riattaccò con un bel tanto e mi attrasse con una mazurka.
Credo, da quello che posso ricordare, che fosse questa la sequenza dei ballabili.
Mi dimenticai di tutto. In quello stato di trance musicale mi passò più di un’ora senza che me
ne accorgessi. Finalmente il suonatore fece una pausa.
Si appoggiò ad una gradinata e aspettò la sua donna. Lo guardavo con invidia.
Volevo essere come lui. Avrei venduto me stesso per avere quella fisarmonica.
I pastori, che sbucati dalle loro case lasciavano Siligo, mi scossero con i loro versi incitando i somari:
“Prùuuu, Prùuuu. Sàaa. Prùuuu inoghe sàaa! Dààààà! Ffffff! Fffffff!”.
Rinvenni di soprassalto. Mi sentii soffocato dall’ira inesorabile di mio padre, prima ancora
che mi colpisse fisicamente. Nel mio trotto mi contorcevo: sentivo ed evitavo i colpi della
sua punizione. Il mio trotto divenne corsa impazzita verso Baddevrustana, dove speravo di ritrovare
Pacifico. I talloni mi sbattevano sulle natiche.
La mia corsa affannosa, però, quasi per ironia della sorte, di tanto in tanto mi veniva interrotta.
Gli scarponi mi erano grandi e nello sgambettio sfrenato se ne uscivano.
Mi ritrovavo scalzo ora di un piede ora di un altro.
Alla fine per fare più in fretta, presi gli scarponi per mano e via scalzo sulla strada ghiaiosa.
“Pacifico! Pacificooo! Eccolo là! Speriamo che non abbia perso nulla. Sennò il babbo
me le suona veramente oggi”. La bestia si era fermata all’uscita del paese (in sa rughe).
E stava mangiando i suoi cardi preferiti sulla banchina. La raggiunsi di corsa: si spaventò di me
e della mia paura. Sollevò il muso dall’erba masticando gli ultimi steli e rimettendosi sulla strada.
Lo tranquillizzai con i soliti ssc! sssc! Esssci sàà! Lèèè! pruè, pruè! Si fermò. Uno sguardo al carico.
Non aveva perso nulla. Portava tutto: i bidoni e la bisaccia. Infilai gli scarponi, montai in groppa e via
a trottone stringendo Pacifico con gli scarponi perché non se ne uscissero di nuovo con le gambe
penzoloni. Lo incitavo fino allo spasimo per annullare il ritardo.
Ma nonostante Pacifico fosse veloce e potente, il tentativo fu inutile: il trotto più spedito
non avrebbe più potuto riprendere il tempo perduto.
Nella mia disperata rimonta, io speravo che il babbo fosse assente.
Quel giorno invece, quasi mi aspettasse, mio padre stava sullo spiazzo. La sua vista mi raggelò
sin da lontano.
“Che gli dico? Che sono dovuto ritornare indietro da mesu mundu? Che la mamma non si è
ricordata di mettere il pane nella bisaccia? Che Pacifico mi è scappato? Ha sentito un’asina
in fregola. Mi ha buttato giù e io non l’ ho trovato subito? Mi è fuggito a Riu Ruzzu?”.
Mentre rimuginavo, costruendo le mie trincee, la mia mente fu paralizzata dalla voce del babbo.
Non appena gli fui di fronte, sbottò.
“Come mai questo ritardo, oggi? Due ore! Che ti è successo?”.
La colpa mi impedì di parlare. Mi soffocò in gola la frase salvatrice. Rimasi disarmato, sul basto,
con gli occhi stralunati. Il sudore e l’ansimare di Pacifico, poi, inviperirono mio padre.
“Scendi! Svelto! Oggi non la passi liscia! Prima fai ritardo. Poi tocca alla bestia rimediare
ai tuoi capricci, animale! Animale che non sei altro! Tutto un bagno di sudore,
povera bestia!”.
In un baleno egli ricostruì la mia inutile rimonta. Furono le solite botte. Due ore di ritardo.
Cinque minuti di furia educativa: schiaffi, rimproveri e staffilate con la fune di Pacifico.
La solita “aia” davanti alle urla. Altro che musica! A questa passione mio padre
non poteva pensare...”. (Pagg. 145-147).
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SINTESI DEL PROCESSO DI STRONCATURA DI UNA LIBERA GIOVENTU’.
• Si tiene in isolamento un bambino fin da piccolo, facendolo lavorare progressivamente
sempre di più in misura disumana, mantenendolo in condizioni di vera e propria schiavitù,
senza possibilità di ribellione o di fuga.
• Lungo anni ed anni lo si sottopone a frequenti percosse, che arrivano fino alle lesioni
fisiche personali, ad ogni minima infrazione al volere dittatoriale del suo persecutore
(volere spesso nemmeno dichiarato espressamente).
• Si ottiene infine un giovane di 18 anni che vive nel terrore delle percosse paterne
dinanzi alle quali cade in uno stato emotivo da bambino smarrito e paralizzato
da una paura senza nome umano.
Lo sfinimento da lavoro.
“Io avevo solo otto anni... Ora che sapevo anche mungere ero un pastore completo.
Bastava solo crescere ed attendere che la biologia mi desse la forza. Il tempo idilliaco era per sempre
finito. Mio padre allora passò all’educazione agricola cui fino ad allora ero rimasto estraneo.
Subito mi insegnò a zappare all’oliveto e nella vigna. La sua educazione fu più fugace che mai:
ciclonica come imponevano le circostanze. Lui zappava come un dannato, al punto che non
sopportava di perdere un minuto per introdurmi alla nuova attività. Di tanto in tanto, e solo
rapidamente, mi faceva vedere come tenere la zappa. “La destra la metti davanti, la sinistra
dietro. La mano sinistra, con questo movimento... così; abbassando il manico ti aiuta
a rivoltare bene le zolle. È un tocco segreto che si acquista nel tempo”.
La lezione me la ripeteva due, tre volte al massimo. Al resto dovevo pensare io. Toccava a me rubargli
il mestiere e i segreti osservandolo attentamente e con paura. Come avevo appreso a mungere
e tutte le altre cose. E nonostante la rapidità delle sue lezioni, non ci misi molto a zappare, a rivoltare
bene le zolle (a bostulare ene sas cheves). In poco tempo, in questo modo frettoloso,
con un’educazione “fuggiasca” e inesorabile, mio padre mi insegnò quanto l’agricoltura comportava.
Quando potava (cando illistriada ), lo seguivo sul filare e portavo via, ricomposto in fasce, il sarmento
da una parte e lo accatastavo...
... Dovevo intuire volta per volta quello che lui voleva senza che lui mi dicesse nulla.
Si lavorava dall’alba al crepuscolo (dae s’avvéschida a iss’interighinada). In continuazione.
E durante i temporali invernali e le nevicate, quando gli agricoltori se ne stanno nei loro paesi,
nelle loro cantine a gustarsi il vino perché la terra non si può lavorare, il babbo non se ne stava
a pancia a fuoco comente ‘e battu chijineri in pagu fogu (come gatto ceneroso sul fuoco morente).
Lui trovava sempre qualcosa da fare.
“Andiamo a controllare i muri. Il vento di stanotte avrà tolto via la siepe da qualche varco.
Il bestiame altrui (su bestiamene anzenu) può introdursi nel pascolo ancora intatto
(in su pasculu innidu). Andiamo! Tu vai da quella parte. Io da quest’altra”...
... Per lui, però, questo non era lavoro. Non suonava produzione. Era un incidente.
In questi periodi, l’unica cosa che per lui suonava lavoro era l’unico lavoro che si poteva fare:
abbattere alberi ed estirpare ceppi nel bosco.
“Appena schiarisce, prendiamo gli arnesi ed andiamo ad abbattere s’avure ‘e sa codina,
non ce ne stiamo qui tappati. Fuori, al lavoro, si fa movimento e ci si mette il sangue in moto
(su sambene in motu)”.
Il suo temperamento laborioso e volitivo presto aveva fatto di me un perfetto spaccalegna prima
ancora che fossi in grado di reggere il peso della scure... (Pagg. 88-91-92).
“Con un solo colpo di zappa affondandola bene nel terreno lui estraeva l’olivastrello insieme alla terra
(cun su pane de sa terra) senza che se ne accorgesse e lo deponeva nella gerla...
...“Le gerle sono piene, ba’!”...
...“Questa gerla mi pesa. Ce ne sono cinque”.
“Cambia spalla. Così!”.
“Non ci riesco. Provo. Eh! Ah, sì! Solo che è più difficile”.
“Ti devi abituare al peso. Il lavoro ti deve mungere come una mammella. Il peso ti deve
pressare come la vinaccia al torchio”... (Pagg. 135-136).
493
...“Beh ! Se uno incomincia da giovane a lavorare un uliveto, quando è vecchio può godere
dei frutti delle sue piante. E’ da quando avevo meno di trent’anni che ho incominciato
a piantare. Molte di esse non hanno attecchito e come vedi le stiamo rimpiazzando.
Ci vuole molto per fare in oliveto: una vita”.
Ci faceva vivere nella speranza: un giorno ci avrebbe arricchito. Ci faceva vivere più che mai l’angoscia
del pastore e del contadino in proprio. Ci avvinghiava sempre di più con gli artigli della speranza
di divenire potenti anche noi: leoni come thiu Larentu e don Juanne.
Nella povertà più meschina e più nera, già ci faceva vivere il giorno della ricchezza.
Non aveva importanza quando sarebbe avvenuto, vicino o lontano.
L’importante era sentirlo e viverlo in quell’angoscia. Sentirsi liberi e illudersi di viverlo presto o tardi.
Noi lo si pensava. Si cercava anzi di farlo sorgere con il pensiero, quel giorno.
Non potevamo sapere che al di là dell’orizzonte dell’oliveto c’era la storia, che aveva sbrandellato
l’economia dei campi; e che noi stessi eravamo divenuti un’appendice.
E allora perché questo entusiasmo e questo dinamismo per la produzione?
Perché tanta fantasia per la costruzione delle chimere e tanta foga per inseguirle?
L’anelito della ricchezza si era sprigionato dentro di noi in maniera cieca e irrazionale.
L’egoismo personale insomma, che nella cattiva sorte prima era la difesa che alimentava lo spirito
di conservazione, ora nella buona l’oliveto lo trasformò in egoismo feroce, in cieco furore
per il guadagno, gettando uno spettro letale sulla nostra esistenza.
Così come altre chimere lo gettava su tutta la massa di campagna. I paraocchi per cui non era possibile
vederci e rivelarci come classe sfruttata da un’altra. Guardando le pecore che crescevano di numero
e l’oliveto che s’innalzava sempre di più verso il cielo, ci succedeva dunque di vivere quello stesso
egoismo che nella mala sorte ci tuffava come cani famelici sul tozzo di pane, sulla preda.
Eravamo figli di quell’egoismo che ci salvò dalla fame; e ora, nella buona sorte, non potevamo mutare
metro. E quella speranza che ci fece vivere contenti, nella nostra beata ignoranza, tutto il rigore
dell’esistenza precedente, ora ci lanciava nella lotta del possesso.
L’unico linguaggio per divenire era il guadagno: la competizione sul lavoro come base morale
per entrare nel prestigio sociale. Una vera sfida spietata e senza quartiere.
Ora so che tutta questa corsa sfrenata per l’accrescimento del peculio in antagonismo con gli altri
non era altro che il senso incontrollato dell’inconscio alla ricerca rapace del “mio” opposto
al “tuo” come terreno necessario per divenire.
Era il nostro “io”, ora lo riconosco, che diveniva come le querce in continua lotta tra di loro
e con il sottobosco che soffocavano con le loro branche. Ognuno di noi era una quercia in lotto
spietata e dichiarata in aperta campagna. Tutti i pastori erano un bosco di querce che infiltravano
a gara le loro radici nel terreno e innalzavano le loro branche in cerca di spuntare una sull’altra:
in cerca di sottrarre l’aria all’altra. Querce che avevano la facoltà di ridersi del sottobosco
(dei loro servi) e delle altre piante che avevano superato in altezza.
Che strano bosco e che razza di lotta dell’istinto!
Ora capisco che noi, come gli altri pastori e gli altri contadini, articolavamo la nostra esistenza
sull’istinto e sulla brama del possesso come quelli che al di là dell’orizzonte del nostro campo facevano
la storia e ne tracciavano il senso. È una scoperta che mi ha stupito, ma che sento di confessare.
Facendo le dovuto proporzioni, noi tutti non eravamo meno borghesi di quelli che ora definisco
borghesi. La stessa lotta nel guadagno basato sull’istinto del possesso:
la stessa aspirazione a primeggiare sugli altri quasi per distruggerli.
Certo, una borghesia in embrione, ma sempre con gli stessi caratteri e con la medesima ferocia
nel voler essere tale. Con sue norme rigide prima nel far fronte alla sopravvivenza e nello strafare
nel potere poi quando le circostanze lo favorivano. Naturalmente allora non lo sapevamo.
Quello stato era la molla della nostra esistenza istintuale. Il paradosso più assurdo era però che
accanto alla borghesia che deteneva il potere, noi stessi vivevamo la nostra “borghesia inconscia”
come base della borghesia effettiva. Una crudele scoperta.
Altro che individuarci come massa sfruttata. Noi tutti inseguivamo le chimere del nostro egoismo
sulla base dei singoli egoismi contrapposti e pronti a sbranarci a vicenda come in lotta per la preda.
È triste veramente ora per me sapere che i pastori non la conoscono questa tremenda verità.
Ed è dolente che loro continueranno a urlarsi come i loro cani il “mio” e il “tuo” in modo bestiale
e ferino. Vivranno ancora sbranandosi a vicenda e sputando sangue per padroni che non conoscono.
Su questa base di egoismo granitico e rapace, mio padre aveva costruito l’oliveto.
Sulla morale dell’istinto, sostenuto dalla chimera della ricchezza.
Ora mi sembra strano che anche lui battesse una strada curioso e contento come quando io in groppa
al suo somaro inseguivo i suoi zuccherini.
494
Una forza impalpabile ed invisibile glieli offriva. E lui come tutti gli altri, la inseguiva per prenderli.
E contento soffriva con piacere. Curvo, lavorava come un dannato, ma la brama del possesso
gli rendeva leggero ogni peso. Gli faceva impazzire la zappa e gli arnesi di lavoro.
E per realizzare il più possibile, quasi per lasciare le tracce ai posteri, inseguiva anche lui questo mostro
comune. La tirannide titanica del suo egoismo lo costringeva incessantemente a dilatarsi senza dolore
i muscoli sul lavoro. Lo mungeva veramente. Lo prendeva con la sua mano e come un pastore esperto
e avaro lo spremeva come se fosse la mammella di una pecora.
Non gli lasciava una stilla di latte. Tutti eravamo come incorporati da questo demone
che ci svegliava di notte e ci pungiglionava di giorno sui campi per la produzione.
Il nostro sangue ribolliva nello sforzo. Cadeva a terra.
Si raggrumava. E noi si era contenti. Non potevamo pensare che il frutto del nostro sangue
se lo sarebbero mangiato i rapaci urbani, lucidi e riposati nelle loro comode case. Ognuno costruiva
da giovane per la vecchiaia, senza sapere che - in una società siffatta - la vecchiaia sarebbe stata
(oliveto o meno) tragicamente disprezzata da tutti i giovani! E si affidava a questo demone che
spandeva per i campi le nostre energie disseminandole a suo capriccio, rendendoci felici di questo
sbrandellamento delle nostre carni: ignorando le calamità e i capricci della natura”. (Pagg. 135-139).
NOTA BENE.
Nell’inverno del 1956 l’inferno fu eccezionalmente freddo: un gelo mai visto né prima né dopo.
L’oliveto costruito in decenni di sforzi infiniti e costato ad un ragazzino dolori e fatiche e costrizioni
disumane ed indicibili, venne completamente bruciato dal gelo, distrutto.
Le sofferenze che lo avevano nutrito, nello stesso istante furono completamente vanificate e private,
lungo tutti gli anni precedenti, di qualsiasi valore umano avessero potuto avere.
Vale la pena di leggere le splendide pagine nelle quali Ledda descrive gli atteggiamenti e le parole
del padre nello scoprire la morte delle sue piante di olivo. (Pagg. 139-144).
BREVE COMMENTO.
Quali spunti possono ricavare i lettori del sito dalla lettura di queste pagine autobiografiche
nelle quali Gavino Ledda descrive - con obiettività di narratore che preferisce l’esposizione dei fatti
ai commenti - l’educazione ricevute e le condizioni psicologiche della sua vita nell’infanzia?
A parere di QUATTRO, molti. Si faccia - ovviamente - la debita trascrizione dalla chiave originale
(educazione che addestra il bambino alla pastorizia ed all’agricoltura, nell’ambiente della Sardegna
più tradizionale, nel periodo immediatamente precedente e successivo alla Seconda guerra mondiale)
ad una chiave attuale più usuale e più urbana (come può essere il caso di molti utenti del sito).
Poi lo schema descritto è applicabile a qualsiasi situazione familiare nella quale genitori autoritari
(l’uno attivamente artefice, l’altro complice per debolezza incapace di protesta) applichino
sistematicamente al bambino i principi della pedagogia nera (che la Miller renderà - anni dopo Ledda universalmente noti nella estesa descrizione del suo completo impianto teorico.
Ovviamente, come hanno poi confermato gli studi successivi, anche il persecutore ha subito
nella sua infanzia lo stesso trattamento (Ledda riferisce espressamente che anche suo padre
fu da bambino piccolo portato a fare il servo pastore sul monte, che fu sottratto alla scuola,
che non ebbe nell’infanzia calore di affetto bensì durezza, fatica, abbandono rimase orfano di padre
a 12 anni), maltrattamenti e sfruttamento.
A modesto parere di QUATTRO non sembra tuttavia che la conoscenza di questo elemento
nell’infanzia del padre abbia reso in nessun modo minori, meno dolorose le sofferenze
che Gavino Ledda ha subito dai 5 ai 19 anni.
Né le pagine di “Padre padrone” lasciano intravedere (nemmeno dopo lo spavento per avere esagerato
nelle percosse al figlio, o dopo le critiche o i rimproveri di altri adulti) la minima tendenza
del padre dominatore a mettere in discussione la sua precisa convinzione dittatoriale
che tutti i membri del mondo della sua famiglia obbedissero al suo preciso volere come
degli schiavi senza diritti né volontà propria.
Si legga (a chiarimento della dinamica psicologica della lotta di potere tra la struttura di personalità
del padre padrone e il figlio che con ogni mezzo cerca di sottrarsi a lui) la parte finale del libro:
pagg. 209-211 e soprattutto le pagg. 225-245 che descrivono stupendamente lo scontro finale.
495
Da un lato vi è la dignità della posizione del figlio: senza violenza aggressiva o anche soltanto accuse
al padre, il figlio si limita a difendere semplicemente il suo diritto a vivere la propria vita,
nella forma del proprio diritto di studiare. Dall’altro vi è la sconfitta impotente del padre totalitario,
ormai impotente a dominare, ma non per questo capace di riscattarsi dalla sua posizione di sempre.
Questa rimane sostanzialmente (è triste constatarlo) intrisa di egoismo, di meschinità calcolatrice
ed incapace di manifestare calore di affetto paterno, anzi addirittura rivelantesi in un suo nero
dichiarato rifiuto della persona del figlio e dei suoi bisogni e diritti umani.
Anzi - sotto la pressione di un duello verbale che si arresta proprio alla linea che darebbe luogo
alla lotta fisica violenta - dall’animo del padre padrone sconfitto escono infine le parole
che forse sono sempre state presenti nel cuore, ma che l’ubbidienza del figlio nel servirlo
ha impedito che venissero pronunciate:
“Io non ti aiuterò!”.
“Io voglio che tu te ne vada al più presto”.
“Lascia questa casa. Vattene. Salta la porta e non rimetterci più piede, sennò ti sfregio per la vita.
Sparisci e che i miei occhi non ti vedano più”.
E qui, in un attimo solo, il figlio da sempre sottomesso e privato della sua dignità di uomo
per la sua costante condizione di servaggio verso il padre, diventa insieme adulto, e libero
ed indipendente. Lo diventa perché:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Ha sfidato il padre,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• L’ha fronteggiato senza cedere,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• L’ha combattuto e vinto con le proprie armi: l’intelligenza, il coraggio,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• È rimasto se stesso, senza lasciarsi snaturare ad imitare la violenza del padre.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Così termina “Padre padrone”: nonostante sia uscito vincitore dallo scontro con il padre,
il figlio deve allontanarsi da casa e cercare altrove (ancora una volta solo) sia i mezzi
per sopravvivere, sia le occasioni per continuare sulla strada scelta, coltivare la sua mente
per vivere, per esistere pienamente.
Molteplici e lunghe sono state infatti le tappe che questo essere umano - fin da quando era bambino ha dovuto percorrere per affrancarsi dalla servitù e dalla non esistenza in cui l’ha gettato il suo
destino. Alcune sono avvenute nello stesso ambiente della sua prigionia esistenziale,
e sono state dei due tipi opposti:
• Forme di ribellione esteriore, naturali e vitali: i tentativi di fuga. Purtroppo furono rese inefficaci
da cause esterne all’energia del soggetto (l’immediata fuga appena sottratto dalla scuola,
a cinque anni; il tentativo di allontanamento dall’ambiente mediante emigrazione in Olanda
a 19 anni, reso vano dalla mancanza del consenso paterno necessario per la minore età
del soggetto allora ancora legalmente minore di età);
• Una forma di germinazione sotterranea, inavvertita dal soggetto stesso e fortunatamente
non impedita (anche se osteggiata e disapprovata) dal padre, di libera possibilità di essere se stesso:
la coltivazione sia pure iniziale e sempre appartata, nascosta, della propria passione naturale
per lo studio della musica.
Le altre esperienze che hanno portato al completamento del processo di nascita del soggetto
alla condizione psicologicamente umana, sono state vissute nell’ambiente esterno
a quello della sua nascita:
• L’arruolamento nell’esercito;
• Il confronto con la realtà comune, esterna al suo mondo di origine;
• L’inizio del cammino verso la conoscenza, il sapere: il lungo cammino dello studio, percorso
tenacemente, caparbiamente, tra difficoltà oggettive ed interiori, per anni ed anni fino
ad arrivare alla laurea, all’insegnamento universitario, alla scrittura che infine ha potuto permettere
all’antico bambino di Baddevrustana di fare sentire forte e chiara la sua voce, anziché restare spento
nel silenzio, dentro il suo isolamento in se stesso.
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Ma prima di lasciarlo anche noi, proviamo a pensare quali conseguenze abbia avuto
sulla sua personalità, sulla sua mente, la lunga serie degli anni del suo isolamento,
e delle privazioni a cui è stato sottoposto.
A parere di QUATTRO possono esservi state conseguenze di diverso tipo:
• Conseguenze esteriori di importanza secondaria in quanto superficiali:
l’avere fatto soltanto a 18 anni l’esperienza di fare un viaggio in pullman o in treno;
o a quasi 20 l’esperienza di un viaggio in nave traghetto, costituiscono certo fonte di sensazione
di diversità rispetto agli altri. Ma il divario è facilmente colmabile grazie al fatto di fare e poi rifare
tali esperienze, sostanzialmente esteriori, materiali.
• Conseguenze esteriori di maggiore rilevanza psicologica:
la difficoltà non soltanto ad interagire con i coetanei (vivendo nelle stesse condizioni ambientali),
ma addirittura e soprattutto a parlare con gli altri, per un problema di comunicazione linguistica,
a 20 anni, durante il servizio militare:
“In una camerata trovai veramente una piccola Sardegna composta di ragazzi con le mie stesse
condizioni psicologiche. Si parla il sardo. E anche se sul piano culturale erano più progrediti di me
in senso “ufficiale” (quasi tutti avevano frequentato regolarmente le elementari), tuttavia quando
erano costretti a rispondere ai superiori anche in loro potevo notare la affannosa espressione
a singhiozzo. Anche loro erano balbuzienti. Le nostre risposte erano sempre delle traduzioni
dal sardo. La paura reverenziale che si doveva tenere verso i “superiori” unita alla simultaneità
della traduzione, rendevano ancora più lente e spesso ridicole le nostre risposte.
I calabresi, i siciliani, i napoletani, a parità di cultura, si esprimevano nel loro dialetto e facevano
più figura di noi. La lingua nazionale era sempre più lontana dal sardo che da qualsiasi altro dialetto.
Tra di noi però potevamo esprimerci in sardo a patto che non fossimo di servizio
e che non ci fossero “superiori” presenti (avremmo potuto burlarci di loro impunemente).
E questo era un fatto che costringeva noi sardi a stare sempre insieme: un branco
di “animali diversi”. La divisa ci accomunava solo per i superiori, ma nella realtà tra noi sardi
e gli altri soldati c’era di mezzo la separazione della lingua”. (Pag. 195).
• Conseguenze interiori:
sia sul momento, sia a distanza di tempo lungo tutti gli anni tenacemente impegnati
in un quasi sovrumano sforzo di studiare per ottenere un riscatto intellettuale e culturale:
1. La difficoltà a comprendere, sia per limitata informazione nozionistica, sia per più profonda
carenza di formazione mentale allo studio ed alla cultura.
2. La prosecuzione dell’antica solitudine e dell’antica fatica anche nello studio,
come già un tempo nei lavori materiali.
3. L’abitudine alla libertà della vita pastorale nelle montagne, che non ammetteva nel suo mondo
intrusi né ordini se non dalle sole forze della natura. Di conseguenza estrema difficoltà a vivere
nell’ambiente sociale militare, dove la caserma veniva percepita come un’immensa prigione.
4. Una particolare alterazione nella percezione della realtà esteriore, o meglio del rapporto,
del confronto tra la realtà esteriore ed il mondo interiore, con una inevitabile tendenza
a fuggire nel mondo fantastico della propria interiorità.
Lasciamola descrivere dalle sue stesse parole:
“I primi giorni furono per tutti un vero supplizio. Per me, però, fu ancora peggio.
Ero abituato a quella libertà pastorale delle montagne che non ammette nel suo mondo né intrusi
né ordini se non dalle sole forze della natura. Cinta di mura invalicabili la caserma mi sembrava
una immensa prigione. Non mi davo tregua. Andavo continuamente da una parte all'altra
per i corridoi delle tetre camerate, interminabili labirinti...
... Il mio sardo lì non lo capiva nessuno. Io ero “muto” e senza una lingua: come un essere
inferiore che non poteva esprimere ciò che pensava. Per parlare allora dovevo fare più o meno
come facevo a Baddevrustana nel silenzio del bosco dietro il gregge. Dovevo rientrare nel “mio”
mondo che fortunatamente anche a distanza mi rapiva e mi distoglieva da quella desolazione.
Il mio cervello, disperato, come per creare un rifugio al nuovo ambiente ostile, secerneva fantasia
viva: creava immagini. E con la disperata nostalgia, non potendo comunicare con altri, riviveva
e si rievocava, golosamente disperato, il mondo che conosceva, anche se lo aveva lasciato
al di là del mare: si rifiutava completamente di conoscere il mondo militare.
Voleva vedere natura senza divisa”. (Pagg. 191-192-193).
497
Ma, per comprendere l’alterazione insita in questa difficoltà di entrare in contatto con la realtà
e l’effetto compensatorio di questo sistematico ricorso al vivere nella fantasia, è necessario
tornare indietro nel libro, alla precisa descrizione che l’Autore fa del suo rapporto con la natura,
già perfettamente definito all’età di 6 anni, dopo un solo anno di isolamento dai coetanei
a causa della sue costante permanenza nell’ovile, lontano dagli altri ragazzi, lontano dalla scuola,
dal paese intero, dalla sua famiglia.
A parere di QUATTRO questa descrizione è basilare per intuire una già presente profonda
trasformazione nel rapporto tra il soggetto e la realtà, a soli 6 anni.
Le ripercussioni di tale trasformazione sui vissuti interiori del soggetto lungo tutte le circostanze
e le relazioni umane degli anni successivi sono - a parere di QUATTRO - inimmaginabili.
Inimmaginabili sia come fonte di sofferenze, sia come forma e natura loro stesse, in assenza
di una precisa descrizione da parte del soggetto stesso.
“... Confesso che non vedevo l’ora di ritornare in campagna. Ormai mi ero affezionato a tutto ciò
che vi avevo lasciato e mi ero abituato a sentire e capire quel silenzio che un anno prima mi faceva
paura. Sulla terra ormai non esisteva nulla di tanto apprezzabile ed amabile quanto il nostro campo
con i suoi alberi e le sue scoscesità;
Rusigabedra e le pecore. La natura tutta del nostro campo era qualcosa di cui ormai io facevo parte.
Ero rinato con essa. Ero entrato e ricresciuto nel mondo animale, minerale e vegetale
e non potevo più sentirmene fuori.
La solitudine del bosco e il silenzio profondo dell’ambiente, interrotto solo dal vento, dai tuoni
o dallo scoppio del temporale in lontananza d’inverno, orchestrato dal canto degli uccelli
e dal crogiolarsi della natura in primavera, ora per me non era più silenzio.
A furia di ascoltarlo avevo imparato a capirlo e mi era divenuto un linguaggio segreto per cui tutto
mi sembrava animato, parlante e in movimento. E almeno al livello affettivo della mia fantasia potevo
comprenderlo e parlarci. Quasi conoscessi tutti i dialetti della natura e li parlassi correttamente al
punto da impostare con essa, nel mio silenzio raccolto, le uniche conversazioni che mi erano possibili...
... A ogni albero, a ogni macigno, a ogni pecora, a ogni punto o conformazione del terreno
del “nostro” campo o dei monti circostanti e dell’orizzonte, avevo appioppato un nomignolo affettivo
che tenevo segretamente nascosto in quel silenzio con cui, in un certo modo, ogni cosa mi parlava
e per me era viva. La mia fantasia trasferiva nomi e figure, vissute durante la breve infanzia sociale
di Siligo, nelle cose o nella realtà fisica del nostro campo o dell’orizzonte che osservavo vivendolo
dalla capanna o dal bosco.
Tutta la realtà, dagli alberi ai picchi delle montagne, dalle rocce alle grotte, dalle pecore alle bestie,
la rassomigliavo a persone o cose che io, occasionalmente, avevo visto altrove.
A causa della solitudine la natura per me rappresentava un “tu” indefinito: l’unico “tu” amico
con cui poter comunicare senza vergogna né soggezione. Ogni particolare della realtà circostante
mi evocava un nome che la animava e me la rendeva parlante.
Thiu Pulinari (un vecchio pastore del vicinato che io vedevo occasionalmente mentre si abbeverava
le pecore) era una roccia lontana che spiccava all’orizzonte su un monte.
Su Gobbe (un povero gobbo che avevo conosciuto nella mia infanzia di Siligo e che era divenuto tale
sin da bambino a causa di una incornata di un montone) ora era per me un albero gobbo
del nostro campo. Questa lingua intima tra me e la natura che, in fondo, era la lingua del silenzio,
mi era divenuta naturale e familiare quasi la realtà fosse il silenzio e le cose fossero le sue parole.
I nomignoli e il “taglio” della realtà che io creavo o facevo all’unisono con quel silenzio,
li usavo anche quando parlavo con mio padre.
Gli denominavo le nostre bestie e le cose come esse parlavano a me nel loro silenzio.
Così mio padre nei nostri discorsi si immedesimava nella mia fantasia creatrice senza difficoltà.
Non aveva ancora dimenticato quella della sua infanzia solitaria vissuta negli stessi luoghi
e nelle stesse condizioni.
Anche lui forse aveva denominato persone e cose a furia di guardarle, ascoltandone il silenzio.
La facilità con cui recepiva i nomignoli che io ingenuamente davo alle cose e il modo con cui poi
anche lui li usava con me, erano il segno di come aveva trascorso una infanzia simile alla mia
e che ancora si trascinava nel suo intimo, nella sua mentalità di pastore temprato.
Spesso facevo dei soliloqui. E a furia di parlare con il mio intimo o con la natura tramite il silenzio,
la parola per me stava perdendo importanza. La lingua e la gola (sa limba e sa ula),
il fiato e le corde vocali, le usavo solo per emettere gridi e urla contro le volpi.
Così se all’improvviso mi capitava di dovermi esprimere nella “lingua sociale” con mio padre
498
e peggio ancora con altri, mi trovavo impacciato. Non parlavo quasi mai.
E anche se nelle vicinanze c’erano altre capanne e altri ovili con i rispettivi pastorelli, non ci potevo
andare. Mio padre me lo impediva. La tradizione lo proibiva.
I padri non permettevano che i loro figli si incontrassero tra di loro. Avevano paura che si scambiassero
i vizi e lasciassero il gregge incustodito. Se talvolta accadeva che noi pastorelli ci si incontrasse tramite
sotterfugi o per caso e i genitori venivano a saperlo, erano botte furiose.
Si aveva paura di incontrarci. E se casualmente l’uno doveva cadere sotto l’occhio dell’altro
ci si metteva in fuga lungo i muri di confine. La paura dell’incontro veniva alimentata anche
dal fatto che quasi sempre tra i pastori del vicinato non correva buon sangue.
Per un motivo o per l’altro, si era sempre in briga.
Di solito il motivo principale che ci inaspriva era il fatto che le pecore di uno sconfinavano
o saltavano nel chiuso dell’altro (in su cunzadu de s’atteru). E per paura dei grandi, i piccoli
dovevano ignorare gli ovili vicini o per lo meno ricordarli come focolai nemici”. (Pagg. 55-57).
“... Quando passava qualche cacciatore facevo di tutto per scomparire.
Se non me ne davano il tempo, mi infrattavo nella macchia o mi abbassavo dietro i macigni
o i mucchi di pietra (a issegus de sas crastos o de sas moridinas) o mi rintanavo dentro le cavità
delle querce (intro de sas tuvas de sos chercos).
Spesso correvo il rischio addirittura di essere scambiato per selvaggina da parte dei cani.
Io, però, non potevo comportarmi altrimenti. Non ero in grado di parlare con nessuno.
Mi vergognavo e avevo soggezione della presenza altrui.
Conoscevo solo le pecore, le cose del nostro campo e il suo silenzio che nella sua parola segreta
non poteva gabbarmi né burlarsi di me, come spesso facevano i ricchi cacciatori che non sfuggivo
in tempo e che conoscevano bene la mia condizione”. (Pag. 66).
CONCLUSIONE.
Termina qui la citazione di quest’ultimo, più profondo, aspetto delle conseguenze che la situazione
ambientale può avere prodotto sulla formazione della struttura di personalità del soggetto,
lungo 15 anni di ininterrotta influenza.
Non rientra negli obiettivi (né nei diritti psicologici) del testo del sito approfondire l’analisi psicologica
dell’autore del libro. Nell’esprimergli pubblicamente un ringraziamento per avere concesso
l’autorizzazione ad una operazione di rimpasto del materiale letterario della sua opera nell’intento
di dare una lettura psicologica delle condizioni di vita di un essere umano dalla sua infanzia
alla gioventù, QUATTRO desidera concludere questa sezione del sito con una raccomandazione
ai lettori. La domanda che il sito non pone pubblicamente:
“Quale influenza ha avuto la vita nell’infanzia e nelle prima gioventù sulla formazione
della personalità e nello sviluppo di eventuali problemi successivi nei rapporti umani?”,
sarebbe utile che ogni lettore ponesse a se stesso, nella privatezza della propria ricerca interiore,
giacché ognuno può avere patito - nel suo piccolo - tirannie che l’hanno fatto soffrire.
E ogni dolore merita rispetto, ogni sofferenza richiede cure e attenzioni risanatrici.
E se i lettori, stimolati dagli spunti forniti, riusciranno a conquistare una liberazione dalla loro pena,
una libertà nella propria esistenza, ebbene allora - a parere di QUATTRO - sarà valsa la pena che sia
stato scritto “Padre padrone”, sarà stata utile la fatica di fornirne questa lettura psicologica.
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MAPPA DEI SENTIERI NELLE TERRE
DEL LATO OSCURO DEL CUORE UMANO.
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QUATTRO, come molti idealisti sognatori, ha amato J. R. Tolkien tanto da leggerne tutta l’opera
nell’edizione completa (per la quale gli appassionati italiani sono riconoscenti debitori all’Editore
Rusconi). Tuttavia il titolo non fa riferimento alla Terra di Mezzo, ma - più concretamente e più
dolorosamente, purtroppo - all’esperienza di quarant’anni di ascolto psicoterapico dei dolori umani.
Senza il minimo dubbio QUATTRO pensa che il cuore umano abbia un lato oscuro (terribilmente
capace di ferire altri uomini), difficile da conoscere.
Per camminare in questa terra bisogna seguire i consigli degli esploratori che vi sono già stati.
Una mappa nella quale siano registrati i sentieri che essi hanno percorso e descritto come sicuri
e vitali è fondamentale per sopravvivere ai pericoli dell’oscurità, dell’inconscio e alla violenza
delle sue forze che - se non sono di per sé cattive poiché fanno parte della natura umana sono certo impietose verso ogni debolezza incontrata sulla loro strada.
Per fornire questa mappa, QUATTRO illustrerà ora, brevemente, i ragionamenti che l’hanno
indotto a scegliere certi testi per costituire questa sezione del sito.
INTRODUZIONE.
Il primo passo è la scelta di una guida che conosca i segreti dell’arte di disegnare con le parole;
in questo modo si possono percorrere in relativa sicurezza i diversi sentieri delle terre oscure
dell’inconscio patologico che rende le relazioni umane fonte di sofferenza.
Nel passaggio del testimone nella staffetta viene affidato alla nuova entrata nel sito, 35,
l’incarico di scrivere i pezzi di connessione tra le diverse schede sui libri, presentati a mosaico
(ogni libro è un aspetto dei meccanismi inconsci), come una serie di suggerimenti all’intuizione
riassuntiva del lettore. Le parti di 35 sono “nuove” dal punto di vista psicoterapeutico,
come analisi di aspetti psicodinamici di nuove forme di comunicazione (SMS o e-mail)
nelle quali il materiale psicologico fornitole da QUATTRO richiedeva di essere trattato con mano
da scrittrice, per potere arrivare ai lettori di oggi. Il lato oscuro del cuore umano è quindi
il manifesto ideologico di 35, l’espressione delle idee che si è formata impegnandosi
in questo compito difficile e per lei nuovo.
LA FAMIGLIA D’ORIGINE.
Il secondo passo è l’indispensabile base psicologica di partenza per il lettore che voglia capire la
propria storia di sofferenza nelle relazioni interpersonali. Per le nozioni psicologiche sui problemi che la
famiglia di origine riesce a creare in un individuo nella sua infanzia saranno presentate 3 sotto sezioni:
a. Una breve, ma dura, arringa di accusa di un figlio contro la propria madre: racconto semplice
di una vita intera (ovvero: il dolo di una madre), a cura di 38.
b. Il collegamento tra il rapporto con i genitori nel passato infantile e i problemi
nelle relazioni sentimentali di oggi.
c. Il meccanismo della sofferenza nell’adulto (problemi di coppia).
RELAZIONI SENTIMENTALI.
Il terzo passo è la presentazione di aspetti inconsci patologici che costituiscono il tessuto stesso
della relazione sentimentale malata. La partenza è l’analisi della relazione simbiotica tra i due partner.
In pratica, una modalità primordiale di fusione tra l’inconscio dell’uno e l’inconscio dell’altro,
in un abbraccio mortale che non riesce ad arrivare al livello di relazione matura.
La base per questa analisi è costituita dal romanzo “Il riposo del guerriero” di Christiane Rochefort
e da due studi specifici su di esso, preceduti da un riassunto dell’opera.
Questo libro, pubblicato nel 1960, non sembra scritto per un pubblico di lettori comuni:
è uno studio molto arduo da comprendere, che richiede svariate letture per essere compreso a fondo,
anche perché i concetti richiedono conoscenze specialistiche e sono formulati in un linguaggio
tecnico-psicoanalitico. Infine, la visione che l’Autrice presenta di certi rapporti sentimentali gravemente
patologici è totalmente disincantata e amara:
500
a. “Il mio guerriero” (a cura di 35): un primo approccio - letterario e coraggioso insieme per un impegno personale.
b. “Simbiosi e ambiguità”, dello psicoanalista argentino José Bleger, come strumento
di lettura de “Il riposo del guerriero” (a cura di QUATTRO).
c. Aspetti della regressione maligna nel rapporto di coppia (a cura di QUATTRO) basata sull’articolo
della psicanalista junghiana Eleonora Fé d’Ostiani. Questo studio è posteriore al libro di José Bleger.
L’Autrice, pur facendo riferimento al lavoro dell’argentino, presenta un taglio del tutto differente
(chi è del mestiere riconosce nettamente la differenza tra una psicanalista junghiana
e uno psicoanalista freudiano). La conclusione è in luce di speranza di liberazione dalle spire
della forza costrittiva, in sé e nel partner, dell’inconscio oscuro e portatore di distruzione.
A questo articolo QUATTRO deve l’uso dei due termini SNOM e DEVI:
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S.N.O.M.: Sé Narcisistico Onnipotente Maligno.
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DE.VI.:
Depositario Vittima.
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Per facilità vengono usati due acronimi, sebbene l’Autrice nel suo articolo li definisca
“Sé grandioso parassitario” e di “Depositario” (e non Depositario Vittima). L’importanza di questi
termini (più esattamente dei ruoli psicologici che essi indicano) sarà chiara al lettore quando giungerà
alla sezione intitolata “Tragica battaglia tra SNOM e DEVI”. Ma, già dall’inizio, 35 ha scelto di farne
uso nel suo commento “Il mio guerriero”, per indicare le due posizioni complementari del rapporto
malato che il libro descrive. Il lettore che non si è arreso dinnanzi a questi tre ostacoli, sarà
ricompensato con ricca generosità e comprenderà chiaramente le cause delle sue sofferenze in certe
relazioni amorose, se ne libererà e saprà lucidamente difendersi in futuro da persone negative.
LA RELAZIONE PERVERSA.
Il quarto passo prosegue l’approfondimento nello studio del comportamento e della struttura
psicologica profonda del perverso narcisista, della sua vittima e della relazione malata che si instaura
tra di loro. L’attenzione è posta, in maniera bilanciata, su questi tre punti ed è rivolta alla descrizione
di aspetti del comportamento del perverso e della sua vittima:
a. “Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro”, della psichiatra, psicoanalista
e psicoterapeuta familiare francese Marie France Hirigoyen.
Uno studio sul concetto di molestie morali, con un importante allargamento dalla sfera privata
al mobbing in ambiente di lavoro (a cura di QUATTRO).
b. “Violenza morale sul luogo di lavoro”, (a cura di 35).
c. “L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane”, di Maurice Hurni
e Giovanna Stoll-Simona, due psichiatri-psicoanalisti e sessuologi svizzeri operanti a Losanna
(per questo testo sono presenti due schede bibliografiche a cura di 19 e di QUATTRO).
d. “Tra letteratura e realtà: il bipensiero di George Orwell”, (a cura di 35).
IL PERVERSO NARCISISTA.
Il quinto passo propone diversi testi, allo scopo di fornire elementi perchè il lettore possa trovare
una propria risposta ad alcune domande fondamentali:
• Come si diventa persecutore/perverso?
• In che modo il persecutore/perverso vede la sua vittima?
• Quali conseguenze (sia a breve sia a lungo termine) rimangono impresse
nella psiche della vittima? Perché?
I primi due resoconti sono brevi pezzi di due studentesse universitarie, che si sono offerte di esprimere
una valutazione personale su temi derivanti da letture nell’ambito dei loro studi:
501
a. “La percezione del nemico”, (a cura di 33).
b. “Uomini comuni”, (a cura di 20).
Vengono poi presentate le schede di tre testi più impegnativi, per aiutare il lettore a riflessioni
personali sul meccanismo interiore che determina in alcuni esseri umani l’adesione alla violenza
su vittime innocenti e impotenti, oppure che determina il comportamento di disinteresse
verso vittime che potrebbero essere salvate.
c. “Storie di ordinaria persecuzione”, (a cura di QUATTRO).
Infine vengono presentate quattro interpretazioni diverse del testo di Françoise Sironi,
“Persecutori e vittime. Strategie di violenza”.
d. “Un parallelo troppo azzardato?”, (commento a cura di QUATTRO) è una presentazione basata
su articoli che parlano dell’opera e dell’Autrice.
e. “Persecutori e vittime. Strategie di violenza”, (commento a cura di 16).
f. “Persecutori e vittime. Strategie di violenza”, (commento a cura di 23).
g. “Persecutori e vittime. Strategie di violenza”, (commento a cura di QUATTRO).
MICRO.
Il sesto passo è una raccolta di contributi originali forniti da QUATTRO, che 35 ha reso con agile
leggibilità letteraria. Tutti gli esempi, rigorosamente autentici, provengono dall’attività psicoterapeutica
e sono stati messi gentilmente a disposizione dagli autori/clienti, in vista dell’utilità:
a. “New Media”, ovvero la presentazione di dialoghi telefonici, testi di SMS, e-mail (a cura di 35).
b. “Note su famiglie DEVI”, (a cura di QUATTRO).
c. “La piccola bottega degli orrori in famiglia”, (elaborazione a cura di 35). Suddiviso in due parti,
la prima presenta una selezione di alcuni tra i più interessanti esempi delle micidiali battute di una
madre alla propria figlia e - nella seconda parte - la registrazione di un uomo delle dinamiche
interne alla propria famiglia. La collezione meticolosa e quotidiana di episodi, fatta dalla paziente
con l’affiancamento coadiuvante del marito, ha costituito la spina dorsale di una psicoterapia
(richiesta per grave stato di ansia, somatizzazioni varie, profonda insicurezza in se stessa)
durata quasi due anni e culminata con l’applicazione della metodologia di auto-aiuto presentata
più avanti nel sito.
d. “La battaglia tra SNOM e DEVI: tragedia in 10 o più battute”. Lo schema mostra la sequenza
circolare delle mosse di SNOM e DEVI. Il testo, originariamente di QUATTRO, è stato rivisto da 35
ed è stato poi realizzato da un estimatore di QUATTRO, commosso per l’ingenuità della versione
originale composta con etichette auto adesive scritte a mano.
e. Completano l’esposizione due esempi di lotta tra SNOM e DEVI:
• “Duello al telefono”.
• “Le porte finestre: alcune sottili forme di funzionamento mentale di SNOM”.
MACRO.
Il settimo passo è lo sforzo di rispondere alla domanda:
“La pedagogia nera applicata a un singolo bambino ha qualcosa a che fare con lo sterminio
di un popolo intero?”.
Si articola in tre brani:
1. “Staccando l’ombra da terra”, (a cura di QUATTRO).
2. “Dal totalitarismo violento al genocidio: il genocidio degli Armeni”, (a cura di QUATTRO).
3. “Eccidi tra gli antichi templi: il massacro effettuato da Pol Pot e dai khmer rossi in Cambogia”,
(a cura di 35).
Ora non rimane che iniziare il cammino e percorrere i sentieri che conducono negli abissi
dell’animo umano (proprio e altrui), per poter acquisire una maggiore comprensione di se stessi
e del proprio contesto. Una mano è sempre tesa, a soccorrere, nei momenti difficili e di sconforto.
Nessuno è davvero solo.
502
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A questo punto, ti invitiamo a cliccare sull’icona AUTO RILASSAMENTO presente alla fine
del Percorso del sito dove potrai stampare i testi della SECONDA SEDUTA dal titolo:
LA NUBE DELLA NON CONOSCENZA.
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 Segui le istruzioni per la registrazione e l’utilizzo di questo strumento per il tuo relax!
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PASSAGGIO DI TESTIMONE NELLA STAFFETTA.
RIPRESENTAZIONE (PER L’OCCASIONE) DE:
“LA SCRITTURA PER LA VITA”.
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Verranno ora nuovamente riferite alcune delle riflessioni (già riportate all’inizio del percorso del sito)
che Semprun pone alla base della scrittura, quantomeno della creazione di un’opera come
“La scrittura o la vita” che è a un tempo invenzione letteraria, diario interiore ed elaborazione
di una drammatica esperienza esteriore (propria e di molti altri uomini) la quale - attraverso
la scrittura - viene riferita, riplasmata e forse dominata dall’uomo che l’ha percorsa.
Le ragioni per cui le riflessioni di Semprun sulla scrittura saranno riportate è perché esse
sono consustanziali all’idea stessa del libro e al suo tessuto: narrare sì, ma utilizzando l’artifizio
di un racconto abilmente condotto, unico mezzo che possa riuscire a trasmettere almeno in parte
la verità della testimonianza a uomini del fuori, venuti dalla vita e dalla serenità, in modo che possano
comprendere e immaginare l’orrore dell’essere stati immersi nella sofferenza e nella morte
e non siano allontanati dall’abisso che separa il narrato dallo sperimentato, il visto dal vissuto.
Pur nella difficoltà della descrizione a parole (“Solo un grido proveniente dal profondo delle viscere,
solo un silenzio di morte avrebbe potuto esprimere la sofferenza” pag. 151) Semprun sembra
da un lato prospettare il valore di una testimonianza a favore delle vittime dell’orrore.
“Immagino che ci saranno molte testimonianze... Varranno quanto varrà lo sguardo del testimone,
la sua intensità, la sua perspicacia... E poi ci saranno dei documenti... Più tardi, gli altri: ne faranno
delle opere dotte... Sarà detta, registrata, ogni cosa... Tutto risponderà al vero... solo che mancherà
la verità essenziale, quella verità che nessuna ricostruzione storica, per perfetta e onnicomprensiva
che sia, potrà mai raggiungere...”.
“L’altro genere di comprensione, la verità essenziale dell’esperienza, non è trasmissibile...
O meglio, lo è solo attraverso la scrittura letteraria...”. La verità che dobbiamo raccontare - posto
che se ne senta il bisogno, molti quel bisogno non lo avvertiranno mai! - è difficilmente credibile...
Direi che è addirittura inimmaginabile...”.
“Se ho capito bene”, dice Yves, “quelli che non ci sono stati non sapranno mai!”.
“Mai fino in fondo... Resteranno i libri. I romanzi, soprattutto. I racconti letterari che andranno
oltre le semplici testimonianze, che faranno immaginare, anche se non faranno vedere...
Ci sarà forse una letteratura dei campi... dico proprio una letteratura, non soltanto dei reportage...”.
Sarebbe stato opportuno commentare le immagini, per decifrarle, per inscriverle in un contesto storico
e in una continuità di sentimenti e di emozioni. E per avvicinarsi il più possibile a quella verità vissuta,
il commento avrebbe dovuto essere pronunciato da uno dei superstiti: reduci da quella lunga assenza,
Lazzari di quella lunga morte. Ma potranno comprendere tutto, immaginare tutto? Lo potranno?
Avranno la pazienza, la passione, la compassione, il rigore necessari? Il dubbio mi sorge fin da questo
primo istante, da questo primo incontro con gli uomini di poc’anzi, uomini del fuori - venuti dalla vita nel vedere lo sguardo, spaventato, quasi ostile, o almeno diffidente dei tre ufficiali.
Stanno in silenzio evitano di guardarmi. Aggiungo anch’io qualcosa.
503
“È probabile. Ma la posta in gioco non sarà la descrizione dell’orrore.
Non solamente né principalmente quella, insomma. La posta in gioco sarà l’esplorazione
dell’animo umano nell’orrore del Male... Ci vorrà un Dostoevskij!”.
Questo fa sprofondare i sopravvissuti, che non sanno ancora a cosa sono sopravvissuti,
in un abisso di riflessione.
Di questa tenebra che oscura l’anima di chi ha percorso i sentieri della terra dell’orrore, di questa realtà
interiore così tremendamente concreta eppure subito sfuggente, tanto da essere quasi indicibile
a coloro che non l’hanno vissuta, Semprun dice che bisogna impegnarsi comunque a dare memoria,
anche se la sua posizione di narratore che ricrea un quadro è molto diversa da quella del testimone
oggettivo che aveva scelto - tra altri - l’italiano Primo Levi.
Ci sono ostacoli di ogni tipo alla scrittura. Alcuni puramente letterari. Perché non voglio una semplice
testimonianza. Voglio, in primo luogo, evitare, evitare a me stesso l’enumerazione delle sofferenze
e degli orrori. altri vi si cimenteranno... D’altra parte, sono incapace di immaginare, oggi,
una struttura romanzesca alla terza persona. Non intendo neppure impegnarmi in questa direzione.
Ho bisogno, insomma, di un “io” narrante, nutrito della mia esperienza ma capace di superarla,
di inserire in essa un po’ di immaginario, di finzione...
Una finzione che sicuramente illuminerebbe quanto la verità. Che aiuterebbe la realtà
ad apparire reale, e la verità ad essere verosimile. Un giorno o l’altro, questo ostacolo riuscirò
a superarlo. D’un tratto, ne sono certo, in uno dei miei abbozzi, il tono giusto si imporrà,
la corretta distanza si stabilirà. Manuel A. era un sopravvissuto del campo di Mauthausen.
Un reduce, come me. Mi raccontava la sua vita a Mauthausen, la sera, dopo cena,
all’ora del bicchierino di liquore e del sigaro delle Canarie.
Ma io non riconoscevo niente, non mi ci ritrovavo. Indubbiamente, fra Buchenwald e Mauthausen
c’erano state delle differenze: in ognuno dei campi nazisti l’esistenza dei deportati è stata sottoposta
a condizioni specifiche. Eppure, l’essenziale del sistema era identico.
L’organizzazione delle giornate, il ritmo di lavoro, la fame. la mancanza di sonno, i continui soprusi,
il sadismo delle SS, la follia dei vecchi detenuti, le lotte al coltello per assicurarsi le briciole
del potere interno: l’essenziale era identico. Eppure, nel racconto di Manuel A., io non mi ritrovavo.
Era disordinato, confuso, troppo prolisso, si impantanava nei particolari, mancava di una visione
d’insieme, tutto era messo sullo stesso piano.
Era, insomma, una testimonianza allo stato puro: una serie di immagini messe insieme confusamente.
Un’esposizione di fatti, impressioni, commenti oziosi. Io mordevo il freno, non potendo intervenire
per fargli delle domande, per costringerlo a dare un ordine e un senso al disordinato nonsenso
del suo flusso di parole. La sua indiscutibile sincerità non era altro che retorica, la sua veridicità
nemmeno più tanto verosimile.
Ma non potevo dirgli niente, non potevo aiutarlo a dar forma ai suoi ricordi, perché non doveva
sapere che anch’io ero stato deportato. Perché non potevo in alcun modo dividere con lui il mio
segreto. Ma si può raccontare tutto ciò? Si può? Il dubbio mi sorge fin da questo primo istante.
È il 12 aprile 1945, il giorno dopo la liberazione di Buchenwald.
La storia, insomma, è fresca. Non occorre uno sforzo particolare della memoria.
Né una documentazione degna di fede, accertata nella sua veridicità.
La morte è ancora al presente, ha luogo sotto i nostri occhi, basta guardare.
Gli affamati del Campo Piccolo e gli ebrei di Auschwitz continua a morire a centinaia.
Basta lasciarsi andare. La realtà è lì, a portata di mano. La parola pure.
Tuttavia mi sorge un dubbio sulla possibilità di raccontare. Non che l’esperienza vissuta sia indicibile.
È caso mai invivibile, che è tutt’altra cosa, e si capisce.
È qualcosa che non riguarda la forma di un racconto possibile, ma la sua sostanza.
Non tanto la sua articolazione quanto la sua densità. Soltanto coloro che sapranno fare
della loro testimonianza un oggetto artistico, uno spazio di creazione, o di ricreazione, riusciranno
a raggiungere questa sostanza, questa densità trasparente.
Soltanto l’artificio di un racconto abilmente condotto riuscirà a trasmettere in parte la verità
della testimonianza. Ma ciò non ha niente di eccezionale: accade così per tutte le grandi esperienze
storiche. Si può sempre dire tutto, insomma. L’ineffabile di cui tanto si parla è solo un alibi.
O un segno di accidia. Si può sempre dire tutto, il linguaggio contiene tutto.
Si può dire l’amore più intenso, la crudeltà più tremenda.
Si può nominare il male, il suo gusto soporifero, i suoi piaceri deleteri.
504
Si può dire Dio e non è poco.
Si può dire la rosa e la rugiada, lo spazio di un mattino.
Si può dire la tenerezza, l’oceano custode della bontà.
Si può dire l’avvenire, e i poeti vi si avventurano con gli occhi chiusi e la bocca feconda.
Si può dire tutto di questa esperienza. Basta far mente locale. Mettersi al lavoro.
Avere il tempo, forse, e il coraggio di scrivere un racconto infinito, e probabilmente infinitamente
esteso, illuminato - e beninteso anche delimitato - da questa possibilità di inseguirsi all’infinito.
Col rischio di cadere nella ripetizione e nella banalità.
Col rischio di non venirne a capo, di prolungare la morte, all’occorrenza, di farla rivivere
incessantemente fra le pieghe e le sinuosità del racconto, di non essere altro che il linguaggio
di questa morte, di vivere di essa, moralmente.
Ma potranno comprendere tutto, immaginare tutto? Lo potranno?
Avranno la pazienza, la passione, la compassione, il rigore necessari?
Il dubbio mi sorge, fin da questo istante, da questo primo incontro con gli uomini di poc’anzi,
uomini del fuori - venuti dalla vita - nel vedere lo sguardo spaventato, quasi ostile, o almeno diffidente
dei tre ufficiali. Stanno in silenzio, evitano di guardarmi.
Per la prima volta dopo due anni mi sono visto nei loro occhi pieni di orrore.
Mi hanno rovinato questa prima mattina, quei tre tizi. Credevo di esserne uscito vivo.
Di essere perlomeno ritornato alla vita. Niente affatto. A scorgere il mio sguardo nello specchio
del loro, non sembra che io sia lontano da tanta morte.
Ma il mio progetto appariva irrealizzabile, perlomeno nell’immediato e nella sua sistematica totalità.
Il ricordo di Buchenwald era troppo denso, troppo crudo, perché potessi raggiungere subito
una forma letteraria tanto pura e astratta.
Quando mi svegliavo alle due del mattino, con la voce dell’ufficiale SS nelle orecchie,
e la fiamma arancione del crematorio che mi accecava, la delicata e sofisticata armonia
del mio progetto si dissolveva in rozze dissonanze.
Solo un grido proveniente dal profondo delle viscere, solo un silenzio di morte
avrebbe potuto esprimere la sofferenza.
...
È Darriet che mi ha inserito nel convoglio in partenza domani, anzi, fra poco.
Alcuni camion della missione di rimpatrio del reverendo Rodhain partono per Parigi,
di primo mattino. Yves fa parte del gruppo dei rimpatriati ed è venuto a prendermi a Buchenwald.
Siccome è un vero amico, col senso dell’umorismo, gli ho esposto le idee che già conoscete
sul supposto rimpatrio. Non le ha accolte male. E nemmeno con leggerezza, e la cosa,
da parte sua, non mi ha stupito.
“Capiti proprio al momento giusto”, mi dice Yves, adesso che ho raggiunto il gruppo
dei futuri rimpatriati.
“Ci stavamo giusto chiedendo come bisognerà raccontare, perché si possa essere capiti”.
Annuisco, è una domanda sensata: una di quelle che hanno un senso.
“Il problema non è questo”, aggiunge subito un altro.
“Il vero problema, quali siano le difficoltà, non è quello di raccontare.
Ma di ascoltare... Vorranno ascoltare le nostre storie, anche se raccontate bene?”.
Non sono, dunque, il solo a pormi questa domanda. È il caso di dire che viene da sé.
Ma tutto si confonde. Ognuno vuol dire la sua.
Non sono in grado di trascrivere fedelmente la conversazione, identificandone i partecipanti.
“Cosa significa, ‘raccontate bene’?”, s’indigna qualcuno.
“Bisogna dire le cose come stanno, senza artifici”.
Si tratta di un’affermazione perentoria che sembra essere condivisa dalla maggior parte
dei futuri rimpatriati lì presenti. Dei futuri narratori possibili.
A quel punto, mi preparo a dire una cosa che mi sembra evidente.
“Raccontare bene significa: in modo da essere capiti. E ciò non sarà possibile
senza un minimo di artificio. Quanto basta perché il racconto diventi arte!”.
Ma questa evidenza non sembra convincente, a giudicare dalle proteste che suscita.
Indubbiamente, ho esagerato un po’ con il mio gioco di parole.
C’è solo Darriet che approva il mio discorso con un sorriso. Lui mi conosce meglio degli altri.
Tento di precisare il mio pensiero.
505
“Sentite, ragazzi! La verità che dobbiamo raccontare - posto che se ne senta il bisogno,
molti quel bisogno non lo avvertiranno mai! - è difficilmente credibile...
Direi che è addirittura inimmaginabile...”.
Una voce mi interrompe, per aggiungere qualcosa.
“È giusto!” dice un tizio dall’aria decisamene cupa, che sta bevendo.
“Così poco credibile che io stesso, appena mi sarà possibile, smetterò di crederci!”.
Si odono risate nervose, tento di proseguire.
“Come raccontare una verità poco credibile, come suscitare l’immaginazione
dell’inimmaginabile, se non elaborando, lavorando la realtà, mettendola in prospettiva?
Con un po’ di artificio, dunque!”.
Parlano tutti insieme. Ma una voce finisce col distinguersi, imponendosi nella confusione.
C’è sempre qualche voce che si impone in circostanze simili: lo dico per esperienza.
“Lei parla di comprensione... Ma di che genere di comprensione si tratta?”.
Guardo l’uomo che ha appena preso la parola. Ignoro il suo nome, ma lo conosco di vista.
L’ho notato, in certi pomeriggi domenicali, mentre passeggiava davanti al blocco 34,
quello dei francesi, con Julien Cain, direttore della Biblioteca nazionale, o con Jean Baillou, segretario
dell’École Normale Supérieure. Deve essere un professore universitario.
“Immagino che ci saranno molte testimonianze... Varranno quanto varrà lo sguardo
del testimone, la sua intensità, la sua perspicacia...
E poi ci saranno dei documenti... più tardi, gli storici raccoglieranno,
riuniranno, analizzeranno le une e gli altri: ne faranno delle opere dotte...
Sarà detta, registrata ogni cosa... tutto risponderà al vero...
solo che mancherà la verità essenziale, quella verità che nessuna ricostruzione storica,
per perfetta e onnicomprensiva che sia, potrà mai raggiungere...”.
Gli altri lo guardano, annuiscono, apparentemente rassicurati dal vedere che uno di noi
riesce a formulare così chiaramente i problemi.
“L’altro genere di comprensione, la verità essenziale dell’esperienza, non è trasmissibile...
O meglio, lo è solo attraverso la scrittura letteraria...”.
Volge il suo sguardo verso di me, e sorride.
“Attraverso l’artificio dell’opera d’arte, beninteso!”.
Mi sembra di riconoscerlo, adesso. È un professore dell’università di Strasburgo. Alla fine dell’incontro,
quattro o cinque deportati si sono avvicinati. Erano uomini in età matura, intorno alla quarantina.
Erano tutti professori dell’università di Strasburgo. Alcune delle cose che avevo detto su Rimbaud
li avevano interessati e volevano sapere che studi facevo, e se intendevo orientarmi verso
l’insegnamento. A Eisenach, sul finire di quella notte in bianco, l’uomo che ci parlava era uno
di quei professori dell’università di Strasburgo.
“Attraverso l’artificio dell’opera d’arte, beninteso!”, ha appena precisato.
Riflette per un istante, nessuno parla, in attesa del seguito. Perché è evidente che c’è un seguito.
“Il cinema sembra essere l’arte più appropriata”, prosegue.
“Ma i documenti cinematografici non saranno sicuramente numerosi.
Inoltre, i momenti più significativi della vita dei campi probabilmente non sono mai stati
filmati... Comunque sia, il documentario ha dei limiti insuperabili...
Ci vorrebbe un film di finzione, ma chi avrà il coraggio di farlo?
La cosa migliore sarebbe realizzare un film oggi stesso, nella verità di Buchenwald
ancora visibile... Con la morte ancora visibile, ancora presente.
Non un documentario, ripeto: ma una finzione... Impossibile...”.
C’è silenzio, pensiamo tutti a quel progetto impossibile.
Beviamo a piccole dosi l’alcool del ritorno alla vita.
“Se ho capito bene”, dice Yves, “Quelli che non ci sono stati non sapranno mai!”.
“Mai fino in fondo... Resteranno i libri. I romanzi, soprattutto.
I racconti letterari che andranno oltre le semplici testimonianze, che faranno immaginare,
anche se non faranno vedere... Ci sarà forse una letteratura dei campi...
Dico proprio una letteratura, non soltanto dei reportage...”
Aggiungo anch’io qualcosa.
“È probabile. Ma la posta in gioco non sarà la descrizione dell’orrore. Non solamente
né principalmente quella, insomma. La posta in gioco sarà l’esplorazione dell’animo umano
nell’orrore del Male... Ci vorrà un Dostoevskij!”.
Questo fa sprofondare i sopravvissuti, che non sanno ancora a cosa sono sopravvissuti,
in un abisso di riflessione.
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QUATTRO ritiene utile fare arrivare ai lettori della presente sezione del sito
(Il lato oscuro del cuore umano) esattamente lo stesso messaggio, anche se in chiave
più umilmente psicologica. Non è - per ovvia definizione - possibile dare (con uno strumento cosciente
come la esposizione razionale ed il quadro che ne fa la scrittura) una descrizione diretta della natura
dell’inconscio, delle sue modalità di funzionamento.
È stata quindi scelta la strada dell’accostamento a mosaico di pezzi staccati (ognuno tratteggiante
un aspetto dei meccanismi inconsci patologici), utilizzando proposte di suggerimento
all’intuizione riassuntiva del lettore, anziché tentare la via della spiegazione intellettuale
che risulterebbe pesante e inutilizzabile a causa della sua aridità emozionale.
In base alle considerazioni che Jorge Semprun formula sull’importanza della veste letteraria
per un’adeguata trasmissione di un messaggio altrimenti indicibile, QUATTRO ha deciso di mettersi
da parte ed affidare ad altra persona, dotata nel padroneggiare lo strumento espressivo
della scrittura, affinché questa sezione (che vuole illustrare i meccanismi inconsci con i quali
alcuni esseri umani esercitano uno spietato potere su altri loro simili, vittime inermi nelle mani
dei loro persecutori) risultasse efficace.
Dell’amalgama tra i diversi pezzi, della creazione di ponti concettuali di collegamento tra l’uno
e l’altro, e della creazione di un’atmosfera emozionale adeguata allo scopo, si occuperà quindi 35,
che della scrittura ha fatto non soltanto la realizzazione di una passione, ma anche una professione.
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In questo
PASSAGGIO DEL TESTIMONE NELLA STAFFETTA,
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QUATTRO aveva inizialmente le idee alquanto incerte sull’ordine in cui i pezzi avrebbero dovuto essere
presentati. Tuttavia, riflettendo sulla logica interna della progressiva presa di coscienza dei fattori
inconsci da parte del lettore, è emerso piano piano un possibile ordine di presentazione dei diversi
materiali, schema dovuto ampiamente a 35 e di importanza fondamentale per un inquadramento
definito, che consenta di rendere più lieve la fatica di lavorare su un materiale psicologico
ed emozionale di per sé difficile. Benvenuta dunque nel team del sito, 35 e buon lavoro!
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Bambino maltrattato
ed amore malato nell’adulto.
IL LATO OSCURO DEL CUORE UMANO.
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(A cura di 35).
La definizione Lato Oscuro rimanderà alla mente di tanti la filmografia di “Guerre Stellari” (G. Lucas),
che racconta la guerra tra fazioni opposte della Forza. Parti della stessa struttura, come lo Yin
e lo Yang, il lato Chiaro e il lato Oscuro si fronteggiano per governare il mondo.
Il lato Chiaro rappresenta ovviamente il bene, mentre lo Scuro è l’incarnazione del male assoluto.
Anche l’espressione lato oscuro riferita al cuore umano riprende il concetto di Male,
nell’accezione di Malvagità. Per lato oscuro qui si intende quel comportamento narcisistico e perverso,
che taluni soggetti esercitano in maniera inconscia sul prossimo.
La loro cattiveria è spontanea, connaturata e deliberata, senza scrupolo. Senza rimorsi.
Senza pace, come un crampo perpetuo di fame d’amore. Ma questo bisogno non deve ingannare:
la persona affamata non verrà mai saziata, ma aumenterà il proprio appetito, a discapito sempre
di chi tenterà di colmarlo. Le cause del comportamento sono da ricercare nei meandri della sua storia,
ma devono interessare relativamente chi si imbatte in queste persone: ogni inutile tentativo di capire
e di salvare è dannoso. Anzi costituisce l’aggancio preferenziale per instaurare una relazione malata.
È più importante sapere come si comporta chi è dominato dal lato oscuro, invece del perché.
L’unica certezza è che la vittima è stata disposta a esserlo, ma non è la causa della violenza che riceve.
Le cause sono altrove e non sono di sua competenza. Non ne è il responsabile.
Esistono dei caratteri distintivi per riconoscere i perversi-narcisisti, dominati dal lato oscuro del proprio
cuore. Per chi ha vissuto a lungo a contatto con loro è difficile riconoscerli, poiché è convinto
che sia l’unica realtà. Il condizionamento primigenio spinge quindi a legarsi soprattutto con soggetti
di questo stampo. Che siano partner sentimentali, amici o colleghi di lavoro si tende a tollerare
(quando addirittura non si ricerca) persone che usano il loro potere maligno sulla psiche altrui,
sfruttandone le carenze affettive e l’imprinting infantile. Vittime si nasce e si cresce.
Un giorno, in seguito a una delusione amorosa o a un’azione di mobbing, il meccanismo s’inceppa
e il modo di vivere consolidato mostra delle crepe sempre più profonde. Chi si è trovato in questa
situazione sa che non si deve tornare indietro, ma iniziare la battaglia per la propria sopravvivenza,
se non - addirittura - per la propria rinascita.
Solo alla fine di un percorso di analisi, con tenacia e ostinazione, è possibile vincere la guerra
per la vita e affermarsi come esseri umani, coi propri diritti e il rispetto dovuto.
Questa sezione del sito spiega in modo analitico, citando fonti autorevoli e studi clinici, come
si diventa vittime del lato oscuro, quali sono le caratteristiche del malvagio (perverso-narcisista)
e come si comporta (nelle relazioni di coppia, sul luogo di lavoro, nella società).
Ciò è utile per capire se si è vittime oppure no, perché questa consapevolezza dolorosa è il primo
passo da compiere. Capire che la propria identità è stata negata e violata impunemente, negli anni,
dalle persone in cui riponeva la massima fiducia nella propria infanzia, provoca una sofferenza reale.
È un duro colpo scoprire e poi accettare che il proprio amore incondizionato era mal riposto e che
l’amato bene era il carnefice. Riconoscerlo prima sarebbe stato impossibile, perché l’unico metro
di riferimento è proprio quello ricevuto da lui. Chi è guidato dal lato oscuro usa qualsiasi forma
di violenza per ottenere ciò che brama, ovvero il possesso e l’annientamento della propria vittima:
è solo questo a interessarlo. Usare il termine violenza può apparire eccessivo.
Le immagini che si proiettano nella mente sono fisicamente e psicologicamente coercitive,
come le punizioni corporali o le privazioni: uno schiaffo o il più classico “a letto senza cena”.
Eppure la violenza ha anche modi più sottili per manifestarsi: un pugno dentro un guanto
di velluto attutisce il rumore del colpo sferzato, ma non diminuisce il danno in chi lo riceve.
La parte più difficile del percorso intrapreso sta nel prendere coscienza e farsi una ragione per ciò
che si è subito, dopo aver rivissuto e assimilato la sofferenza provata da bambini.
Il debito d’amore verso chi è stato amato senza amare deve essere sciolto. Anzi, si scioglie da solo
per lasciare il posto alla serafica consapevolezza che gli eventi del passato creano proiezioni
sul presente, ma non sono più veri. Nessuno è più il bambino che è stato, bisognoso d’affetto.
L’amore non era tale e la delusione è grande. Il bambino interiore piange ora le lacrime che aveva
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smesso in passato per adottare un comportamento coerente con quelli che credeva essere i desideri
del suo seviziatore. Ma questi non ha desideri reali, bensì solo voglia di annientarlo, privandolo
del soffio vitale per appropriarsene. Vive di riflesso. Il volto del carnefice è quindi svelato
e il nulla appare. Il lato oscuro è un grosso buco nero che tutto ingloba. È la vittima a riempire di sua spontanea volontà - questo abisso con le proprie necessità e bisogni mai soddisfatti da sempre.
Vista da questa prospettiva, è il lato chiaro a dare un senso al lato oscuro; dal momento in cui rinuncia
ad appiccicargli addosso quel che non possiede, la vittima non è più tale e inizia a decidere per se.
A vivere e respirare coi propri polmoni. “Il lato oscuro non è più forte: è solo più veloce”, spiega
il maestro Jedi all’allievo che dovrà affrontare il Male in un corpo a corpo. Nel nostro caso non bisogna
ingaggiare una lotta. Anzi, è proprio questa ad alimentare il rapporto malato. Ma non bisogna
neanche credere che il lato oscuro sia invincibile e abbandonarsi in questo terrore che ognuna
delle vittime porta dentro di sé dalla propria infanzia, ingenua e inerme. Se non viene combattuto,
esso fa cedere l’adulto dall’interno e lo trasforma di nuovo in un bambino. Ma se è contrastato,
il terrore si dilegua e - nello sparire - consente agli occhi della vittima di vedere il suo avversario,
e la sua sostanziale debolezza. Dopo aver riconosciuto ciò che celano le tenebre (ovvero il nulla)
e imparato a difendersene, la persona malvagia smette d’aver valore e non è più in grado di ferire,
offendere, condizionare. Il cambiamento è avvenuto all’interno: gli altri non cambiano,
ma questa consapevolezza non crea più tensioni o malumori. Il modo di rapportarsi col mondo
muta e con esso migliora in assoluto la qualità della vita, lasciando liberi di sentirsi se stessi.
È sempre il momento giusto per iniziare a vivere.
PREMESSA ALL’INSERTO “LA MADRE MORTA”.
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(A cura di QUATTRO).
A spiegazione del concetto “Perché i soggetti maltrattati si attaccano ai loro aggressori?”,
QUATTRO presenta la sintesi di un esempio che vale quale prototipo.
Si tratta di uno studio sulle influenze che un’alterazione dell’atmosfera familiare, la quale ha causato
nel soggetto neonato di pochi mesi un pianto durato un po’ più del primo anno di vita,
ha prodotto sulla strutturazione di personalità del soggetto stesso.
Tale esempio può essere esteso a molti altri tipi di rapporti od influenze negative sviluppatesi anche
in età successive, data l’intensità del legame madre-figlio. Parimenti, l’alterazione della personalità
del soggetto (filantropismo coatto a soccorrere persone sofferenti anche senza richieste
di queste ultime) può essere equiparato ad un attaccamento da parte della vittima nei confronti
del suo persecutore. Si precisa che lo studio è basato fondamentalmente su due testi:
Green, André: “Narcisismo di vita, narcisismo di morte”, (in particolare il capitolo sesto, parte II,
che ha come titolo “La madre morta”), e Johnson, Stephen: “Il carattere simbiotico”.
“LA MADRE MORTA”.
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(A cura di QUATTRO).
Effetti della depressione (a causa segreta quindi non ricostruibile e perciò non eliminabile) della madre.
Nel neonato avviene un autentico mutamento catastrofico dell’immagine materna.
È un lutto/angoscia bianco, negativo che esprime la tremenda perdita subita dal neonato
a livello del narcisismo. Al di sotto avvengono conflitti gravissimi con gli oggetti primari
(intesi come esseri umani di fiducia con cui entrare in relazione, in primis i genitori).
1. Anzitutto il neonato, non riuscendo a risollevare la madre, sperimenta (a pochi mesi!)
tutta la profondità della sua impotenza.
2. Poi lotta contro l’angoscia con vari mezzi attivi:
• allegria artificiale,
• agitazione motoria,
• insonnia,
• terrore notturno,
• pianto notturno.
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3. Infine mette in atto una serie di difese psichiche di natura diversa:
• disinveste il suo interesse nei confronti della madre,
• toglie interesse affettivo nei confronti della madre,
• smette di pensare la madre come un oggetto esistente (cessazione delle rappresentazioni mentali
della madre). Questa vera e propria uccisione psichica dell’oggetto madre è intenzionale
(perché il bambino, per ritorsione, vuole sbarazzarsi della madre disinteressata a lui);
è un processo preconscio che causa un buco nelle relazioni con l’oggetto materno,
buco che è l’espressione della liberazione di cariche distruttive prodotte dal disinvestimento.
È un nucleo freddo che anestetizza e brucia come il ghiaccio.
È il gelo mortale di un neonato che, quasi appena nato, ha perduto la madre e viene
in qualche modo contagiato dalla morte di lei.
La madre morta, per effetto del disinteresse /disinvestimento di cui è stata oggetto,
ha portato via con sé l’essenza dell’amore di cui era stata investita prima del lutto
(fino ai 4 mesi del neonato!): il suo sguardo vivace, il tono della sua voce allegra, la traccia
delle sue carezze dolci e vive. La perdita del contatto psichico ha provocato la rimozione
delle tracce di ricordo del suo contatto.
Per effetto del disinteresse e della cessazione delle rappresentazioni mentali della madre,
la madre stessa è stata sepolta morta-viva, ma la sua stessa tomba è scomparsa.
Resta un buco. Il buco che è al posto della madre fa temere al neonato la solitudine
come se egli rischiasse di sprofondarcisi anima e corpo.
• Ecco allora un secondo meccanismo di difesa: l’identificazione primaria con la madre morta:
a livello del tutto incoscio non può evitare di identificarsi con la madre morta
(anche contro la propria volontà, il che ne fa un processo alienante). Perchè?
Non potendo conservare in vita l’oggetto materno morto, per averlo in qualche modo,
il neonato diventa l’oggetto stesso. Avendo incorporato cannibalicamente la parte morta
della madre (la madre morta stessa) il nucleo centrale del neonato è quindi una parte morta!
In fondo il neonato si identifica non con l’oggetto madre (viva) ma con il buco lasciato
dal suo disinvestimento. Nelle successive relazioni oggettuali il neonato (per la coazione
a ripetere) quando si trova in presenza di un oggetto in procinto di deluderlo, ripete l’antica
difesa mettendo attivamente in opera il disinvestimento/disinteresse nei confronti di questo
oggetto (“faccio con te una scommessa: Io butto sul piatto della bilancia tutto me stesso;
se tu non corrispondi alla fiducia totale che io ho concesso a te, Io ti uccido”).
NOTA DI QUATTRO.
a. L’incorporazione cannibalica della parte morta della madre (secondo Green) è esattamente
la stessa cosa dell’interiorizzazione (secondo Stephen Johnson…) degli oggetti cattivi
primordiali esterni (dopo scissione in oggetto antilibidico e oggetto libidico) con rimozione
dei due oggetti nell’incoscio (mi interessa l’oggetto antilibidico).
b. Lo scatenamento dell’odio secondario reattivo (Green 4, a pag. 2 - vedi sotto -) è eguale
all’aggressività /ostilità naturale del Sé (respinto) contro la madre rifiutante
(secondo Stephen Johnson - B - 3 pag. 6).
4. La perdita dell’amore della madre in quanto divenuta morta per il proprio segreto lutto comporta
per il neonato una perdita di senso (perché non dispone di alcuna spiegazione che gli faccia
comprendere ciò che è avvenuto). Si sviluppa un secondo fronte difensivo in tre fronti:
a. Lo scatenamento di un odio secondario/reattivo (impulsi a vendicarsi sull’oggetto,
dominarlo, sporcarlo, ecc.).
b. La ricerca di eccitamento auto erotico, con la ricerca di un piacere sensuale puro
(generale o di organo) senza tenerezza, senza pietà, con una reticenza ad amare l’oggetto.
L’oggetto è ricercato per la sua capacità di provocare il piacere, senza arrivare
ad una relazione tra 2 esseri umani.
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c. Soprattutto si sviluppano (come ricerca del senso perduto) precocemente le capacità
fantasmatiche ed intellettuali dell’Io. Il gioco avviene non nella libertà dello scatenarsi fisico
ma nella coazione ad immaginare. Lo sviluppo intellettuale prende la forma della coazione
a pensare. Lo scopo è conservare la capacità di superare la confusione dovuta alla perdita
del seno materno sempre dolcemente presente. Questo brandello di stoffa cognitiva serve
a mascherare il buco del disinteresse/disinvestimento. L’orientamento dello sviluppo intellettivo
giunge a proiettare sull’esterno (cioè sull’oggetto) l’indagine e persino la divinazione di ciò
che all’interno deve essere rigettato ed abolito: il neonato ha fatto la crudele esperienza
di dover dipendere dalla depressione della madre e quindi d’ora innanzi dedicherà le sue forze
ad indovinare od ad anticipare. Tutte le manovre difensive hanno 3 scopi:
PRIMO:
Mantenere l’Io in vita (con
• l’odio secondario,
• la ricerca di eccitamento autogenerato,
• la ricerca di un senso con la coazione a pensare/immaginare/anticipare.
SECONDO:
Competere col padre (ipotetica causa del lutto della madre o suo persistente
focus di interesse - il fantasma della scena primaria è importante perché essa
si è svolta in assenza del neonato -). Il neonato cerca anche una soluzione
al suo dramma con la madre rivolgendosi al padre come ad un liberatore.
Ma per lo più il padre si disinteressa al neonato (che resta quindi intrappolato
tra una madre morta ed un padre inaccessibile). In più c’è un altro effetto negativo:
un freno allo sviluppo dell’aggressività, perché anche nel neonato maschio
è la parte femminile della personalità che si esprime così, alla ricerca
di una compensazione paterna.
TERZO:
Rianimare la madre morta, suscitarne l’interesse, distrarla, restituirle il gusto
della vita, farla sorridere, ridere. Ma si tratta di una impresa impossibile perché
la perdita della madre viva (il seno buono) non può essere elaborata.
Tuttavia il neonato ha, in profondità, una passione folle della quale la madre
è e rimane l’oggetto. Si sviluppa così, nel tempo, entro il soggetto, una struttura
che mira ad una fantasia fondamentale: nutrire la madre morta per conservarla
eternamente imbalsamata:
• ciò lo porta ad avere cura dell’oggetto materno introiettato,
• a temere per lui e per la sua perdita (esaltamento filantropico),
• rivolgendo contro se stesso la distruttività insita nell’oggetto materno morto,
per effetto di un senso di colpa arcaico e che ha intenti riparativi.
Questo perché non è mai possibile incriminare la madre,
così gravemente vulnerabile.
Invece l’Io del soggetto:
• si autopunisce,
• si mette sempre da parte,
• rinuncia,
• si sacrifica per l’altro.
Quello che è sostanzialmente perduto è il contatto colla madre che viene, in realtà, segretamente
conservato nei recessi della psiche inconscia e (per effetto della incorporazione cannibalica inconscia),
il neonato ha introiettato tutta l’immagine della madre non solo la parte morta (dai 4 ai 14 mesi)
ma anche la precedente parte viva (dalla nascita ai 4 mesi). Ogni tentativo di rimpiazzare
questo oggetto materno con un altro oggetto buono femmina (una femmina di oggi) è destinato
a fallire perché la disponibilità, la generosità, la ricchezza di amore del soggetto non può essere
donata perché egli non ne dispone: l’amore è congelato, vi è incapacità di amare perché l’amore
del soggetto è perpetuamente ipotecato dalla madre. In aggiunta al blocco
dell’aggressività/femminilizzazione dovuta al rapporto con il padre (pag. 3 - paragrafo III) vi è anche
una spinta alla passivizzazione del neonato, passivizzazione come femminilità primaria, comune
alla madre ad al bambino. Il lutto bianco (negativo) della madre morta è il corpo comune
dei loro amori defunti. Il bambino passa tutta la sua vita a nutrire la madre morta,
come se fosse l’unico ad averne l’incarico, ma la posizione del bambino è ambivalente:
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se la madre è in lutto, morta, è perduta per il soggetto. Ma, per quanto afflitta, almeno c’è.
Una morte in presenza (della madre) presente in ogn caso. Il soggetto può prendersene cura,
tentare di risvegliarla, di rianimarla, guarirla. Ma se la madre si sveglia, allora si anima, vive.
Allora può abbandonare il bambino per occuparsi di cose proprie o interessarsi ad altri.
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Custode della tomba, unico a possedere la chiave della cripta, egli adempie in segreto la sua funzione
di genitore adottivo: trattiene prigioniera la madre morta ed essa rimane il suo bene esclusivo.
L’Io del bambino, invece di accumulare investimenti (su altri oggetti) successivi alla separazione
della madre, si accanisce a trattenere l’oggetto primario ed a riviverne la perdita ripetutamente.
Ciò causa nell’Io primario (che è ancora confuso con l’oggetto) un senso di svuotamento narcisistico
che si esprime con un senso di vuoto (tipico di una ferita narcisistica con perdita di libido).
A questo punto tutta la libido è impregnata di narcisismo e dunque sarà sempre una perdita
narcisistica ad essere vissuta a livello dell’Io. L’oggetto è morto (la madre depressa)
perciò trascina l’Io del bambino verso un universo abbandonato e mortifero.
Il lutto bianco della madre induce il lutto bianco del bambino, sotterrando una parte dell’Io
del bambino nella necropoli materna: nutrire la madre morta e come mantenere
(sotto il sigillo del segreto) la forma più antica di amore per l’oggetto primordiale, seppellito
nella rimozione primaria della traumatica separazione tra i 2 partners della fusione primitiva.
La madre è diventata il bambino del bambino. Spetta a lui riparare la ferita narcisistica
(sia della madre - ridandole gioia - sia la propria antica ferita infertagli dal lutto della madre
quando divenne morta (per ritrovare l’iniziale fusione gioiosa dei primi 4 mesi).
E così l’adulto passerà la vita ad occuparsi di persone profondamente ferite, trovando
(pur nella rinuncia filantropica a se stesso) pienezza ed esaltazione nel ridare loro gioia e vitalità.
NOTA BENE.
Come sarebbe stato diverso il corso di tutta la mia vita, quanti fiumi di energie vitali
non avrei sperperato cercando di riempire sacchi vuoti che erano abissi senza fondo
se non adirittura spietati sfruttatori senza scrupoli.
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1. Se tu mamma avessi avuto il coraggio di dire:
“non ho nessuna intenzione di fare una cosa insensata come portare un neonato
di 4 mesi in una casa primitiva dove non ho nessuna voglia di andare”.
Tu non saresti diventata depressa, irritata, morta alla gioia di vivere ed io non avrei
dovuto passare la mia vita a dare il mio sangue a parassiti voraci e passare il mio tempo
con il bisogno coatto di capire che cosa mi è stato fatto nel primo anno di vita.
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2. Se tu papà avessi avuto l’umiltà ed il buon senso umano
(nonchè l’attenzione a leggere i segnali, che penso fossero vistosi, di disagio
ed insoddisfazione di tua moglie) di rinunciare alla tua assurda idea di far respirare
aria buona (lungo tutto un autunno ed inverno al freddo e senza comodità basilari)
ed avessi riportato me, la mamma e Piero a Torino.
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3. Se entrambi voi papà e mamma non vi foste accontentati
di ciò che diceva il pediatra (“il bambino sta bene fisicamente, non dovrebbe piangere”)
e vi foste posti la domanda: “dal momento che invece di fatto piange
e quindi una causa deve pur esserci, noi c’entriamo forse per qualcosa?”.
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Papà, mamma: non avete fatto nessuna di queste tre cose elementari,
e la mia vita ne è stata segnata per sempre.
Vi accuso di essere stati voi gli artefici delle basi della mia infelicità
che mi ha accompagnato lungo tutti gli anni della mia esistenza.
Il carattere orale non riesce ad ottenere il soddisfacimento dei propri bisogni per diverse cause:
•
•
•
•
l’incapacità di individuarli ed esprimerli,
l’auto disapprovazione del proprio stato di bisogno,
l’incapacità di rivolgersi agli altri e chiedere di essere aiutato,
l’incapacità di assecondare il proprio sé.
Quindi le capacità di lenire ed accudire se stessi sono menomate.
L’individuo con carattere orale tende a soddisfare a spese del proprio sé i bisogni altrui.
Tende ad ampliare eccessivamente la propria sfera. Tende ad identificarsi con altre persone dipendenti
negando però di essere simile a loro. La grandiosità è resa evidente dalla sua esagerata responsabilità
verso gli altri ed i loro bisogni e dai suoi tentativi di soddisfarli (mentre è convinto che se esprimesse
i suoi bisogni verrebbe abbandonato, respinto e resterebbe deluso).
Stephen Johnson al posto del concetto di Io usa il termine “Sé” perché più comprensivo,
includendo stati della mente, schemi del Sé, concetti del Sé, affetti, strutture delle convinzioni
di fondo. La profonda struttura del Sé reale primordiale (che include le richieste affettive arcaiche
e vulnerabili del neonato) sta al di sotto di due strutture entrambe difensive:
a. il Sé sintomatico o Sé crollato (il Sé leso, esaurito, debilitato, menomato ed impotente)
nello stato di crollo (il soggetto si vede pieno di difetti perché non è più riuscito a dare),
b. il Sé compensato o falso Sé (il Sé esaltato, scisso dai suoi veri bisogni - che restano insoddisfatti un sé che sempre dà, ama, risana, accudisce tutto e tutti ed ha pieni poteri)
nello stato di compensazione.
È un falso Sé (di compromesso, impara a frenare i suoi impulsi per mantenere il contatto con i genitori,
con la continuazione della dipendenza e dell’irretimento), falso perché (come in ogni altro
adattamento del genere) l’identità viene trovata nel rapporto con l’altro mentre viene soffocata
la forma naturale di identità stabilita con l’esercizio di funzioni autonome.
Il carattere orale alterna due stati (vedi sopra a e b):
b. uno stato compensatorio spesso positivo ma che spesso può trasformarsi in ebrezza, in una euforia
quasi esaltata: in questo stato il carattere orale tende a preoccuparsi troppo degli altri (esaltamento
filantropico) ad accollarsi più responsabilità del dovuto, ad agire con più indipendenza di quanta
non rientri nelle sue possibilità, a fare progetti ottimistici e grandiosi.
Tipicamente l’orale è grandioso nella sua convinzione di onnipotenza, che lo porta a credere
di essere in grado di soddisfare i bisogni altrui (ed è una grandiosità con funzioni difensive).
In questi momenti di compensazione il soggetto si preoccupa pochissimo di se stesso
e si predispone così al crollo che inevitabilmente seguirà.
a. Il risultato di questo modo di vivere insostenibile e inumano perché privo di nutrimento,
è la tendenza del carattere orale di cadere in stati di profondo crollo, causa di malattie fisiche
(per lo stress logorante ed errori alimentari) o psichiche tipo depressione (come modo inconscio
“lecito” di ricevere attenzione dagli altri, oppure di scaricarsi onorevolmente di responsabilità adulte
spesso schiaccianti spesso sentite con rancore). Infine la depressione ha anche la funzione
di reprimere difensivamente:
• l’aggressività orale,
• l’ostilità,
• e soprattutto l’intensa reale sofferenza della deprivazione (bisogni insoddisfatti),
• con la perdita del senso del Sé che ne consegue.
513
L’INTERIORIZZAZIONE DEGLI OGGETTI CATTIVI/RESPINGENTI.
Perché il neonato resta attaccato ad una madre depressa che non lo prende più in considerazione?

Anzitutto perché un oggetto cattivo è meglio dell’assenza di un oggetto.
Quindi il neonato si attacca alla madre rifiutante.

Poi perché la libido, la carica di energia vitale, deve sempre andare alla ricerca di un oggetto,
deve essere in relazione.

Inoltre il neonato è spinto ad interiorizzare la madre cattiva:
• per poterne avere il controllo,
• per eliminare la cattiveria dell’oggetto da cui dipende ed essere di nuovo in relazione rassicurante
con un oggetto esteriore reso tutto buono (sia pure al prezzo di diventare lui tutto cattivo
dentro di sé). L’esperienza del dolore e della frustrazione provoca nella struttura unitaria
del Sé centrale o nucleo del neonato (nella quale gli impulsi istintuali sono rivolti alla ricerca
dell’oggetto), una frattura. Infatti la struttura centrale unitaria per difendersi deve sviluppare
2 meccanismi di difesa: scissione e rimozione.
Ragioni: il neonato non solo ha un impulso della sua libido a ricercare il contatto, la relazione
con gli oggetti significativi ma anche interiorizza gli altri, gli oggetti. Se gli oggetti sono causa di
sofferenza e di frustrazione, il neonato li interiorizza in queste funzioni negative, come si è detto:
• per acquisirne il controllo,
• per purificare l’oggetto (da cui dipende) della sua cattiveria e lasciarlo restare da solo, buono.
Ma interiorizzare oggetti negativi è quasi mortale. Il neonato deve prima scinderli in una parte buona
ed una cattiva. Poi deve rimuovere queste due parti nel suo incoscio. E con questa rimozione l’oggetto
cattivo risulta interiorizzato in modo possibile,perché non più mortale.
A. Deve scindere.
Il bisogno che il neonato ha dell’oggetto, degli aspetti per lui potenzialmente gratificanti dell’altro.
Questa parte costituirà il Sé libidico che (seppure libidicamente bisognoso perché ha subito
un arresto) si protende verso l’oggetto libidico, dal quale si attende una gratificazione completa
e incondizionata. Scindendo gli aspetti buoni dell’oggetto, li trattiene come un ideale dell’Io
(Sé ideale che come il FALSO SÈ di Winnicott rappresenta la speranza di rimeritarsi lo stato di grazia
unificato precedente alla scissione). Il sé libidico è:
• per l’orale la costellazione rimossa e arrestata in cui il carattere orale (assillato dal bisogno)
punta a forme di gratificazione più o meno primitive,
• per il narcisista si rispecchia e si protende verso l’altro idealizzabile.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
E questo è l’oggetto eccitante
che rappresenta la speranza e le attese di ricevere dagli altri gratificazione primitiva
dei bisogni originari (speranze e attese spesso idealistiche ed infantili).
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• dal dolore del sé che è respinto dall’oggetto.
Questo rifiuto doloroso costituirà il Sé antilibidico (che il neonato sente come incondizionatamente
ed intrinsecamente cattivo) che resta collegato inscindibilmente con l’oggetto antilibidico
(l’oggetto esterno respingente, il quale rappresenta il blocco interiorizzato dei bisogni vitali
del neonato; questo blocco/rimozione dell’espressione libidica del sé e anche mantenuta
dall’aggressività dell’oggetto respingente e del sé respingente o sé antilibidico).
L’oggetto respingente/antilibidico è ovviamente la parte dell’oggetto esterno primitivo che puniva
e frustrava i tentativi libidici del neonato di stabilire un contatto con l’oggetto esterno.
Una volta introiettato nell’inconscio del neonato diventa la struttura che rende operanti le attese
negative nei confronti degli altri ed è lo sfondo da cui scaturiscono le proiezioni negative.
514
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
E questo è l’oggetto respingente
(la parte dell’oggetto primitivo che ha punito e frustrato i tentativi libidici
di stabilire un collegamento).
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
B. Deve rimuovere nell’incoscio.
• Entrambe le relazioni scisse dell’oggetto Sé primordiale (madre) ed insieme,
• gli impulsi libidici che le collegano o le fissano, cioè:
1. il bisogno di cercare l’oggetto,
2. l’amore e l’attrazione verso l’altro potenzialmente gratificante,
3. l’aggressività e l’ostilità naturali del Sé (respinto) contro l’altro che respinge.
NOTA BENE.
La libido del neonato (la quale va sempre alla ricerca di un oggetto), quando l’oggetto è rimosso,
viene adescata, soggiogata dall’oggetto rimosso. Quindi la libido è spinta in uno stato di rimozione
dalla forza stessa della propria ricerca. In pratica l’investimento oggettuale sull’oggetto
cattivo/morto/rimosso, blocca la libido operando come una resistenza.
La rimozione è ulteriormente mantenuta dall’aggressività che lega sé antilibidico e oggetto antilibidico;
ma lo sviluppo si queste strutture subisce un arresto con tutta la elementarità e primitività di strutture
arcaiche estranee al Sé attuale che non rappresentano fedelmente.
Sono infatti qualcosa che è stato assunto dall’ambiente, senza integrarlo nella struttura
della personalità. Anche le strutture libidiche sono forme immature e primitive del Sé reale perché
la libido crea una gratificazione appropriata ad un bambino, a causa dell’arresto prodotto in esse.
È una gratificazione primitiva che l’oggetto eccitante percepito promette di fornire.
Applicazioni.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Rivolgimento antilibidico contro il sé = l’individuo nega o blocca i propri bisogni libidici
(come nel carattere orale).
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Intensa relazione tra l’oggetto antilibidico e sé antilibidico = fase di esaltamento filantropico
del carattere orale, con ipertrofia di un falso sé compensato che cerca avidamente
persone pseudo bisognose.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Il narcisista reagisce alla frustrazione attivando il suo falso sé grandioso.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Poiché avvenga una maturazione, una evoluzione con capacità di sperimentare l’oggetto di relazione
come differenziato rispetto al sé è necessario che gli oggetti cattivi interiorizzati vengano
rilasciati, liberati dall’inconscio e scompaia l’investimento libidico su di essi,
dopo che è stata superata la rimozione. Grazie ad un contesto rinforzato, al rapporto
con un oggetto sufficientemente buono, può avvenire:
•
•
•
•
la scomparsa della rimozione,
il rilascio/liberazione degli oggetti cattivi dall’incoscio, dove erano stati introiettati,
la liberazione delle cariche affettive/libidiche che erano legate ad essi,
la nascita di rapporti (che forniscano una vera gratificazione) nel mondo reale esterno,
con espressioni del sé libidico, le quali danno vita ad un sistema non più chiuso/bloccato
ma aperto, anche se incerto. Un ruolo importante nel produrre identificazione con gli oggetti cattivi
è giocato anche dal “senso di colpa del superstite” (convinzione che se si ha qualcosa di buono,
lo si ottiene a spese di un altro che ne viene privato):
515



il neonato si identifica col genitore che soffre/respinge il figlio come se non sapesse più
godere della sua presenza (la madre morta) come se la sua felicità neonatale appagata
togliesse qualcosa al genitore.
Inoltre il neonato non può evitare di acconsentire a quelle che percepisce come le aspettative
dei genitori nei suoi confronti, cioè che non riuscirà ad avere successo, ad essere felice,
a trovare un partner e formare una coppia, a rendersi indipendente.
Infine c’è il peso dell’accettazione dell’etica familiare relativa all’obbligo di soddisfare i genitori.
RACCONTO SEMPLICE DI UNA VITA INTERA
OVVERO IL DOLO DI UNA MAMMA.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
(A cura di 38).
NOTA ESCUSATIVA DI QUATTRO.
Il primo titolo
è proposta della quale è responsabile QUATTRO, con la sua passione per i giochi
di parole e le citazioni di letture fatte, nonché l’amore antico per Rudyard Kipling
(il riferimento qui è alla raccolta “Racconti semplici dalle colline. Racconti indiani”,
“Plain tales from the Hills”, che Kipling pubblicò nel 1888).
Il secondo titolo
è quello scelto da 38, per evidenziare il concetto base del pezzo che QUATTRO sollecitò 38
a scrivere per tre importanti elementi:
• Estrema semplicità dei fatti.
• Assoluta evidenza della interpretazione psicologica, derivante dai fatti stessi e dalla loro sequenza.
• Indiscutibile valore che la situazione ha nel chiarire (al di là di ogni possibile dubbio)
la correttezza della posizione di critica di un figlio nei confronti di un genitore il quale compie
nei confronti del figlio una azione gravemente scorretta e disaffettiva, sia pure sulla base
delle proprie coercizioni interne inconsce.
LA SITUAZIONE CONTINGENTE E LO SFONDO FAMILIARE.
Un figlio (figlio unico) quarantenne si sposa. Comunica la notizia ai genitori più che settantenni,
con tutta la cautela psicologica che gli hanno suggerito (anzi richiesto) sia una vita di sofferenze
e conflitti emotivi causati dall’atteggiamento dei genitori (specialmente della madre),
sia anni di fatiche nella ricerca psicologica volta non solo a dargli serenità, ma anche permettergli
di comprendere il meccanismo delle sue sofferenze e contemporaneamente il meccanismo
di azione lesiva dell’egoismo dei genitori. In estrema sintesi questo egoistico rifiuto di dedicarsi
al figlio comportava:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
da parte del padre:
rifiuto di assumere una posizione di difesa o di supporto nei confronti del figlio quando era schiacciato
o sfruttato dalla madre. Inoltre rifiuto di compiere sforzi o dedicare attenzioni al figlio qualora fosse
in condizione di difficoltà pratica, economica o di altro genere che potesse comportare per il padre
la necessità di pensare o fare uno sforzo per soddisfare i bisogni del figlio.
Comunque il figlio ha sempre riconosciuto al padre un minimo grado di umanità e di affettività
superiore all’egoismo della madre.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
516
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
da parte della madre:
• mai un aiuto materiale,
• mai un sostegno psicologico,
• mai un abbraccio, né qualsiasi altra manifestazione di affettività,
• sempre un atteggiamento di sfruttamento emozionale e materiale del figlio
(storica una frase - non casuale e spesso ripetuta - della madre (sano, vitale ed autonomo il padre!)
al figlio: “Tu non mi porti mai a teatro!”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
La madre si è sempre lamentata con marito e figlio del fatto che il proprio padre non l’ha fatta
studiare (voleva fare la maestra) e la mandava ad arare i campi la domenica. Questi torti e carenze
indubbiamente gravi subiti dal proprio padre (con assenza di protezione da parte della mamma)
hanno apparentemente legittimato la madre del soggetto a sentire come suo diritto il fatto che in casa
tutti dovessero essere al suo servizio per compensare le durezze e le trascuratezze del proprio padre.
In queste pretese la madre non è mai stata né arginata né contrastata dal marito che l’ha sempre
seguita passivamente, forse a motivo del suo personale bisogno di non dare nulla di sé agli altri,
di non fare sforzi, di riservare le energie e le risorse vitali a se stesso. Uno degli esempi più clamorosi
di questa collusione malvagia, non solo abbandonica ma francamente danneggiatrice nei confronti
del figlio, fu l’episodio in cui madre e padre presero appuntamento presso lo psicoterapeuta del figlio
senza presentarsi come i genitori, e entrati nello studio e rivelatisi per quello che erano incominciarono
a diffamare apertamente il figlio. Un altro indice della stessa posizione è il fatto che i due coniugi
non molti anni or sono fecero testamento l’uno a favore dell’altro, escludendo deliberatamente
il figlio dalle loro disposizioni testamentarie.
L’EPISODIO EMBLEMATICO DEL DOLO MATERNO.
Come detto sopra, il figlio va dai genitori e comunica loro la data del matrimonio.
1. Padre (rivolto alla madre): “Gliel’hai già data quella cosa? Devo sempre ricordarti io le cose...”.
2. Madre (va in camera da letto e prende un assegno già preparato, per l’ammontare di 500
(cinquecento!) Euro (si noti che il fatto è avvenuto nel marzo 2005). Porgendolo al figlio gli dice:
“Credo che non potrai incassarlo, perché ho sbagliato nel fare la firma” (in effetti ha firmato
con i due cognomi, da signorina e da sposata, ma ha dimenticato il nome di battesimo,
per cui non essendovi un conto con intestazione ai due cognomi l’assegno non è incassabile).
3. La madre quindi era perfettamente cosciente di ciò che aveva fatto.
4. Si è tuttavia limitata a comunicare al figlio il suo errore che gli sottraeva il regalo
nel momento stesso in cui formalmente glielo porgeva.
5. Non ha tuttavia corretto l’errore (operazione elementare costituita semplicemente dal fatto
di scrivere il proprio nome di battesimo), e non si è nemmeno offerta di fare la correzione,
o di rifare l’assegno rimediando comunque al suo errore.
Dal punto di vista giuridico, l’atteggiamento ed il gesto della madre si configurano quindi
come dolo, cioè come un agire secondo l’intenzione di commettere un illecito e con esso
di danneggiare la vittima.
6. Subito dopo - con una modalità comportamentale sua tipica - ha incominciato a piangiucchiare
spremendo finte lacrime ricattatorie. Il messaggio che tale piantino dimostrativo tentava
di veicolare al figlio era:
• “Io non vorrei farti del male”.
• “Ma tu mi costringi a fartelo perché sei cattivo verso di me”.
• “Perché non ti occupi mai di me”.
• “Che sono una bambina piccola tanto bisognosa di aiuto, perché mio padre non mi ha voluta,
mi mandava a lavorare nei campi la domenica mattina e non mi ha fatto studiare da maestra...”.
517
In questo passaggio si vede quindi la tipica inversione paradossale realizzata dal malvagio
e se intuisce l’interno meccanismo profondo: il persecutore di proclama a gran voce vittima,
falsando la verità della situazione e sembra fare tenere questa posizione non solo egoista
ma anche irridente verso la parte lesa, per la ragione tutta inconscia che si sente vittima
e si proclama vittima anziché riconoscersi persecutori ed emendarsi.
7. Figlio (riesce a sottrarsi alla presa della manovra psicologica senza arrabbiarsi e senza essere
schiacciato dal dolore): “Non ti preoccupare, mamma. Tieni pure tu l’assegno.
Potrà sempre essere utile in caso papà non stesse bene”.
UNA APPLICAZIONE PERSONALE.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
(A cura di 20).
NOTA BENE.
Viene riportata ora la testimonianza di una persona giovane, visitatrice del sito, che è stata
disponibile a scrivere di sé comunicando le reazioni emozionali, le scoperte e le conclusioni
alle quali è giunta leggendo sul sito la scheda di “L’Odio dell’Amore” di Hurni-Stoll Simona.
La testimonianza è riportata grazie alla presentazione che ne ha fatto 20, in qualità
di membro dello staff del sito.
“È da un po’ di tempo che nel corso del mio lavoro di auto-aiuto giro molto, con l’aiuto dei testi
che vengono presentati, intorno all’argomento del perverso narcisista o perverso relazionale.
In queste ultime settimane ho preso visione della scheda sul testo “L’odio dell’amore.
La perversione delle relazioni umane” e per far capire meglio quello che si è scatenato in me
posso utilizzare delle parole citate nel testo stesso...
“Forte disagio, grave minaccia oscura e incombente” che si è trasformato in vero e proprio
dolore, a tratti talmente forte da togliermi il respiro e da obbligarmi a spegnere il computer
e interrompere la lettura del testo.
Ho deciso nonostante tutto di andare a fondo perché mi sono resa conto che la forza motrice
di tutte le mie relazioni fino ad oggi è sempre stata la stessa, con le medesime caratteristiche:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• l’ambiguità sulla quale si reggono,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• la realtà continuamente sconfessata,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• le umiliazioni subite alternate con la seduzione e, di conseguenza, la confusione
generata da tali comportamenti,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• dover fare sempre qualcosa per l’altro pur sapendo quasi sempre che qualsiasi essa sia
sarà sempre quella sbagliata,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• la paura come sentimento prevalente per la continua minaccia di separazione e quindi l’angoscia
di un nuovo abbandono.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Il perverso narcisista della mia vita è per eccellenza mio padre, anche se, in modo forse
meno subdolo, anche mia madre ha avuto la sua parte.
La relazione non-relazione che ho attualmente, e dalla quale a fatica sto cercando di uscire,
è quella che più palesemente ha messo in evidenza il modo in cui questi meccanismi continuano
a perseverare nella mia vita sentimentale. Potrei fare mille esempi pratici e ne citerò qualcuno
che proprio il testo “L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane” mi ha permesso
di ricordare e rivedere oggi in modo diverso. Quello che ho sempre percepito nella relazione
518
tra i miei genitori è un clima di forte tensione tra di loro, una mancanza di stima l’uno
nei confronti dell’altro fino ad arrivare a una mancanza di amore totale.
Tra loro due la figura più forte è sempre stata quella di mio padre.
Mia madre nella loro relazione era la vittima.
Vittima che ha riposto in me tutte le aspettative deluse da questo matrimonio, caricandomi
di responsabilità che non mi competevano e soprattutto troppo pesanti per me da sopportare
e da comprendere. In questo caso mi è stato tolto il diritto di essere figlia e tutto ciò di cui realmente
avevo bisogno. In tutta questa realtà non sono mai esistiti i miei bisogni, ma solamente i loro,
fino ad arrivare al totale annullamento della mia esistenza.
In tutto questo, l’unico modo che ho avuto per sopravvivere è stato quello di rimuovere
dalla coscienza la percezione di non essere amata, e pur sapendo che non avrei mai avuto realmente
ciò che mi occorreva, ho passato la mia vita fino ad oggi a rincorrere l’amore che ricercavo,
piegandomi a mille situazioni non consone alla mia persona, facendomi letteralmente
in pezzi pur di ricevere un’attenzione che mi facesse sentire di esistere, che mi facesse sentire
“abbastanza importante” per qualcuno.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Elenco alcuni punti che ho riconosciuto.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Uccisione degli animali.
Non posso parlare di uccisione, ma di abbandono di animali, certo sì. Ho sempre amato molto i cani
e all’età di otto anni circa i miei genitori me ne regalarono uno. Ho avuto per sei mesi un rapporto
splendido e per me è stato un compagno di giochi e di scambio di affetto meraviglioso.
Dopo sei mesi decisero di darlo via, così di punto in bianco, dandomi come motivazione il fatto
che un cane è una responsabilità da prendere con serietà, cosa che secondo loro non facevo,
quindi siccome per mia madre era troppo occuparsi anche del cane hanno preferito darlo via
colpevolizzandomi di questo. A otto anni è difficile comprendere di quante cure abbia bisogno
un cane, se non quelle elementari della pappa e dei propri bisogni fisiologici.
Tutto il resto era un gioco, tutto il resto era uno scambio di affetto. Soprattutto era difficile per me
bambina comprendere queste cose senza che nessuno me le spiegasse, soprattutto quando nessuno
stesse insegnandomi ad occuparmi di me. All’età di dieci anni mi regalarono un altro cane.
Rimase con me fino all’età di vent’anni. Un giorno rientrai in casa e il cane non c’era più:
mia madre l’aveva regalato. Così senza motivazione. Era stanca di averlo.
Non avevo più otto anni, quindi la motivazione di allora non poteva più reggere con me ventenne,
così non ci fu nessuna spiegazione. Io non ebbi il coraggio di manifestare nessuna reazione,
non mi ribellai alla decisione e mi sono portata addosso un enorme senso di colpa come se avessi
io stessa abbandonato il mio cane.
Screditare i familiari.
Mio padre è sempre stata una persona molto manipolativa. Per scopi suoi ha sempre cercato
di screditare e di minare le persone più importanti della mia vita. In primo luogo lo ha fatto
nei confronti di mia madre insinuando giorno dopo giorno, soprattutto in situazioni già destabilizzanti
di per sé, in me la paura di non essere importante per lei, di poter essere abbandonata da lei
da un momento all’altro e ripetendomi che la famiglia in fondo esisteva ancora solo grazie a lui
“altrimenti chissà che fine avremmo fatto io e mia sorella”.
L’abbandono l’ho subito realmente, da parte di entrambi, a livello emotivo, quando ogni giorno
non mi sono sentita protetta, quando ogni giorno non mi sono sentita amata, quando ogni giorno
non mi sono sentita legittimata nell’esistere come individuo. Ha screditato i miei nonni, con i quali
sono cresciuta e dai quali ho ricevuto solo amore. Deridendoli e umiliandoli nella loro bontà.
Crescendo ho avuto dei momenti in cui ho cercato di ribellarmi a queste insinuazioni subdole
di mio padre. Le sue reazioni sono sempre state molto violente scatenandomi una paura folle di essere
definitivamente distrutta dalla sua persona, sconfessando spudoratamente tutta la realtà che fino
ad allora mi aveva presentato, dipingendo il mio modo di essere come un atteggiamento
di ingratitudine. Quando ha capito che in questo modo con me non avrebbe più funzionato,
semplicemente per lui ho smesso di esistere. Ha continuato però ad alternare momenti ludici
a momenti di indifferenza totale, cambiando di punto in bianco i suoi atteggiamenti.
Un momento giocava con me, l’istante dopo mi stava sgridando per lo stesso gioco che lui aveva
iniziato; un momento sembrava gli interessasse di me, il giorno dopo si dimenticava di venirmi
519
a prendere... Quello che crescendo ripetevo a me stessa era “non posso fidarmi di lui”, ma tutte
le volte che vedevo da parte sua un “riavvicinamento” pensavo che forse con il tempo era cambiato
e che io avrei potuto avere il giusto amore e la giusta attenzione o forse il diritto di esistere.
Quello che in realtà restava costantemente era l’ambiguità. Continue conversazioni fatte di frasi
a metà, dove neanche sforzandosi si riusciva a trovare un senso o a capire ciò che voleva dire.
Tutto restava così, per aria senza né capo né coda.
Mancanza di libertà e privacy.
Non ho mai avuto in casa con i miei genitori una mia stanza. Avevo un divano letto nell’ingresso.
Ma questo è il meno. Dall’età di vent’anni fino all’età di ventisette anni, età in cui sono andata via
di casa, ho dormito nello stesso letto di mia madre, perché loro avevano deciso di non dormire più
insieme e di conseguenza mio padre si è impossessato del mio letto. La violazione della privacy
era la regola: non c’era niente che potessi tenere che mia madre non leggesse, non ero libera
neanche di tenere i miei soldi in casa perché mio padre li prendeva per giocarseli.
Il concetto di proprietà non esisteva, o meglio, non esisteva per ciò che era di mia proprietà.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Faccio un salto nel presente.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Nella relazione non-relazione che ho attualmente vi è sempre, e vince, la presenza di ambiguità,
l’alternanza di seduzione (in questo caso anche o soprattutto sessuale) e umiliazione, la paura
e l’angoscia. In questa relazione molti meccanismi sono stati assai più palesi rispetto ad altre avute
in passato, forse molto più forti dal punto di vista emotivo, perché per la prima volta mi sono sentita
come se mi fosse stata rubata l’anima, come se fossi entrata in perfetta simbiosi con l’altra persona,
o almeno così credevo. Questo sentirmi in fusione con l’altra persona inizialmente l’ho vissuto
con un senso di gioia perché credevo di aver trovato finalmente l’amore da me sempre ricercato.
Ora mi sento come se fossi stata completamente disumanizzata, sporcata nella mia intimità e,
non a caso, un’espressione che uso particolarmente per descrivere il mio sentire di oggi è:
“mi è morta l’anima”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Qui citerò gli attacchi all’identità sessuale.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Spero di riuscire a spiegarlo al meglio. Fin da bambina sono stata trattata e definita come
un “maschiaccio”, banale agli occhi di molti, potrebbe far sorridere.
Mia madre spesso mi ripeteva:
“Pensa, quando sei nata, l’infermiera ha detto:
“Signora è un bel maschietto” per poi correggersi subito dopo”.
Mio padre spesso ripeteva:
“Beh, volevamo un maschietto, in fondo è come se l’avessimo avuto”.
All’età di quindici anni ho detto a me stessa di essere omosessuale.
Ho vissuto tutto questo con un senso di angoscia per molto tempo, ripetevo a me stessa
che sarei rimasta tutta la vita sola perché non essendo un uomo non sarei mai stata degna
di avere una relazione con una donna in quanto mi sentivo un essere sporco e incompleto.
Ho fatto un lungo percorso e sono arrivata all’accettazione di me in quanto donna che ama le donne.
La relazione che ho attualmente è con una donna che prima di me ha sempre avuto storie con uomini.
Nei primi tre mesi tutto è stato vissuto serenamente.
Successivamente è arrivato per me l’inferno.
Continue frasi che screditano il mio modo di essere, la mia naturalezza:
“Io non sono omosessuale, sto con te per il sentimento, non per una questione sessuale,
non c’è di mezzo l’attrazione fisica”, per poi sedurmi un istante dopo sessualmente, oppure:
“Certo, farlo con un uomo è molto più carnale, tra di noi non c’è carnalità, è una cosa
diversa, si potrebbero definire coccole”, per poi dirmi:
“Mi piaci tanto, vestita così mi fai sesso”.
520
Continuano ad esserci atteggiamenti di accettazione e subito dopo di non accettazione e potrei citare
mille altri esempi, dal più piccolo di vita quotidiana al più paradossale.
Tutto questo e molto altro ha scatenato di nuovo in me un senso di inadeguatezza, di incompletezza,
di competizione che non potrà mai esistere, ma, nello stesso tempo, la ricerca di gratificazione
che per un attimo arriva, il bisogno di amore, quello che credevo di aver trovato
e senza una spiegazione ho di nuovo perso, e mi tiene inchiodata a questa relazione.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

Ora, altri due elementi si sono chiariti: l’angoscia e la noia.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
a. L’angoscia:
che si scatena in lei quando io all’improvviso scoppio e non resisto più
nelle continue umiliazioni, quando di colpo mi animo e non svolgo più il ruolo
di “pattumiera affettiva”.
b. La noia:
quando mi lascio devitalizzare troppo trascinando nella mia morte anche
le parti che lei ha proiettato su di me. Improvvisamente in lei arriva la noia,
il sentirsi chiusa, il bisogno di spazio.
Ed è in questo modo che riattiva in me il bisogno di lei, le forze mi vengono a mancare
perché aleggia di nuovo la paura della separazione o meglio, di un vero e proprio abbandono,
perché è come se sapesse qual è la mia parte debole e con colpi sempre più atroci
mette continuamente a nudo la mia ferita.
La parte più difficile è stata per me ammettere che, nonostante io in questa relazione appaia
come la vittima in assoluto, in realtà ho innescato meccanismi, seppure più deboli, da perverso
relazionale e ho alimentato insieme a lei tutto ciò.
Tutto questo e molti altri episodi hanno fatto di me una “persona morta viva”, spogliata
della sua esistenza e solo ora con l’aiuto della terapia sto cercando di ricostruire i cocci”.
IL COLLEGAMENTO TRA IL RAPPORTO CON I GENITORI NEL PASSATO
INFANTILE E I PROBLEMI NELLE RELAZIONI SENTIMENTALI DI OGGI.
In molte circostanze, nella vita, per capire come vanno le cose bisogna iniziare dal fondo
(il disastro che è successo) per ricostruire arrivare a ritroso a un inizio inavvertito.
Faremo così anche ora, per studiare il problema delle difficoltà nei rapporti sentimentali,
fonte di dolore per un’infinità di esseri umani.
Incominciamo quindi dalla descrizione di un meccanismo emotivo patologico nei rapporti
interpersonali di natura sentimentale, che causa forti sofferenze a chi ne è vittima.
Descriveremo il percorso psicologico nascosto, dividendolo schematicamente in 4 FASI,
per potere collegare l’oggi (il problema) allo ieri (l’infanzia), passando attraverso la descrizione
degli effetti positivi dell’applicazione della tecnica di auto-aiuto.
Fase A.
All’inizio di un rapporto sentimentale nevrotico, la persona che ama troppo (Norwood, 1985)
parte da un singolo comportamento protettivo o corteggiante del suo partner, comportamento
che colpisce profondamente la futura vittima, la attrae in modo affascinato, crea un legame
che la vittima non riesce a sciogliere in alcun modo.
Questo avviene perché tale comportamento è desiderato dal soggetto/vittima in quanto
lo illude di compensargli antiche carenze affettive dei suoi genitori.
Il soggetto/vittima, partendo da questo singolo gesto o comportamento momentaneo dolce
e corteggiante, fa una indebita estrapolazione alla totalità della vita del partner.
“Se è così carino e gentile in questa circostanza, chissà come sarà protettivo
e corteggiante in tutte le altre circostanze e per il resto della sua vita”.
521
Questo giudizio è più di un errore nella valutazione: è un’indebita e pesante illusoria aspettativa
emotiva nei confronti del partner, il quale si trova sottoposto ad almeno tre richieste
pressanti e gravose:
1. Una condizione esistenziale costrittiva, perché l’aspettativa del soggetto lo chiude
in un ruolo riduttivo.
2. L’obbligo di comportarsi nella vita di ogni giorno secondo un’aspettativa totalmente creata
dal soggetto a causa dei suoi problemi, ma non voluta dal partner.
3. Una sorta di blocco emozionale da imbarazzo nel partner, il quale rischia di non sapere più
come comportarsi con naturalezza, perché a un suo singolo gesto (che per lui non ha un significato
così elevato) vede attribuito in maniera scorretta un allargamento del valore romantico.
Il soggetto nevrotico, con ciò, blocca il comportamento naturale e spontaneo del partner,
inchiodandolo in una dimensione non autentica.
Dividiamo schematicamente i partner in due categorie.
a. Partner limpidi:
soggetti normali o non troppo gravemente nevrotici, e comunque - in caso di nevrosi con una strutturazione di personalità che non ha necessità di adoperare l’altro e di abusarne
psicologicamente. Questo tipo di partner non sfrutterà a proprio beneficio inconscio la trappola
di auto danneggiamento creata dalla vittima. Anzi ne sarà probabilmente inghiottito e soffocato
e quindi - dopo un periodo di tempo e giunto ad un insopportabile grado di disagio emozionale romperà la relazione con il soggetto/vittima.
b. Partner manipolativi:
mossi dalla necessità di ricavare energie emotive stimolanti per il proprio inconscio dall’esercizio
del potere emozionale sulla propria preda. L’offerta del legame/trappola fatta dal soggetto/vittima
è un vero e proprio invito a nozze (la relazione si conclude però con la distruzione psicologica
della vittima, mangiata viva dal partner).
Fase B.
La seconda fase coincide con un momento temporale particolare. Questo errore di valutazione
estrapolativa scatta, dentro l’animo del soggetto/vittima, nel momento dell’innamoramento
psicologicamente patologico. In questo istante il soggetto/vittima resta legato dal futuro partner,
che prima suscitava solo un interesse limitato e non coinvolgente.
Nell’impostazione della strategia psicoterapeutica, molti autori (tra essi anche la Norwood)
lavorano soltanto sull’insegnare al soggetto/vittima come difendersi dal partner sbagliato.
Non indagano a fondo sui motivi sotterranei e sui dinamismi emozionali inconsci a causa
dei quali il soggetto/vittima resta preso dal rapporto con il partner e rimane legato a lui.
Qui si inserisce, in una strategia che dispone di un’arma in più, l’applicazione che il soggetto/vittima
fa della tecnica di auto-aiuto descritta dal sito.
Fase C. - Inizio terapia.
L’indagine profonda sulla natura inconscia dei propri comportamenti patologici invece è essenziale
affinché il soggetto possa liberarsi a fondo e realmente da questo legame, le cui radici affondano
proprio nella sua infanzia. Infatti, l’esistenza stessa di questo legame indica che il concetto di amore
del soggetto/vittima e la sua modalità di vivere l’amore per un altro sono sbagliate o infantili.
Nel corso del processo psicoterapeutico, il soggetto/vittima deve quindi (nell’esaminare
ogni suo singolo rapporto sentimentale) dirimere con grande cura, ogni volta:
a. Ciò che nelle sue richieste di amore è sbagliato chiedere al partner, perché il partner non vuole
o non è in grado di dare queste cose al soggetto.
b. Ciò che nelle sue richieste di amore è di per sé sbagliato perché è infantile.
522
Ora, è da tener presente che la soluzione correttamente ragionevole nel primo caso è quella di lasciare
il partner, anziché restare accanto a lui, tormentandolo con richieste assurde perché sicuramente
frustranti in quanto impossibili da realizzare.
Tuttavia è possibile (sia pure con grande dolore) lasciare un partner della vita di oggi.
È invece impossibile per il bambino lasciare i genitori (prima matrice di problemi di tale genere),
in quanto partner inadeguati a rispondere ai bisogni e alle sue richieste.
Tale impossibilità riguarda non solo il bambino reale dell’infanzia, ma anche il bambino interiore,
emozionale, che è sepolto nelle profondità dell’animo dell’adulto problematico di oggi.
In questa misteriosa e inscindibile unione tra il soggetto e i suoi genitori, passato e presente sono
molto spesso mescolati in modo quasi inestricabile.
Esaminiamo prima il rapporto tra il soggetto e i suoi genitori del passato (di quando lui era bambino)
e poi quello con i genitori di oggi (quando il soggetto è adulto).
Fase D. - Cuore della terapia.
Genitori del passato.
La condanna dei genitori del passato (nelle sedute di auto-aiuto che il soggetto realizza)
è quindi il giusto e inevitabile atto che ricostituisce un equilibrio, riconoscendo che è comunque
mancata una posizione di amore indiscusso e incondizionato dei genitori verso il soggetto nella sua
infanzia. Emettere questa sentenza di condanna psicologica nei confronti dei genitori è per ogni
soggetto, nel corso del suo percorso di sedute, un atto doveroso verso se stesso e verso la sua vita.
Genitori del presente.
Soltanto in questo modo (pronunciando sentenze di condanna dei genitori del passato) il soggetto
può non cadere nella trappola (altrimenti inevitabile) di dover addossare la colpa di tutte le proprie
sofferenze e scelte sbagliate (anche nella propria vita adulta):
• o al partner della relazione sentimentale (in quanto visto come riedizione dei genitori del passato),
• oppure - se si tratta del rapporto affettivo con i genitori stessi, ancora conviventi con il soggetto - ai
genitori di oggi (anch’essi visti come edizione continuamente rinnovantesi dei genitori del passato).
Entrambi gli atteggiamenti emozionali non sarebbero altro che la prosecuzione di una posizione
infantile. Infatti, il soggetto deve difendere se stesso, in quanto adulto, da tutti gli altri esseri umani
che lo circondano. Vi sono infatti nel mondo decine, centinaia, migliaia di mentalità diverse.
È dovere del soggetto - come adulto - difendere se stesso, le sue idee, i suoi bisogni.
Infatti non è più suo diritto naturale (garantitogli dal suo essere bambino) pretendere che gli altri
si modellino su di lui, che siano e vivano come va bene a lui, come vuole lui.
Questo vale, ovviamente, nei confronti di partner estranei. Ma nello stesso modo, il soggetto ormai
adulto ha l’identico dovere nei confronti dei suoi genitori, a partire dal limitato campo del rapporto
con due persone. Si aggiunge a questo aspetto anche un altro elemento di inquadramento molto
più difficile (e controverso), ma in fondo appartenente anch’esso al piano della realtà.
Consideriamo il caso di genitori che non sono stati completamente negativi e rifiutanti nei confronti
del figlio/figlia. Ipotizziamo che abbiano dato affettivamente qualcosa, anche se non nella forma,
misura e momento che sarebbe stato necessario affinché i bisogni del bambino fossero correttamente
e pienamente soddisfatti. Immaginiamo quindi che vi sia stato nella famiglia un certo (anche minimo)
grado di amore verso il soggetto.
Un amore non richiesto da lui in tale forma (perché non corrispondente ai suoi bisogni,
alle sue richieste), ma comunque un amore giungente a lui, un amore che partendo dai genitori
è arrivato fino al soggetto. Il soggetto ora è cresciuto, sa che può esistere con le sue forze
ed ha imparato a difendersi. Come è giusto che egli proclami ciò che non gli è stato dato,
così è giusto che ci sia in lui un impegno a riconoscere la realtà (anche minima) di ciò che gli è stato
realmente dato. È giusto che ci sia in lui uno sforzo per interpretare i modi ed i mezzi con cui
questo amore è stato espresso dai genitori nel passato della sua infanzia (ripetiamo: anche
se non sono stati i mezzi, i modi e i tempi che egli avrebbe voluto).
Ma questo controverso aspetto è di difficile interpretazione perché non è detto che si limiti al passato:
può infatti estendersi anche al presente. Poniamo infatti che i genitori riescano oggi, nei confronti
del soggetto (figlio ormai adulto ed emozionalmente in grado di esistere di per sé in modo
autosufficiente), a esprimere il loro affetto solamente con una forma così intimidita e bloccata
da apparire quasi rude. Forse riescono a dire soltanto un: “Hhm, ti vedo un po’ stanco...”,
523
perché non riescono a manifestare i loro sentimenti in maniera più esplicita.
Ma se il soggetto ha superato in misura soddisfacente le sue sofferenze per simili carenze vissute
nel passato a partire dalla propria infanzia, allora egli sarà in grado di comprendere che tali parole
dei genitori possono essere una manifestazione d’affetto, sia pure bloccato, come fosse rattrappito.
Certo resterà nel suo animo un angolo di penombra malinconica per ciò che non è stato.
Tuttavia sarà in grado di capire i suoi genitori e non resterà più inchiodato alla precedente necessità
di essere capito, anche se ormai adulto.
Potrà capire i suoi genitori ed accettare il loro essere fatti così, sopportarne il dolore.
Vorrà certo essere totalmente capito nella sua parte infantile e si sentirà ogni diritto di protestare,
rivendicare, accusare. Ma farà questo in modo adulto: da solo, per mezzo delle sue sedute
di auto-aiuto. Tuttavia, sul piano del comportamento nella relazione con i genitori, in quanto adulto,
può permettersi di capire che loro sono fatti come sono e non possono mutare.
Questa possibilità di comprendere gli altri e i genitori affonda le sue radici nei fatti storici dell’infanzia.
Nella maggioranza dei casi, riandando indietro fino al più lontano passato, è possibile trovare
un insieme di gesti di amore (sia pure male espressi e sicuramente non indirizzati agli aspetti
della personalità infantile che al soggetto sarebbe servito e piaciuto).
I casi nei quali non c’è mai stato alcun tipo di espressione di amore da una qualsiasi persona adulta
verso il soggetto bambino sono abbastanza rari, anche se drammatici per gli individui a cui è toccata
questa sorte. Nella grande maggioranza dei casi c’è stata qualche manifestazione di tenerezza
o almeno di interessamento.
Il metodo generale di auto-aiuto deve quindi essere in grado di fornire, a questa fascia statisticamente
predominante di soggetti, i mezzi tecnici per vedere tali antiche e anche minime manifestazioni
positive, tenerne conto, e arrivare infine all’obiettivo di potersi staccare dai genitori,
non esserne più coinvolti come un tempo.
Dal punto di vista tecnico questo può avvenire se il soggetto che non riesce a staccarsi dai genitori
si assume la responsabilità di auto-protezione contro di essi, di proclamare la propria individualità
di fronte ad essi. Forse le ragioni di questa fissazione sono diverse da caso a caso, pur essendoci
probabilmente elementi comuni. Uno di questi (con implicazioni estese) potrebbe essere:
• L’impossibilità di esprimere liberamente le proprie emozioni nei confronti dei genitori in passato
(in tal caso la protesta di oggi, espressa nelle sedute, è per il soggetto una novità emozionale).
• Fin dall’infanzia del soggetto si è quindi prodotta in quella famiglia una sostanziale condizione
di obiettiva separazione tra i genitori e il figlio.
• In molti casi, tragicamente, i genitori (ovviamente per colpevole disinteresse) arrivano
a non sapere nemmeno, a non sospettare neppure, che il figlio sia in disaccordo.
• In ultima analisi si determina nel soggetto, per l’abbandono da parte dei genitori ma anche
a causa del suo stesso silenzio, l’impossibilità di esistere come individuo perché non può nemmeno
esprimere un punto di vista difforme rispetto a quello dei genitori.
• La conseguenza più grave di tutte è che la coercizione da parte dei genitori è stata così subdola,
estesa e precoce da arrivare a portare il soggetto a pensare:
“Non devo avere dentro di me qualcosa che sia contrario ai miei genitori.
Se lo penso è sbagliato”.
• E ancora più in profondità:
“È proprio questa mia parte emozionale a essere sbagliata.
Perciò non devo viverla, non voglio viverla”.
Il soggetto viene così sottoposto a un processo di totale castrazione della sua parte emotiva,
che deve essere nuovamente scoperta e vissuta nel corso del processo di auto-aiuto, deve essere
nuovamente scoperta e vissuta, se si vuole che tale processo sia efficace ai fini della nascita
di un nuovo benessere.
Certamente, nelle sedute di auto-aiuto, è sana la rabbia che emerge, la possibilità di dare
libero sfogo ad ogni emozione, arrivando fino agli insulti.
Il soggetto deve imparare a rispettare esattamente i sentimenti che si agitano nel suo animo,
accettando di dovere parlare anche con una estrema violenza nell’espressione emozionale
di stati d’animo, fino ad urlare, a rantolare suoni inarticolati.
524
NOTA BENE.
Nel momento in cui fa la seduta egli non deve pensare che, tuttavia, queste stesse emozioni,
se avessero potuto essere espresse al momento giusto - nell’infanzia - forse non sarebbero
stati così violente. E quindi cedere all’impulso di frenarne l’espressione incontrollata.
Il soggetto deve assumersi la responsabilità di farsi correttamente carico dei bisogni emotivi
che ora, nel preciso momento della sua vita adulta in cui fa la seduta, assumono
una certa forma ed intensità. E deve dare corpo e voce a questa forma e questa intensità.
Tuttavia questa rabbia verbale è in fondo soltanto un elemento catalizzatore per la presa
di contatto con il dolore. È come un mezzo per sentirsi aiutati, sentirsi legittimati a provare dolore.
Sostanzialmente non è nel momento in cui lo si accusa, ma è nel momento in cui si prova dolore
che si dice al genitore:
“Tu mi hai tradito”.
L’autentica accusa è in realtà sottilmente implicita e non espressa a parole. Il vero momento in cui
il figlio accusa il genitore è quello in cui il figlio stesso si legittima a decretare oggettivamente
il suo dolore. Se c’è oggettivamente dolore, e se egli consente che il suo dolore ci sia, allora questa
è oggettivamente la condanna dei genitori, perché è il loro fallimento:
hanno allevato un figlio triste e infelice.
Il metodo di auto-aiuto, nella proposta estremamente sintetica presentata dal sito
(e ispirata dalla formulazione di Stettbacher), sembra utilizzare fortemente la rabbia
(specialmente nel quarto passo, nella proclamazione dei bisogni emotivi):
“Non avreste dovuto fare come avete fatto... avreste dovuto fare altre cose...”.
Quest’impostazione di utilizzo della rabbia sembra essere adeguata come metodo, come strumento.
Ma, - in realtà - l’obiettivo finale, la sostanza a cui il soggetto deve arrivare, è riuscire a legittimarsi
a sentire il dolore. Tuttavia, di per sé, i passi del metodo non portano il soggetto a esprimere
apertamente, con certezza, questa sua conquistata disponibilità a sentire il dolore.
L’impianto della seduta (secondo lo schema indicato dal sito e originariamente da Stettbacher),
comporta infatti questa sequenza:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
a. Il soggetto, partendo da un qualsiasi aspetto di realtà che l’ha colpito, esprime a fondo
le emozioni relative.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
b. Poi chiama in campo, dentro di sé, i genitori (o comunque gli adulti importanti nella sua infanzia)
a proposito della loro posizione su problemi simili del passato.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
c. E termina la seduta proclamando che non avrebbe avuto bisogno di essere trattato in maniera
così sbagliata e ingiusta, bensì avrebbe avuto bisogno di essere circondato di amore,
comprensione, incoraggiamento.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Nello schema di Stettbacher non c’è una fase tutta lasciata al dolore che la persona sente.
Nemmeno nella variante proposta dal sito (l’aggiunta di un quinto passo di impegno ad un gesto
finale di auto affermazione) vi è una via obbligata, un mezzo tecnico, che con certezza costringa
525
il soggetto a guardare in faccia il dolore che ha in sé. E tuttavia, perché lo scioglimento dei legami
con il passato sia completo, è necessario che questo dolore sia rivissuto: il soggetto dovrà scoprire
da solo il modo in cui costringersi a passare in questo tunnel infuocato. Infatti, quando il soggetto
prova il sentimento: “Io mi sono sentito trascurato” prova dapprima rabbia: “Questa cosa mi ha
fatto arrabbiare”. Solo dopo può emergere il dolore, che è il più grande momento di accusa,
molto più della rabbia. Nel momento della rabbia il soggetto accusa direttamente.
Può accusare giustamente, anche se spesso accusa sbagliando, con una visione errata, distorta,
della situazione reale. Invece il dolore è l’accusa sicuramente giusta. Perché se il soggetto è un figlio
che ha sofferto e che è sofferente, questo decreta oggettivamente il fallimento dei genitori
e quindi li condanna oggettivamente, molto di più della rabbia.
Ma lasciarsi avvolgere da questa sofferenza bruciante, lasciarsi schiacciare da questo peso immane
che grava su tutto l’essere del soggetto, lasciarsi penetrare da questo mortale qualcosa inesprimibile
e inafferrabile che svuota l’individuo, non solo della gioia e dell’energia stessa per vivere, ma persino
della stessa ragione di vivere perché lo fa sentire inesistente e gli fa credere che l’esistere stesso
non abbia alcun senso, per cui è logico lasciarsi andare e morire, tutto ciò è un’esperienza così vicina
all’agonia che soltanto il soggetto può decidere di viverla e costringersi a sperimentarla.
NOTA BENE.
Al termine di questa sezione - in una presentazione a parte per giusto rispetto
alla profondità dei dolori descritti - saranno riportate alcune descrizioni personali
di soggetti che si sono sforzati di esprimere con parole emozioni quasi inesprimibili.
Per la loro generosità nel mettere il risultato di questi estremi sforzi personali
e queste emozioni così intime, a disposizione dei lettori del sito - nella speranza
che possano ricavarne un beneficio - fin d’ora QUATTRO esprime,a nome di tutto
il team del sito, un profondo grazie a questi coraggiosi e generosi esploratori dell’ignoto
spazio interiore dell’animo umano.
Tornando al metodo di auto-aiuto, si può dire che va certo bene il fatto che la tecnica utilizzi
la rabbia del soggetto. Tuttavia resta sempre il fatto che la rabbia può essere, come si dice, cieca,
cioè fondata su una visione errata. E comunque è una posizione unilaterale.
Molto più produttivo (come accesso alla sua verità celata nel profondo) è invece il momento
in cui il soggetto vive il suo dolore, perché questa è una situazione oggettiva.
Ora, l’impostazione che spinge a sviluppare un orientamento assertivo auto affermativo
tralascia forse il fatto che è importante vivere le emozioni di per se stesse, vivere sostanzialmente.
E non soltanto puntare ancora una volta ad agire, sia pure agire più affermativamente
nei confronti degli altri. Infine, è da tener presente che questa progressione prevalentemente assertiva
- auto affermativa (se autorizzata concettualmente come l’espressione più corretta del metodo
di auto-aiuto) potrebbe essere distorta da certi soggetti.
Non si può escludere che alcune strutture, utilizzando questo schema in tutti i campi della loro vita,
diventino persone manipolatrici, incolpando sempre gli altri, anche nella propria età adulta:
“Io non sono stato bene perché tu non mi hai fatto stare bene, dovevi fare in questo modo
invece che in quell’altro, se io non sono stato bene è colpa tua”.
Si ha talora l’impressione che il metodo proposto da Stettbacher utilizzi i quattro passi per indurre
comunque il soggetto a diventare una persona assertiva, auto affermativa.
Ora, è chiaro che non vi è assolutamente nulla di sbagliato nell’imparare (con un addestramento
sistematico) ad essere assertivi, non aggressivi né passivi.
È bene imparare a non esercitare violenza sugli altri ma nemmeno subire gli altri, permettendo loro
di essere aggressivi nei nostri confronti.
È corretto accettare il punto di vista degli altri ed essere pronti a modificare la propria opinione
senza per altro rinunciare alle proprie idee. È utile non pretendere che gli altri si comportino
come fa piacere a noi, rispettarli, non giudicarli, non essere possessivi verso di loro
e contemporaneamente non avere paura della loro critica o abbandono.
526
È oggettivamente corretto e maturo riuscire a dire all’altro:
“Non mi sento a mio agio dinanzi a questa tua posizione”,
invece di aggredirlo con un:
“Tu mi fai stare male”,
che attribuisce all’altro il nostro disagio, il quale invece è propriamente un disagio “nostro”.
In linea teorica generale, qualche volta questo approccio potrebbe anche essere valido, ma non tiene
conto di alcune considerazioni importanti alla luce del concetto che per il soggetto è importante
riconoscere entrambi gli aspetti della sua realtà passata, quelli negativi ma anche quelli (sia pure pochi)
positivi. E, più in generale, è importante riconoscere nelle interazioni passate con gli adulti
della propria infanzia, nei tormentati rapporti con queste figure così tremende nella loro importanza,
sia ciò che hanno fatto (o non fatto) gli adulti, sia ciò che ha fatto (o non fatto) il soggetto,
pur essendo solo un bambino.
PICCOLO INSERTO.
Sia chiaro: queste parole non vogliono essere in alcun modo un perdono, un’assoluzione,
dei genitori qualora il soggetto - per onestà intellettuale nella sua ricerca interiore - venga a mettere
in chiaro che egli stesso non ha mai espresso i suoi desideri, né affermato i suoi diritti,
non ha mai protestato, non si è mai ribellato ai genitori.
QUATTRO ritiene ovvio che la responsabilità di questa globale atteggiamento di passività
del bambino sia messa totalmente ed esclusivamente a carico dei genitori.
Un bambino che sia così incapace di gesti di autoaffermazione addirittura facilitati dalle naturali
risposte fisiologiche di rifiuto che qualsiasi lattante o bambino piccolissimo presenta quando
è contrariato, non può essere che un bambino allevato fin dalle prime settimane di vita in un clima
di rigidissimo controllo e dominio da parte dei genitori.
Solo un’applicazione precocissima ed estensiva, totale, di una educazione a tipo
di “Pedagogia Nera” può spezzare così radicalmente la capacità di protestare di un bambino.
È certo che un soggetto allevato in un clima simile non avrà mai un gesto di ribellione,
e quindi si sottometterà a qualsiasi richiesta od ordine.
Ma soltanto perché ha imparato fin dai primi giorni della sua vita che deve fare così, che non si può
fare altro che così, e che fare diversamente non è per lui nemmeno pensabile.
Nessuna persona ragionevole potrà mai dire che un soggetto così - se in tutta la sua vita,
anche da adulto - se si è sempre sottomesso, se ha sempre obbedito, se non ha mai protestato,
è perché era d’accordo: quindi deve prendersi la responsabilità delle sue azioni, soprattutto ora
che è adulto, e smettere di dare ai suoi genitori la colpa di come è vissuto.
Tornando però al problema dell’onestà intellettuale nel riconoscere la verità completa
della propria storia passata, che la memoria ci fa riscoprire, è importante che ognuno sia corretto
con se stesso. È certamente difficile ammettere a noi stessi che non abbiamo
mai protestato contro i nostri genitori, e riuscire a vedere questa nostra mancanza di ribellione
come un’assenza che - pur preparata dai genitori - è stata tuttavia realizzata da noi stessi,
anche se non abbiamo avuto altra possibilità.
Diverso è invece il caso dell’assenza di reazioni contro un partner contemporaneo e spesso coetaneo
(se non, talora, anche minore di età), dinanzi al quale abbiamo tenuto lo stesso atteggiamento
generale di passività e sottomissione, pur essendo ormai decisamente adulti.
In tal caso la correttezza nella ricerca ci impone di riconoscere che - pur non avendo magari
in proprio energie per reagire - non siamo stati così solleciti e costanti nell’andare
a cercare quell’aiuto che la realtà sociale di oggi ci avrebbe offerto (per esempio consigli,
forme diverse di psicoterapia, fino alle estreme drastiche soluzioni dell’interruzione
del rapporto malato grazie a denunce legali o alla separazione).
O forse un altro modo per formulare lo stesso concetto è:
527
• Abbiamo avuto sufficiente pazienza e resistenza per potere continuare a vivere
nell’oppressione mantenendo però dentro di noi vivo il pensiero del fatto che la ragione
era nostra e non del prevaricatore?
• Abbiamo continuato in silenzio e nascostamente ad accrescere le nostre forze (anche grazie
all’aiuto di altri o di metodi auto gestiti) fino a quando la nostra protesta ha potuto prendere corpo
ed esplodere efficacemente?
E qui si apre quel territorio di controversa interpretazione: in una coppia tormentata da laceranti
conflitti, chi e quanto è la vittima, e quale nitidezza di confine lineare come il taglio di un bisturi
divide questa dal prevaricatore? Certo non mi fa piacere dovere ammettere a me stesso che
spessissimo non ho detto all’altra persona che doveva essere come io avevo bisogno che fosse.
Ma se così è stato, non posso non prenderne atto e riconoscermene la responsabilità
(salvo poi andare, con l’appoggio del metodo di auto-aiuto, alla ricerca delle cause antiche
di questa mia assurda e anacronistica “timidezza” da bambino non cresciuto).
Ed ancora di più:
• Quale obbligo aveva l’altra persona di essere come a me serviva che fosse?
Tutti sappiamo che nei rapporti umani è sempre una questione di limite che deve essere posto
alla libertà di ognuno. La libertà del diritto di uno sta nei limiti della libertà dell’altro.
L’uno non deve sovraccaricare l’altro di aspettative, l’altro non deve sovraccaricare il primo di doveri.
Io ho le mie esigenze, l’altro ha le sue. Autoaffermazione e rispetto della libertà devono andare avanti
di pari passo. Da un lato ognuno deve imparare a difendersi, ma dall’altro deve imparare a capire
e accettare il fatto che gli altri non sono fatti a stampo per essere rispondenti ai suoi bisogni.
Nella terapia dei rapporti psicologicamente patologici molti terapeuti incitano il paziente a imparare
ad accusare l’altro (“Tu mi stai trattando male”) e insieme imparare a difendersene, ma trascurano
il fatto che il soggetto deve anche imparare a riconoscere che egli stesso ha sbagliato a chiedere
all’altro cose che l’altro non era capace di dare o non aveva motivo di dare o addirittura non ne aveva
intenzione. Questo errore del soggetto ha contribuito ampiamente a determinare il suo dolore,
ha collaborato attivamente a far nascere la sua sofferenza.
E questo semplicemente facendo una richiesta che non era per l’altro obbligatoria o interessante
o possibile soddisfare. Per cui ci si può chiedere quanto sia stato legittimo al soggetto (persona adulta)
fare questa richiesta ad un altro adulto in posizione paritaria.
Inoltre, se il soggetto, ormai adulto, continua a farsi ferire dagli altri adulti come era stato ferito
un tempo dai genitori, alcuni sostengono (a torto o a ragione?) che non può ritenere
i genitori responsabili di tutte le lesioni. I genitori sono (dicono tali persone) responsabili
solo della prima lesione. Delle altre è responsabile il soggetto stesso.
Ma questa opinione dimentica completamente l’esistenza del fenomeno della coazione a ripetere
comportamenti autodistruttivi per cercare di scaricare incomprese tensioni legate ad antichi conflitti
dei quali il soggetto non è nemmeno cosciente. In realtà il soggetto, nella sua vita, ha incominciato
(essendo bambino) totalmente impotente. Per necessità doveva dipendere dai genitori:
voleva dipendere da loro. Faceva di loro, idolatrati, degli dei. Si asserviva a loro perché era sua gioia
dare gioia a loro. Viveva in funzione loro. Il condizionamento che i genitori gli hanno dato,
anche se formalmente piccolo, è stato sostanziale perché ha creato, impostato, la natura della
personalità del soggetto fin da bambino, ha determinato una stortura della sua personalità,
la quale ha fatto sì che il soggetto, per anni e anni e anni, ben oltre l’età dell’impotenza fisiologica,
continuasse ad atteggiarsi a bambino impotente. Perciò, questa realtà di conseguenze inevitabili
per il soggetto deve essere da lui imputata ai genitori nella fase della proclamazione della rabbia.
Quindi - sulla carta, su un nastro magnetico - il soggetto deve dire ai genitori:
“È colpa vostra se io oggi non ho una relazione sentimentale valida”.
“E questo in parte non è vero (magari anche per il solo fatto che voi siete morti da molto tempo)
ma contemporaneamente è vero perché è proprio la conseguenza del fatto che voi mi avete trattato
in un certo modo. La mia libertà sta incominciando nel momento in cui io mi rendo conto
che vi ho dato un potere. Voi mi avevate convinto che io questo potere non potevo non darvelo,
non riconoscervelo giacché questo potere voi l’avevate, e mi avete fatto credere che vi spettava
di diritto. Il che non era vero, ma solo adesso me ne rendo conto.
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E quale sforzo compio per rendermene conto, quale fatica mi costa, con quale dolore io devo lacerare
il mio animo. Perché io devo demitizzare dei genitori che si erano lasciati mitizzare o addirittura
avevano preteso il culto idolatrico da me, fedele alla loro religione. Se invece mi avessero lasciato
crescere liberamente, li avrei smitizzati molto prima, li avrei contrastati come fanno tutti gli adolescenti
normali e io non avrei avuto queste alterazioni della visione della realtà e in essa dei rapporti
interpersonali. Quindi sarei stato meno ingenuo”.
Per cui, concettualmente è vero che tutti i problemi successivi vengono fatti risalire al rapporto
con i genitori. Il non dare al bambino vitamina D in quantità sufficiente gli causa rachitismo.
Questa malattia produrrà alterazioni ossee e deformazioni permanenti del suo scheletro, le quali
gli creeranno, nella crescita, molti problemi e blocchi non solo fisici ma anche psicologici,
che magari cercherà di superare facendo uso di droghe e diventando tossicodipendente.
Ma se gli fosse stata data sufficiente quantità di vitamina D non avrebbe avuto il torace deformato,
non si sarebbe sentito infelice perché diverso dagli altri e forse non sarebbe diventato
tossicodipendente. Si pone quindi il concetto del tempo delle sedute, del percorso temporale
delle sedute, che deve essere visto come un processo di maturazione.
Al di là dei sintomi clinici iniziali, che è certamente diritto di ogni paziente desiderare
che siano eliminati i sintomi clinici iniziali, perché è diritto di ogni individuo desiderare di stare bene,
e questa quindi è la pretesa minima che si ha il diritto di rivolgere ad una metodica psicoterapeutica.
Ma, al di là di dell’eliminazione dei sintomi iniziali, a una metodica come quella di auto-aiuto
che ci permette di andare alle radici primarie delle nostre sofferenze, noi dobbiamo chiedere
che ci consenta di riavviare un processo di evoluzione interiore, e quindi di maturare.
In questa condizione si può poi ben inserire anche il concetto di “voler amare” genitori
che sono stati inadeguati, e quindi hanno tolto al figlio la possibilità naturale di amarli.
Sono stati genitori che di per sé non si sono fatti amare e quindi hanno tolto al figlio il diritto
di amarli spontaneamente e liberamente.
Sono stati genitori che hanno avuto una ben precisa personalità, personalità che (se sono ancora vivi)
per lo più continuano ancora ad avere anche oggi, e sulla quale il soggetto non è d’accordo.
E quindi il soggetto deve impegnarsi a liberarsi di questo disagio, e sottrarsi all’influenza dei genitori
(nonostante la loro nevrosi che tende a colpevolizzarlo), esprimendo liberamente la sua rabbia
contro di loro. Cosicché, decantata la rabbia, il suo cuore possa essere libero di vedere ciò che
i genitori gli hanno fatto di male, ma anche gli hanno dato comunque come atto d’amore oggettivo.
Cosicché possa riconoscere ciò che essi hanno costruito nelle fondamenta della sua personalità
con questi lampi di luce amorosa, per cui egli può oggi esistere come personalità autonoma,
esentarli da ulteriori chiamate in causa (sia di richieste amorose sia di accuse) e sganciarsene,
lasciandoli andare. Staccarsi dal cordone ombelicale richiede infatti di poter respirare da soli,
non dover più dipendere dal respiro dei genitori. Operativamente parlando, staccarsi comporta
la possibilità di riuscire a rendersi conto di una realtà:
“Siete così”.
Non vi è nessuna possibilità di fare la minima cosa per annullare questa realtà così dolorosa.
Inutile, come si dice, cercare di cavare sangue da una rapa.
Mi vivo il dolore del fatto che siete stati inadeguati ai miei bisogni, fatti come rape e non fatti
di carne e sangue e sentimenti umani. Oggi posso farlo, posso vivere questo dolore perché:
a. Sono una persona adulta che ha delle sue doti stabili, positive, sono ormai
una persona autosufficiente.
b. Tecnicamente dispongo oggi di un metodo di auto-aiuto che mi permette di dare sfogo
a emozioni che ho sempre dovuto tenere rinserrate dentro di me per ragioni diverse
(colpevolizzazioni, inibizioni, sensi di dovere, angosce, terrori, ecc.).
Quindi, nei confronti dei genitori, la rivalutazione comunque presuppone sempre l’esistenza
della distanza. Una lucida analisi che veda i genitori con riposata e decantata obiettività pienamente
accettante comporterà quindi sempre una mezza luce di malinconia legata al fatto che la condizione
affettiva desiderata, la fusione con i genitori, non potrà mai essere così totale come sognata
dal soggetto né per il passato né nel presente. Il soggetto dovrà imparare a prendere dai genitori
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e condividere con essi solo quelle cose che egli può condividere senza essere danneggiato nella sua
essenza ed esistenza. Ma, avendo ormai egli una sufficiente percezione di sé e un’adeguata
autonomia esistenziale, non è necessario che si sforzi di accettare i genitori per quello che sono.
La spontaneità di questa accettazione è la garanzia della sua autenticità, ed il soggetto deve essere
sicuro che l’accettazione dei genitori è nata in lui spontaneamente, quasi senza che egli se ne sia
accorto, certamente senza che si sia soffermato a pensarci volontariamente. Altrimenti il dirsi:
“Devo prenderli per quello che sono, non devo farci caso, devo portare pazienza”,
sarebbe ancora una volta soltanto uno sforzo di razionalizzazione.
Peggio, potrebbe essere soltanto un modo subdolo per reprimere ancora una volta
le proprie emozioni, della rabbia prima e poi del vuoto che è la sede del dolore e del pianto
da vivere stando fermi e muti, silenziosi.
Solo dopo un’accettazione avvenuta spontaneamente perché prodotta da una ormai conquistata
autonomia interiore, ci potrà essere la rinascita (o forse la nascita, infine) a un qualcosa
che è più forte, più caldo, più pienamente umano in cui il soggetto sente che può relazionarsi
con gli altri per quello che lui stesso è.
Punti positivi della metodica di auto-aiuto sono quindi:
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• Da un lato
essa legittima il soggetto a dare sfogo alla rabbia, prescrivendo di utilizzare sistematicamente
il canale emotivo, in un clima di libertà che non è quasi mai esistito in un ambiente familiare
problematico in cui vi è sempre stata una sostanziale freddezza e blocco emotivo generale.
• Dall’altro
fornisce al soggetto la sicurezza dell’avere un altro appoggio: egli non ha più l’appoggio
dei genitori, ma l’appoggio di se stesso soltanto.
La sistematica esecuzione del quinto passo - l’autoaffermazione finale - dà a molti soggetti
l’impressione confortante di passare da una coperta di lana ruvida, pesante e poco riscaldante,
a una di lana leggera, morbida e fonte di piacevole e benefico calore.
Non solo, ma il soggetto sente anche che questa morbida e calda coperta di kashmere è proprio sua,
e questo gli dà una splendida sensazione di sicurezza: è su di sé che può contare, ormai.
L’essenza del metodo di auto-aiuto è quindi:
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1. L’avere il diritto di esprimere le emozioni, qualsiasi emozione (non solo la rabbia,
ma anche la tristezza, o il dolore, o la paura o l’insicurezza).
2. L’avere il diritto alla libertà di pensiero individuale (il che è un atto vitale analogo alla libertà
di esprimere le emozioni, ma in modo un po’ diverso, con una maggiore apertura sociale).
3. Il poter riconoscere l’esistenza di elementi, dati e aspetti positivi in se stessi e fondare su di sé
la propria centratura esistenziale, vitale (prima impedita dall’obbligo di essere centrati sui genitori).
4. L’autorizzazione a non provare più sensi di colpa per la propria diversità dai genitori,
in base al fatto che il metodo addirittura prescrive, impone, l’esercizio della critica
e dell’autoaffermazione, invece di essere colpevolizzati e riempiti di sensi di vergogna.
5. Con il risultato finale di avere una maturazione, la possibilità di assumere le proprie responsabilità,
riconoscendo agli altri (i genitori) pari diritto di essere se stessi, di avere compiuto con buone
intenzioni delle cose che hanno fatto, anche se a noi non hanno dato beneficio perché erano
troppo invalidate dai grossi limiti che essi stessi avevano.
6. Alla fine, riconoscendo a noi il diritto di esprimere quell’amore che non abbiamo mai potuto
esprimere perché ogni volta che tentavamo di farlo eravamo, delusi o bloccati, o addirittura respinti,
abbandonati dai nostri genitori.
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Quanto sopra è stato detto in termini di rapporto nuovo tra il soggetto e i genitori ancora viventi,
un rapporto nuovo che scava nelle radici nascoste e antiche di conflitti sepolti nell’inconscio
del soggetto. Il risultato finale è, per questo soggetto, una nuova e diversa libertà di vivere
nel presente e per il futuro, un rapporto per lui adeguato e soddisfacente con i genitori.
Le stesse considerazioni sono applicabili al rinnovamento del rapporto tra il soggetto ed un partner
sentimentale con il quale prima era legato da un indissolubile groviglio di legami, fonte di sofferenza.
Vediamo ora una descrizione più dettagliata delle dinamiche relative.
APPLICAZIONE DEI CONCETTI ESPOSTI ALLE DIFFICOLTÁ
NELLE RELAZIONI SENTIMENTALI.
Lo sviluppo ora descritto della trasformazione terapeutica del legame figlio - genitori è molto simile
a quello di un rapporto sentimentale, amoroso, uomo/donna. Le osservazioni si riferiscono, è chiaro,
a un rapporto sentimentale patologico, gravato da proiezioni psicologiche che ne rendono tumultuoso
e tormentato l’andamento. In linea generale la sofferenza del soggetto/vittima deriva dal fatto
che aveva nei confronti del partner aspettative emotivo - affettive che questi non ha mai realizzato,
imponendo anzi proprie pretese contrarie, fonte di sofferenza per il soggetto/vittima.
Solo nel momento in cui il soggetto comprende che certe cose il partner non poteva darle non tanto
perché non volesse darle (elemento che, per altro, non si può assolutamente escludere) ma soprattutto
perché è fatto come è fatto e nessuno può mutarlo (e se non cercherà di cambiare lui stesso
non ci sarà persona che potrà farlo cambiare), il soggetto/vittima di colpo viene liberato dalla morsa
del suo dolore. Questa liberazione dal dolore è determinata dalla trasformazione interiore del punto
di vista del soggetto/vittima. In quel preciso momento il soggetto smette per la prima volta in vita sua
di chiedere all’altro l’autorizzazione e l’aiuto per potere essere se stesso e vivere secondo i suoi bisogni
e desideri. Per la prima volta si basa sul suo modo di valutare se stesso, ascolta soltanto ciò che sente
personalmente, e lo realizza grazie alle sole sue forze.
Per quanto concerne il rapporto tra le due persone, in quel preciso momento il soggetto stesso
non rivaluta veramente, realmente, il partner. Infatti nel momento in cui dice
“È diverso da me, non va bene per me”,
il soggetto vive un sentimento non esattamente spregiativo come sarebbe se dicesse:
“Non vali quanto io ho bisogno che tu valga”, ma certo non ha un apprezzamento in completa
sintonia. Non formula una vera e propria accusa, ma certo una valutazione in rapporto ai propri criteri
legati ai personali bisogni profondi, un’ammissione e una dichiarazione che il partner non è
ad un livello corrispondente ai bisogni del soggetto. Tuttavia lo accetta nella sua legittimata diversità:
“Va bene, sei una persona molto diversa da me, una persona che non collima
con i miei criteri di valutazione e con i miei bisogni. Tuttavia, per quello che sei,
hai anche degli aspetti positivi”.
Ugualmente, nei confronti dei genitori, il soggetto si era sentito in grado di affermare nelle sedute:
“Se voi genitori avete anche degli aspetti positivi, io questi aspetti positivi
li voglio vivere con voi”.
Tuttavia, nei confronti di un partner, se il soggetto - pur avendo riconosciuto aspetti positivi nell’altro non chiude gli occhi dinanzi agli aspetti negativi e limitanti che l’altro ha e non ha possibilità
e forse nemmeno intenzione di cambiare, allora si sente libero di poter amare l’altro secondo
il suo sentimento. Ma si tutela mantenendo una distanza protettiva:
“Amo questo partner, ma piuttosto vivo per conto mio, non impegnandomi più a vivere
con un partner inadeguato”.
L’accettazione dell’altro (partner diverso) non comporta minimamente la possibilità di un’imprudente
convivenza senza sintonia vitale:
“Lo accetto per quello che è, ma siamo molto diversi, non siamo fatti per vivere insieme,
non c’è niente da fare”.
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Ma in questa presa di coscienza non c’è dolore o angoscia, solo malinconia, perché al soggetto
è ormai chiaro che l’altro non l’ha fatto apposta. Ed è importante che vengano a cadere tanti
sentimenti di risentimento e di dolore, perché rendono difficile sganciarsi dall’altra persona.
Come già nell’infanzia in rapporto ai genitori, non si riesce a staccarsi perché non si accetta
di sentirsi traditi, non si accetta la delusione, non si accetta il fallimento.
Si riesce invece a sciogliere il legame quando il soggetto giunge a sentire che l’interrompersi
del rapporto con l’altro non è un proprio fallimento personale. In fondo, se per il soggetto
c’è una responsabilità personale di fallimento essa è nel fatto che un rapporto così problematico
sia durato così tanto tempo dopo che era già chiaro che non esistevano gli estremi per cui
questo rapporto fosse visto come valido.
Ma anche questo giudizio su di sé può e deve essere formulato con molta tolleranza, perché
è chiaro che la propria capacità di vedere se stesso in rapporto all’altro ha avuto i suoi tempi,
non certo affrettabili da uno sforzo intenzionale.
Al massimo si può sottolineare che ha giovato la distanza fisica nell’ambito di un rapporto
comunque sospeso, e quindi suscettibile di una rilettura non più turbata dalla rossa nebbia
che alcuni chiamano vita (come cantava Rainer M. Rilke).
DOLORI ANTICHI COME LE MONTAGNE.
Nel corso delle considerazioni fatte precedentemente, sono emerse alcune caratteristiche
che prende oggi il vissuto di un dolore antico, infantile, un dolore primario. Le ricordiamo:
• Nel dolore, il soggetto sta davvero vivendo il riconoscimento della propria vita, di essere stato
la vittima dell’abbandono, dei maltrattamenti, in sostanza del fallimento dei suoi genitori
considerati come capaci, buoni e amorevoli.
• Forse (senza per questo voler fare della facile filosofia sulla tragicità dell’essere drammaticamente
gettati nel mondo a fronteggiare il male e il dolore) è necessario più che altro vivere il proprio dolore
oggettivo, viverlo senza chiedersi più che cosa significa, senza difendersi più con domande
protettive poste dalla razionalità.
• È un momento che non deve solo essere funzionale al poter dire “Voi genitori mi avete fatto questo,
invece dovevate fare quest’altro e perciò ora sono così a causa di voi, genitori brutti e cattivi”.
• È il momento del silenzio, il momento del discendere dentro se stessi.
• Questo dolore sordo non ci consente neanche più di parlare, di articolare parole o pensieri,
quando riusciamo a lasciare finalmente che ci afferri e stritoli.
• Se non sempre “urlo primario” è comunque sempre gemito o rantolo primordiale, inarticolato.
• Può essere solo vissuto quasi più fisicamente che mentalmente, quasi più spiritualmente
che emotivamente, e non accetta di essere descritto che con un agonico:
“Ah sì, sto male da morire”.
• E questo “Ah sì” che non ha più parole, né insulti, è molto più drammatico che la rabbia.
• Infine, mentre la rabbia è ancora un sentimento reattivo al comportamento dell’altro, il dolore
è invece soltanto personale. Vivere il proprio dolore è quindi finalmente guardare, mettere le mani,
ed in ultimo tornare a vivere, nel luogo delle proprie radici, delle radici del proprio Io, giacché
è il soggetto che è sofferente. E in ciò vi è, contemporaneamente, la dichiarazione più definitiva
e oggettiva della condanna dei propri genitori, il decretare il loro fallimento come genitori buoni.
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ED ECCO LE TESTIMONIANZE PERSONALI CHE DESCRIVONO QUESTI STATI D’ANIMO,
QUASI INESPRIMIBILI A PAROLE. LEGGIAMOLE COL PIÚ GRANDE RISPETTO.
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IL GIORNO DI PASQUA.
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(A cura di 29 - Aprile 2004).
Alcune volte, nei momenti in cui si pensa che le famiglie cosiddette “sane” siano unite
per testimoniarsi reciprocamente l’affetto, nelle tradizionali festività, chi viceversa nelle stesse occasioni
è solo sente maggiormente acuire il proprio dolore per essere appartenuto a una famiglia
che sana non lo è stata affatto.
Non so quante famiglie “sane” esistano, non so che cosa significhi testimoniarsi reciprocamente
l’affetto: la mia famiglia non è affatto sana, quasi sicuramente non lo è mai stata, e io non so
che cosa significhi testimoniarsi reciprocamente l’affetto, probabilmente non so nemmeno
che cosa sia l’affetto e che si possa in qualche modo testimoniare.
È difficile chiamare le cose con il loro vero nome; soprattutto è molto difficile capire quando
le cose non si stanno affatto chiamando per nome, ma da sempre gli si sta dando il nome sbagliato.
In particolar modo, è molto doloroso prendere coscienza che il nome vero che non è mai stato
pronunciato è un qualcosa che manca dal bagaglio delle proprie esperienze.
Come definire nel giusto modo una cosa che non si conosce?
Come descriverla?
Come renderne l’idea?
Si può soltanto definire ciò che si conosce, ciò che fa parte della propria esperienza.
A tutto il resto si può genericamente dare il nome di “vuoto”, di “assenza”, ma non è un nome
sufficientemente significativo.
È come definire l’acqua contenuta in un bicchiere cercando di nominare quel qualcosa che manca
a rendere lo stesso bicchiere colmo. Che descrizione può mai essere questa?
Per lo stesso motivo, nei momenti di festa resto da solo, zitto, chiuso in casa.
O, se sono in compagnia di qualcuno perché non sopporto troppo la solitudine, sono abbastanza
taciturno e distaccato. La parte che manca a colmare il mio bicchiere è tanta, forse troppa
perché io possa descriverla, perché io ne possa parlare a chicchessia.
A volte, quando trascorro le festività in altre famiglie osservo i sorrisi, osservo gli affetti;
e provo un’infinita nostalgia che si spinge fino all’invidia.
Invidia per qualcosa che non ho avuto e che, fino a questo momento, presuppongo
di non poter mai avere. A volte vorrei scappare lontano, illudendomi così di non soffrire;
poi, quasi sempre, decido che vale comunque la pena di godere dell’altrui felicità
(ammesso che sia autentica, questo non lo posso mai sapere, non conoscendo a fondo
i singoli vissuti dei presenti, non vivendo costantemente all’interno della famiglia stessa),
che vale la pena restare a guardarla sperando che, per una sorta di osmosi, la suddetta felicità
mi raggiunga almeno in parte.
È difficile descrivere ciò che non ha mai trovato nome.
Si tende sempre a riportarlo a qualcosa che per sé valga a livello esperienziale, altrimenti resta soltanto
una definizione incomprensibile. E se le esperienze del passato sono state prevalentemente dolorose,
la giornata di festa riporta inevitabilmente alla mente quelle stesse esperienze.
Sono stato solo con me stesso, in queste ultime festività.
Ho cercato di costruirmi un’esperienza diversa di quella festa a cui ero abituato, e ci sono riuscito
soltanto dormendo e distraendomi ripetutamente con uno stupido videogioco.
Tutto il resto faceva troppo male.
Faceva troppo male pensare a una famiglia, faceva troppo male pensare alla mia famiglia.
Sopra ogni cosa, faceva troppo male pensare al bambino piccolo che in un tempo lontano sono stato
in seno a quella famiglia. Faceva troppo male pensare a quegli interminabili silenzi dei giorni di festa,
a quelle atmosfere che tutto avevano fuorché il contenuto della festa.
Faceva troppo male pensare alle lacrime che caratterizzavano i giorni di festa, in quella famiglia.
Lacrime di dolore, lacrime di solitudine. Forse idealizzo troppo la parola “festa”, non so...
So soltanto che non vedevo l’ora che passasse quest’ultima festa, che finisse nel dimenticatoio,
come un sacco di altre feste precedenti. Avrei voluto di proposito mettere l’orologio avanti di giorni,
o sprofondare in un sonno di oblio, risvegliandomi “dopo”.
Non ci sono riuscito, ho dovuto sopportare ogni sensazione, mio malgrado.
Ho sopportato meglio che in passato, è vero, ma pur sempre di sopportazione si è trattata.
Mi tornavano alla mente troppi ricordi, spiacevoli ricordi, e faticavo a scacciarli via.
Così sono finito altrove dentro di me, mi sono chiuso dentro un’invisibile stanza insonorizzata,
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perché c’erano troppe voci petulanti in giro a ripetermi vecchie e consunte frasi che mi procuravano
unicamente uno strisciante dolore. In lontananza sentivo il pianto di un antico bambino,
un pianto privo di suono e di lacrime, un pianto soltanto del cuore.
Come un lamento ad ultrasuoni, che nessun altro poteva udire. Il lamento di qualcuno che non sapeva
come definire che cosa ci fosse nel bicchiere, perché non lo conosceva; il lamento di qualcuno
che sapeva soltanto come definire il vuoto che sapeva esserci, nel bicchiere.
Ma quel vuoto non interessava a nessuno. A che cosa serve un bicchiere vuoto e che non viene
mai riempito? Quale bocca disseta? Sentivo quel lamento, e non sapevo che cosa fare,
non sapevo come consolarlo. Non si può consolare il passato con le parole del presente, non funziona.
Non si possono riempire vecchi buchi con contenuti attuali, è un’illusione di breve durata.
Così l’ho sentito, quel lamento, l’ho sentito ben dentro, l’ho sentito a lungo... fino a che ne sono stato
capace, fino a che sono riuscito a sopportarlo.
Poi ho rivolto lo sguardo altrove, su qualcosa che mi facesse meno male e che comunque
non mi facesse troppo male in altro modo. Non volevo procurarmi ulteriori ferite con il dolore
già provocato da vecchie ferite.
Sapevo soltanto che non era stata colpa mia, la mia infanzia infelice, anche se, comunque,
un’odiosa e ben conosciuta voce dentro di me continuava ad urlare in silenzio che se ero solo
era pur sempre perché non meritavo amore, perché non ero degno di amore.
Spesso le voci continuano a ripetere sempre le stesse cose, come dischi rotti su giradischi
che non esauriscono mai la carica, che non si spengono mai, che sono irrispettosi degli altrui desideri
di tranquillità. Ovviamente conosco la sensazione del “non essere degno d’amore”.
Non ha bisogno di alcuna prova, di alcun fatto reale che la legittimi, è una sensazione che si conferma
da sé. È una sensazione molto dolorosa, che spegne il sorriso di un uomo e riempie il suo cuore
di lacrime, di invisibili lacrime.
È una sensazione che oscura il sole, se c’è, e che fa improvvisamente calare una gelida notte
a sovrastare l’anima intera. Una notte che non ha sufficienti parole per essere descritta.
Così, in sua presenza, si sta zitti. Zitti e nascosti. Nascosti e arresi.
Si aspetta soltanto che passi, perché altro non si può fare. Non è stata colpa mia.
Questo continuavo a ripetermi, anche se era difficile, con tutte quelle voci contrastanti dentro.
Con tutte quelle voci tristemente conosciute, tristemente familiari.
Io ho lo stesso cercato di volermi bene, nel modo migliore che ero capace di concedermi,
nel modo migliore che conoscevo: spegnendo tutto, spegnendo la mia mente senza farmi troppo
male, perdendomi in un innocuo videogioco: assumendo una droga virtuale per avere un attimo
di tregua dalla sofferenza dell’anima. Ancora troppi dischi rotti, nella mia vita...
IDOLI DI ARGILLA.
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(A cura di 3 - Marzo 2001).
Un figlio uccide il genitore. Un coro di voci si eleva:
“Povero genitore, che figlio degenerato!”.
“Sono i giovani di oggi, senza ideali, senza scrupoli, magari lo avrà fatto per i soldi...”.
“È colpa della società, non ci sono più valori, non si insegna più il rispetto...”.
“Troppa televisione, troppa violenza...”.
“Sarà stato un raptus, come può un figlio uccidere chi lo ha messo al mondo?”.
La domanda cade nel vuoto. La condanna è senza appello. Non ci sono scusanti.
L’atto ignobile non può avere giustificazioni. Il giudizio è immediato, categorico.
Il genitore un povero sfortunato che si è allevato una serpe in seno. Il figlio, nella migliore delle ipotesi,
un folle che ha agito in preda ad un raptus. Di fronte ad un assassino riusciamo a concederci
il beneficio del dubbio nel valutare la sua azione, possiamo tentare di trovare delle giustificazioni,
ma di fronte ad un parricida no! Non è strano? Cosa tentiamo di nascondere ai nostri occhi,
di non ricordare al nostro cuore gridando vendetta, invocando giustizia per quel povero innocente
genitore? Già, genitore innocente. Onora il padre e la madre. Amare chi ci ha fatto il grande dono
della Vita dovrebbe essere naturale come provare un’emozione davanti ad un tramonto...
Forse questo voleva dire il comandamento. Ma non è sufficiente metterci al mondo.
Non basta questo a far sì che si onori il padre e la madre... Davvero il potere che noi riconosciamo
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ai genitori è così assoluto, intoccabile, solo perché ci hanno regalato la Vita?
Genitori come creatori, come degli dei. Infatti sono idoli. Idoli protetti dalla società, non perseguibili.
Idoli che dobbiamo rispettare, che vivono nel giusto, che hanno ragione. Idoli che possono nascondere
la loro fragilità e le loro scorrettezze solo perché li abbiamo, tutti noi, collocati su un piedistallo.
Sono al di sopra di noi. Sono i più forti. Noi, con il nostro consenso e con il nostro silenzio, diamo loro
il potere di abusare di questa posizione di forza.
Dispongono così nel bene e nel male di chi è più debole: dei figli. Sono idoli di argilla.
L’argilla è fragile e può essere frantumata. Occorre dare un volto umano agli idoli.
Scoprire che sono esseri umani imperfetti e non degli dei!
E come tali non hanno giustificazioni di sorta se commettono errori. E quanti errori può commettere
un essere umano? Quanti errori possono aver commesso quei genitori uccisi dai propri figli?
Perché non ci chiediamo come mai un figlio sia arrivato a tanto?
Perché non riusciamo a farci venire il dubbio di quale inferno possa essere stata l’infanzia
di quel bambino, di quanto rancore e odio abbia potuto coltivare negli anni per arrivare ad uccidere?
Quale mondo malvagio ha permesso ad un bambino di imparare la legge dell’odio?
Un bambino viene al mondo... Il mondo per lui sono i suoi genitori, chi si prende cura di lui.
Il mondo è ciò che sente dentro di sé. Una grande forza motrice, un insieme di elementi vitali
come la capacità di provare piacere, di sapersi abbandonare, la spinta della curiosità...
Egli guarda alle cose, alla Vita come ad un meraviglioso giocattolo da aprire, scoprire, provare.
Farebbe della sua vita la sua creazione.
Creerebbe, mattoncino dopo mattoncino, una costruzione stupenda... un posto bello in cui vivere!
Egli prova il primo vero autentico sentimento d’amore, ama i suoi genitori e non si aspetta altro
da loro che essere semplicemente ricambiato di tanto amore.
La sua fiducia è totale, egli sa che può abbandonarsi perché i suoi genitori lo amano al di sopra
di tutto. Questo egli crede, i genitori sono il suo mondo, tutto ciò che ha, non sa fare paragoni
con altri genitori, con altri mondi. Ciò che possiede deve essere ciò che è Giusto e Perfetto.
I genitori sono i suoi idoli. Cosa succede ai bambini quando crescono e diventano adulti?
Perché sembrano aver perduto, strada facendo, il loro bagaglio?
Un bastimento carico di... cose meravigliose? Perché quei bambini diventano adulti tristi,
sofferenti, violenti? Perché odiano se stessi e i loro simili?
Perché distruggono il pianeta su cui vivono? Perché arrivano a uccidere anche i loro stessi creatori?
Non c’era tutto questo nel loro bastimento, nei loro giochi, nei loro desideri...
Come è possibile che quel piccolo essere umano fiducioso, gioioso, pieno di voglia di vivere
e di voglia di amare, diventi un omicida?
Cosa è andato smarrito?
Avevamo una fede. Credevamo nei nostri idoli. Abbiamo riposto in loro tutta la nostra fiducia,
il nostro amore. Quante delusioni occorrono per svuotare un bastimento?
Per perdere ogni illusione? Per non credere più? Se i nostri idoli non ci hanno ascoltato,
non hanno apprezzato le nostre qualità, la nostra bellezza, ma hanno invece criticato
le nostre debolezze sbeffeggiandoci, deridendoci;
se ci hanno ferito, umiliato, offeso, abbandonati a noi stessi e al nostro dolore di bambini;
se non ci hanno soccorso, aiutato, capito;
se per loro eravamo solo un peso, una fatica;
se addebitavano a noi ogni loro fallimento;
se ci hanno fatto sentire in colpa,
allora abbiamo svuotato il bastimento, gettando via a poco a poco tutte le meraviglie
in cui credevamo, tanto non sarebbero servite a nulla, nessuno le apprezzava! Il mondo
era il comportamento dei nostri idoli, era ciò che loro facevano con noi.
Quanto è difficile scoprire che i nostri idoli, i nostri genitori, sono in realtà esseri umani imperfetti,
sono idoli di argilla? È difficile. Occorre ammettere a noi stessi che i nostri genitori hanno commesso
degli errori, non hanno permesso ed incoraggiato la massima espressione delle nostre potenzialità,
imponendoci spesso le loro “giuste” scelte, non ci hanno considerato esseri umani al loro pari
e quindi con i diritti, le esigenze di ogni singolo essere umano.
Siamo stati per loro degli esseri inferiori e quindi alla loro mercé, loro erano nel giusto,
sempre, noi potevamo solo obbedire. È doloroso, molto doloroso, sentire che infine
non ci hanno amato come noi avremmo avuto bisogno di essere amati.
Per non provare questo dolore, continuiamo a mantenere vivi dentro di noi gli idoli di argilla
costruiti nell’infanzia. Ci siamo accecati per non vedere i difetti dei nostri genitori.
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Abbiamo scelto di dimenticare, ma dimenticare non è possibile, si può solo fingere
di aver dimenticato. La finzione ci ha consumato, ci siamo ammalati di dolore, ci siamo spenti
nella depressione, abbiamo annegato nell’alcool e nella droga la Verità.
Viviamo una mezza vita. Continuiamo a vagare ciechi e smarriti su questo pianeta...
cercando ancora disperatamente di essere contraccambiati, di ricevere tutto l’amore che noi
per primi abbiamo sentito e offerto.
Questo cerchiamo, Amore, e ogni volta che accettiamo in cambio qualcos’altro è un cambio
in perdita, di sicuro, e la perdita principale è il senso di essere vivi, è il rispetto per la vita.
Spesso, spinti dal bisogno di colmare il vuoto che sentiamo, confondiamo Amore con “qualcos’altro”...
Spesso, ciechi per non vedere i torti subiti da bambini, non riusciamo a vedere i torti che riceviamo
oggi da adulti. Chi è più forte di noi, chi ci governa, chi ci da del lavoro, chi ci insegna,
può commettere gravi ingiustizie, errori, soprusi, e noi fatichiamo molto a rendercene conto.
Non riusciamo a farlo, se prima non abbiamo fatto luce dentro di noi, se prima non abbiamo rotto
i nostri idoli di argilla. Dobbiamo sentire fortemente che non sono stati rispettati i nostri diritti
di bambino, di nuovo essere umano.
Dobbiamo comprendere bene dentro di noi che un genitore non è “degno” per diritto acquisito.
E dobbiamo anche smettere di giustificare. Non ci sono giustificazioni. Non ci sono mezze verità.
Non c’è ignoranza che tenga, non c’è bisogno che tenga.
Come ogni essere umano anche i nostri genitori potevano scegliere di amarci e non l’hanno fatto.
Si può giustificare, di fronte al bisogno di sopravvivere, la mancanza di beni materiali e l’assenza fisica.
Non si può giustificare la mancanza di un abbraccio, di una carezza, di una parola di incoraggiamento.
Non si può giustificare mai la violenza.
C’è in tutti noi un bambino umiliato, un bambino non rispettato. Ecco il male che si trasmette
di generazione in generazione. Cosa possiamo fare per spezzare questa catena?
Non è la vendetta la strada da percorrere. La vendetta vuol dire fare ancora del male,
così come lo hanno fatto a noi.
È rabbia che esplode fuori da noi o implode dentro di noi, e che in ogni caso non fa che allargare
il buco nero che piano piano si è impossessato del nostro cuore, lasciandoci vuoti, inesistenti.
La vendetta è il “mostro” che uccide i propri genitori, è furia cieca orfana di comprensione.
La comprensione è necessaria. La consapevolezza è necessaria.
Possiamo fermare il cerchio del male che rotola dal passato e sembra aver preso velocità verso
il futuro. Il male non è ineluttabile.
Possiamo guardarlo dritto negli occhi, possiamo scegliere di non entrare nel cerchio...
Dobbiamo sperimentare un modo di stare al mondo in cui non necessariamente ad un torto subito
deve corrispondere un risarcimento o la legittimazione a perpetrare un altro torto.
Non è nella rivalsa che troveremo la pace.
Dobbiamo trovare la nostra personale e unica strada, e da dove dovremmo incominciare
se non dall’inizio della nostra storia di essere umano?
Il viaggio della vita è iniziato così: noi e i nostri genitori. Non occorre andare molto lontano.
Se un essere umano soffre è perché gli è stato fatto del male.
Non di certo perché è nato sotto una cattiva stella! Cominciamo da noi stessi. Con coraggio.
Alla ricerca di un bambino spaventato, arrabbiato, che è ancora dentro di noi, non è cresciuto
insieme al nostro corpo, non poteva, stava troppo male.
Proviamo a spiegargli che la sua rabbia non è un mostro invincibile, che non deve vergognarsi
di provare tanto rancore, diciamogli che ha ragione, che gli hanno fatto del male,
chiediamogli scusa per non aver raccolto prima il suo grido di aiuto, aiutiamolo a piangere
tutto il suo sconforto, il suo dolore. Tornerà a sorridere.
Tornerà ad aver voglia di giocare... Rinascerà dentro di noi con nuove verità,
ma immutata voglia di vivere e voglia di amare! Non avrà bisogno di vendicarsi.
Avrà capito che ha subito dei torti, che i suoi diritti non sono stati rispettati, forse non potrà dentro
al suo cuore perdonare chi gli ha fatto del male, ma potrà comprendere, e diventare consapevole.
Solo così riusciremo a rompere il circolo vizioso che vorrebbe trasformarci in altri genitori incapaci
di amore, perché portatori di antichi torti subiti...
Solo così potremo gridare forte a noi stessi e al mondo intero: nessuno ha il diritto di fare del male!
Solo così potremo difendere e proteggere, da adulti consapevoli, i più deboli, i bambini.
Solo così potremo aiutarli a crescere in un mondo migliore, il mondo che loro stessi desiderano creare,
lasciamoglielo fare: sarà un mondo dove, spezzate le catene dell’odio, potremo iniziare a vivere
in pace. Sono i bambini il vero patrimonio dell’umanità. Noi possiamo e dobbiamo investire su di loro,
è questo il primo vero passo per costruire un nuovo mondo.
536
Torture e maltrattamenti.
Battaglia SNOM-DEVI. SMS ed E-mail.
È facile capire che colui che ha una bassa auto stima avrà problemi nei rapporti con gli altri, ed anche
difficoltà e sofferenze in campo sentimentale. E - partendo dall’altro capo del problema - se si studia
un po’ a fondo la storia di chi ha regolarmente il cuore spezzato dai suoi partner, si scopre
che ha sempre avuto difficoltà anche con gli altri esseri umani in generale, e che è gravato da sensi
di inferiorità, inadeguatezza, sfiducia e tensione. È ovvio che la causa è unica, e risiede nel profondo
dell’animo del soggetto stesso. Ma fargli vedere questa realtà non significa per nulla liberarlo
automaticamente dalla sua “sfortuna” che lo perseguita in amore.
E - quel che è peggio - questo è un fato che lo fa sentire vergognoso di sé e della sua incapacità
paralizzata di reagire dinanzi al partner che ne approfitta regolarmente. Ed è un’impotenza
che lo fa diventare irritato per quella che gli appare come una debolezza stupida.
Per aiutare persone che vivono in così disperata situazione, QUATTRO propone ora questa sezione.
L’avviso è chiaro: è una serie di osservazioni psicologiche piuttosto ardue da comprendere.
A parere di QUATTRO stesso, anche se le recensioni dei libri che vengono presentate sono ampie
ed approfondite sarebbe bene che ogni utente del sito leggesse (e magari 2-3 volte) i libri recensiti.
Qualsiasi lamentela circa la difficoltà di tale lavoro mentale è completamente fuori luogo e priva
di senso. A questa sezione nella quale si parla della natura dell’inconscio patologico oscuro
del persecutore il quale cerca di uccidere psichicamente la sua vittima, ben si addice la frase
di Angelo Guglielmi, che QUATTRO ha già citato all’inizio del percorso del sito:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Cupi sono i colori della tragedia,
silenziosa la sua voce,
immobile il suo alito.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Chi trovasse queste pagine difficili e pesanti, rientra sicuramente in una delle due categorie seguenti:
1. Il gruppo di coloro che non hanno bisogno di leggerle perché non sono toccati
dai problemi in esse descritti.
2. Il gruppo di coloro che hanno problemi come quelli descritti in tali pagine e quindi
avrebbero vantaggio a leggerle, ma non hanno ancora raggiunto il livello di maturità psicologica
e di forza emozionale necessarie per affrontare il dolore di studiarle.
Dovranno continuare a prepararsi, quindi per ora possono accantonarle.
Chi è impigliato in storie sentimentali fortemente infelici che da anni si ripetono come un disco rotto,
non solo non si lagnerà ma addirittura ringrazierà perché gli è stato messo a disposizione
uno strumento per spezzare la catena che lo teneva schiavo, e riconquistare
(anzi, conquistare finalmente per la prima volta) libertà, capacità di farsi rispettare, serenità.
Ma tale liberazione potrà avvenire soltanto se ciascuno di questi infelici si calerà fino al fondo
del baratro dell’animo suo e del suo carnefice.
In questa discesa, che scende sempre più in profondità tenebrose dove il terrore stringe
con fredda mano spietata il cuore di colui che vuole esplorare tale ignoto, QUATTRO offre al lettore
una corda fissa alla quale egli potrà aggrapparsi.
Essa è costituita dagli studi psicodinamici (presentati in ordine cronologico, cioè nell’ordine
in cui la ricerca psicologica - lungo gli anni - ha formulato queste ipotesi di spiegazione dei casi clinici)
che hanno proposto analisi di questi rapporti devastanti.
Nonostante la loro complessità, questi studi illustrano chiaramente i meccanismi con i quali la vittima
(sotterraneamente connivente, si noti) è distrutta dal suo carnefice in un duello in cui i colpi
sono sferrati secondo stili e principi di lotta così incomprensibili per la vittima stessa,
che - a buon motivo - possono essere definiti inconsci.
537
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

1. Il primo materiale (l’unico per molti anni) che QUATTRO poté presentare ai suoi clienti
impigliati in questi problemi, fu un trio:
a. Il romanzo di Christiane Rochefort: “Il riposo del guerriero”.
b. A distanza di tempo comparve il primo studio psicoanalitico sull’estrema complessità
psicologica della trama del romanzo: lo studio dello psicoanalista argentino José Bleger:
“Simbiosi e ambiguità”.
c. Lo studio della psicanalista junghiana di Roma Eleonora Fé d’Ostiani:
“La regressione maligna nel rapporto di coppia”, comparso sulla rivista
“Psichiatria e psicoterapia analitica”, 7, 2, pagg. 185-204.
Di utilizzo più limitato per i pazienti, a causa della sua ardua difficoltà di linguaggio e di impianto
concettuale decisamente psicoanalitico freudiano fu il breve capitolo:
“Il Sé grandioso - parassitario: cenni introduttivi e sua individuazione nella teoresi psicoanalitica”,
del libro: “Le basi narcisistiche della personalità”, di Giorgio Sassanelli.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

2. Il secondo materiale (indirizzato prevalentemente a specialisti e non particolarmente
volgarizzato per il pubblico dei lettori comuni e quindi anch’esso alquanto difficile
per il linguaggio e per l’ardua articolazione concettuale assolutamente psicoanalitica)
fu il capitolo: “La relazione narcistica”, del libro:
“Relazioni d’amore. Normalità e patologia”, dello psicoanalista Otto F. Kernberg.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

3. Il terzo materiale fu il libro:
“Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro”, della psicoterapeuta francese
Marie France Hirigoyen.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

4. Dalla bibliografia del libro della Hirigoyen, QUATTRO venne a conoscere il quarto e più arduo
materiale che presentò ai suoi clienti interessati al tema. Il libro (in realtà pubblicato
in Italia già nel 1998, quindi prima della uscita del libro della Hirigoyen):
“L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane”, dei due psicoterapeuti svizzeri
Maurice Hurni e Giovanna Stoll-Simona.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

5. Pochi clienti di QUATTRO si sono avventurati nella discesa lungo il tratto più profondo
della corda di sicurezza messa loro a disposizione: il libro:
“Persecutori e vittime. Strategie di violenza”, della psicoterapeuta francese Françoise Sironi.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
La presenza di questo testo, che parla della psicoterapia praticata ai torturati politici,
con un’approfondita illustrazione delle tecniche con le quali è stata spezzata la loro personalità,
deve la sua presenza nel sito www.auto-therapy.it alla possibilità di collegare (sia come interpretazione
del meccanismo causale della sofferenza, sia soprattutto come modalità di possibile psicoterapia
per liberare i soggetti dalle conseguenze delle effrazioni subite) queste tecniche di tortura
con le più “casalinghe” posizioni della quotidiana pedagogia nera di molti genitori, descritte
da Alice Miller e con gli atteggiamenti dei perversi narcisisti descritti da Hurni e Stoll-Simona ne:
“L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane”,
538
NOTA BENE.
L’importanza degli spunti di comprensione forniti da questi materiali nell’aiutare molti
soggetti a uscire dalla schiavitù delle sofferenze di amori psicopatologici, è - per QUATTRO talmente grande che egli non si è sentito di presentare ai lettori del sito soltanto
la sua interpretazione, cioè la sola sua scheda bibliografica, su questi libri.
Ha chiesto quindi la collaborazione di altri volontari del sito che QUATTRO
tiene in grande stima per la loro intelligenza, cultura generale e sensibilità psicologica.
La sezione è quindi costituita dai contributi di:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
16, sul libro:
“Persecutori e vittime. Strategie di violenza”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
19, sul libro:
“L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
20, sul libro:
“Uomini comuni: polizia tedesca e ‘soluzione finale’ in Polonia”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
23, sul libro:
“Persecutori e vittime. Strategie di violenza”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
25, sui libri:
“Il settimo milione. Come l’Olocausto ha segnato la storia d’Israele”, e
“La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
35, sul libro:
“Il riposo del guerriero”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
33, con il commento sul materiale della sua tesi di laurea,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
oltre che dalle annotazioni personali di QUATTRO, il quale - in considerazione
dell’importanza dei materiali - suggerisce con sollecitudine ai lettori del sito di studiare
tali contributi con mente aperta per coglierne spunti utili di natura e provenienza diversa
rispetto alla sua visione.
539
SIMBIOSI E AMBIGUITÀ - JOSÈ BLEGER COME STRUMENTO DI LETTURA DE:
“IL RIPOSO DEL GUERRIERO” DI CHRISTIANE ROCHEFORT.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
(A cura di QUATTRO - Editing a cura di 35).
Come è stato accennato nelle brevi note della Mappa Dei Sentieri Del Lato Oscuro
Del Cuore Umano, questa scheda bibliografica esamina il problema delle relazioni tortuose
e fonte di sofferenza dal punto di vista della simbiosi tra i due membri della relazione.
La scheda si occupa in realtà di due libri:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• “Simbiosi e ambiguità”, dove viene presentato un approfondito studio sul romanzo già citato:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• “Il riposo del guerriero”, di Christiane Rochefort.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
PREMESSA DI QUATTRO.
Per non dare a questa analisi il tono di una semplice recensione di un romanzo (anche se particolare),
QUATTRO ha deciso di limitare al massimo l’uso dei nomi propri dei due protagonisti.
Molto presto li ha sostituiti con i due acronimi il cui senso ha già spiegato:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
SNOM (Sé Narcisistico Onnipotente Maligno) e DEVI (Depositario Vittima).
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Ciò ha lo scopo di presentare la storia del loro legame come un rapporto malato, generalmente
individuabile in molte coppie. Ovviamente si deve tener presente che:
1. Il caso del romanzo è estremo: la maggior parte delle persone non arriva a tali abissi di follia tragica,
ma - più banalmente - bordeggia ai margini di comuni nevrosi e meschinità.
2. Sesso + Alcool sono intercambiabili con denaro o potere o violenza o irresponsabilità.
La forma della prevaricazione non ha molta importanza: ciò che conta è l’innesto di qualcosa
di malato da parte di una persona nell’inconscio di un’altra.
NOTA. (Circa le citazioni del testo).
Data la notevole complessità concettuale dello studio di José Bleger, per ottenere
un risultato di esposizione comprensibile a un pubblico non di specialisti,
QUATTRO ha dovuto rimpastare il testo, scegliendo (tra le numerose ripetizioni
e riformulazioni via via più approfondite degli stessi) la forma meglio esplicativa
e utilizzabile dal lettore per un’applicazione a se stesso.
La tradizionale, corretta, forma di riportare il testo tra virgolette, con indicazione
della pagina, non è stata quasi utilizzata, poiché avrebbe reso lo scritto simile
a un illeggibile codice cifrato, irto di segni e di numeri.
La correttezza intellettuale impone tuttavia a QUATTRO di dichiarare che il testo
di questa scheda è costituito da citazioni di concetti di José Bleger, accodati l’uno all’altro
in ordine diverso rispetto al libro, per poterne rispettare il senso anche letterale
in una versione da non addetti al mestiere di psicoanalista.
L’autorizzazione per tale “riassunto” sarebbe stata chiesta all’Autore,
se questi non fosse deceduto nel 1972.
540
José Bleger, psicoanalista argentino appartenente alla scuola di Buenos Aires, definiva la simbiosi
come una forma di inter-dipendenza che si instaura nel mondo esterno, ed è centrata - per quanto
ci interessa nella presente sezione del sito - su un deposito di elementi psichici e patologici da parte
di un individuo in un altro. Trattandosi di un processo di identificazione proiettiva, tutto - all’inizio avviene all’interno di un soggetto.
Questi ha una modalità narcisistica di rapporto con oggetti (detti di relazione) primordiali interni
al soggetto stesso, il quale viene definito depositante.
La ragione del termine è questa: il depositante ha bisogno di difendere questi oggetti interni
dall’intromissione della realtà esterna, per preservare il proprio equilibrio interiore.
Non potendo farsi carico di tutti i fattori psichici primordiali che ha dentro di sé, il depositante
sceglie un altro individuo e, considerandolo come un oggetto, si svuota delle sue realtà emotive
ingestibili depositandole dentro l’altro (il depositario).
In genere il depositario viene costretto, spesso senza nemmeno rendersene conto consciamente,
ad assumere il ruolo corrispondente al deposito, cioè al materiale depositato in lui.
E accetta di assumere questo ruolo per ragioni legate alla propria struttura psicologica profonda.
D’altro canto, il depositario da quel momento incomincia a dipendere dall’avvenuto deposito,
che deve controllare rigidamente per impedire che venga a re-introiettarsi in lui.
Di conseguenza deve controllare rigidamente il depositario.
Si parla quindi di simbiosi (cioè di un’associazione tra due individui che vivono insieme,
in stretta relazione, l’uno a spese dell’altro con reciproci vantaggi e svantaggi per entrambi)
perché la proiezione è bilaterale, incrociata, e ciascuno dei due membri agisce in base ai ruoli
che risultano compensatori per l’altro.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 Quali sono le caratteristiche della simbiosi?
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
1. La simbiosi è uno stile di rapporto tra due individui, una maniera di impostare il comportamento
reciproco, la quale ruota essenzialmente intorno a una contrapposizione degli opposti stati
di dipendenza/indipendenza in relazione ai processi di proiezione/introiezione.
Più esattamente si dovrebbe dire che la simbiosi è in relazione a una dissociazione
tra proiezione e introiezione.
2. Si tratta di una modalità di relazione narcisistica con l’oggetto della relazione,
anche se il depositario è un’altra persona.
3. Nella simbiosi il ruolo che viene proiettato coincide con il ruolo attribuito al depositario.
4. La simbiosi si basa su massicce proiezioni, le quali sono immobilizzate nel depositario.
Buona parte dell’Io del depositante viene quindi alienata nella vittima, nel depositario.
5. Il rigido controllo del vincolo simbiotico che il depositante effettua, serve a evitare l’irruzione
del deposito nella relazione narcisistica del depositante e la sua re-introiezione.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 Che cosa è il vincolo simbiotico?
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
6. È un rapporto, molto condensato, fra cose contraddittorie ed estremamente complesse.
È ovvia la difficoltà, per il soggetto depositante, di gestire cose complesse e per di più
contraddittorie, entro se stesso. Per questo ha bisogno di un altro soggetto (il depositario)
in cui scaricarle. Ma anche il processo inverso ha per lui pericoli gravissimi: una volta che queste
cose complesse e contraddittorie siano state depositate nella vittima, qualora debbano essere
re-introiettate nel depositante, e da questi elaborate (con una comprensione nuova di se stesso
e della sua natura profonda), devono essere “sminuzzate” (dice Bleger) e discriminate
l’una dall’altra. Il processo di re-introduzione più cosciente può però avvenire soltanto in maniera
graduale e con un ritmo lento. Si formano piccoli nuclei di presa di coscienza,all’inizio isolati
tra loro, che poi si uniscono e si cristallizzano determinando l’insorgenza esplosiva della presa
di coscienza, un’intuizione repentina.
541
7. Questo stesso processo genera gravi rischi per una struttura instabile e precaria come quella
di un perverso narcisista onnipotente. Quando si oltrepassa una certa soglia, il processo
di re-introiezione, di progressiva e lenta presa di coscienza, esce dal controllo istintivo del soggetto
e si comporta come un fenomeno anormale, cioè come un brusco ritorno degli stessi elementi
che in origine erano stati rimossi. È terrorizzante perché non controllato, non integrato
e non graduale. Questa esplosione di elementi psichici rimossi si manifesta a volte
con fenomeni particolari che servono a recuperare il controllo che si rischia di perdere.
Si tratta di:
• Attacchi fobici;
• Svenimenti;
• Utilizzo del corpo come tampone/depositario per manifestazioni psicosomatiche acute;
• Manifestazioni auto aggressive;
• Fobia di guardarsi allo specchio;
• Impressione di dissolvimento psichico.
8. Nella simbiosi vi è:
• Mancanza nella personificazione;
• Difetti nel senso di identità;
• Alterata percezione dello schema corporeo;
• Confusione tra i ruoli maschili e femminili;
• Comunicazione con l’altro difettosa sul piano simbolico, ma più intensa su quello pre-verbale;
• Anche il parlare è un modo di agire (nel romanzo il perverso relazionale narcisistico dice
alla ragazza che è diventata la depositaria dei suoi contenuti psichici caotici e contradditori,
in particolare della sua incapacità di vivere in modo autonomo: “Sono suo” e intende
letteralmente che da quel momento lui non ha più responsabilità di se stesso e la ragazza
deve farsi carico totale di lui e di ogni suo bisogno).
9. La simbiosi è muta, cioè non dà luogo a sintomi fino a quando dura. Soltanto quando essa
si rompe (in tutto o in parte) insorge una sintomatologia chiaramente manifesta.
Qui di seguito illustriamo un’applicazione concreta, a scopo didattico, per una più facile
comprensione, poiché si potrebbe pensare che questi concetti siano astratti,
oltre che apparentemente astrusi. In realtà essi non sono né l’una né l’altra, e cercheremo
di mostrarlo con un modesto esempio concreto, di vita reale, in una situazione
che tutti conoscono per esperienza diretta o riportata.
Poniamo un uomo (un perverso relazionale narcisista onnipotente) che, per calcolo di sfruttamento,
abbia sposato una ragazza giovane e inesperta, facilmente ammaliabile e con la quale riesce gestire
la propria vita in autonomia (uscire da solo alla sera, andare a ballare per conto proprio, trovarsi spesso
con amici al bar, ecc). Poniamo anche, come spesso accade in casi simili, che quest’uomo abbia
mantenuto una relazione precedente al matrimonio, basata su una forte componente sessuale.
Oppure - a discrezione del lettore - che quasi subito dopo il matrimonio si sia trovato un’amante
per la stessa motivazione. Ovviamente la sua struttura di personalità, scissa, non contempla il prendersi
carico di queste pulsioni slegate dal resto della sua vita apparentemente normale. Egli, per riuscire
meglio a mantenere staccate le due maniere di vivere emozioni, metterà in opera mille mezzi perché
anche la moglie viva in una mancanza di coscienza della sua vera natura. Per comprendere
(in analogia) il concetto di proiezione immobilizzata nel depositario pensiamo a questi due coniugi
mentre stanno per uscire di casa, comprare dei fiori e una bottiglia di vino per andare a cena da amici.
Il marito vuole telefonare all’amante per combinare (ovviamente senza che la moglie senta)
un appuntamento per il mattino successivo. Si offre così di andare a fare la spesa e scende per primo;
poi si fa trovare dalla moglie (che ha gentilmente invitato a scendere con calma) davanti al portone
con i fiori, il vino, il latte, dei biscotti, tre/quattro settimanali e magari un libro tra le mani.
Dopo essersi scusato umilmente per la sua disattenzione, prega la moglie di tenergli tutti questi
oggetti, glieli mette in mano e comincia a cercare il cellulare, che deduce di aver dimenticato a casa.
Per andarlo a prendere (“Devo averlo: aspetto una telefonata importante da un collega,
per incontrarci domattina”) cerca con ostentazione le chiavi di casa in tutte le tasche,
senza ovviamente trovarle. Così, mentre si profonde in altre scuse, prenderà dalla borsetta della moglie
(sempre immobilizzata dagli oggetti paralizzanti, qui più che mai metaforici) le chiavi di casa,
542
e con un tenerissimo “Torno in un secondo, Amore mio pazientissimo”, entra nel palazzo
con foga, cosicché il portone si richiuda velocemente dopo esser stato sbattuto per la fretta.
Entrato in casa, afferrerà il cellulare nascosto in un luogo insospettabile, chiamerà l’amante e con voce
ansimante (per la passione) combinerà l’appuntamento. Disceso per strada atteggerà il volto
e le parole alla seccatura causatagli dalla telefonata inopportuna del collega, che voleva essere sicuro
dell’ora dell’appuntamento perché poi doveva uscire a cena. Anche questa volta la sua scissione
emotivo/affettiva sarà stata proiettata nella moglie depositaria, e il perverso avrà impedito
ogni re-introiezione ed elaborazione delle sue parti contraddittorie, le quali restano alienate
e immobilizzate nella moglie depositaria, che continua a ignorare la doppia realtà del marito
per effetto del rigido controllo a cui il coniuge depositante l’ha sottoposta.
SIMBIOSI E NATURA DEL RAPPORTO CON L’OGGETTO DI RELAZIONE.
Bleger dice che la simbiosi è un vincolo o una relazione con un oggetto che - per la sua natura è definibile come “agglutinato”. L’oggetto agglutinato è un agglomerato di abbozzi dell’Io
o di formazioni molto primitive dell’Io, parti scollegate tra loro, le quali sono in relazione con oggetti
esterni oppure con parti della realtà esterna, presenti nello stesso momento a tutti i livelli
di integrazione (orale, anale e genitale) che normalmente si sviluppano in questa successione
nel bambino nell’arco di diversi anni.
I livelli più antichi, più primordiali, pur senza scomparire, si integrano nel livello superiore
e permangono solo come aspetti parziali, come tracce.
Queste parti primordiali dell’Io, o abbozzi scollegati, coesistono nell’oggetto agglutinato
senza discriminazione tra loro (cioè senza separazione, distinzione, differenziazione).
Non vi è confusione perché non vi è distinzione: la confusione compare quando viene a mancare
una distinzione che prima esisteva.
Come verrà spiegato ampiamente in seguito, in un unico oggetto agglutinato sono concentrati
l’amore e l’odio, l’aggressione e la riparazione, la vita e la morte. Per questa copresenza di parti
contraddittorie, l’oggetto agglutinato deve essere rigidamente controllato.
NOTA BENE.
È opportuno fare ricorso all’aiuto del vocabolario per definire i concetti
di  “agglomerato”
e  “agglutinato”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Agglomerante: sostanza che per trasformazione fisica o reazione chimica
fa unire particelle incoerenti.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Agglomerato:
il materiale che risulta dall’unione di particelle incoerenti mediante
un agglomerante.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Agglutinare:
(da latino gluten, glutinis = colla, glutine) unire cose diverse con glutine,
colla, sostanze adesive, saldando il tutto a formare un agglomerato.
Si dice anche del formare parole mediante semplice giustapposizione
di parti diverse (l’inglese smog, da smoke + fog).
Un esempio casalingo di oggetto agglutinato è il torrone, il duro dolce
agglutinato amatissimo dai bambini, costituito da una mescolanza sbattuta
di mandorle o nocciole tostate, miele, zucchero e bianco d’uovo, confezionato
in dure stecche. Messo in acqua calda, il torrone rivela la sua natura
di oggetto agglutinato, disfacendosi in una poltiglia liquida biancastra
abbastanza disgustosa alla vista, sulla cui superficie galleggiano,
fra bolle di schiuma, frammenti di nocciole o mandorle.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
543
L’oggetto agglutinato comprende la struttura psicologica più primitiva (come in un neonato
di pochi mesi), nella quale vi è confusione tra interno ed esterno.
La persistenza del nucleo agglutinato costituisce, dice Bleger, il nucleo psicotico della personalità.
L’intensità e il carattere della dipendenza simbiotica dipendono da quanto è grande questo nucleo
psicotico, agglutinato. Bleger definisce la simbiosi come un rapporto che permette
l’immobilizzazione e il controllo dell’oggetto agglutinato.
Il lettore a questo punto ha senz’altro compreso perfettamente che non è una cosa né bella
né piacevole (anzi è angosciante e distruttiva) trovarsi impigliato in un rapporto simbiotico
con un perverso relazione che effettua dentro di lui (vittima) un trapianto (secondo la terminologia
usata ne “L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane”) del proprio oggetto agglutinato.
Secondo la terminologia di José Bleger, deposita in lui i propri oggetti interni moribondi.
Il lettore comprende quindi anche quanto sia vitale conoscere le vicende della simbiosi
e della dipendenza degli oggetti interni moribondi e agglutinati.
Vediamo quindi l’evoluzione dell’oggetto agglutinato, immobilizzato nel depositario DEVI,
e tenuto sotto controllo dal perverso narcisista SNOM mediante le forme di difesa più primitive,
cioè la dissociazione, la proiezione e l’immobilizzazione.
La perdita dell’immobilizzazione e del controllo dell’oggetto agglutinato (e la sua conseguente
mobilizzazione pericolosa come una mina vagante) avvengono in maniera:
• globale, totale;
• parossistica, improvvisa;
• episodica;
e provocano o minacciano di provocare l’annientamento totale e immediato dell’Io del soggetto,
accompagnato da un’ansia di tipo catastrofico, con un effetto disastrosamente disorganizzatore.
Quest’ansia è estremamente intensa, massiccia e primitiva e va oltre le possibilità autonome
più evolute di difesa della struttura psichica del soggetto che la subisce.
Quando invece il legame simbiotico (con il quale si realizza l’immobilizzazione e il controllo
dell’oggetto agglutinato) si instaura e si stabilizza efficacemente, l’autoregolazione avviene
attraverso diverse vie:
• Comunicazione a livello regressivo e concreto, dove le parole hanno il senso diretto
di una azione scaricante;
• Sessualità a valore regressivo e concreto, che ha un carattere compulsivo e costituisce un’azione
di scarica per stabilizzare i ruoli e permettere un controllo a distanza tra i due partner;
• Rafforzamento della posizione persecutoria nei confronti di frammenti non discriminati,
agglutinati, di oggetti non discriminati con il minimo risultato di difesa dato dal localizzare
almeno questi frammenti;
• Azioni psicopatiche;
• Ipocondria.
Grazie a questi mezzi, SNOM riesce a scongiurare o almeno limitare certi pericoli, come quello
di perdere il depositario o di rimanere rinchiuso in esso (pericolo per lui gravissimo, dato che oscilla
tra claustrofobia e agorafobia). Nella simbiosi, il ruolo assunto dal depositario della proiezione
coincide con l’oggetto interno proiettato (in realtà il depositario deve accettare di farsi carico di tutto
l’oggetto interno agglutinato, prenderlo dentro di sé e diventare una cosa sola con esso).
Si riscontra regolarmente che la simbiosi è sempre di gruppo e coinvolge due o più individui
in rapporto tra loro, ma non differenziati o discriminati. Il gruppo si muove e si sposta in modo rigido
e meccanico. Entro il gruppo i ruoli sono fissi e rigidi e vengono distribuiti (ma non condivisi)
tra i membri del gruppo, che li assumono in modo complementare e solidale, con una rotazione
o un’alternanza che avviene comunque in blocco.
I ruoli fissi sono almeno tre, quello del protettore (DEVI nei confronti di SNOM), quello del protetto
(SNOM da parte di DEVI) e quello dell’osservatore che esercita il controllo (DEVI, che ha trasformato
l’osservazione e il controllo su se stesso in osservazione e controllo della relazione con SNOM
e la vive come se fossero propri organi). Quest’ultimo aspetto ha un’impronta fortemente
ipocondriaca. La simbiosi si instaura e agisce essenzialmente nella sfera del corpo e del mondo
esterno, mentre la sfera mentale è fortemente dissociata, staccata dalle altre due, e assiste
come spettatrice agli avvenimenti e alle vicissitudini della simbiosi, nelle quali non può intervenire.
544
Può il perverso depositante rompere la simbiosi e separarsi dal depositario?
Sì, ma con un grandissimo sforzo interiore. Infatti la separazione dal depositario richiede
l’elaborazione della relazione simbiotica e quindi l’elaborazione dell’oggetto agglutinato.
Ma questa separazione può avvenire solo in maniera molto graduale, grazie a un progressivo
sminuzzamento dell’oggetto agglutinato attraverso una diversificazione dei vincoli
con altri oggetti e con altri depositari. In queste progressive operazioni di frammentazione
e poi di ri-condensazione dell’oggetto agglutinato si diversificano le zone di contatto che entrano
in comunicazione con il depositario. La discriminazione e quindi la re-introiezione dell’oggetto
agglutinato possono avvenire in modo graduale e controllato.
Caso opposto: quando la simbiosi si rompe in maniera brusca (cioè quando viene perso
bruscamente il depositario) può esserci un indebolimento dell’agglutinazione
(tra le parti incoerenti che costituiscono l’oggetto agglutinato), con frammentazione irregolare
e dispersione disordinata dell’oggetto agglutinato non più controllato, il quale invade
la mente del soggetto (il depositante, SNOM).
Cosa può accadere allora?
Può insorgere uno stato di confusione, non perché l’oggetto agglutinato che si frammenta
disordinatamente sia confuso, bensì perchè esso è un oggetto che confonde quando non è più
immobilizzato e controllato.
Anche questa è una difesa che permette di immobilizzare l’oggetto agglutinato per proteggere l’Io
utilizzando il corpo come deposito. È l’ipocondria, che consente di far fronte alla confusione.
Il pericolo maggiore per il soggetto depositante (SNOM) che perda il depositario è il rischio
di una dissoluzione psicotica dell’Io (sempre con ansie catastrofiche violentissime e fortissime),
che può prodursi quando l’Io è invaso improvvisamente dall’oggetto agglutinato frammentatosi
in maniera massiva (cioè in tutta la sua massa).
In tali condizioni l’Io non può utilizzare alcuna difesa e l’aggressione da parte dei frammenti
indiscriminati che penetrano nell’Io come schegge di un’esplosione distruggono
non solo i buoni oggetti interni o parti dell’Io, ma la sua totalità.
Quindi è la funzione difensiva tout court che viene annientata, con conseguente annientamento totale
della coscienza e dell’Io. Solo un’estrema difesa, la frammentazione psicotica, salva l’Io
da un annichilimento totale, mortale.
COME NASCE LA SIMBIOSI?
Il lettore ha potuto constatare quanto sia mortale l’abbraccio di un perverso relazionale che stringe
la sua vittima in un legame simbiotico.
Ma come si forma, nella realtà di ogni giorno, questo legame simbiotico?
Occorre una condizione di base e un evento esterno occasionale.
1. La debolezza fondamentale del depositario: subito prima di essere intrappolato,
il depositario-vittima si trova in una situazione psicologica, complessivamente sfavorevole, di:
• Difficoltà;
• Imbarazzo;
• Isolamento;
• Mancanza di abituali punti di:
 Riferimento;
 Protezione;
 Contatto con persone amiche e note.
In tali condizioni il soggetto può sentirsi minacciato da oggetti (di relazione) esterni ostili
o da oggetti negativi e pericolosi che fanno parte del suo mondo interiore.
Questi attacchi contro il suo Io possono far nascere nel soggetto:
• Dubbi su di sé;
• Sensi di colpa;
Ma fino a questo punto il soggetto riesce ancora a tenere sotto controllo la sua situazione interiore
immobilizzandone tutti gli elementi negativi.
545
2. Poi incontra un perverso narcisista e la sua struttura difensiva crolla: tutto ciò che il soggetto
aveva rimosso nel suo inconscio ritorna a galla. Il depositante perverso aggancia la sua vittima
presentando un proprio aspetto, che ha l’effetto di rompere l’immobilizzazione degli elementi
negativi della vittima. È un aspetto debole, incapace di autosufficienza (gli oggetti interni moribondi
del perverso, come dice il linguaggio psicologico). La vittima rimane paralizzata e invasa da questo
aspetto, entra in un certo stato di confusione tra interno ed esterno, sentendosi responsabile
di cose esterne e soprattutto della sorte del perverso. A causa della personale mancanza
di protezione dei propri oggetti interni buoni e di sostegno da parte di oggetti esterni favorevoli,
la vittima non è in grado di difendere il suo mondo interiore dall’innesto, dal trapianto
di un oggetto agglutinato che il perverso effettua in lei. Il deposito è avvenuto:
la vittima è diventata il depositario degli oggetti interni moribondi del perverso.
Come si sente allora il depositario?
Quando accetta il deposito e la proiezione effettuata su di lui, non si sente più solo e oppresso:
è come se di colpo si sentisse meglio. Se accetta dentro di sé l’oggetto agglutinato
(questo agglomerato di moribondi oggetti interni del perverso), allora tutto rientra nell’ordine
e nella calma. Tutto bene, quindi? Assolutamente no! La simbiosi è bilaterale, afferma tassativamente
Bleger: il soggetto A proietta le sue parti moribonde nel soggetto B, che ne accetta il deposito.
Ma, a sua volta, anche B proietta in A i propri oggetti moribondi. Ognuno deve controllare l’altro,
in quanto è il depositario dove il deposito agglutinato deve essere immobilizzato.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Se al lettore questi termini sembrano astrusi e astratti concetti psicoanalitici,
si guardi bene da questo errore.
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I termini indicano situazioni emozionali ben concrete e conseguenti atteggiamenti pratici
che vengono a gravare sulle spalle dell’altro.
Esempio. Nel romanzo, Renaud deposita nella ragazza:
• La propria totale incapacità di vivere in maniera auto-sufficiente (lei deve mantenerlo
e occuparsi di ogni aspetto pratico per lui);
• La sua necessità di totale dipendenza da un’altra persona;
• Il proprio senso di colpa per aver causato la morte della madre morta nel parto;
la convinzione di essere portatore di morte;
• Il suo senso di colpa a esistere; il suo senso di vuoto esistenziale;
• La sua incapacità di rapporto emozionale umano con l’altro;
• La sua necessaria dipendenza dall’altro per avere i mezzi (whisky, sigarette, sessualità compulsiva)
con cui scaricare l’angoscia permanente.
Ma anche Geneviéve aggancia Renaud come depositario della propria:
• Sessualità moribonda, perbenista e anorgasmica (sicuramente per influenza della figura
della madre). Ma anche non pulita e quasi incestuosa: Renaud ha la stessa struttura fisica
di suo padre, impenitente donnaiolo, che non si è mai occupato della figlia: è alto come questi
e riesce a dormire bene (per cui vi dorme) nel letto che egli si era fatto costruire appositamente;
l’influenza dell’atmosfera dell’ambiente familiare è dipinta dall’Autrice in un serie di tocchi
nel corso di un’unica scena (un accostamento all’Antologia degli Orrori Familiari)
che è interessante riportare per esteso:
“Non ci mancava che mia madre. Eccola. A quell’ora, credevo che fosse il controllore del gas,
o il famoso venditore di lavatrici meccaniche, incubo di Renaud. Adesso ho aperto, è fatta.
Annusa l’aria densa di tabacco pesante.
“Non sei morta,grazie al cielo!”, dice senza mostrarsi eccessivamente contenta. Mi scruta.
Penso che non mi riconosca. Sua figlia “che si può trovare a qualsiasi ora, non si sa come
faccia, deve sbrigare la faccende di casa vestita da passeggio...”.
Ma non ho più il mio vestito da passeggio. Per la prima volta mi sono, finalmente, svestita.
“Avevo tutto il diritto di essere preoccupata, ormai. Ero decisa ad aspettare,
ma tu sei comunque mia figlia. Ieri ho chiamato venti volte. Credo che il tuo telefono
sia guasto. E tu non lo sai nemmeno? Senti, se tu fossi malata, per amor del cielo,
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perché non informarmi? È una pazzia!”.
“Non sono malata. Io ho...”.
“Che cosa?”, dice procedendo nella stanza.
“Hai che cosa?”.
“Io... c’è...”.
“E hai ripreso a fumare?”.
“No...”.
“Ma allora, che cosa ti succede? Hai una faccia cadaverica, ed è chiaro che sei uscita
dal letto. Alle dieci. Faresti meglio a confessare la verità...”.
“Per l’appunto, io...”.
“Sei ancora malata, è evidente”.
Procede verso la camera da letto; e Renaud l’ho lasciato a letto completamente nudo.
È difficile sbarrare la strada a una madre.
“Senti, mamma, io...”, dico, ponendomi sul suo cammino.
“C’è qualc...”.
È un poco sorda; e quando ho finito di dire “qualcuno” lo ha già visto.
“Oh, scusate!”, dice con tardiva discrezione, adesso che possiede l’agognata informazione.
Mi ha preceduta ed è stata svelta; a me un senso di imbarazzo mi aveva resa lenta;
ma ho la consolante certezza che se fossi stata più pronta, mia madre lo sarebbe stata
ancora di più.
“Avresti dovuto avvertirmi”, dice.
“È assai spiacevole”.
La sua malafede è impagabile.
“Quel che fai riguarda te sola, dal momento che non hai più fiducia in tua madre.
E non è per caso Pierre?”.
Istintivamente alza la voce dicendo Pierre. Se sapesse come me ne infischio, o meglio
come se ne infischia Renaud.
“No, non è Pierre”, dico alzando alquanto la voce anch’io.
“Bene, Pierre o chiunque altro... tu hai gli amanti che vuoi. Dopo tutto”,
- il tono della voce si abbassa - “Questo appartamento ne ha viste ben altre”,
“L’adulterio di papà che torna a galla. La Signora Pia non deve esserne stupita”.
L’adulterio, la portinaia, siamo in pieno romanzo d’appendice.
“Tu sei maggiorenne...”.
La legge.
“A me, c’è una sola cosa che mi preoccupa: la tua salute”.
Il mio bene.
“E come ti vedo adesso, non sono tranquilla...”.
Uno sguardo tutto intorno al mio caos.
“Vuoi un caffè?”.
“No, ti ho già disturbata persin troppo. Me ne vado.
Quando ti posso vedere, ma con un po’ di tranquillità? In fin dei conti,
abbiamo pur sempre qualche cosa da dirci...”.
Evidentemente. Zia Lucia. C’è materia per molti discorsi.
“Vuoi che venga a trovarti domani, per esempio?”.
Come mi seccano tutti questi discorsi!
“Ah, perché qui la situazione è stabile?”.
“Per il momento, direi...”.
“Stabile per il momento. Benissimo. Insomma, questo riguarda te sola.
Arrivederci figliola. A domani dunque, da me, dove almeno staremo tranquille”.
Finalmente se n’è andata.
• Necessità di essere importante e presa in considerazione da un altro, come centro
del mondo di questi;
• Necessità di salvare l’altro, per sentire di avere un senso nel vivere e soprattutto
per potere vivere a livello di possibilità inconscia;
• Contemporaneamente anche la propria necessità di dominare aggressivamente l’altro
(Geneviève tiene Renaud mezzo vivo e mezzo morto, in stato di costante ebbrezza alcoolica,
anziché aiutarlo a smettere di bere, come sarebbe normale, costruttivo e segno di amore).
547
In questi aspetti (di peso psicologico grandissimo) è chiaro che Geneviève diventa uno SNOM
nei confronti di Renaud, ora trasformato in un feticcio - DEVI, a conferma dell’affermazione
spietatamente oggettiva di José Bleger: ogni simbiosi è sempre bilaterale, e ognuno dei due
è vittima per un lato e carnefice per un altro, in un implacabile cerchio chiuso di follia necessaria
a entrambi per non morire. Ed ecco la necessità contraddittoria della simbiosi: compulsivamente
ognuno dei due membri del vincolo simbiotico deve restare strettamente legato all’altro,
tenuto mezzo vivo e mezzo morto (come è per Renaud) o continuamente cercato, ma al tempo stesso
malamente adoperato come un oggetto (come è per Geneviève).
La simbiosi è una difesa di fronte all’annichilimento, all’alienazione di una parte di sé per potere
continuare a vivere. Quindi si comprende la tragica serietà di quello che dice Bleger:
la simbiosi è un vero e proprio patto che i due soggetti concludono tra loro.
Ma è un patto di belligeranza nascosta, una lotta sotterranea senza pietà da nessuna delle due parti.
SNOM tratta DEVI con scherno. Riceve tutto (lui che è incapace di auto-sufficienza e non sa vivere
con le sue forze), ma non esprime la minima riconoscenza. Si sente in diritto di non contraccambiare
perché ha ricevuto senza che avesse apertamente chiesto nulla. Con sottilissima abilità inconscia
ha fatto in modo che gli venisse dato senza necessità di chiedere, suscitando nell’altro l’impulso,
il bisogno di dare spontaneamente (Geneviève dice di Renaud: “Non mendica. A rigore, acconsente
a ricevere”). Lo scherno e il rifiuto inchiodano DEVI in una posizione che ne esaspera la debolezza
strutturale interna della sua personalità. SNOM suscita nella sua vittima il senso di colpa (per il fatto
che lui, SNOM, è lì e si fa carico degli oggetti moribondi della vittima stessa), e quindi l’impulso
ad aumentare sempre più il suo atteggiamento e il suo ruolo protettivo verso SNOM.
Per alleviare il proprio senso di colpa, DEVI non ha altra scelta che lasciarsi andare a un atteggiamento
sempre più incontrollato di pietà e assumere un ruolo sempre più protettivo verso SNOM.
Deve continuare a soffiare la vita dentro di lui (depositario degli oggetti moribondi di DEVI stesso)
per evitare la fine di SNOM e con ciò la necessità per DEVI di re-introiettare i propri oggetti moribondi
prima depositati in SNOM. Ma non deve insufflargli troppa vita, altrimenti lo perderebbe.
È un circolo vizioso ferreo, da drogato che ha bisogno di dosi sempre crescenti di droga.
DEVI non si sente protetto nel rapporto con SNOM. È lui che deve proteggerlo,
ma viene protetto nella misura in cui proietta su SNOM il suo senso di abbandono.
Questo legame con l’oggetto di relazione funziona in blocco, secondo la legge del tutto o nulla.
Se DEVI volesse vivere autonomo, indipendente e volesse essere felice (cioè in rapporto pieno
con i propri oggetti interni buoni) dovrebbe anche farsi immediatamente carico delle sue parti morte
e pericolose, che minacciano di distruggerlo. Se vuole vivere deve riparare e far vivere anche
i suoi oggetti morti. Ma così facendo c’è il rischio che l’Io soccomba con tutti i suoi oggetti buoni.
La simbiosi con SNOM (grazie alla proiezione in lui delle proprie parti morte) sembra per DEVI
una soluzione abbastanza buona, almeno per il momento. In realtà, dice Bleger, DEVI resta prigioniero
di una parte di sé proiettata in SNOM. È vittima di uno dei suoi “pezzi”, di quella parte del proprio Io
vincolata ai propri oggetti morti e proiettati.
La mancanza di gratitudine di SNOM fa sentire ancora di più a DEVI che questo legame
non lo protegge (perché non lo rassicura riguardo ai suoi oggetti buoni interni).
Per ottenere questo risultato dovrà continuare a “dare” compulsivamente e a “salvare” SNOM,
per non separarsi dalla propria moribonda parte dissociata dal resto dell’Io e proiettata in lui.
Se smetterà di farlo o se fallirà, DEVI verrà invaso, di ritorno, dai propri oggetti morti e pericolosi.
Per poter vivere, DEVI avrà bisogno di soddisfare l’avidità di SNOM per non soccombere alla propria,
poiché non c’è nessuno che lo protegga come lui proteggerà SNOM.
Nella protezione che dà, DEVI trova il proprio rifugio. Ecco, dice José Bleger, che il destino
della simbiosi è segnato, il patto è sottoscritto. Renaud/SNOM è un essere moribondo
che deve continuare a vivere per Geneviéve/DEVI e grazie a lei, ma sempre come moribondo.
Egli accetta questo ruolo a condizione che l’altro si faccia carico della sua vita,
cosa che Renaud/SNOM non è in grado di fare.
La sua unica possibilità di vita è la dipendenza per sfuggire alla morte. Ma la situazione di Geneviève
è la stessa: anch’essa (e in ciò è completamente SNOM) trapianta in Renaud (che diventa suo DEVI)
la propria morta vitalità, la sessualità e la necessità di salvare compulsivamente l’altro.
Anch’ella dipende da lui senza possibilità di liberarsene: diventa dipendente per evitare la morte.
Il legame simbiotico, dice Bleger, è quindi un patto tra le parti morte, distrutte e pericolose,
dei due soggetti che lo stipulano. Essi fanno un “giuramento” di reciproco aiuto per poter sopportare
un cadavere che entrambi hanno dentro.
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Per poter continuare a vivere, essi stringono questo patto di simbiosi che contiene un segreto:
questo (doppio) cadavere vivente deve essere conservato e immobilizzato dai due soggetti
coinvolti nel vincolo. Una perdita del controllo provoca, o rischia di provocare,
la distruzione dell’Io dei due soggetti.
SVILUPPO E VICISSITUDINI DELLA SIMBIOSI.
QUATTRO ha deciso di dare al resoconto su questa parte del complesso studio di José Bleger
uno spazio minore rispetto a quello riservato allo studio del nascere della simbiosi e all’esposizione
della sua natura. La ragione è semplice e nasce dal lavoro clinico con i clienti che vengono a portare
sofferenze dovute a una relazione simbiotica.
Ciò che manca a essi è regolarmente una comprensione della natura del legame che li stringe
e stritola, e - prima ancora - manca loro la conoscenza di come tale legame malato si è instaurato
nella loro vita. Questi due elementi devono essere forniti.
La prima parte della presente scheda bibliografica corrisponde a questo lavoro.
Per i lettori del sito (della cui situazione relazionale QUATTRO ignora tutto) la presentazione
viene fatta nella speranza che possa servire come suggerimento preventivo per non cadere
nella trappola, o per liberarsene dall’inizio.
Quando i clienti vengono in studio a chiedere una terapia, in genere il vincolo simbiotico
ha già saldamente affondato i suoi artigli nel loro animo, pensiero e vita.
Ed essi ne conoscono perfettamente lo sviluppo e le vicissitudini, tanto che all’inizio
le loro sedute sono riempite dal racconto dei dolori che essi hanno provato.
Non c’è bisogno di illustrare loro il deteriorarsi del rapporto simbiotico e le miserie umane
che tale decadere porta con sé: sono essi stessi a parlarne direttamente e apertamente.
In un certo senso, dallo stesso punto di vista, non sembra il caso che questa scheda si allontani troppo
dai confini di un’analisi psicologica professionale che ha voluto imprimervi José Bleger.
A QUATTRO non sembra conveniente allargarsi eccessivamente sul terreno di minuziosi resoconti
descrittivi di sesso sfrenato e di abiezione personale, con discutibili effetti da letteratura di basso livello.
Ogni lettore che abbia vissuto, o viva personalmente vicende similmente tristi, conosce
e ha ben presente il quadro. A chi non ne è toccato deve essere sufficiente un avviso generico.
Questa seconda parte della scheda bibliografica viene presentata quindi essenzialmente
(a beneficio degli ignoti lettori del sito) come illustrazione preventiva dei cupi sviluppi
che caratterizzano l’evoluzione e la fine di una relazione profondamente malata qual è
un rapporto simbiotico. Riprendiamo quindi ora il collegamento con le osservazioni di José Bleger
su “Il riposo del guerriero”.
SVILUPPO DELLA SIMBIOSI.
Verranno descritti schematicamente diversi aspetti:
Il cambiamento.
Quando la simbiosi si è instaurata, nel soggetto avviene un cambiamento, sentito
come una profonda trasformazione, anche se all’inizio è visto come uno scivolare nella pazzia.
È un mutamento che si insedia fondamentalmente nello schema corporeo.
Il nucleo centrale della personalità non è più la parte maggiormente matura: questa è spostata
dalle cariche rimosse che sono riapparse e ne occuperanno d’ora innanzi il posto.
Questo nucleo regressivo (che, avendo fatto irruzione nell’Io, se ne impadronisce) è vissuto
come una follia, la quale viene fissata e controllata nella trasformazione corporea. In blocco,
in maniera brusca e intensa, coinvolgendo tutto il corpo e non solo un segmento di esso, si produce
una condizione di assoluto predominio del corpo, con i suoi imperativi bisogni funzionali (gli istinti).
Ovviamente bisogna aspettarsi un esplodere della sessualità, ma non solo: anche il cibarsi viene vissuto
in maniera diversa. Questo spostamento del centro della personalità verso i nuclei regressivi
e simbiotici dell’Io è sentito dal soggetto come un parto, una nascita, un risorgimento pieno di vita
(ma anche come un essere posseduto da un mostro che si è impadronito totalmente della personalità).
Questo brusco coinvolgimento del corpo salva però il soggetto dalla psicosi.
A partire dal momento in cui è avvenuto, si produce una forte dissociazione tra mente e corpo.
La regressione opera e si manifesta essenzialmente a livello del corpo.
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La mente invece può operare a livello logico (sul piano della realtà e dell’adattamento a essa),
ma è completamente dissociata dall’attività istintuale del corpo.
La mente è in una posizione di osservatrice, molto spesso perplessa, incapace di comprendere
perché il corpo non obbedisca più come prima, e sembri anzi (fa notare Bleger)
avere una propria indipendenza.
Perché il soggetto ha l’impressione che sia avvenuta una trasformazione
nella sua personalità?
Abbiamo visto che l’Io viene invaso dall’oggetto agglutinato, costituito dall’aggregazione
di frammenti incoerenti tra loro. Quando avviene un qualsiasi mutamento nell’Io, questi si deve
spostare in pezzi massicci, condensati, non sufficientemente frammentati o differenziati.
Quindi, afferma Bleger, il passaggio da un frammento dell’Io all’altro costituisce un vero e proprio
mutamento della personalità. Questo, conclude l’Autore, è ciò che si chiama oggetto agglutinato
o relazione oggettuale agglutinata.
I pericoli.
La simbiosi è un’invasione che tende a oltrepassare i limiti dell’Io e dello schema corporeo
abitualmente percepiti dal soggetto. Dinnanzi al pericolo di “esplodere”, di perdere bruscamente
i propri confini, il soggetto ha l’esigenza di un contatto fisico (e in forma tattile differente rispetto
a prima) per ridefinire i limiti del suo schema corporeo. Se la regressione è troppo intensa, fa notare
José Bleger, il soggetto corre il pericolo di “svanire”. Il contatto con l’altro diventa allora indispensabile
per delimitare la regressione e dare di nuovo forma alla personificazione di sé “rispecchiandosi
nell’altro”, per trovare i nuovi limiti, i nuovi confini del proprio Io. Un altro rischio per il soggetto
è di diventare dipendente dall’oggetto, e sottomesso a esso. In sintesi, i pericoli sono tre:
1. Restare rinchiusi nell’oggetto agglutinato e/o nel depositario, esserne assorbiti (claustrofobia);
2. Perdere il controllo dell’oggetto e/o del depositario (angoscia di incompletezza);
3. Confondersi con l’oggetto e/o il depositario,sparire (agorafobia).
Il tempo.
Sembra dilatarsi all’infinito, fermarsi e non scorrere più:
a. La paralisi della proiezione/introiezione diventa necessaria per controllare la confusione
indotta dal depositante;
b. La relazione con un unico oggetto è totale, globale e sono ridotte al minimo le altre relazioni
oggettuali diversificate. Il tempo esiste solo dove il corpo differenzia le sensazioni reali
(positive o negative). Se c’è un solo vincolo e un’unica esperienza uniforme, non si può percepire
il vissuto del tempo che scorre. “Il tempo per lui non trascorre, non passano i giorni. Vi è un unico
giorno omogeneo che non finisce mai, un’unica ora indefinita che si dilegua man mano che passa”,
dice Geneviève parlando di Renaud. E in essa, come in una condanna antica, non si consuma mai
il destino di un essere umano (che per un verso è SNOM, ma per un altro è anche DEVI)
di cui si deve dire: “La sua vita non lascia tracce. È un uomo che non smette mai di morire,
e che dimentica se stesso strada facendo”.
La sessualità.
Nella simbiosi l’aspetto sessuale si realizza come un bisogno di carattere compulsivo
e deve essere quasi continuo, senza limiti né preclusioni.
Ha vari aspetti:
a. È utilizzato come una modalità di comunicazione all’interno del rapporto interpersonale,
quando non ci si può fidare di altre forme di comunicazione: le parole e gli atteggiamenti
non bastano più a una sicura distribuzione dei ruoli e a una regolazione della simbiosi.
Nel “Il riposo del guerriero”, Renaud si sforza di far godere Geneviève e ha bisogno di una sua
conferma esplicita e verbalizzata. Infatti, se lei arriva al godimento ricambierà con la gratitudine,
la tenerezza e la protezione; le ansie provocate dal suo timore di distruggere si placheranno.
Inoltre, aggiunge Bleger in altro punto del suo studio, la “generosità” di Renaud nel dare piacere
a Geneviève “senza pensare a se stesso”, in realtà non è generosità ma un forte controllo ossessivo
derivante dal timore di disorganizzarsi o dissolversi nel proprio orgasmo;
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b. Il rapporto sessuale non solo stabilizza i ruoli, ma instaura un controllo a distanza tra i due partner.
Essi non si smarriscono perché sono vicini, ma - sottolinea Bleger - non corrono nemmeno
il pericolo di fondersi o di perdere i confini propri, perché il contatto e la contrapposizione
dei corpi rafforzano i limiti di ognuno come individuo separato.
NOTA BENE.
Una funzione simile a quella sessuale, usata per fondersi senza perdere i confini propri
e per essere legati restando individui separati, è svolta - in un rapporto simbiotico dai continui litigi. Nel momento in cui uno dei due teme di venire completamente assorbito
dalla dipendenza, il ricercare e provocare il litigio consente di frapporre una certa distanza
tra il soggetto stesso e l’altro e di esercitare un controllo della relazione e dell’angoscia.
c. Permette di avere un’esperienza di “completezza”, perché grazie al suo carattere compulsivo
(ossessivamente ripetuto) esercita un controllo sui diversi pericoli della simbiosi
(la paura di perdere l’oggetto, l’impulso a sottrarsi per non essere risucchiato, ecc).
Ma poiché la simbiosi è un vincolo dall’equilibrio estremamente instabile, la sessualità
deve continuamente essere in atto, come valvola di sfogo. La relazione simbiotica è ormai stabilita,
i ruoli sono nettamente configurati e distribuiti, lo strumento di controllo e di equilibrio a feed-back
è essenzialmente il rapporto sessuale.
d. Realizza anche (oltre all’ovvio aspetto di piacere) un aspetto di gratificazione e di riparazione
valido in modo particolare per i due membri del rapporto simbiotico.
Nel romanzo Geneviève racconta: “Ci stendemmo nudi nel letto dove era morta zia Lucie”.
Usano il letto che il padre di Geneviéve - alto come Renaud - si era fatto costruire su misura.
L’appartamento è quello dove il padre di Geneviève portava le sue amanti.
È chiaro che tutta la complessa articolazione dei vari elementi serve alla ragazza come tentativo
di mantenere in vita suo padre, zia Lucie e lo stesso Renaud quale depositario che deve rimanere
in vita ma come morto-vivente (il massimo di morte compatibile con il minimo di vita).
e. Permette a ognuno dei due di depositare nell’altro i propri oggetti moribondi e di tenerli così
almeno parzialmente in vita. Che cosa siano, molto concretamente e in fondo
molto semplicemente, questi oggetti interni moribondi si può ora comprendere: Renaud,
fin dalla sua infanzia, è roso all’interno dal senso di colpa per il fatto che la sua nascita ha provocato
la morte della madre, e dall’assenza della figura del padre, del quale egli non dice mai una parola
e che quindi non ha mai prodotto un effetto di bilanciamento compensativo e di sostegno
nello sviluppo dell’Io.
I suoi oggetti moribondi sono:
• Il sentirsi profondamente cattivo di natura, anzi portatore di morte;
• Il suo essere totalmente indifeso dinnanzi alla realtà esterna, incapace di autosufficienza
e di sopravvivenza autonoma.
Attraverso la sessualità compulsiva egli deposita questi oggetti interni di relazione con se stesso,
con l’altro e con la realtà esterna, in Geneviève, grazie alla cui costante cura sono mantenuti
in una forma di sopravvivenza minima (come espresso dalla vita che conduce Renaud).
In cambio egli le dà la costante somministrazione di sessualità.
Per Geneviève infatti gli oggetti morti sono:
• La propria sessualità bloccata, inespressa e non vissuta (pudibondia, rigidità,
perbenismo, anorgasmia);
• La sua incapacità di sottrarsi al dominio di una madre fredda, dominatrice e manipolatrice,
intrusiva (vedi il dialogo con la madre riportato sopra);
• Una personale adesione, per incapacità di ribellione individualizzante, a un modello
di vita borghese privo di anima e vitalità;
• Un’ammirazione, non accettata sul piano cosciente, verso il senso di libertà
(sia pure violento ed egoista) di vita del padre.
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Per entrambi i soggetti, dice Bleger, gli oggetti morti incistati e mantenuti in vita latente nel proprio
intimo sono paragonabili ai pezzi di osso che in una malattia infettiva (la osteomielite) restano
come frammenti, come schegge, “sequestrati” all’interno di ciò che è diventato per la forma infettiva
l’osso malato: vengono infatti chiamati “sequestri ossei”.
La “concentrazione” nel rapporto simbiotico.
Le osservazioni di José Bleger sulla forma della regressione nella simbiosi e sul concentrarsi di ognuno
dei due membri nella relazione con l’altro sono di importanza fondamentale per comprendere
l’essenza di questo rapporto patologico. Quindi esse rappresentano un prezioso aiuto per chi,
dopo avere capito il meccanismo dei suoi legami malati con il suo partner, voglia intraprendere
la strada della liberazione da essi. Sarà fatta quindi un’ampia citazione diretta delle considerazioni
dell’Autore. Il punto di partenza è l’analisi della condizione di Renaud, le cui attività vitali si limitano
a bere whisky, fumare sigarette e avere rapporti sessuali compulsivamente e in continuazione,
oltre che restare sempre a letto, chiuso in un alloggio. A ciò si aggiunge leggere romanzi gialli
per spegnere ogni altro pensiero: un’attività non continua semplicemente perché viene dopo il bere,
il fumare e avere rapporti sessuali.
“Renaud ha limitato la sua vita allo stretto necessario: tale regressione implica che le sue relazioni
siano ridotte al minimo indispensabile per sopravvivere, in quanto rimane legato a un unico essere
umano (Geneviève), e in quanto nel rapporto con lei la comunicazione è limitata e si svolge
al suo livello più regressivo. Geneviève si è rinchiusa insieme a lui, e di tanto in tanto comincia
ad aver paura “quasi di aver perso il mondo; è come se fossi in un convento”.
Esclude qualsiasi altra relazione, vecchia o nuova, come quella con sua madre o con il suo
ex fidanzato. Per entrambi, con l’instaurarsi della simbiosi viene a cessare ogni diversificazione
di oggetti e vincoli. Tutto rimane concentrato in un unico depositario.
Al di là di tutto ciò il mondo non esiste. Ma rompendo tutti i vincoli con il mondo, al soggetto
depositario rimane soltanto l’altro, che effettua il deposito (a Geneviève/DEVI rimane soltanto
più SNOM/Renaud e - ovviamente - viceversa, dato che la simbiosi è bilaterale).
Quindi ha paura che anche lui sparisca, perché la perdita sarebbe catastrofica, data la sua totale
dipendenza. In una realtà emozionale a partenza quasi esclusivamente inconscia e primordiale
come è quella della simbiosi, non esistono confini netti. Nessuna condizione è distinta nettamente
da altre. Si può comprendere che, nel filone unico di un vissuto di abbandono, ci siano catastrofi
e catastrofi. Vi è la catastrofe momentanea, superabile se i due soggetti ritornano precipitosamente
alle condizioni precedenti di rigido blocco della relazione. È il caso del litigio duro, ma superabile.
Il più sensibile alla frustrazione dei due, che è anche momentaneamente il più capace di reazione,
è ferito dal rifiuto e lo vive come una catastrofe che compromette tutta la relazione:
si inalbera, protesta e se ne va (non definitivamente, non troppo lontano...).
La relazione con l’oggetto agglutinato ha funzionato in lui come blocco, senza possibilità
di discriminazione, come dice Bleger. È la legge del tutto o nulla: se mi accetti, devi accettare tutto
di me; se rifiuti anche solo una parte di me, io sento che mi rifiuti tutto e rompo la relazione.
Questo perché nella relazione massiva ogni minima frustrazione compromette il tutto in maniera
catastrofica, tanto che non ne resta più nulla. Ma se l’altro membro della simbiosi vive a sua volta
la rottura come un danno, perché è abbandonato al suo vuoto interiore e alla sua angoscia
di incompletezza, allora la reazione che si impadronirà del suo essere sarà catastrofica.
In preda a un dolore insopportabile nell’animo e nel corpo, correrà a cercare l’altro, chiederà perdono,
striscerà, concederà ogni cosa pur di essere perdonato e farà riprendere la relazione con gli stessi
meccanismi di prima, ma aggravati. A causa di questa parziale esperienza di annichilimento,
il soggetto riallaccia il vincolo e riorganizza la simbiosi, per cui sentendosi più protetto può riconoscere
di essere sull’orlo della distruzione interna, della disintegrazione nella quale il suo Io è potenzialmente
disintegrato al confine del vuoto esistenziale. È un pericolo così grande che nessun amore
può salvarlo. Perciò il soggetto rifiuta la vita e la fugge. Ma proprio grazie a questo rifiuto e a questa
fuga riesce a salvarsi: la simbiosi rinnovata è la sola possibilità che ha di poter continuare a vivere
nel miglior modo possibile. Non si tratta più di salvarsi, ma di evitare di essere distrutto.
Se invece il secondo membro della simbiosi non corre a cercare il primo, colui che ha fatto il gesto
di rottura rimane paralizzato dall’angoscia, in preda alla disperazione: il panico di rimanere in balia
della morte provoca una reazione catastrofica di panico e di annichilimento.
Il soggetto sembra un morto: è completamente disperato. Non ha la possibilità di diventare depresso
(e con questa posizione depressiva cominciare a vivere il lutto della perdita dell’oggetto) o di attivare
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gradualmente altre difese contro il danno subìto, come se ci fosse una persecuzione contro di lui.
Questo perché la perdita dell’oggetto protettore con il quale si ha una relazione massiva (agglutinata)
è deleteria. L’unica salvezza è nel ricreare una più profonda simbiosi, al cui interno egli suscita
nell’altro il bisogno di proteggerlo dalla minaccia della distruzione. Oltre a questo atteggiamento
di base, il soggetto attua altre difese: si abbandona a un’angoscia fortissima (perché sentirsi
angosciato significa sentirsi vivo), ricorre all’oblio datogli da una sessualità compulsiva e dall’alcool.
Ma, ovviamente, tutto ciò costituisce un circolo vizioso che si auto alimenta.
Il concentrarsi in un unico depositario è una regressione che, in un vincolo con un oggetto
agglutinato, implica una comunicazione pre-verbale, anch’essa molto primitiva.
In quest’unico oggetto sono concentrati l’amore e l’odio, l’aggressione e la riparazione, la vita
e la morte, a tutti i livelli: orale, anale e genitale. Per questa ragione è un oggetto che deve essere
rigidamente controllato. Questa relazione predominante con l’oggetto agglutinato (dipendenza
simbiotica), la sua rigida immobilizzazione e il suo controllo, provocano la paralisi della proiezione
introiezione, l’arresto del tempo accompagnato da una parziale perdita del senso di realtà,
da una carenza nell’integrazione dell’Io, dalla confusione tra quello che appartiene all’uno e quello
che appartiene all’altra. Per questo nella simbiosi troviamo una carenza nella personificazione
e nell’identificazione, una confusione tra omosessualità ed eterosessualità e un deficit nell’integrazione
dello schema corporeo”. (Pag.107).
A complemento di quanto citato, QUATTRO ritiene interessante riportare anche la nota che Bleger
pone a pié di pagina 107, per illustrare il concetto di concentrazione nell’oggetto agglutinato
di amore e odio, aggressione e riparazione, vita e morte, a tutti i livelli, orale anale e genitale:
“Una concentrazione di questo tipo - il vincolo con un oggetto agglutinato - la troviamo anche
in condizioni normali, nell’deale dell’adolescente che vuole una compagna che gli sia
contemporaneamente madre, fidanzata, sorella, amante, sposa, ecc”.
È una nota breve, ma senza dubbio getta sul fosco panorama decritto una luce non solo
di chiarificazione, ma anche di speranza che ci sia nell’inconscio qualcosa, non soltanto di
comprensibile, ma anche di normale. L’analisi dello studio di José Bleger può terminare tra breve.
Le riflessioni dello psicoanalista seguono infatti i due personaggi del romanzo anche lungo le ultime
spirali, sempre più strette, del loro inabissarsi nel gorgo della reciproca distruzione.
E questa prospettiva esce dal taglio che QUATTRO ha scelto di dare, nel percorso del sito
di auto-aiuto, all’esposizione di una relazione simbiotica: un quadro di ordine generale, centrato
su casi di patologia non troppo esasperata, da poter essere riconosciuta come applicabile a se stessi
da molti soggetti, e con una sottolineatura soprattutto dei segnali delle fasi iniziali della simbiosi.
Ci limiteremo a citare ancora due punti:
1. Come avvengono piccole trasformazioni nelle due personalità e quindi nella relazione;
2. Qual è il significato e il valore utilitaristico della separazione.
PICCOLE TRASFORMAZIONI DELLA RELAZIONE: LA SEPARAZIONE.
Si è visto a fondo che il vincolo simbiotico ha bisogno di essere controllato, perché minaccia
costantemente di imprigionare, inghiottire e annientare. Ma per lungo tempo non può nemmeno
essere sciolto, perché le proiezioni sono tuttora massicce in entrambi i membri.
È necessario che passi un tempo lungo, nel corso del quale - esperienza dopo esperienza - ognuno
dei due si irrobustisce, aumenta la possibilità di presa di coscienza e quindi può permettersi
di re-introiettare un piccolo frammento di quello che era proiettato.
Ma mentre elabora interiormente questo frammento emozionale, continua ad avere bisogno dell’altro,
per mantenere ancora immobilizzati gli altri oggetti agglutinati non ancora discriminati.
Nuovi contatti con altre persone, altri ambienti, altre esperienze rafforzano questo sforzo
nel diversificare le relazioni oggettuali e permettono di frammentare sempre più la relazione massiva
e agglutinata con un oggetto unico ed esclusivo. In questo processo di squilibramenti e successivi
migliori riequilibramenti del vincolo simbiotico avviene una serie di prese di coscienza.
Al soggetto che ha queste intuizioni diventa possibile (quantomeno più di prima) accettare
il dolore che ha dentro. Può in parte accettare di avere perso definitivamente la protezione sempre
sognata di un amore idealizzato che avrebbe dovuto proteggerlo nella sua infanzia e che egli deve
accettare di avere definitivamente perduto e di non potere più ritrovare.
Può accettare la tragedia della sua vita, nella quale gli sono state negate tantissime possibilità,
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che altri invece hanno avuto, e che egli non potrà mai più riavere. Può quindi farsi carico di questi
suoi oggetti interni moribondi - o irrimediabilmente morti - e con ciò accettare che la sua angoscia
e la mancanza di vitalità non dipendono dal fatto che nessuno gli dà nulla, ma dal suo ostinato sogno
irrealizzabile di trovare protezione assoluta dentro il corpo di un altro, come se si trattasse di un ritorno
nel grembo della madre per ritrovarla viva. Ma proprio quando il soggetto rinuncia al suo sogno
onnipotente di far rivivere i propri oggetti morti e si fa carico della propria morte interiore,
vivendola nel dolore senza più sfuggirlo, può rinunciare alla simbiosi e al suo scopo irrealizzabile.
Per preservare se stesso e per non distruggere l’altro sceglie di allontanarsi e si distacca dall’altro,
andando per la propria strada. La fine della simbiosi apre la via alla nascita dell’individualità autonoma.
APPLICAZIONI TRA LETTERATURA E REALTÀ,
DA “1984” ALLA VITA.
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(A cura di 35).
“1984” di George Orwell è un romanzo di socio-fanta-politica, scritto nel 1948 (e pubblicato nel 1949)
sulla base di un’analisi dei regimi totalitari (nazista in Germania, ma soprattutto quello stalinista
in Russia). Nel romanzo la terra è suddivisa in tre grandi potenze totalitarie in guerra perenne
tra di loro: Oceania, Eurasia ed Estasia. In Oceania, la cui capitale è Londra, dove si svolge la storia,
la società è amministrata secondo i principi del Socing (il socialismo inglese) e governata da un unico
partito con a capo il Grande Fratello. Sconosciuto a tutti, tiene sotto controllo costante tutti i cittadini
(solo l’accenno ai suoi grandi baffi rimandano alla mente del lettore l’immagine di Stalin).
Il controllo perpetuo si esercita attraverso telecamere onnipresenti e la psicopolizia, che interviene
in ogni situazione sospetta. Il protagonista del romanzo, Winston Smith, è un membro subalterno
del partito, apparentemente inquadrato, che mal sopporta i condizionamenti.
Gli altri personaggi sono Julia, della quale è innamorato, e O’Brein, un importante funzionario.
Nonostante il sesso sia permesso solo a scopo procreativo, Winston e Julia diventano amanti
e decidono di collaborare con un’organizzazione clandestina, ma il loro piano viene sventato
da O’Brein, che li cattura e avvia il processo di redenzione di Winston, attraverso la tortura.
Nel descrivere l’organizzazione della società e snocciolando gli eventi della storia, Orwell si spinge oltre
la realtà, ipotizzando il futuro se governi dispotici e autoritari dovessero realizzare il loro disegno
politico. In un mondo così concepito non esisterebbe più l’individualità e possedere una personalità
sarebbe un crimine contro il sistema. Infatti qualsiasi pensiero contrario o appena fuori dagli schemi
è definito “pensiero-reato” e come tale viene punito con la prigionia e la tortura, fino alla morte
per polverizzazione. Questa pratica rinnega l’esistenza stessa della persona, cancellata di fatto anche
dalla memoria collettiva, come se non fosse mai esistita. Come se la sua esistenza non fosse mai stata
importante. L’umanità è bandita; il sentimento tra uomo e donna è freddo; il sesso è deprecato
e finalizzato alla procreazione sulla base dei diktat del Parito. L’essere umano rientra in un processo
che non deve comprendere, ma solo accettare. “Capisco come: non capisco perché”.
L’aspetto su cui lo scrittore insiste è l’intervento del Partito (incarnato da un onnipresente e oscuro
Grande Fratello) nella coscienza delle persone. Il suo controllo è totale e ossessivo, senza scampo,
perché porta gli individui a intervenire sulla propria psiche, autofalsificando i dati in possesso
e viziando la realtà esterna. La realtà infatti non esiste più: è manipolata secondo le esigenze
dello stato, per presentare un futuro ideale o rivedere il passato.
Non esiste memoria, perché la storia e il presente sono continuamente modificati senza lasciar traccia
del passato. All’individuo non è lasciato lo spazio critico per stabilire se la realtà è conforme
al proprio pensiero. Egli acconsente meccanicamente alla versione dei fatti impostagli,
considerandola sempre e comunque valida, anche se contradditoria con quella precedente.
Questo è ciò che Orwell definisce bipensiero:
“La mente gli scivolò nel mondo labirintico del bipensiero. Sapere e non sapere; credere fermamente
di dire verità sacrosante mentre si pronunciavano menzogne più artefatte; ritenere
contemporaneamente valide due opinioni che si annullavano a vicenda sapendole contradditorie
fra di loro e tuttavia credendo in entrambe; fare uso della logica contro la logica; rinnegare la morale
proprio nell’atto di rivendicarla; credere che la democrazia sia impossibile e nello stesso tempo vedere
nel Partito l’unico suo garante; dimenticare tutto ciò che era necessario dimenticare ma, all’occorrenza
essere pronti e richiamarlo alla memoria, per poi eventualmente dimenticarlo di nuovo.
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Soprattutto saper applicare il procedimento al procedimento stesso. Era questa, la sottigliezza estrema:
essere pienamente consapevoli nell’indurre l’inconsapevolezza e diventare poi inconsapevoli
della pratica ipnotica che avevate appena posto in atto. Anche la sola comprensione della parola
bipensiero ne implicava l’utilizzazione”.
Per comprendere la logica di questa strategia basta leggere i paradossi su cui si basa:
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• “La pace è guerra”,
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• “La libertà è schiavitù”,
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• “L’ignoranza è forza”.
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Il suo scopo condizionante è spiegato da uno dei personaggi: “Il Partito mira al potere solo
per se stesso. Non ci interessa il bene degli altri; ci interessa il potere e niente più”.
In pratica, il potere è una pura gratificazione personale, che implica provare piacere
nel ferire i sudditi e spingere il limite del male sempre più in basso.
È una strategia che mira al terrore e all’irrazionalità illogici e immotivati. Asserventi.
Contemporaneamente crea un legame forte e inscindibile tra il Partito e i sudditi, prigionieri
di un meccanismo azionato e mantenuto in vita da ambo le parti.
Come si collega la finzione letteraria di Orwell al comportamento del Perverso/Narcisista?
Alice Miller spiega nei suoi trattati sulle violenze perpetrate ai danni dei bambini che il male del mondo
può nascere proprio dai comportamenti lesivi dei genitori. Racconta (1) - senza giustificare come Adolf Hitler sia diventato il dittatore sanguinario che la storia ha conosciuto, partendo
dalle torture impartitegli dal padre (probabilmente mezzo ebreo, frutto di una relazione clandestina),
fino a riferire che gran parte del popolo tedesco accolse la pazzia del Führer perché tarato su questo
tipo di violenza tra le mura domestiche. Perciò il comportamento di Hitler fu una conseguenza
quasi inevitabile. La storia, sostiene Alice Miller, è composta anche da miriadi di fatti personali che sommati - arrivano a condizionare la società. Maurice Hurni e Giovanna Stoll-Simona, in uno studio
su 1984 (2), interpretano la storia del Grande Fratello come una metafora delle relazioni
perverso-narcisiste. La definiscono una relazione “tanica”, ovvero il trionfo dell’odio.
Il male perpetrato da SNOM punta all’alienazione e all’abolizione della personalità.
Questa strategia vuole distruggere totalmente l’altro, partendo dal narcisismo, per intaccare
anche il fisico e la psiche, annullando del tutto il rispetto per sé e l’amor proprio.
Vengono intaccate le emozioni, soprattutto se positive e vitali: ogni legame affettivo è snaturato
e i ricordi modificati, arrivando a condizionare anche il futuro. Il Partito (compresi i suoi ciechi emissari)
è SNOM stesso; il pensiero-reato è qualsiasi pensiero ostile e contrario alla sua logica perversa;
i comportamenti che accompagnano la paura di commettere “reati” anche col pensiero è paragonabile
agli sfoghi psicosomatici (mal di testa, mal di stomaco, amenorrea, ecc.) che colpiscono molti DEVI;
il bipensiero è la tecnica usata per mantenere il proprio controllo su DEVI.
Nel tempo SNOM attua nei cofronti della propria vittima un progressivo lavaggio del cervello, che:
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 confonde
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 crea dubbi
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 mette in discussione un modo di essere
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 provoca alienazione
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 distrugge.
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(1) Miller, Alice: “La persecuzione del bambino. Le radici della violenza”.
(2) Hurni, Maurice - Stoll, Giovanna-Simona: “L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane”.
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A modo suo, produce novelli SNOM che scaricano la propria natura perversa su altrettanto novelli
DEVI. Nel meccanismo di distruzione alla base di questa relazione, come spiega Besançon
nelle pagine de “L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane”, la decisione di non voler più
soffrire, per aver troppo sofferto, porta ad abdicare da se stessi e dal non provare sensi di colpa
per il dolore che si infligge al prossimo.
Tutto questo può apparire fantasioso e azzardato, ma esperienze di vita vissuta dimostrano quanto
la teoria milleriana sia corretta. Le protagoniste dell’episodio sono due donne, con un legame diretto
di parentela (non genitoriale). Le dividono 15 anni di età (SNOM è più vecchia); le unisce un rapporto
molto stretto sin dalla nascita di DEVI.
SNOM chiama sul cellulare:
“Non sono ancora arrivate?”, chiede impaziente.
“Arriveranno”, risponde DEVI con poco interesse.
“Domani tu non ci sei?”, chiede, alludendo alla riunione di famiglia.
“Vengo solo per pranzo!”.
“Se avessi deciso di non venire, avresti avuto la mia approvazione”.
(In questa prima fase, SNOM appoggia DEVI concedendo pure la sua autorizzazione,
senza la quale non avrebbe dovuto decidere e agire).
“Io domani sarei andata a giocare a golf”, continua SNOM,
“e invece andiamo a mangiare...”, è dispiaciuta:
“comunque potevi anche evitare di venire”, (SNOM sembra quasi rimproverare DEVI,
come se la sua presenza non fosse importante: lo esclude e snaturalizza).
“Non potevo... mia madre ha piantato una pista...”, spiega DEVI.
“Sì, ma tu ormai hai 34 anni e sei libera di decidere”, (SNOM torna ad appoggiare DEVI,
tendendo una trappola).
“Non capisco il perché di questo pranzo: tu avevi da fare, io vado via dopo pranzo,
i miei arrivano più tardi perché c’è una premiazione di quadri...”.
“Ah, bene!”, pronuncia SNOM seccata.
“Mia mamma dice che lo zio ha organizzato tutto, però abbiamo tutti da fare...
allora poteva chiedere...”.
(DEVI pensa in modo autonomo e quindi commette il reato).
“Ma lui ha chiesto...”.
(La reprimenda di SNOM arriva infatti subito, con metodi diversi:...) “... e poi siamo in debito verso
la nonna...”, continua SNOM. (... senso di colpa).
“Cioè?”.
“Per ferragosto”, dice,
“Tu eri via, io ero via, i tuoi sono andati via e lei è rimasta sola con tuo zio!”,
(... senso del dovere).
“Poteva andare via con lo zio”, dice DEVI ridendo, in un impeto di ribellione.
“Questo vuol dire che quando noi saremo anziani, tu ci abbandonerai?”, chiede SNOM
con vocina infantile (... senso di colpa & del dovere). (A questo punto DEVI cominicia ad accusare
i primi sintomi psicosomatici: mal di stomaco pari all’intensità di un pugno e mal di testa in una sorta
di smarrimento interiore).
“Puoi giurarci”, replica DEVI ridendo a denti stretti,
“Io domani avevo un impegno, perché viene una mia amica da Milano e dovevamo vederci
per pranzo...”.
“Invece?”.
“La vedrò nel pomeriggio, verso le 14,30-15...”.
“Ma tu per quell’ora non hai ancora finito”, si affretta a dire SNOM (dopo la prima fase
del discorso, quando incitava DEVI a non presenziare al pranzo, ora SNOM ha cambiato idea
e non vuole lasciarlo libero di decidere e agire: la sua presenza al pranzo è un atto di costrizione
che nega qualsiasi libertà a DEVI. Quello che è stato detto prima non conta più, impera
la contraddizione come nella logica del bipensiero orwelliano).
“Certo, ma quando devo andare, io me ne vado”, quasi sussurra DEVI.
“Comunque lo facciamo per la nonna”, (di nuovo il senso del dovere) dice SNOM,
“Che tra sei mesi potrebbe non esserci più!”, (di nuovo il senso di colpa).
Il giorno successivo DEVI, in piena autoaffermazione, rinuncia al pranzo di famiglia e riceve
la telefonata di SNOM, che - con voce cantilenante, puntellata di feroce cattiveria - le chiede:
“Devo farti mettere da parte del fritto misto alla piemontese così puoi mangiarlo domani?”.
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Non è necessario che aggiunga alcun epiteto, perché il suo giudizio è manifestato nelle parole
e nel tono. (SNOM, per paura di perdere il proprio controllo su DEVI, si sfoga con violenza e cattiveria,
perpetrando l’ennesima tortura. Come il Grande Fratello, anche il perverso narcisista vuole l’anima
e il cuore di DEVI, in una logica che ne prevede la distruzione finale).
“No, grazie. Non è necessario. Vivo anche senza”, è la risposta volutamente ambigua di DEVI,
libera da malesseri psicofisici e sensi di colpa o del dovere.
SNOM, come il Partito di Orwell, pretende da DEVI obbedienza assoluta e accettazione
dei suoi bisogni, perché qualsiasi gesto o parola contrari sono destabilizzanti per il suo sistema.
La ribellione di DEVI è quindi un atto da punire.
In “1984” i dissidenti vengono giustiziati dopo crudeli torture che portano alla loro spontanea
adesione al regime, convinti intimamente dell’equità della loro pena.
Sottrarsi a questo gioco perverso, ritrovando il coraggio di essere se stessi - dei propri pensieri delle proprie azioni, significa vivere da persone libere ed emancipate.
“Fino a che non diventeranno coscienti del loro potere, non saranno mai capaci di ribellarsi,
e fino a che non si saranno liberati, non diventeranno mai coscienti del loro potere”.
IL RIPOSO DEL GUERRIERO: LA TRAMA.
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(A cura di 35).
Quando venne pubblicato nel 1958, “Il riposo del guerriero”, di Christiane Rochefort scandalizzò
la borghesia francese per la sessualità esibita e l’introspezione emotiva dentro un rapporto di coppia
non convenzionale. Purtroppo il romanzo è attualmente fuori edizione: la sua lettura costituisce
un valido strumento per chi si avvicina al tema del Perverso Narcisista e delle relazioni simbiotiche
che caratterizzano molte relazioni. Per ovviare alla difficoltà di reperimento e per agevolare la lettura
dei brani che seguono in questa sezione, presentiamo ora un riassunto della storia, riportando alcuni
estratti del romanzo. La voce narrante è della protagonista, Geneviève Le Theil, una studentessa
in viaggio fuori Parigi per entrare in possesso dell’eredità di una zia, che le consentirà di vivere
senza problemi economici. “... niente faceva prevedere che lì si sarebbe giocato il mio destino”
pensa la ragazza quando giunge nella piccola cittadina.
Con l’intenzione di sbrigare la faccenda in 24 ore, Geneviève prende una stanza in un hotel.
Per errore entra nella stanza attigua alla sua e trova il corpo di un uomo, suicida.
Si attiva perché venga soccorso e da quel momento si sente legata al destino di questa persona;
il giorno seguente si reca all’ospedale dov’è ricoverato e posticipa il suo ritorno a Parigi.
“Rimanevo. Avevo l’impressione che questa decisione ridicola fosse stata presa mio malgrado
e un pezzo alla volta. Uno di questi pezzi era una parola pronunciata senza riflettere, sotto l’effetto
del caldo, della quale ora mi vedevo prigioniera”.
A Parigi torna con lui, Jean Renaud Sarti, ormai ristabilito. “Vede, eccola qui la mia animuccia - disse
indicando un punto preciso al centro del petto. Si rassegni; ora è sua, le appartiene, io non ho più
niente a che fare con lei. Ne faccia quello che vuole, è sua”, le dice, come se parlasse di un debito
saldato. Da quel momento la vita di Geneviève cambia radicalmente: lascia il fidanzato premuroso
e innamorato, dimentica gli amici fidati e si concentra nella relazione simbiotica con l’uomo.
Lui si stabilisce nella casa di lei e il patto tra i due è chiaro: la morte (o la vita) in cambio
della dipendenza reciproca, per poter entrambi compensare le proprie mancanze e necessità.
Lei si scopre un’altra e riconosce in se delle parti nuove - più vitali - che le derivano dalla relazione
con Renaud: è avvenuto un cambiamento di personalità. “Magnanimo, mi lascia il tempo di adattarmi
alla mia nuova pelle, di mettere ordine nel mio nuovo mondo”.
Nell’ottica di riorganizzare la propria esistenza, Geneviève trova anche delle spiegazioni retroattive,
quasi divine, alle sue azioni: “Tutto ormai mi diventa chiaro: perché sono passata sotto una scala,
perché ho scelto l’Hotel de la Paix, perché mi sono affrettata a tornarci alle sei, perché ho sbagliato
porta e perché la mia chiave ha aperto: perché amavo Renaud Sarti”.
Durante la convivenza lei si occupa di tutto, mentre lui trascorre le giornate a letto, a leggere,
fumare, bere e fare l’amore. Senza percepire il trascorrere del tempo, senza rispetto.
“La sua assiduità nei miei confronti, benchè lo tenga occupato per buona parte del giorno
e della notte, si limita al mio corpo... Per lui ho soltanto un’esistenza materiale.
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Quello che dico non lo ascolta: lo guarda. È un’espressione molto strana, come se io avessi
un’esistenza parallela. Rannicchiato nella sua cuccia, mi osserva e, senza minimamente tenere conto
dell’ora o della circostanza, mi prende tutte le volte che sono alla sua portata, anche se sto spingendo
l’aspirapolvere o ho quattro posacenere in mano”.
Geneviève si lascia intrappolare (“una vittima che viene continuamente divorata e sottomessa”).
A ciò si contrappone la scoperta del suo corpo come fonte di piacere: “Questo mostro di egoismo
(ndr: Renaud) che non mette nessun impegno nell’amarmi, è il più generoso degli amanti.
Nell’amore non pensa mai a se stesso e al suo piacere, lo prende come una cosa in più, solo quando
quello che poteva darmi si è esaurito”.
La regolazione del vincolo simbiotico avviene con l’attività sessuale da una parte e col rafforzamento
o incremento della persecuzione dall’altra. Ricercare o provocare un litigio mette una distanza
tra i due. Così possono operare un controllo della relazione e delle paure di entrambi.
Ma per Renaud ogni litigio compromette la relazione in modo catastrofico e definitivo: cancella tutto.
Infatti, in seguito al loro primo litigio, lui se ne va di casa.
La psiche di Geneviève accetta la separazione, che la libera dalle sue paure
di una relazione esclusiva, ma il suo corpo la rifiuta e lei cede. Lo rincorre e lo supplica di tornare.
Il loro dialogo in questo frangente ridefinisce i ruoli:
il vincolo può ricomporsi a patto che sia lei soltanto a dichiarare di avere bisogno di lui.
Quando avviene, la relazione si muove su nuove dinamiche.
“Si mette a delirare tutte le volte che si sente infelice e perso. Come se la disperazione fosse per lui
una droga. E subito pensa al bere”, spiega Geneviève. Prima l’alcool e subito dopo un rapporto
sessuale compulsivo per placare le sue angosce.
Al rapporto sessuale segue un dialogo: Renaud accetta Geneviève, ma non il suo amore,
perché lo considera un veicolo di distruzione. L’amore la distruggerebbe come distrusse sua madre:
“Io non ho conosciuto mia madre; è morta mettendomi al mondo. Troppo tardi: ormai era cosa fatta”.
La comunicazione verbale, prima assente, entra ora nella relazione: è funzionale dopo la prova
di forza della separazione e la successiva riappacificazione con chiarificazione dei ruoli.
La parola serve per rafforzare il controllo. Dal chiuso della casa, la storia si sposta nei bar
dove Renaud si ubriaca e Geneviève corre a recuperarlo; i rapporti sessuali diventano più aggressivi
e rapidi. Per salvare la relazione, la donna propone un compromesso e compra una vettura:
anche sulla scelta hanno idee divergenti.
“A dire il vero, mi disse Renaud, gli sarebbe piaciuta un’automobile, purchè ci si potesse fare l’amore
e dormire e i finestrini si potessero chiudere; meglio ancora se non avesse avuto nessun finestrino;
che poi corresse o meno, era un fatto secondario”.
Con l’auto vanno in campagna insieme, ma tutto poi si riduce a bere e ad avere rapporti sessuali.
“Per ristabilire l’equilibrio, feci conoscere a Renaud i miei amici e organizzai delle festicciole in casa...
Ma Renaud diede a queste feste un tono che mi fece rimpiangere l’iniziativa”.
Il contatto con la gente porta la relazione su un ulteriore piano, dove il dominio deve essere ristabilito
secondo nuovi ruoli. Anche in questo caso una sessualità aggressiva gioca un ruolo fondamentale.
Egli obbliga Geneviève a episodi di esibizionismo nei bar e nelle osterie (“Mi lasciavo andare a eccessi
di esibizionismo del genere che piaceva a lui e ci mettevo anche qualcosa di mio”).
In seguito viene anche costretta a rapporti omosessuali con una prostituta.
Questo tipo di comportamento sedimenta la relazione, con un aumento progressivo dell’aggressività
di lui e della passiva sottomissione di lei.
“Mentre io gli sacrificavo tutto, lui cadeva sempre più in basso, come se non gli stessi sacrificando
nulla”. Renaud diventa sempre più esigente e la relazione diventa ancora più tormentata,
seppure in un’escalation di aggressività e promiscuità.
Geneviève gli propone di disintossicarsi dall’alcool per risolvere il proprio tormento interiore.
Renaud rifiuta, consapevole che non è il bere la causa di tutto, ma l’impossibilità di tornare nel ventre
materno. Neppure l’amore di una donna può salvarlo perché non è intrauterino, e quindi lo fa sentire
cattivo e stupido: “Sono solo, solo. Solo al mondo (...) Non c’è nessun rapporto, mi sembra chiaro.
Sono (...) Se potessi vivere, forse... Chissà... Ma come? È questo il punto: come vivere. Sta tutto lì.
La vita, in fondo, mi piacerebbe, ne sono certo. Se hai idea di come fare...”.
Dopo questo dialogo Renaud se ne va, consapevole che la sua frustrazione è interna e non dipende
da nessun altro. Per questo si deve allontanare da Geneviève, che lo ha fatto sentire malato:
per preservare se stesso, se ne deve andare. Lei entra in crisi.
Accetta la separazione ma sprofonda nel baratro e segue le orme alcolizzate di Renaud:
beve e si ammala di tubercolosi. Viene ricoverata in un sanatorio.
“Quello che mi dispiace è che ci avviamo verso cimiteri diversi”, dice. Ha nostalgia di Renaud,
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gli ha lasciato un messaggio prima del ricovero per essere ritrovata.
La tbc è il veicolo per la morte, perché senza di lui la vita non ha alcun senso. Un giorno Renaud
le fa visita: per ritrovarla ha persino venduto una cassa di whisky (anziché berla, le fa notare).
I ruoli si sono invertiti: adesso è lui a operarsi perché non lei muoia e ammette di aver bisogno di lei.
Sostenuta dal “quasi amore” di Renaud, Geneviève migliora e viene dimessa.
Tornano a vivere insieme. Il loro primo rapporto sessuale riapre la ferita della distruzione:
“O sono io la tua rovina o sei tu la mia. È questo l’amore umano”.
Il pericolo della distruzione li porta alla promiscuità sessuale; Renaud torna a bere e Geneviève
a occuparsi di lui. Le sofferenze fisiche dell’uomo lo costringono a un legame con la donna basato
sull’assistenza: egli tenta di rompere questo vincolo sempre e solo con l’aggressività e la compulsione
sessuale. Il timore di perderla spinge Renaud a proporle di sposarlo, dopodiché comincia a trattarla
in maniera ostile: “Dovevo adattarmi alla situazione: sarei stata maltrattata per un periodo di tempo
imprecisato, finché Renaud non avesse digerito le sue gentilezze nei miei confronti”.
Nella loro relazione compare un nuovo personaggio che riporta l’equilibrio:
Raphaelle, una donna che assomiglia a Renaud.
Geneviève svolge il ruolo di madre per entrambi, mentre i due giocano in modo infantile.
Questo nuovo rapporto giova all’uomo, che smette di bere e diventa attivo.
Ma per la paura di perderlo, Geneviève si ammala; Renaud avverte il pericolo che lei muoia
e stringe il legame, rinunciando al rapporto bambinesco con Raphaelle.
Cade nuovamente nell’inezia e nell’alcolismo; il legame lo soffoca e torna ad applicare lo schema
collaudato di aggressività-compulsione sessuale, alternato a vicinanza e relazione affettiva.
In seguito a un attacco nervoso acconsente ad andare dal medico, ma poi non ne segue
le prescrizioni. Intanto Geneviève fantastica di avere un figlio:
“Forse era il segreto desiderio di rifare Renaud da capo e, alla fin fine, di ottenere il suo riscatto
per un’altra via, se seguendo questa avessi fallito (...)
E anche se Renaud un giorno mi avesse abbandonata, non mi avrebbe mai lasciata del tutto”.
Rimane incinta e si concentra sulla gravidanza: cerca di stare il più possibile immobile,
per non far del male al feto e riproducendo così lo stesso atteggiamento tenuto col compagno.
Intanto questi peggiora perché si sente abbandonato e l’implora di non lasciarlo.
“Renaud viveva nella paura (...) Non si ribellava più con alterigia.
Al contrario, diceva umilmente che io avevo ragione e che, se solo avesse potuto, avrebbe obbedito”.
Una volta, Renaud si getta su di lei che lo respinge, per difendere la propria gravidanza.
Egli implora le sue attenzioni piangendo, decretando la fine della propria onnipotenza:
“Il fatto è che mi sono creduto un dio e bevo per poter continuare a esserlo”.
“Voglio finalmente appartenere al genere umano, a questo schifo di genere umano
che non è ancora finito (...) Sono un aborto della natura (...)
Ma sono stufo di vivere come un aborto. Voglio essere soltanto un uomo (...)
Aiutami, tu che sai come si fa. Aiutami a vivere. Costringimi a vivere”.
Renaud viene ricoverato dopo il matrimonio. “Mi salutò con la mano e varcò il cancello di ferro.
Era pallido. Sapeva che non sarebbe ritornato”.
ANTOLOGIA DEGLI ORRORI FAMIGLIARI.
In questa parte del sito verranno presentate alcune situazioni di vita vissuta opportunamente
rese anonime in rispetto dei protagonisti e romanzate perché la lettura - si spera - sia più gradevole.
Alcuni episodi sono talmente comuni nelle famiglie con soggetti perverso/narcisisti da sembrare banali
e quindi non rilevanti ai fini della liberazione da questi schemi relazionali.
Anche questo fa il gioco del perverso narcisista: l’assoluta normalità del suo comportamento
(paradossi inclusi) lo aiuta nella sua crociata per il potere e la distruzione della propria vittima.
Una lettura attenta e serrata, quasi in apnea, delle “scenette” orrifiche qui di seguito
rende pienamente lo stato di allerta e agitazione in cui vive la vittima di un perverso relazionale,
oltre che la costante necessità di difendere il proprio Io perché non venga sopraffatto, fagocitato
e infine distrutto. Protagoniste della prima parte sono una madre di circa 60 anni (perverso/narcisista)
e una figlia intorno ai 35 anni (vittima); compaiono sullo sfondo, o nei discorsi, il marito della figlia
e alcuni parenti, usati dalla madre come veicolo per colpire la figlia.
L’abbondanza di materiale ha obbligato una drastica selezione degli episodi, riducendoli
ai più significati; le scene sono ulteriormente divise per argomenti emblematici, che spiccano
per la loro forza, ma presentano la stessa finalità del perverso-narcisista:
la riduzione dell’altro a un oggetto, incapace di intendere e volere, devitalizzato.
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GLI ARGOMENTI SONO:
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1. “Mettiti il cappello che poi t’ammali”,
ovvero  LA BAMBINIZZAZIONE.
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2. “Certo che tuo marito suda tanto!”,
ovvero  LE CRITICHE.
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3. “Io farei così, ma tu fai come credi meglio”, ovvero  PRESSIONI & INTRUSIONI.
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4. “Scusami se esisto”,
ovvero  IL SENSO DI COLPA.
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Spesso risulta difficile scinderli: i loro contenuti sono talmente intersecati che si fondono
l’uno nell’altro. Di seguito riporteremo alcuni esempi, evidenziando il tema attraverso il colore.
La seconda parte è il contributo personale di 41, un uomo di 45 anni, celibe e intellettuale,
che si destreggia tra i genitori (e la sorella, più anziana) per non venire annullato in una struttura
relazionale che egli definisce “siamese”.
Come scrisse Il Poeta, “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate”, apriamo ora la porta su questi mondi
famigliari tanto distanti quanto vicini e, con la luce di una guida, addentriamoci senza paura:
siamo dei viaggiatori che esplorano le profondità del male per tornare infine “a riveder le stelle”.
Buona lettura.
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1. “Mettiti il cappello che poi t’ammali”,
ovvero  LA BAMBINIZZAZIONE.
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• In auto, lungo il corso alberato che porta fuori città. La madre e la figlia discutono di faccende
quotidiane che riempiono e ingolfano la vita: spesa da fare, cena da preparare, bucato da stendere.
“In tintoria vado io, se arriviamo presto”, dice la figlia, mentre l’auto sfila sul rettilineo d’asfalto
e le montagne si avvicinano. La madre si volta di scatto e la fissa incredula:
“Ma ci sono due cappotti e pesano!”, la sfida.
“Ho portato una cassa d’acqua. Posso portare anche due cappotti: non sono più bambina”.
Il fastidio riempie l’abitacolo: “Fai come vuoi”, risponde la madre, “Io lo dicevo per te!”.
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• Finocchi crudi in insalata per pranzo, affettati sottili e conditi con sale-olio-aceto.
“Tuo marito ha avuto una bella pazienza a insegnarti a guidare”, dice la madre,
osservando i movimenti della figlia.
“Però alla fine ce l’ho fatta”, le risponde orgogliosa, “Anche se ci ho messo un po’!”.
“Visto che hai preso il volo e sei riuscita a prendere la patente, dovresti fare così
con tutto il resto”, sentenzia vaga.
“Nel finocchio metti troppo olio, metti solo quello che ti serve... impara”,
e afferra la bottiglia per versarlo.
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• “Mercoledì ci sono le targhe alterne e voi dovete portare la coniglia dalla veterinaria:
come fate?”, chiede la madre.
“La portiamo un altro giorno”.
La madre alza le sopracciglia perplessa e cambia argomento:
“Prendo una fetta di pesce spada per tuo marito e anche due salamini, così te ne do uno.
Non li hai i guanti?”, chiede osservando le mani livide della figlia.
“No”.
“Tieni”, e le porge un paio di guanti estratti dalla borsa.
“Non li voglio”.
“Dai, che fa freddo”, insiste.
“Ho detto che non li voglio”.
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“Cosa fai oggi?”, dice la madre, ritirando i guanti.
“Gioco con la play station”, risponde la figlia, evasiva.
“Pulisciti le unghie per domani”, le dice, osservandole meglio le mani.
“Mamma, per favore!!! Ci arrivo da sola: non ho bisogno che me lo dica tu!”,
risponde una figlia sentendosi l’infante perenne che necessità delle ossessive cure materne.
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• “Ritira la roba stesa fuori, altrimenti prende odore di muffa”, avvisa la madre,
osservando i panni stesi nel calar del sole.
“Da quando i panni stesi prendono odore?”, chiede la figlia ridendo.
“Questa mi giunge nuova. Te la sei inventata?”, e continua a ridere, ma la faccia offesa
della madre smorza il divertiemento e la figlia torna seria.
“Quando avrò tempo la ritirerò”.
“Domani esci?”. Il tono materno è inquisitorio.
“Devo andare al mercato e poi in macelleria per la lonza di maiale”.
“Prepari da mangiare anche se tuo marito ha l’influenza gastrointestinale?”.
Lo sguardo della figlia è un lanciafiamme, ma la madre sembra d’amianto:
“Vuoi che prima andiamo in banca o vuoi fare il contrario?”.
“Prima andiamo in banca”.
“Allora io mi trovo alle 10,30 sotto casa con il carretto per la spesa”.
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• “Non devi dettare i numeri del gas?”, indaga circospetta la madre.
“Quello è il compito di mio marito”, risponde la figlia, sbucciando le patate.
“Se lui una volta non potesse, tu saresti in grado?”, chiede impertinente.
“Non ci va mica una scienza: l’ho già fatto!”.
Il nervoso rischia di sbucciare anche le dita.
“Ricordati di portarmi il mangime per la coniglia”.
I cambi di argomenti, senza soffermarsi sulle conseguenze delle parole, sono naturali per la madre.
La figlia non ribatte: certe battaglie sono perse in partenza.
“A luglio mi daranno il rimborso del 730, così pago il mutuo. La differenza non mi serve,
perciò te la cedo: sarebbero soldi tuoi!”, comunica come se si trattasse di un’eredità.
“Sono sposata, quindi i soldi sono anche di mio marito. Non è un appestato”.
“Non dico mica questo: io li do a te e voi potete usarli per le tende”, si giustifica decidendo
la destinazione del denaro. Poi riflette:
“Tua suocera non da mai nulla a suo figlio? Neppure 5 euro?”.
“No”, sbuffa l’altra.
“Deve già aiutare la figlia prediletta...”, dice sarcastica.
“Per carità... è vero che non ce la fa, da sola e con un bambino da mantenere...”,
e scuote il capo.
“Hai pane grattuggiato per questa sera?”, chiede poi.
“Sì, perché?”.
“Perché oggi non esco. Non sto bene: ho voglia di rimettere.
Ho già avvisato il volontariato che questa sera non vado in ospedale”.
“Tu non vuoi darmi retta, ma è quel gioco della playstation... che figura fai”, la rimprovera
senza mostrare comprensione.
“Ma quale figura?!? Non sto bene e non è a causa del gioco!”, ribatte ferma, lasciando
una patata pelata a metà.
“Quante volte ti è capitato?”, chiede la madre inquisitoria.
“Altre, ma non con quel gioco lì”, si discolpa.
“Fai tu che sei intelligente”, si lava le mani la madre.
“Io ho già i miei problemi a cui pensare”.
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2. “Certo che tuo marito suda tanto!”,
ovvero  LE CRITICHE.
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• “Tuo marito parla nel sonno?”, chiede la madre dal nulla, dirottando la conversazione
e spiazzando la figlia.
“Sì, a volte”.
“Ma è ben finito?”, insinua, con fastidio.
“Io non parlo nel sonno, ma non sono ben finita!”, replica la figlia nel silenzio materno.
“Sei tu a dirmelo sempre”, le fa presente.
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• Accucciata a terra, con le spalle rivolte alla stanza e alla madre, la figlia ripone i bicchieri dentro
la credenza. La nuova casa e il trasloco le tolgono tempo ed energie.
“Avrete molte grane quando vi stabilirete in questa casa”, sentenzia la madre,
guardando fuori dalla finestra per spiare i movimenti dei dirimpettai.
“Perché?”, chiede la figlia, voltandosi senza alzarsi. In controluce, l’altra spiega:
“Tuo marito ha il vizio di tenere la televisione alta. Che brutte abitudini!
Non gli hanno insegnato l’educazione?”.
La figlia si alza in piedi e fissa la madre negli occhi:
“Anch’io posso aver preso delle abitudini vostre non belle: nessuno è perfetto!”.
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• Appena la figlia varca la soglia di casa, la madre cerca di soddisfare una sua curiosità:
“Tuo marito è andato a lavorare in ritardo stamattina?”.
Un punto interrogativo si materializza tra gli occhi della figlia e risponde senza capire
dove vuole andare a parare la madre:
“No: è andato in moto. Ci va del tempo ad andare in garage”, risponde giustificandolo.
La madre ha già perso interesse verso l’argomento e lascia la figlia libera di muoversi per casa.
Lei apre la finestra e rimane in contemplazione:
“Il tuo balcone splende”, esordisce con ammirazione.
“Non assomiglia certo al tuo!”, la riprende la madre, forzando le difese della figlia
su un argomento più volte trattato nelle loro discussioni.
“È talmente nero che non verrà mai pulito.
È stato trascurato dei precedenti proprietari!”,
si giustifica ancora la figlia, con rassegnazione.
“Un balcone così sporco è una vergogna.
Con tutte quelle briciole, poi, vengono pure gli scarafaggi!”,
la madre inorridisce profferendo questa frase e increspa le labbra nel disgusto.
La figlia lascia correre con un’ironia incompresa:
“Lo faccio apposta: do loro da mangiare”.
Fissa la madre e torna seria.
“Lo lascio così finché c’è quella roba depositata.
Lo rimetteremo in sesto la prossima primavera!”.
“Se non lo dici tu a tuo marito, lui lo lascia così”, sentenzia la madre.
“Lui è contento di come tieni la casa?”, le chiede sospettosa.
“Certo che è contento”, risponde la figlia, sulla difensiva perenne.
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• Una zia è in visita a madre e figlia. Parlano di case e arredamento. L’occasione ricorda alla madre
la vecchia stanza della figlia, ancora ingombra di oggetti del passato.
“Sono due anni che sei andata via di casa perchè ti sei voluta sposare,
quando liberi la camera?”, chiede risoluta.
“Chissà quando potrò avere la camera come voglio io?!”, si domanda a mezza voce,
certa di esser sentita.
“Appena ho un attimo di tempo”.
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“Come stai?”, chiede la zia, rivolta alla figlia.
“Sono molto stanca”, dice, enfatizzando la voce.
“Di fare cosa?”.
“Tra pulire, cucinare, lavare e stirare, mi fermo soltanto per mangiare”, calca la voce.
“Però non dici che hai avuto ospiti tutta la settimana”, puntualizza la madre,
saettando una punta di cattiveria per l’invidia.
“Chi?”, domanda curiosa la zia.
“I miei suoceri”.
“Sono venuti a romperti le balle?”, ride la zia dentro un luogo comune.
“No”, risponde decisa la figlia.
“Mi fa ridere tua suocera”, dice rivolta alla figlia,
“Diceva sempre che i figli vanno a trovarla una volta alla settimana, per un’ora,
e poi scappano”,
si gira verso la zia.
“E mentre lo diceva io pensavo tra me proprio come i miei:
vengono, mangiano e se ne vanno”, torna a guardare la figlia.
“Come fai tu: stai 10 minuti e poi scappi!”.
Il rancore è mescolato alla vendetta nelle parole della madre.
“Chi pulisce a casa mia? Vieni tu?”, raccoglie la provocazione.
“Cosa vengo a fare, se non mi lasci fare niente?”.
“Quella è casa mia ed è giusto che faccia io. Ho imparato da te:
tu facevi tutto e non mi lasciavi fare nulla”, si scarica la figlia.
“Io e tuo papà ti dicevamo di fare le cose, ma ti chiudevi nella tua stanza!”.
La zia è visibilmente in imbarazzo perché nota nella figlia l’impotenza della buona educazione:
“Non ti lamentare”, minimizza, rivolta alla madre.
“Hai la tua bambina vicino: se ti affacci al balcone la vedi!”.
La madre lascia perdere, ma aspetta che la zia vada via per esprimere la sua rabbia
con altri argomenti:
“Devo parlarti cinque minuti prima che andiate in montagna...”, dice in tono minaccioso.
“Visto che non ho mai cinque minuti per parlarti”.
“Va bene”, acconsente la figlia, attanagliata dall’angoscia.
“Volevo chiarire”, dice con tono acido.
“Che vengo in campagna anche se non ne ho voglia. Sono costretta, altrimenti tua zia
si piazza per una settimana a casa mia e io voglio evitarlo!”.
La figlia guarda attonita la madre che si allontana decisa, passando accanto alla cuccia del cane.
Un guaito sommesso attira la sua attenzione:
“Piccolino... vieni, che ti do un po’ di coccole!”, pronuncia con voce tenera.
La figlia non trattiene lo sgomento:
“A lui le coccole e a me le bastonate”.
“Non dire bestemmie”, ringhia la madre.
“Lui è stato operato!”, e gratta la testa dell’animale.
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• I saluti di rito, con sorrisi esagerati, per un incontro casuale tra le strade del quartiere.
“Il bambino di Mario è proprio brutto... non poteva esser diversamente: assomiglia a lui!”,
dice la figlia, fuori portata dall’udito dei conoscenti lasciati alle spalle.
La madre non gira neppure la testa nel sibilare:
“Mettiti uno specchio davanti”.
L’aria si blocca dentro le narici e lo stomaco si contorce per il pugno morale appena ricevuto.
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3. “Io farei così, ma tu fai come credi meglio”, ovvero  PRESSIONI & INTRUSIONI.
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• “Se vieni fino qui a piedi, cosa te ne fai della macchina?”, chiede la madre alla figlia,
rammentandole l’acquisto recente di una vettura.
“Non ti serve!”, sentenzia.
“Come ‘cosa ne faccio’? La uso”, risponde la figlia incredula.
“Tuo marito non ha due macchine?”, insiste la madre.
“Con la tua, fanno tre!”.
“E allora? Cosa dovrei fare, secondo te?”, chiede la figlia sulla soglia estrema della pazienza.
“Anziché pagare l’assicurazione per l’auto, potresti prendere il taxi. Io, e anche tu per i giri
che hai da fare, non spendo mai una cifra elevata come la polizza. Io ho diritto
ai buoni taxi: basta andare in Via San Domenico e fare la richiesta”, dice risolutiva la madre.
“Io non vado da nessuna parte! Dopo tutta la fatica per imparare a guidare,
adesso dovrei mollare?”, chiede esasperata. La madre batte in ritirata il tempo di bere
un bicchiere d’acqua.
“Non te la senti di guidare la Opel?”.
“La usa lui”.
“E la Marea?”, insiste la madre, proponendo l’auto appartenuta al padre, ora defunto.
“Io non guido quella macchina”, chiede la figlia risentita.
“Cosa dovrei fare secondo te?”.
Tacciono accomunate dalla sofferenza della perdita, ognuna nel proprio angolo.
“Quella macchina era di mio papà e va bene”, riprende la figlia.
“Tienila tu: all’assicurazione dal prossimo anno ci penso io. Mio marito si era già offerto
di pagarla, ma avevi preferito pensarci tu e avevi fatto tante storie.
‘Io la macchina non la vendo...’ hai detto”, rinvanga la figlia, imitando il tono della madre.
“Affittano un altro box qui sotto. Potresti lasciare il tuo...”, propone la madre.
La figlia mostra una smorfia di disgusto.
“Guarda che quel garage è al 3 sotterraneo ed è al chiaro”, la informa la madre.
“Io mai e poi mai vado al 3 sotto terra”, decreta la figlia.
“Primo perché se mi capitasse qualcosa di notte, nessuno mi verrebbe ad aiutare;
poi sono comoda al 2 seminterrato. Mio marito ha trovato il box al primo piano sotto
e non vuole andare al terzo. Oltretutto ti abbiamo già detto che di notte c’è di tutto
e io dovrei prendere il garage al terzo sotto? Tu sei bacata: non sei mica a posto”, le dice,
sventolando la mano davanti alla fronte.
“Al secondo seminterrato costa 20 euro in più al mese”.
“Ma dobbiamo fare quello che vuoi tu?”.
La figlia è spazientita.
“Ah no! Questo no! Se la metti così!”.
La madre allunga in avanti le braccia, ad allontanare le accuse e ritrae la schiena
affondando sulla sedia.
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• “Sono già arrivate le bollette della luce e del gas?”, chiede la madre,
sorseggiando un caffè d’orzo.
“No, per ora no”, risponde la figlia, soffiando dentro la tazza.
“Non ti interessi?”.
La madre posa il cucchiaino sul piattino.
“Hanno tutti dati: ce le manderanno quando sarà il momento!”, sussurra la figlia,
inghiottendo un sorso di caffè.
“È venuto il vigile?”, imperversa la madre.
“Per adesso no”.
“Non chiami per sapere come mai?”.
“No, per ora no”, risponde la figlia con un sospiro che si mescola all’inalazione di aria fresca.
“Telefona anche alla veterinaria”, le rammenta la madre, porgendole il telefono.
La figlia abbandona la tazza ancora colma e compone il numero.
Si alza e parla brevemente all’apparecchio, mentre la madre sciacqua le stoviglie.
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“Hai chiamato?”, le chiede quando posa il telefono.
“Sì: non c’è per 15 giorni. C’è l’altra dottoressa, dalle 15 alle 16; mio marito non può
prendere un permesso apposta per il coniglio!”, risponde la figlia, seccata.
“Andiamo io e te”, propone la madre.
“Grazie, ma andrò con lui quando torna la veterinaria. 15 giorni non cambiano nulla”,
taglia corto la figlia.
“A proposito”, cambia discorso intenzionalmente.
“Sono arrivate le maniglie nere per la cucina”.
“Chissà come stanno bene. Allora: la casa ti piace o no?”.
“Sì, mi piace”, risponde laconica la figlia, pensando ai suoi problemi da sempre ignorati.
“Ti piace di più dell’altra?”, insiste la madre, trovando nelle mura la rassicurazione
sulla salute della figlia.
“Dormi bene qui?”.
“Sì”.
“Meglio che di là?”.
“Sì, anche se i miei problemi rimangono”, sbotta la figlia.
“L’istinto di scappare a casa tua ce l’ho ancora”.
“Però hai fatto la tua scelta. Invece di fare così, dovresti ringraziare il Padre Eterno
che ti ha sposata, ti mantiene a casa e che non ti manda a lavorare.
Non pensare ‘alle tue fisime’. Per tutte è così: anche Caterina è sempre da sua mamma
con le due bambine. Le cose si affrontano e si superano”.
Mentre parla, la madre afferra uno straccio per spolverare.
“Mamma, per favore, lascia stare. Se mi vuoi aiutare, lascia fare a me e non passarmi sopra
come un buldozer: non prendermi il ruolo”, la implora.
“Ma va là, lo so che sei brava e che tieni bene la casa. Lo sai che non riesco a stare ferma!”.
Poi va nell’altra camera, tira su le tapparelle per fare entrare luce sulle piante,
come se fosse a casa sua.
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• Il balcone è il cruccio della madre: lo vuole immacolato.
“La vicina mi ha detto che hanno sbiancato il balcone con l’acido muriatico”,
dice osservando le chiazze di umidità lasciate dalla pioggia dell’ultima settimana.
Esausta per la ripetitività la figlia risponde in un sospiro:
“Vuoi che lo faccio io o vuoi farlo fare da mio marito?”.
“Se te la senti di farlo tu...”, risponde la madre, con il tono della povera donna.
Poi ritrova improvvisa energia:
“Cosa avete regalato a tua suocera?”,
“Una catenina d’oro: te l’avevo già detto”, risponde al filo della pazienza.
“Avete speso tanto?”, insiste.
“100 euro”.
“È abbastanza”, commenta la madre con una smorfia sulle labbra.
“Sì, ma siamo in tanti. Eppoi queste cifre non le spendiamo solo per i suoi...”,
si giustifica la figlia. La madre cambia repentinamente argomento:
“Se prendi la macchinetta, ti misuro la pressione”.
La figlia, soggetta ad abbassamenti repentini, porta lo strumento e solleva la manica.
La madre esegue con precisione medica tutte le operazioni e pigia sulla pompetta
fino a far scoppiare il braccio, poi legge con attenzione:
“La minima è 50 e la massima è 100: cosa vuoi che sia in confronto alla morte?”,
le comunica.
“A proposito, ho visto che hai lasciato il regalo per tua suocera sul tavolo della sala:
mettilo via prima che finisca in pattumiera!”.
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• “Non sei obbligata a delegare qualcuno che abita nella tua scala per la riunione
di condominio. Anche se io la darei alla signora Pia della scala C”, suggerisce la madre
nel corso di una visita.
“Ne parlerò con mio marito e decideremo”, cerca di tagliar corto la figlia,
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escludendola dal discorso e dalle decisioni della sua famiglia.
“Sei padrona anche tu: puoi decidere!”, la incoraggia con acidità.
“In terrazzo ho visto una scopa nuova: posso provarla?”, chiede cambiando repentinamente
argomento e tono. All’assenso della figlia, inforca la scopa e inizia a spazzare l’ingresso:
“Funziona bene!”, e intanto continua.
“Lascia stare”, intima la figlia, osservando la piega che sta prendendo la prova.
“Lasciami fare: ti aiuto. Tu stai sempre male”, e danza con la scopa tra le mani come
ai balli liceali. La figlia afferra il manico e glielo strappa.
“Basta mamma”, dice, tenendo fermo l’attrezzo. Il telefono squilla e la figlia risponde:
nella conversazione con un’amica perde di vista la madre. Il profumo di caffè intanto riempie
la casa. Al termine della telefonata la figlia trova la madre seduta al tavolo, intenta a sfogliare
una rivista. La tazzina di caffè è ancora davanti a lei.
“Mi sono preparata un caffè”, avvisa distratta.
La figlia annuisce.
“Poi ho pulito il gas”.
“Potevi lasciar perdere. Non te lo avevo chiesto”, la rimprovera.
“Era sporco! Adesso vado a casa!”, e si alza.
“Non puoi stare ancora un po’? Mi tieni compagnia mentre stiro!”.
“Adesso vado”.
Ha già messo a posto la sedia e infilato il soprabito.
“Stai ancora un po’”. La figlia è quasi implorante.
“Vado perché mi spiace lasciare il cane da solo”.
La figlia è sbigottita davanti alle priorità materne e un flash le ricorda il suo animale:
“Povera bestia! Ieri ho lasciato la coniglia in gabbia tutto il giorno e la sera ci graffiava
e mordeva per farci capire il suo disappunto”.
La madre coglie al balzo la situazione:
“Adesso che andate via 5 giorni non posso rintanare il cane e non farlo mai andare
in cucina perché c’è la coniglia!”.
Il suo tono rasenta lo sdegno.
“Il cane può girare nel resto della casa: la tua camera, il salotto, l’ingresso e il bagno.
Non lo chiudi mica nel ripostiglio come facevi con me quando avevo 7 anni!”.
Le parole le escono di getto, per il ricordo che le si è materializzato all’improvviso nella memoria.
“Si vede che te lo meritavi”, è la laconica risposta materna.
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• “Quando fate venire i signori Lippi a vedere la casa?”, chiede la madre, osservando
la figlia mettere il bucato in lavatrice.
“Siamo appena tornati dal fine settimana e ho una casa che fa schifo.
Inoltre mio marito ha appena finito di restaurare l’armadio e c’è polvere dappertutto.
Domenica poi è la festa della mamma...”, elenca la figlia, quasi a giustificarsi.
“Ma non vanno via domenica?”, insiste la madre, mettendo urgenza.
“No, andranno via lunedì o martedì”, intanto mette il detersivo nella vaschetta.
“A proposito: domenica c’è il concerto di Anna e Paolo. Vieni?”, e aziona la lavatrice.
“Il solo pensiero di ascoltare quella nenia mi procura il voltastomaco”, dice la madre,
portandosi la mano sulla pancia.
“Tu verresti per me”, risponde la figlia, guardandola negli occhi e senza sortire reazioni.
La lavatrice carica e il rumore attutito dell’acqua riempie il silenzio.
“Oggi pomeriggio dobbiamo tornare al Caf. Che stupidi”, dice la madre.
“Potevano dirmelo che serviva il 730 dell’anno scorso, almeno avremmo fatto tutto
questa mattina”.
“Già”, risponde laconica la figlia, con la lavatrice a cullare i suoi pensieri.
Pensa di non farcela a sopravvivere e che le sembra di non esser mai andata via da casa
di sua madre. Pensa che la sua vita sarà sempre a disposizione della genitrice vedova
e delle sue necessità, tra il Caf e il cimitero e la spesa al mercato.
Pensa che ha un marito e una casa da mandare avanti e una vita da costruire.
“Già”, ripete in un sospiro.
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4. “Scusami se esisto”,
ovvero  IL SENSO DI COLPA.
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• La competizione all’interno delle famiglie è paragonabile alle gare nei circuiti di formula uno:
anche se della stessa scuderia, ogni pilota pensa a sé.
“Tua cugina ha rotto col fidanzato”.
La madre informa così la figlia sull’ultimo gossip.
“Ah sì?”, chiede l’altra disinteressata.
“Alla sua età, come farà trovarne un altro... si vede che quella ragazza ha qualcosa
che non va. Quanti dispiaceri danno questi figli ai genitori! Ringrazia il Padre Eterno
che tu hai trovato qualcuno che ti ha sposata”, sentenzia la madre, scuotendo la testa
con gravità. La condizione di single è una maledizione per la madre, che trascura la somiglianza
con la propria vedovanza. Con malizia la figlia cerca di rammentargliela e di zittire
i rigurgiti di cattiveria:
“Sono davvero fortunata, io! Certo che mangiare da soli è proprio brutto”
Un lampo sfreccia dagli occhi della madre.
“Sì”, replica stizzita.
“Ma non è la fine del mondo: si sopravvive”.
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• La figlia ha organizzato una cena in montagna con i suoceri, ma la salute precaria la obbliga
a rinviarla. In cucina, davanti a una tazza di te, colloquia con la propria madre,
in quello che sembra più un interrogatorio:
“Va un po’ meglio di ieri, però non mi sento ancora di uscire. Infatti domani non andiamo
in montagna”.
“Meglio! Stai a casa e riguardati. Vorrà dire che pagheremo la mora per l’affitto...
pazienza”,
sospira la madre.
“Quando scade la rata?”, chiede preoccupata.
“Oggi”.
“Non si paga la mora per un giorno di ritardo”, risponde sollevata.
La madre si disinteressa subito dell’argomento perché la sua mente è già altrove:
“Come fai con il cibo che hai preparato?”.
“Non ho ancora preparato niente. Non lo faccio apposta a stare male!”, risponde seccata
per il disinteresse della madre verso il suo stato di salute.
“Vabbè, adesso vado: devo portare fuori il cane!”.
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• Il telefono squilla alle 7,30. La voce della madre tracima lacrime e dolore:
“Ti spiace portarmi fuori il cane? Sono stata male tutta la notte per l’influenza
gastrointestinale. È brutto quando sei sola”, e prende a piangere.
“Va bene, ma potevi chiamarmi!”.
La figlia si giustifica per il senso di colpa che le nasce dalla sensazione di aver abbandonato
la madre. Dopo la passeggiata mattutina del cane ed essersi accertata sulla salute della genitrice,
la figlia torna a dormire. Il sonno è breve e viene interrotto nuovamente dal telefono:
“Ho chiamato il dottore. Non viene a domicilio perché ha tante visite e io non ho la febbre.
Mi ha prescritto delle medicine, ma io non me la sento di uscire. Puoi andare tu?”,
le chiede implorando, con la voce ancora piena di lacrime.
“Vado un po’ prima di mezzogiorno”, acconsente la figlia, a metà tra il sonno e la veglia.
“Ha detto che devo prenderle al più presto”, e carica la voce di urgenza.
“Stavo dormendo mamma: dammi il tempo di alzarmi e di fare colazione”.
“Stavi dormendo... scusami”, col tono piagnucolante. Quando la figlia arriva con le medicine,
porta il cane a estinguere i propri bisogni organici.
“Mi spiace: guarda che mattinata che ti faccio passare”, dice la madre mordendosi
il labbro inferiore. Sollevata da questa attenzione, la figlia si commuove:
“Torno oggi per portare a spasso il cane e vedere come stai!”.
567
“Vuoi del pesce per questa sera?”.
“No grazie: ho la carne da finire...”.
“Abbi pazienza ancora per questa sera... per il cane...”.
“Sì sì, lo porto io, non c’è nessun problema”, la rassicura.
“Ci mancherebbe... se non stai bene... Non sono come tanti figli che una volta sposati
si lavano le mani dei genitori: ogni volta che avrai bisogno noi ci saremo”,
e include nel discorso anche il marito.
“Abbi pazienza: se domani sto meglio il cane lo porto io”, piagnucola.
“Va bene mamma”, e anche questa volta l’esasperazione prende il possto della comprensione.
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• La tensione è alta: madre e figlia mescolano il malumore insieme allo zucchero nel caffè.
La causa è l’ennesima visita veterinaria del cane.
“Sai quanto ho speso finora? 1.000 euro!”, urla la madre, alzando il dito indice.
“Tu hai voluto il cane e gli altri devono soffrire e soccombere! Te lo dico sin d’ora:
sappi che quando non ci sarà più quell’animale lì, non ne voglio altri!”.
“Il cane è anche tuo”, replica la figlia, rossa dal nervoso. La madre alza gli occhi al cielo
e si prepara per lo scontro:
“Sai cosa non va nella mia vita?”, chiede in un sibilo. La figlia è carica di rabbia.
“Tu sei un lamento continuo. Anche quando c’era papà non ti andava mai bene niente.
Sentiamo cos’hai da dire... tanto io sono il bidone dell’immondizia dove tu rovesci tutto!”.
“Come facevi tu con me, ora io faccio con te”, risponde la madre abbozzando
un sorriso sarcastico.
“Se non parlo con te, con chi parlo?”, urla.
“Ma tanto a te non interessa. Hai mangiato e adesso te ne vai: hai avuto quel che volevi!”.
La discussione è un tiro alla fune dell’affermazione.
“Devo andare a preparare da mangiare per questa sera!”.
La madre sbuffa e volta le spalle:
“Oggi porto fuori io il cane mentre passo a prendere la terra per i vasi!”, sbotta.
La figlia è sbigottita. Il coltello del senso di colpa gira nella sua carne.
“Da come mi hai trattata l’altro giorno, adesso cercherò di disturbarti il meno possibile”.
Per stemperare il nervoso la figlia raccoglie il cane tra le braccia e lo coccola, salutandolo sottovoce.
La madre si infervora di maggior rabbia:
“Non hai detto che dovevi andare a casa? Sei ancora qui? Dai i baci di Giuda
anche al cane!”.
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• Il cane è riverso a pancia in su, per prendere le coccole e intanto si contorce di goduria.
La figlia gli parla con tono infantile:
“Tra qualche giorno ti portiamo in montagna... te e la mamma”.
La mamma si porta una mano dolorosa al petto:
“No no, lasciami stare qui. Voi andate per la vostra strada!”.
La figlia continua ad accarezzare la pancia del cane e intanto guarda la madre:
“Vieni anche tu, così prendi un po’ d’aria buona”, quasi implora.
“Basta aprire la finestra per prendere dell’aria buona”, dice sarcastica.
“Poi ad agosto non c’è nessuno nella scala e non mi va di andare via!”.
“Non è vero: c’è la Bianchi!”.
La figlia cerca il compromesso.
“A una novantenne fanno in fretta a dare una botta in testa”, dice la madre con cattiveria.
“La settimana scorsa eri propensa a venire. Queste sono scuse. Forse ti da fastidio
la nostra compagnia?!”, sibila la figlia. La madre si inalbera:
“Se vieni qua in pace, sei la benvenuta; se vieni per fare polemica, evita”.
“Non faccio polemica. Alcuni figli non si fanno problemi a lasciare i genitori per le vacanze.
Tu che hai la possibilità di cambiare aria e di stare in compagnia, non vieni”.
“No, non vengo e la prossima volta pensa prima di parlare”.
“Se sei contenta così”, dice la figlia, combattendo coi sensi di colpa.
“Non sono contenta, ma sono costretta a farlo per il quieto vivere”.
568
“Cioè?”, chiede chiarimenti la figlia.
“Mi sembra di stare in prigione. Te l’ho già detto!”.
“Non sei in prigione. Non ti segreghiamo in una stanza e non ti obblighiamo
a stare seduta su una sedia tutto il giorno. Ti ho solo detto che faremo le faccende di casa
a metà. Non è giusto che faccia tutto tu. Non voglio approfittare di te, oltretutto
coi tuoi problemi di salute...”.
La madre non ascolta, assordata dalle proprie convinzioni. Il cane intanto si lecca il pelo.
“Ha chiamato l’assicuratore e mi ha consigliato di aumentare il premio.
Non so cosa fare e a chi chiedere consiglio”, esordisce dal nulla, come se nulla fosse.
“Chiedi a mio marito”, propone la figlia.
“Lascia perdere. Con lui non si può parlare: ha certi modi...”, e accompagna le parole
con una smorfia.
“Mi porti fuori il cane?”, chiede quasi solare.
“Non posso”, replica la figlia per non dire che non vuole.
“Se vuoi lo porto fuori domani”.
“Ma io ho bisogno oggi, non domani”.
“Devo andare a casa per le pulizie e devo ancora fare la spesa. Stamattina sono uscita
più tardi del previsto dal dentista”, spiega la figlia.
“Domani lo porto fuori e poi mangio da te”, propone.
“Non so se mi sento di cucinare domani!”, dice sconsolata.
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Spesso i registri si mescolano, passando con disinvoltura da uno all’altro.
Infatti, in un’unica conversazione ritroviamo senso di colpa mescolato a bambinizzazione mescolati
alle critiche alle pressioni e alle intrusioni, come mostra l’esempio di seguito.
Lo scopo è il medesimo: il disorientamento della vittima per giungere alla sua disfatta finale.
CRITICHE.
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“Che balcone sporco hai!”, dice la madre disgustata, guardando attraverso le porte finestra.
“Come fai a stare con un balcone così? Il nonno diceva che il balcone
è lo specchio della casa!”.
“La mia casa è pulita. Questa primavera sistemeremo il balcone!”.
“Ma togli un po’ di roba”, insiste la madre.
“Va bene così” insiste la figlia, in un testa a testa.
BAMBINIZZAZIONE.
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La madre si siede sul divano:
“Mi dai il bollettino? Te lo compilo!”, svia il discorso, in una resa apparente.
Sta semplicemente cambiando terreno per il suo eterno attacco.
“Mio marito ne ha preso uno solo, per me. Domani, quando andiamo in posta,
ne prendiamo uno anche per te”.
“Allora bisognerà tornare un’altra volta?”, chiede la madre sbigottita.
“Perché? Lo compileremo lì”.
“Allora devo darti il codice fiscale!”, si preoccupa la madre.
“Va bene, tanto ci pensiamo noi a fare il versamento”.
SENSO DI COLPA.
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“Mi avete abituata male: troverò duro”, si dispera la madre.
“Noi te lo dicevamo. Volevamo insegnarti, ma tu non sentivi.
Tutte le vedove si sono abituate ai cambiamenti e non è mai morta nessuna”.
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PRESSIONE & INTRUSIONE.
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“Ce l’hai ancora quella cosa che non ti piace e che non vuoi?”, chiede la madre,
alludendo ai disturbi della figlia per spostare il discorso dalle proprie debolezze.
“Sì, perché vorrei tornare a casa tua, che mi hai resa dipendente! E questo non va bene”.
“No: sei tu che ti sei resa così”, si scagiona la madre arretrando il corpo.
Poi afferra uno straccio e inizia a pulire i fuochi della cucina.
“Mamma, per favore, lascia stare. Ho già i miei problemi quando voglio scappare da te.
Per piacere: non passarmi sopra”.
“Mica ti passo sopra. È troppo comodo dare la colpa agli altri”, e le agita lo straccio
sotto il naso.
“Tutte le mamme aiutano le figlie, quando vanno a casa loro”.
“Con i miei problemi, voglio fare da sola”.
La madre finge di non sentire e continua, imperterrita a pulire i fuochi, come fossero i propri.
BAMBINIZZAZIONE.
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Dopo un breve silenzio, chiede:
“Quando vai a prendere il giochino della Playstation?”.
“Penso la settimana prossima. Ho giocato un po’ di giorni fa, ma se gioco troppo, sto male”,
e fissa la madre, in attesa di verificare la reazione.
“Coi tuoi problemi di nervi è meglio non esagerare, visto che influisce sul cervello”.
La figlia scuote la testa per l’incapacità materna di comprendere l’origine dei propri problemi.
CRITICHE.
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Come se nulla fosse, la madre continua su argomenti diversi:
“Quella piantina grassa prende poca luce e sta mettendo delle foglie bianche:
non puoi sistemarla al posto del posacenere?”.
“Mi piace lì”, taglia il discorso la figlia.
BAMBINIZZAZIONE.
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La madre si guarda attorno:
“Adesso me ne vado. Sei proprio bravina con la casa, ma devi cercare di crescere figlia mia.
Ciao, ti chiamo”, e le scocca un bacio sulla guancia.
Veniamo ora alla seconda parte e al contributo di 41.
1. SIAMO UNA FAMIGLIA SIAMESE.
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È un continuo stare addosso agli altri (il figlio), starsi addosso gli uni agli altri. L’attenzione al sé
familiare (il figlio, il coniuge) è ossessiva e totalizzante. Lo sguardo è focalizzato sempre e solo lì:
il resto è visione periferica che non mette a fuoco, non vede; sensibile al movimento è sfuocata.
È un continuo cercare occasioni di contatto formale; l’insufficienza (qualitativa) emotiva e affettiva
del rapporto cerimonioso e rituale è compensata (quantitativamente) dalla frequenza continua,
assillante. I bambini necessitano e richiedono attenzione continua; il vostro rapporto con i figli
è immaturo (voi siete immaturi) e lo avete congelato (continuate a tenerlo congelato, con sforzo,
volontà, energia, come il motore di un frigorifero che brucia energie per raffreddare) allo stadio
infantile. I vostri figli sono stati, sono e saranno sempre i vostri bambini: bambini innanzitutto
e vostri, posseduti da voi. Voi siete stati, siete e sarete sempre i loro genitori; i Genitori,
perché solo in questo ruolo e funzione vivete. L’attenzione continua e ossessiva alla persona
del figlio è la routine di un rapporto infantile imbalsamato e incorruttibile; l’imbalsamazione dona
immortalità all’essere umano trasformandolo in mummia.
570
LIVE (accade mentre scrivo sul computer portatile).
Mia madre sta preparando le tazze per la colazione di domattina dopo aver accennato a preparare
il divano letto su cui dormirò; mio padre è in bagno, esce, chiude le finestre (della stanza
in cui siamo e in cui continuerò a stare dopo che loro saranno andati a dormire al piano superiore).
• Padre:
“Prepari il letto a D. o se lo prepara lui?”.
• Madre:
“Mah... in ogni caso bisogna andare a prendere il cuscino sopra”.
Il Padre va a prendere il cuscino, scende: “Il letto è ancora da aprire!”.
• Madre:
“Se lo apre poi lui, adesso gli darebbe fastidio”.
• Padre:
“Noi andiamo a dormire, tu continua pure a scrivere e poi fai tanti saluti
a quelli a cui scrivi da parte del tuo vecchi padre che non capisce niente
di queste diavolerie elettroniche”.
• Madre:
ride soddisfatta e compiaciuta, guardando con sguardo pregno di maternalità
e moglietà i suoi due uomini’: “Buonanotte, buonanotte, baci, baci”.
• Padre:
“Se hai sete, nel frigo ci sono tante bibìte”, con l’accento spostato,
alla Ollio e Stanlio: linguaggio bambineggiante-scherzoso, consueto.
• D.:
“Non lo avrei mai immaginato”, sarcastico.
• Padre:
“Se non te lo dicessi, tu non lo sapresti mica!”.
• D.:
“E già, sono un po’ tonto”, ironico. Tace, buona notte.
Il sistema chiuso è espresso chiaramente dall’ambiente: le porte, le finestre sono sempre (semi)
chiuse. L’aria è stantia. Se uscite (anche solo per andare in giardino, sotto le finestre) chiudete tutto.
Anche quando siete in casa, chiudete sempre. Chiudete perché c’è il sole e allora scalda, chiudete
perché sennò farebbe corrente, chiudete perchè non c’è più il sole ed è inutile tenere aperto,
perché potrebbero entrare le zanzare, perché c’è rumore, perché non c’è motivo di lasciare aperto.
2. GIOCATE D’ANTICIPO PER MANTENERE IL SIMULACRO DEL CONTROLLO.
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Anticipate ogni azione che potete. Un bordone continuo d’inutilità. Una situazione di assedio
o di guerriglia. Nei momenti di tregua non oso (oppure oso con imbarazzo) agire per non riattivare
l’attenzione. Tirare fuori un fazzoletto significa tirarsi la domanda: “Sei raffreddato?”, grattarsi
una gamba: “Ti ha morso una zanzara?”, schiarirsi la gola: “Hai la tosse?”. Ogni azione ha la
risposta di una reazione immediata che la giustifica sulla base delle regole del gioco e le rinforza.
Conversazione reale tra Padre, Madre e D. (figlio):
• Padre /Madre: “Vuoi il sale?”.
• Padre /Madre: “Vuoi il pepe?”.
• Padre /Madre: “Ti basta così?”.
• Padre /Madre: “Qui c'è ancora del formaggio?”.
• D.:
“Lo vedo!”.
• Padre /Madre: “Se vuoi c’è ancora dell’insalata”.
• D.:
“Lo vedo!”.
• Padre /Madre: “Vuoi ancora un po’ di vino?”.
• D.:
“Quando voglio ne prendo!”.
• Padre:
“Ma vedi, noi siamo i padroni di casa, tu sei nostro ospite
e noi dobbiamo fare così!”.
• Madre:
“Ma lui qui è a casa sua!”.
• D.:
“Ma allora se sono a casa mia, non sono ospite”.
• Padre:
“No, tu qui sei il padrone!”.
571
3. L’INFORMAZIONE È CONTRADDITTORIA E SE LO SI RIVELA,
SI GLISSA O SI VIRA SULLO SCHERZO.
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Vivete in un mondo irreale. Un vostro mondo inventato, fragile e incoerente che - come un castello
di carte - resta in piedi solo se non c’è alito di vento, se non c’è urto al tavolo che lo sorregge.
Quando interferisco attivamente e vi mostro e dimostro che il vostro mondo è incoerente, voi
sfuggite e glissate, divergete con manovre più o meno esplicite, più o meno abili e sottili, sempre
efficaci. Potrei vanificarle insistendo, ponendo e imponendo io altre regole (giuste, reali, concrete,
normali) al gioco, ma spostarle può solo apparire un atto di follia al sistema che ha proposto,
imposto, adottato quelle regole e che le usa (e le ha sempre usate) per sopravvivere.
• Madre:
• D.:
“C’è una bottiglia di acqua fredda per te e una meno fredda per noi”.
“Questa non è quella fredda!?”.
• Padre:
“Sì, quella è la tua; a noi troppo fredda non piace!”.
• D.:
• Madre:
“Ma questa è appena fresca”.
“Ma è stata in frigo tutto il giorno! Eh, questo frigo non funziona bene,
è proprio una baracchetta”.
• D.:
• Madre:
“Certo che se questo è il massimo del freddo...! Ma è al massimo?”.
“Sì, va bene così. È che proprio non ce la fa”, seccata,
“Ci hanno dato proprio una baracca che non vale niente!”.
• D.:
• Padre:
“Ma adesso è al massimo?”.
timidamente, “Lo teniamo sempre sul 2 o sul 3”.
• D.:
“Allora dovreste aumentare!”.
• Madre:
“Sì, ma poi gela tutto!”.
4. UN ANEDDOTO.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Padre:
“Hai sentito di quell’incidente d’auto qui vicino, in cui sono morti padre
e madre e invece i due bambini, di 4 e 6 anni, seduti dietro,
non si sono fatti niente?”.
• D.:
“Mio Dio, che brutta cosa”.
• Madre:
• D.:
“Tu pensa adesso... quei poveri nonni!”.
pausa attonita, “Con tutto il rispetto per i nonni, io penso
a quei poveri bambini”.
• Madre:
• D.:
“Si, però... poveri nonni, con due bambini piccoli da allevare”.
“E i due bambini orfani?”.
• Madre:
“Si certo, poveri bambini... però i nonni...”.
Dove la radice? Quante le generazioni di complici attivi hanno fatto crescere questa situazione?
Siete stati i kapò di una dittatura inesistente ormai morta, tra le mura di una Auschwitz
di cartapesta, a Cinecittà.
STORIELLA ZEN.
Quando Tzu-Gung viaggiava nelle regioni a nord del fiume Han vide un vecchio che lavorava
nel suo orto. Aveva scavato un canale per l’irrigazione.
L’uomo si calava in un pozzo, portava su a braccia un recipiente pieno d’acqua e lo versava nel canale.
Compiva così sforzi terribili con risultati apparentemente mediocri.
Tzu-Gung disse: “C’è un sistema con il quale potresti irrigare cento canali in un giorno con uno sforzo
minimo. Non ti piacerebbe conoscerlo?”. Il contadino si alzò, lo guardò e disse: “E quale sarebbe?”.
Tzu-Gung replicò: “Prendi una leva di legno, pesante dietro e leggera davanti.
572
In questo modo potrai portar su l’acqua con la stessa rapidità con la quale la sgorga”.
Allora il vecchio si arrabbiò e disse: “Ho sentito dire dal mio maestro che chiunque si serve
delle macchine fa il suo lavoro come una macchina e a colui che fa il suo lavoro come una macchina
viene un cuore come una macchina e colui che ha in petto il cuore di una macchina perde
la propria semplicità. Colui che ha perduto la propria semplicità diventa malsicuro nelle lotte dell’anima
e l’incertezza nelle lotte dell’anima è qualcosa che non concorda con l’onestà.
Non è che io non conosca queste cose; mi vergogno di adoperarle”.
SNOM è un abile manovratore della realtà. Usa il paradosso per esprimersi e cambia continuamente
la versione dei fatti a proprio vantaggio. Forte di un narcisismo perverso, attacca DEVI,
ma è capace di manipolare la realtà, passando da carnefice a vittima.
Il tono della voce è tra gli elementi che lo aiutano nel processo mistificatorio della verità oggettiva;
le variazioni di tono creano ambiguità attorno al suo messaggio, anche se talvolta la parola
gli crea dei problemi che risolve con la fuga. Alcuni dei moderni mezzi di comunicazione eludono
questo rischio. L’assenza del fisico e della voce in e-mail, SMS, chat-line facilitano il lavoro
di distruzione psicologica di SNOM ai danni di DEVI.
Le intenzioni di SNOM restano ancora più ambigue e scaricano su DEVI il peso della loro
interpretazione. DEVI vi attribuisce infatti dei significati che SNOM smentisce, indipendentemente
dal loro valore e contenuto. Questi new media sono la moderna manifestazione dell’evangelico
“tirar la pietra e nascondere la mano”, con la certezza perversa di colpire e ferire il bersaglio.
A.
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Nelle fitte trame della chat-line si annida e prospera SNOM, alla ricerca di un qualsiasi DEVI
con cui saziare le brame distruttive. In questo primo caso, dopo una relazione “virtuale”,
SNOM (uomo sposato) e DEVI (donna nubile) si sono incontrati e hanno iniziato una relazione
(extraconiugale per lui), che si è sviluppata tra gli alti e bassi dei capricci e dei bisogni di SNOM,
con grande sofferenza per DEVI. Lo scambio di e-mail che segue mostra quanto sia complesso
e avvolgente il comportamento di SNOM nel tentativo di tenere DEVI sotto il proprio controllo.
Cara, carissima DEVI,
non riesco a resistere più a lungo senza mettermi in contatto con te... sei una donna troppo speciale
e averti conosciuto rende praticamente impossibile accettare l’idea che tu non possa più esserci
nella mia vita... almeno così succede a me.
Già, mi accade questo, e sono troppo sincero - e severo - con me stesso per fingere che non sia così.
Non posso farci nulla, non so se leggermi ti farà male o bene, ma... “devo” scriverti.
Ho una dolorosa nostalgia di te, questa è la verità.
Ho preso una decisione, sì, sofferta e grave, tormentata... e ci sto mettendo l’anima,
come il mio segno zodiacale prevede, ma tu... tu non puoi scomparire così, a comando, dalla mia vita:
non so se qualcun altro ne sarebbe capace, so solo che per me è impossibile.
Io vivo una realtà... irreale, se mi passi il termine.
Con mia moglie riviviamo il 1978, il nostro primo anno di matrimonio, solo che lei... è lei,
e contemporaneamente... un’altra: ti giuro che non riesco in alcun modo a farti percepire
ciò che mi accade, ciò che sento. È una donna molto diversa da te, naturalmente,
ma una donna straordinaria comunque. Chi potrebbe dire di me che non sono un uomo fortunato?
Viviamo di nuovo tutti insieme, ormai. Riorganizzarsi è stato complicato e anche stancante.
Con mia moglie il dialogo è ripreso a fondo, tra alti e bassi, ma so già che sarà un percorso lungo,
delicato, che richiederà molto impegno e autocontrollo da parte mia:
sto davvero mettendocela tutta. Parliamo molto, tutti... ci riscopriamo,... ricostruiamo...
anche con fatica, ma con grande sentimento. Io non entro più, per ora, in chat,
sia per questo e sia... perché... Ti penso. Continuamente. Teneramente. Dolorosamente.
Se vivo un’indefinibile contraddizione, la vivo con tutto me stesso.
Viverla mi da - chi potrebbe crederlo? - un dolcissimo dolore.
Ti abbraccio come sai.
SNOM.
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La risposta di DEVI è la parata all’affondo di SNOM.
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Tesoro...
... non sei obbligato a farmi sparire dalla tua vita... Tu sei presente nella mia, per quello che c’è stato,
per quello che c’è e non per quello che avrebbe potuto esserci (nessuno può saperlo
e io non impazzirò nel rimpianto di una cosa non avvenuta). Non mi fa male leggerti, nei lunghissimi
giorni passati dall’ultima volta che ci siamo sentiti, sapevo benissimo che ero ancora nei tuoi pensieri
(anche nel tuo cuore???) e sapevo che non avresti resistito per ancora lungo tempo...
Ma devo ricordarti una cosa: io continuerò ad ascoltarti come e quando vorrai, e potrai raccontarmi
di tua madre, dei tuoi figli, del tuo lavoro, della tua futura ritrovata serenità (spero...)
o del tuo malessere interiore (se ne avrai...), insomma: di qualunque cosa... TRANNE UNA...
Non voglio sapere nulla del tuo rapporto tra te e tua moglie: parlandomi di lei
(in un senso o nell’altro) mi “annulli” e questo non lo posso, non lo devo, non lo voglio accettare!
Con tutto il mio cuore, buona fortuna.
DEVI.
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SNOM risponde ancora, tentando di riagganciare DEVI.
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... ricordi cosa ci siamo scritti non molto tempo fa? Che entrambi avevamo trovato,
l’uno nell’altra, tutto ciò che una donna e un uomo potessero desiderare... amicizia,
confidenza, attrazione, sintonia, conforto... passione... Ed è stato con questo spirito che ti ho scritto:
non mi accade, cioè, nulla di forte, di intenso, che io non senta il bisogno di condividere con te.
Perché sei la donna con la quale è nato il rapporto più completo,... totale che io potessi desiderare.
Mi contraddico da solo? Non lo so... so solo che ho bisogno di questo filo che mi lega a te:
è così ed è inevitabile. Ti bacio teneramente e... lentamente, come sai.
SNOM.
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DEVI non risponde. Il tentativo di SNOM fallisce, salvando DEVI da una disfatta totale.
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B.
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SNOM si sente al centro del mondo e - nella sua immensa magnanimità - concede se stesso a DEVI,
lasciandole apparentemente ogni decisione sulla sua volontà, come dell’estratto di e-mail qui sotto.
SNOM e DEVI si sono conosciuti tramite un web log, vivono in città distanti, hanno iniziato
una relazione che SNOM ha interrotto più volte.
...
di mio ho poca voglia di fare cose / vedere gente questo week end
però ho molta voglia di vederti e di vederti felice
non sarebbe una costrizione,
ma una cosa che farei volentieri
non “per te”
anche se lo meriteresti
però è vero: non ho molta voglia, questo week end
però se a te fa piacere, anche a me fa piacere
(1°
(1°
(2°
(2°
(3°
(3°
(4°
(4°
passo - negativo)
passo - positivo)
passo - negativo)
passo - positivo)
passo - negativo)
passo - positivo)
passo - negativo)
passo - positivo).
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SNOM, affermando l’importanza di DEVI, ne nega il valore, in un balletto di tira e molla
dove non esprime mai apertamente il suo desiderio.
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574
C.
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Gli SMS che seguono sono diversi tentativi di SNOM di riagganciare altrettanti DEVI con messaggi
dai contenuti vuoti (come gli ami gettati nel mare, qualche pesce prima o poi abbocca).
1.
SNOM: “Avrei potuto chiamarti (ovvero: possibilità virtuale di un passato prossimo)...
ma non sapendo se la cosa era gradita (ovvero: colpevolizza DEVI)...
sembra strano, ma non so cosa dire (ovvero: parla di sé e ammette
con stupore i propri limiti)...
comunque volevo augurarti buona pasqua”. (Senza firma).
DEVI:
“Grazie. Buona Pasqua anche a te. Ciao, DEVI”.
2.
SNOM: “Ciao bella biondina. 1000 impegni mi hanno tenuto lontano da te,
ma il mio pensiero si è posato spesso su di te. Un saluto pacioso”. (Senza firma).
DEVI:
“Ciao uomo di mondo. Tanti bei pensieri anche a te”. (Senza firma).
3.
SNOM: “Ciao bellezza, come va la tua nuova casa?”. (Senza firma).
DEVI:
“La prossima settimana ho il palchettista: prevedo folla e follia in 60 mq.
Com’è stata la lezione di teatro?”. (Senza firma).
SNOM: “Intima e riservata come la follia”. (Senza firma).
DEVI:
(non risponde).
4.
SNOM: “Grazie di tutto. Sai, ci sono riuscita!”. (Senza specificare l’oggetto).
DEVI:
“È bellissimo che tu ci sia riuscita. Sii felice”. (Senza conoscere l’oggetto).
Quando c’è, la risposta di DEVI è cordiale e distante, in modo da non concedere
alcuno spazio alla replica di SNOM e liberarsi dal suo potere.
D.
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Qui di seguito vengono riportati degli estratti di e-mail di congedo tra diversi SNOM (uomini)
e lo stesso - recidivo inconsapevole - DEVI (donna). Si può notare come, nonostante i partner
siano diversi, DEVI fosse entrata in un loop sentimentale e abbia vissuto delle relazioni con personaggi
identici tra loro in tempi diversi e ravvicinati. Le parole usate dagli SNOM potrebbero essere scritte
dalla stessa mano: SNOM si addossa apparentemente la colpa del fallimento della relazione,
ma imputa a DEVI la maggior parte delle responsabilità per il suo modo di essere e chiude la loro storia
rinnovando affetto e amore, in un tentativo doppiamente perverso: di continuare ad apparire
buono e tenere DEVI sotto il proprio potere.
UOMO 1 - Novembre 2000.
• (...) è bello e tremendo averti vicino perché sei parte di me, dei miei sogni, delle mie paure
e non è semplice “esser sinceri” con chi si ama.
(SNOM esalta DEVI e l’accusa delle proprie difficoltà).
• (...) il momento di travaglio che sto vivendo è duro e svilente; non riuscire a fare l’amore con te
mi distrugge: ti ho idealizzata a tal punto che non riesco a esser naturale perché rappresenti
qualcosa di diverso dalle altre donne?
(Esaltando la figura di DEVI, SNOM l’incolpa del proprio stato d’animo).
• (...) voglio capire se sono in grado di andare avanti e se tu te la senti ancora di starmi vicino
nonostante quello che mi sta distruggendo...
(Lascia a DEVI la responsabilità di decidere),
voglio metterti in guardia: vorrei poterti fornire qualche anticorpo, ma in amore è impossibile.
(SNOM finge di preoccuparsi per DEVI, mentre giustifica l’ennesimo attacco ai suoi danni).
• (...) non ho certezze da regalarti, ma solo paure e dubbi da condividere.
(Scarica ogni responsabilità).
575
• (...) quanto amore serve per addolcire l’amaro sapore della vita?
Quanto amore si può investire nell’incertezza?
(SNOM lascia la porta aperta per il proseguio della storia, senza assumere responsabilità
per quel che potrebbe essere).
Ti porterò sempre con me.
(Con un imprevisto cambiamento di direzione, SNOM dichiara di voler chiudere
la relazione, spiazzando e avviluppando maggiormente DEVI nel proprio gioco perverso).
UOMO 2 - Febbraio 2001.
• (...) approfitto dei momenti di solitudine per riflettere su me stesso e sono arrivato alla conclusione
che la “colpa” è mia. O meglio: sono io. Io e le mie fottute paure. La delusione sono io.
(SNOM si addossa la responsabilità nascondendo la propria megalomania
nell’autocommiserazione).
Forse avrei dovuto chiederti di aspettarmi, sapendo che non sarebbe stato facile:
io non sono il prototipo dell’uomo medio...
(SNOM scarica su DEVI i motivi del proprio gesto e quindi si auto esalta dichiarandosi
fuori dalla normalità),
ma ho tanto da dare. Ho solo bisogno che qualcuno mi aiuti a tirarlo fuori.
(SNOM chiede implicitamente a DEVI di esporsi e di decidere per entrambi).
• (...) la mia mente non crede all’amore: è illusorio. Lo chiamo auto inganno, oppio della mente,
pensiero idealistico e illusione scientifica.
(SNOM si sgrava di ogni responsabilità da possibili implicazioni sentimentali
che potrebbero coinvolgere DEVI).
Quello che tu dici è vero: tante cose sarebbero diverse ora se solo non avessi avuto paura...
(SNOM lancia a DEVI un segnale...),
ma non è tutto qui: ci sono anche le cose belle. Chissà se per quelle è ancora valido l’invito a cena.
(... per riallacciare il rapporto con nuove regole).
UOMO 3 - Giugno 2002.
• (...) dopo mesi di frustrazioni, finalmente il lavoro ha ripreso a funzionare e il mio progetto
è piaciuto a tutti i responsabili.
(SNOM si auto celebra).
Dovevamo smettere di vederci perché la mia ruota tornasse a girare?
(SNOM incolpa DEVI dei suoi insuccessi professionali, attribuendo alla sua presenza
e alla loro relazione un ruolo negativo).
• (...) continuerò sempre a dire che io e te non abbiamo mai azzeccato i tempi giusti, a cominciare
da quando ci siamo conosciuti, sino ai rispettivi picchi alti e bassi, quasi sempre invertiti.
(SNOM addossa a sé e a DEVI la responsabilità della rottura).
Io ti rivedrei volentieri: sento che possiamo essere gli amici che non siamo mai stati...
(SNOM si dimostra magnanimo e propositivo...),
perché tutto il resto lo abbiamo sbagliato insieme (... ma accusa DEVI).
• (...) io ho riscoperto di stare bene da solo, a parte il livello di sperma che ha raggiunto gli occhi.
(SNOM denigra DEVI, conferendole il ruolo di scarico sessuale).
Non sono capace di vivere con una donna, non sono fatto per metter su famiglia, come al contrario
vuoi tu. Che ci posso fare? Sono “storto”, un po’ di mio e un po’ per i miei precedenti:
non ho più fiducia nelle donne!
(SNOM relativizza la propria colpa, attribuendola a terzi).
L’affetto che ho provato per te si è spento quand’ho perso la fiducia nei tuoi confronti:
io sempre più intransigente e oppressivo, tu sempre più chiusa in te stessa.
Oltretutto coi tuoi problemi esistenziali e lavorativi!!!
(SNOM scarica la responsabilità su DEVI, con l’intenzione di suscitarne il senso
di inadeguatezza e minarne l’amor proprio).
576
• (...) già che ci sono, vorrei sapessi che quando ti ho riportato le tue cose, tuo papà non ha detto
una parola!!! Abbiamo fatto tutto nel silenzio assoluto. Irreale!
Mi sono detto: “tale padre, tale figlia!”
(SNOM attacca e disprezza quello che circonda DEVI, con l’intenzione di creare attrito
e indurre una separazione dal suo ambiente).
Tua mamma come sta?
(Con un ribaltamento repentino però si preoccupa della famiglia di DEVI, destabilizzando).
Se quando torno dalla vacanza ti invitassi a una cenetta a lume di candela sul terrazzo,
ci verresti, vero? Dimmi di sì: farà bene a entrambi. Senza problemi. Ti bacio e ti penso.
(SNOM chiude tentando di mantenere il rapporto con DEVI, dopo aver dettato nuove
e più crudeli regole per il loro rapporto).
I moderni mezzi di comunicazione sono strumenti di tortura spietati nelle mani di SNOM, ma possono
essere utilizzati con profitto per scovare le trappole del suo disegno criminale.
“Verba volant, scripta manent” dicevano i latini: un’attenta analisi delle parole e dei controsensi
che esse nascondono è il modo per scoprire le sue reali intenzioni e arginarne l’influenza,
fino a eliminarla e liberarsene definitivamente.
MOBBING. VIOLENZA MORALE SUL LUOGO DI LAVORO.
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(A cura di 35).
La definizione di perverso narcisista non è applicabile solo agli individui; anche strutture complesse,
organizzate e gerarchiche presentano numerose caratteristiche che portano a questa definizione.
È il caso di un’azienda che si forgia del titolo di multinazionale, ma ha la mentalità della piccola
impresa padronale, tecnicamente arretrata e priva di professionalità specifica. Alcuni dei personaggi
che la popolano sono dei perversi più o meno potenti, che si integrano tra di loro e si compensano
nonostante i numerosi scontri per la supremazia. Anzi, la tensione mantiene vivo il legame tra gli
esponenti di una classe dirigenziale poco competente e poco interessata al lavoro (ma solo al
guadagno e al prestigio che ne deriva), che si scontra per la supremazia interna e che - allo stesso
tempo - si protegge da attacchi esterni per mantenere l’equilibrio e l’egemonia. Questa visione
grandiosa di un sé collettivo produce disorganizzazione, lassismo, scarso interesse verso il lavoro,
stanchezza, scontentezza, assenteismo, malattia nei lavoratori. Gli stessi atteggiamenti feroci vengono
poi riprodotti per imprinting nei rapporti tra colleghi, come se fossero normalmente accettati.
Chi agisce in questo modo ha comunque tendenze perverso narcisiste. La violenza si manifesta quindi
in due modi: orizzontale (tra dirigenti e colleghi) e verticale (da dirigenti verso colleghi).
ANALISI VERTICALE.
• Non esiste informazione sugli incarichi di lavoro: tutti devono fare tutto, perché la considerazione
dei subalterni è pari a quella di un operaio (indipendentemente dal titolo di studio, dall’anzianità
di servizio, dalla professionalità).
• Non esiste informazione sul lavoro da svolgere (passaggi di consegne e collaborazione):
ciò che conta è riuscire a scaricare il lavoro ad altri senza fornire il minimo aiuto/assistenza;
se l’incaricato fallisce, gli si attribuisce la colpa.
• Non esiste valorizzazione (di merito ed economica) per il lavoro svolto: incarichi di responsabilità
sono affidati a persone sottopagate ma continuamente definite incapaci/incompetenti; i nuovi
assunti nella stessa posizione ottengono però benefit (di livello e stipendio) molto superiori, da qui
tensioni all’interno dello stesso ufficio (con disinteresse al lavoro, aggressività, assenteismo).
• Durante lo svolgimento di lavori importanti in momenti urgenti, viene ricordato alle persone
che torneranno a svolgere mansioni inferiori (nonostante la comprovata buon opera).
• Le persone vengono spostate dal proprio incarico senza spiegazione o volutamente ignorate
e lasciate senza lavoro o con mansioni inferiori, prive di informazioni.
• Il lavoro svolto è sminuito.
• Le persone vengono screditate dai piccoli capi per salvaguardare il proprio operato,
gettando confusione sul sistema e ombre sulla professionalità.
• Le colpe sono individuali, i meriti sono collettivi.
577
La minaccia che l’azienda usa per ricattare i dipendenti è la possibilità di perdere il lavoro:
sporadicamente (e ad arte) circolano voci di cassaintegrazione e di mobilità che potrebbero falcidiare
operai e impiegati. La risposta alle lamentele dei dipendenti è l’invito a cercarsi un altro impiego.
La possibilità di migliorare il clima interno e la soddisfazione del lavoratore non sono contemplate,
anzi aborrite, perché nella confusione e nella scontentezza i perversi possono continuare ad agire
impuniti e a trarre i loro profitti (economici e di soddisfazione del loro ego).
Un’azienda perverso narcisista è il paradosso per definizione: la sanità mentale e fisica dei dipendenti
è a rischio, perché usa delle strategie che diventano dei parametri di riferimento (seppur sbagliati)
nella vita di ciascuno. Al dipendente, considerato un feticcio utile alla gratificazione e agli scopi
dei perversi, è tolta la capacità critica di ragionare e di avere delle proprie opinioni:
si sente messo in discussione in quanto sbagliato, fino a credersi tale. Il trattamento quotidiano
provoca poi stress e la mancanza di appoggio da parte dei colleghi (che vivono la stessa situazione)
genera sgomento e fa sentire soli, oltre che ulteriormente sbagliati.
La mancanza di appoggio è dovuta al qualunquismo diffuso e a una sostanziale assuefazione
al sistema. I subalterni sono trattati come “cose” di proprietà dell’azienda (il contratto di lavoro
è la giustificazione del comportamento e sancisce il rapporto come asettico e senza emozione):
• Ferie e mutua dei subalterni sono mal visti e criticati, salvo venir abusati dalla dirigenza.
• Le ferie vengono continuamente messe in dubbio.
• Le battute cattive e sarcastiche sono la norma.
• È richiesta una disponibilità oraria a oltranza, senza alcun diritto al riposo o al tempo libero.
• La libera iniziativa e la crescita sono costantemente castrate secondo strategie interne
non comprensibili (e quindi potenzialmente inesistenti): le persone vengono fossilizzate
perché non pensino di meritare di più (all’interno o in altre aziende).
• La vicinanza del posto di lavoro a casa per la maggior parte dei dipendenti è usata
come arma di ricatto per non concedere migliorie.
• Nei momenti di grande carico di lavoro, ai dipendenti è richiesto uno sforzo superiore
(quasi come in un rapporto affettivo): la situazione è infatti proposta con le parole “per il bene
di tutti”, salvo poi dimenticare gli sforzi di quasi tutti al termine del periodo; l’azienda si comporta
come una madre perversa che sfrutta la dipendenza (data dal contratto di lavoro) per soddisfare
il proprio ego e si arroga il diritto (per ruolo) di commettere abusi.
• I lavori sono tutti urgenti e senza un ordine di priorità, salvo poi giacere inutilizzati
o venire posticipati dopo la loro esecuzione.
L’atteggiamento di chiusura da parte di tutta la dirigenza nell’analizzare e risolvere (per incapacità,
disinteresse e non curanza) le problematiche interne si manifesta nella fuga, metodo usato
dal perverso narcisista per disorientare la vittima. È il trionfo dell’odio allo stato puro, senza scrupoli.
ANALISI ORIZZONTALE. (Tra colleghi).
• Gli scontri professionali sconfinano nel privato, facendo diventare un affare privato
la questione professionale.
• Il privato incide in larga parte nel professionale (querelle tra vicini di casa, invidie di paese,
storie d’amore finite).
In tutto questo la classe dirigente è assente, anzi sguazza nel torbido: gli scontri non vengono risolti
con l’intervento dei superiori, ma c’è la tendenza a far diventare la persona il problema
(capro espiatorio che il sistema usa per lavarsi le mani e continuare a vivere).
Il pettegolezzo bieco e la diffamazione sono le armi usate con cattiveria da qualche collega
per screditarne un altro agli occhi dell’intera azienda: il silenzio disinteressato e morboso
della maggioranza incrementa la portata delle parole fino a far diventare verità un’illazione.
La convivenza quindi diventa impossibile e l’unica soluzione, tra uno scontro violento e l’altro,
è ignorarsi: parlare dell’altro come se non fosse presente o comportarsi come se fosse assente.
La mancanza di comunicazione e di informazione nell’operatività ha lo scopo di mettere l’altro
in difficoltà e di fallire nel suo lavoro (questo avviene spesso in tacito accordo tra superiori
e subordinati compiacenti): diventa più facile criticarlo per la cattiva opera e per l’immagine negativa;
se il capro espiatorio si ribella, l’aggressività diventa un’aggravante per disprezzarlo ed escluderlo.
Lo scontro è aperto e senza tregua, neppure dietro gesti cordiali e battute di spirito, tese soprattutto
a offendere la dignità della persona e dei suoi affetti. Un trattamento particolare è riservato
578
alle donne, considerate per definizione inferiori, destinate a incarichi di basso segretariato e valutate
in modo cameratesco in base alla loro avvenenza fisica. L’ambiente a larga presenza maschile
(e maschilista) detta una legge accettata anche dalle donne. Ogni tentativo di ribellione viene visto
come manifestazione di un carattere difficile, oppure di ingratitudine visti gli apprezzamenti
(o i deprezzamenti) e le lusinghe (rozze) subite quotidianamente da più fronti.
Le reazioni alla violenza verticale e orizzontale sono pressochè identiche:
• Malattie psicosomatiche.
• Depressioni.
• Aggressività ingiustificata.
• Stress.
E portano agli stessi risultati:
• Licenziamenti (per esasperazione).
• Congedi (più/meno lunghi) per malattia.
QUALI SOLUZIONI?
Il perverso narcisista non cambia mai. Può accettare aiuto quando capisce che la sua vita è davvero
a repentaglio, ma si tratta di casi più unici che rari. A maggior ragione, un’azienda perverso narcisista
non ha possibilità di redenzione perché lo schema si riproduce all’infinito, con personaggi nuovi
che infliggono o subiscono come i loro predecessori.
Chi è sano patisce, ma lottare è inutile. L’unica possibilità è galleggiare immobili sulle acque melmose
e maleodoranti, tenendo fuori il viso per non perdere mai di vista la ragione.
Le proprie sacrosante ragioni. Eppoi restare attivi e credere sempre che esiste di meglio,
perché si è migliori di quanto vogliano far credere. Si è degli esseri umani e questa è la base
per esigere il rispetto. Tutte le azioni, nell’ambito della legalità (compreso cambiare posto di lavoro),
sono necessarie e doverose.
NOTA BENE.
L’analisi ha preso spunto dal libro di Marie France Hirigoyen “Molestie morali. La violenza
perversa nella famiglia e nel lavoro”, limitatamente alla parte sul mobbing.
NOTE SULLE FAMIGLIE DI DEVI.
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(A cura di QUATTRO - Editing a cura di 35).
Premessa sulla datazione di queste brevi note:
Il lettore attento coglierà subito un certo carattere di genericità in queste note.
Esse risalgono al periodo 1992-1995 e rappresentano il primo frutto di un impegno di QUATTRO
a trarre considerazioni teoriche generali dal lavoro clinico fatto con i clienti in studio. Le note venivano
spesso stese durante la seduta stessa e discusse con il cliente. Avevano lo scopo psicoterapeutico
di fornire un quadro di significati generali che gli consentissero di integrare meglio le sue esperienze
passate nella sua personalità di oggi. L’obiettivo era perciò portare un singolo individuo
a comprendere meglio i meccanismi con i quali la sua famiglia gli aveva causato sofferenze a partire
dall’infanzia. Tale intento non era solo pratico, ma era strettamente individuale; non richiedeva
né un esame della letteratura sull’argomento, né una particolare originalità concettuale.
Inoltre alcuni testi fondamentali non erano ancora stati pubblicati in Italia (“L’odio dell’amore.
La perversione delle relazioni umane”, è del 1998, “Molestie morali. La violenza perversa
nella famiglia e nel lavoro”, è del 2000). QUATTRO ha deciso tuttavia di mettere nel sito queste
note nella forma in cui erano state concepite, nel rispetto della fatica compiuta da quelle persone
che allora hanno lavorato sui loro problemi nello sforzo di liberarsi dai legami paralizzanti
con i quali la loro famiglia a lungo aveva impedito loro di essere se stessi.
579
Come tutti i legami umani, anche il rapporto tra SNOM e DEVI pone una domanda fondamentale.
•
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Perché un essere umano si comporta quasi malvagiamente come fa uno SNOM?
E perché un altro si lascia passivamente maltrattare come un DEVI?
Perché si è DEVI e non SNOM?
Perché un DEVI non riesce mai a rovesciare le parti o anche solo a fronteggiare SNOM?
Ci si comporta da DEVI, improvvisamente, in un particolare momento della propria vita adulta?
Si è forse DEVI fin dall’infanzia?
Come si diventa DEVI?
Qual è stato l’insegnamento che la famiglia ha dato al bambino per farlo diventare un DEVI?
Cerchiamo possibili risposte nell’infanzia dei soggetti DEVI. Studiamo il rapporto che la sua famiglia
ha impostato con lui fin dall’inizio, o comunque da un certo momento cruciale nella vita del futuro
DEVI. Anzitutto non esiste un unico tipo di DEVI (né di SNOM).
Come in tutte le manifestazioni umane, esiste un continuum che va dalle forme più lievi
e ben compensate, alle forme più gravi le quali hanno le maggiori difficoltà.
Per intenderci, dalla persona estremamente delicata e disponibile verso gli altri, al soggetto talmente
inibito da essere incapace di farsi le proprie ragioni. Per spiegare la collocazione di un singolo caso
lungo tale continuum di forme, è necessario tenere conto della famiglia di origine.
Ciò permetterà di studiarne meglio le modalità di relazione con il partner.
Ovviamente tali modalità di relazione sono espressione diretta della strutturazione della personalità.
Il continuum dei soggetti DEVI si estende da casi nei quali manca proprio una strutturazione solida
della personalità (per cui tali soggetti sembrano non avere quasi una possibilità autonoma di esistere)
a forme nelle quali la strutturazione della personalità è più solida e definita.
Nel secondo caso i genitori non sembrano avere avuto una influenza così intenzionalmente distruttiva
da poter essere definita maligna, pur essendo stata fortemente negativa.
Nel primo caso invece i genitori (o almeno uno dei genitori) hanno avuto una influenza di tipo
sostanzialmente distruttivo. Poiché non potevano permettere l’esistenza autonoma del figlio,
si può dire che - praticamente - non hanno lasciato (né tanto meno fatto) nascere nel figlio
una forma adulta di Io. Al figlio (futuro DEVI) vengono concessi e lasciati sviluppare una serie
di mezzi per potere svolgere una gamma di ruoli (per es. come uomo o donna).
Non gli è invece - dai genitori - concesso di sviluppare una sua individualità come persona particolare,
singola, individuale appunto. Le diverse situazioni possono essere ampiamente unificate sulla base
di alcuni meccanismi tipici. In senso generale si può vedere la presenza di un genitore manipolatore,
il quale impone che il figlio assuma un determinato ruolo, a seconda dei propri bisogni che egli grazie al suo potere di genitore - pretende che il figlio soddisfi.
Ora, i bisogni del genitore possono essere diversi a seconda di diverse variabili (per es. il sesso
sia del genitore sia del figlio; il grado e il tipo di nevrosi del genitore; particolari circostanze ambientali,
ecc). Ma le differenze da caso a caso sono sostanzialmente poco rilevanti.
Infatti alla base c’è sempre, nel genitore, un rifiuto del figlio.
Con questo termine intendiamo descrivere una realtà di rifiuto e riconoscere la peculiare e separata
identità del figlio e la tendenza del genitore a negare il rispetto che è dovuto all’autonomia di sviluppo
del bambino. Un tale atteggiamento di rispetto del genitore per l’autonomia di sviluppo
del figlio comporterebbe il dargli affetto e comprensione sia lasciandolo crescere liberamente
secondo le esigenze della sua natura, sia guidandolo a crescere con amore ma sempre
nel rispetto per i suoi gusti, tendenze, ecc. Se i genitori rifiutano il bambino, egli può cercare
di “salvarli” come immagine di genitori buoni.
Può, per esempio:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Cercare (o anche solo sperare) di far cambiare i genitori;
• Sforzarsi di “salvarli” dalle conseguenze dei loro conflitti irrisolti;
• Tentare di aiutarli (per es. non creando loro problemi grazie all’essere un bambino buono).
Ma in realtà tali sforzi del bambino risultano inutili, assurdi e dannosi per il bambino.
Non importa che i genitori abbiano problemi di insoddisfazione, o di depressione, o di aggressività
rifiutante verso il bambino o di ansia morbosamente soffocante.
Non importa quali siano le manifestazioni comportamentali dei genitori, scorrettamente centrate
580
sulle loro pretese anziché tenere conto degli autentici bisogni di libertà del bambino.
La causa antica della strutturazione nevrotica, conflittuale, della personalità dei genitori persiste.
E quindi persisteranno i suoi effetti, cioè le pretese ingiuste e dominatrici verso il bambino.
Nessun comportamento del bambino, per quanto mosso da amore, da buona intenzione,
da disponibilità, da rinuncia o da obbedienza, servirà mai ad eliminare né le cause antiche,
né gli effetti ultimi. L’unico risultato sarà lo sprofondare del bambino in un dolore senza limiti
né possibilità di fine. Ma sopratutto sarà la sua rinuncia a vivere la propria vita con interessi e scopi
suoi personali, per vivere invece inutilmente la vita di un adulto e cercare invano di realizzare obiettivi
propri dell’adulto stesso. E attraverso questo, egli rinuncia a essere se stesso e inizia ad imparare
a vivere come DEVI. Nelle famiglie in cui crescono i futuri DEVI vi è un rifiuto del genitore di tenere
una corretta posizione di democrazia emozionale e pedagogica.
Vi è un forte e rigido bisogno del genitore di fare assumere al figlio un preciso ruolo
(spesso addirittura una serie di precisi ruoli) allo scopo di soddisfare i bisogni emozionali del genitore
stesso o di placarne i conflitti personali. Quindi il ruolo (o i ruoli) che il figlio deve assumere variano,
come già detto, a seconda di diversi fattori: il sesso del genitore, il sesso del figlio, i conflitti
che il genitore deve risolvere attraverso il figlio, le aspirazioni non realizzate del genitore che il figlio
deve incarnare e soddisfare.
Nascono così le numerose varietà nella strutturazione di personalità dei futuri DEVI.
Per esempio, il ruolo che il figlio deve assumere a seconda dei bisogni compensatori del genitore,
può essere un ruolo positivo oppure negativo. Si può dire positivo il ruolo di compenso nel quale
il figlio realizza ciò che il genitore avrebbe voluto essere e non ha potuto realizzare.
Definiamo negativo il ruolo incarnato dal figlio, sul quale il genitore proietta le forze negative,
le caratteristiche negative della propria struttura profonda.
Poi, guardando a queste caratteristiche incarnate nel figlio, le punisce nel figlio stesso.
In alcuni casi, ruoli positivi e negativi attribuiti dal genitore al figlio possono dover coesistere nel figlio
stesso in quanto gli sono assegnati entrambi. È evidente quindi che nelle famiglie patologiche
l’atmosfera educativa creata dai genitori mira a compensare loro bisogni insoddisfatti legati
a conflitti irrisolti. Ciò tende a far sviluppare la capacità del figlio di incarnare un ruolo o addirittura
più ruoli. Ne viene, in senso generale, danneggiato lo sviluppo della individualità del figlio,
a diversi livelli e in gradi differenti. Ritorniamo al concetto, già accennato, della differenza
nello sviluppo dei soggetti DEVI.
La differenza è intesa in termini di:
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• Strutturazione della personalità più o meno solida;
• Differenti settori di autonomia nell’esistere;
• Opportunità diverse di scelte appaganti;
• Modalità di espressione libera della personalità;
• Condizioni di apprezzamento del soggetto da parte di altri.
È enorme l’importanza del fatto che vi siano possibilità di costruzione di un Io abbastanza solido,
con un adeguato grado di consapevolezza di sé, con realizzazioni e gratificazioni nei vari campi,
con potenzialità di assorbimento di stimoli positivi.
Nei casi più favorevoli, da ciò nasce nel soggetto che sarà un futuro DEVI, la capacità di rendersi conto
dell’attacco di SNOM e la possibilità di contrastarlo lottando contro di lui anziché restare passivo
come un burattino afflosciato nelle mani di SNOM. L’esito però è incerto.
Se nella lotta SNOM non cede, in tali casi favorevoli, il soggetto DEVI (se ha un Io abbastanza
solidamente strutturato) può spezzare il legame con SNOM.
È chiaro che DEVI, per determinare questa rottura violenta, paga il prezzo di un dolore
quasi insopportabile. Esso è causato da una quasi insopportabile angoscia di abbandono che la parte
fragile della personalità di DEVI non può evitarsi di provare nel caso di contrasto con SNOM
(o, comunque, con un’altra persona in generale).
DEVI infatti è stato nell’infanzia un soggetto non amato incondizionatamente dai genitori,
un soggetto mai scelto o apprezzato di per sé.
Per questo profondo, inconscio, bisogno di accettazione affettiva che lo rende vulnerabile,
DEVI è e resta sostanzialmente debole: Tuttavia, nei su accennati casi favorevoli,
DEVI riesce a vivere tale enorme dolore e rompere materialmente il rapporto con SNOM.
581
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SCHEDA TECNICA - A CURA DI 19
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AUTORI:
Hurni, Maurice - Stoll, Giovanna-Simona
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TITOLO:
L’odio dell’amore. La perversione delle relazioni umane.
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EDITORE:
Edizioni L’Harmattan Italia, Torino, 1998.
Titolo originale: “La haine de l’amour. La perversion du lien”,
Editions L’Harmattan, Paris, 1996.
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PAGINE:

339
INQUADRAMENTO GENERALE:  vedi
INDICE:

vedi
COMMENTO:

vedi
TEST DA COMPILARE:

no
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INQUADRAMENTO GENERALE.
Nella prefazione che cura la presentazione dell’opera, P. C. Racamier sottolinea il coraggio
e la competenza degli Autori nel trattare un “argomento che scotta”: la perversione relazionale,
qui affrontata soprattutto nell’ambito della coppia. Ci vuole coraggio perché si tratta di comprendere e tentare di disinnescare - un meccanismo dove la posta in gioco è l’esistenza, psichica ma a volte
anche fisica. Qui gli attori sono i coniugi, anche se il modello relazionale può essere ritrovato
in tutti gli scenari sociali. È un viaggio in un mondo non certo pervaso d’amore, è il tentativo
di tornare ad un inizio costellato di gravi traumi, per sopravvivere ai quali si arriva a far del male
al prossimo: il partner, i figli, i colleghi. In questo libro non c’è spazio per giudizi e moralismo,
è urgente parlare e capire; troppi fatti di questo genere sono protetti dal muro del silenzio.
Nell’introduzione all’opera, gli Autori parlano delle difficoltà che per qualche tempo hanno incontrato
nel loro lavoro quotidiano di terapeuti di coppia; si sono resi conto che tali difficoltà erano
da attribuirsi ad una questione di grande importanza: non sempre è possibile basarsi su una logica
“nevrotica” (o “normale”, nel senso che c’è aderenza alla realtà), perché essa è opposta alla logica
“perversa”, tipica delle coppie resistenti alla terapia. La logica nevrotica segue un percorso
che ha lo scopo di ridurre la sofferenza, mentre quella perversa vuole amplificare la sofferenza
dell’altro. L’“altro” può essere non solo il partner ma la famiglia, gli amici, i colleghi di lavoro.
Malattie psicosomatiche, disturbi dell’alimentazione, disfunzioni psichiche, possono testimoniare
l’attività distruttrice iniziata molto tempo prima e perpetuata da una generazione all’altra.
Gli Autori evidenziano il fatto che non poche volte le difficoltà sessuali o i dissensi coniugali
che spingono le coppie ad entrare in trattamento, non sono il fuoco principale del problema:
la questione di fondo è incentrata su una dinamica relazionale “narcisitico-perversa”.
Viene innanzitutto chiarito l’uso del termine perverso: non “semplice” perversione sessuale
ma dinamica che si rivela nella relazione e nell’agire concreto, qui studiato nella vita di coppia.
Vengono evidenziati alcuni tratti peculiari, alcune manifestazioni esteriori che, considerate
singolarmente, non sono negative in assoluto; inserite però nel contesto qui considerato acquistano
valore di tratti liberatori:
• Dettagli d’abbigliamento dissonanti, che destabilizzano l’interlocutore.
• Incapacità (avversione) di tollerare regole, istituzioni, contesti di relazione differenti,
inizialmente mascherata e confusa da un’eccezionale capacità di autocontrollo.
• Gusto del rischio in ogni aspetto dell’esistenza, sia sul piano relazionale che su quello fisico,
quest’ultimo testimoniato da un’incredibile resistenza al dolore che può arrivare sino all’anestesia
fisica (equivalente di quella affettiva sul piano emotivo-relazionale).
• Colpisce la voce di queste persone, definita dagli Autori “metallica”, “a chioccia”, “cavernosa”;
una voce che mette a disagio chi ascolta perché usata in modo assolutamente incoerente rispetto
al contesto e senza alcuna coloritura affettiva: frasi confuse, criptate, con accenti esagerati,
abbondanza di tecnicismi, ampollosità cruda ed aggressiva.
582
• Colpisce anche la reazione del partner, che apparentemente rivela un comportamento
quasi masochistico che in realtà è anch’esso un modo di aggredire, lanciando di rimando
non solo un potente messaggio di indistruttibilità, ma anche di eguale forza distruttrice.
• Colpisce ancora l’atemporalità della narrazione degli eventi: tutto ciò di cui una coppia perversa
parla (con tono monocorde) è contemporaneamente passato, presente e futuro.
Il comportamento perverso è più azione che pensiero: per questo verità e menzogna non sono
importanti, ciò che conta è che l’atto sia efficace e porti alla destabilizzazione dell’altro;
il linguaggio pertanto è strumento del “fare”, come pure la comunicazione non verbale;
tutto viene usato in reciproca antitesi, con lo scopo di dominare l’altro.
Gli Autori usano il concetto di “tensione intersoggettiva perversa” per indicare quel bisogno,
comune ai due partner, di tenere alta una relazione di attacchi e risposte dolorosi.
La scelta del partner è pertanto funzionale alla dinamica di coppia, che obbedisce ad un vero e proprio
contratto che ha valore in quanto continuamente trasgredito l’uno all’insaputa dell’altro, con lo scopo
di mantenere asimmetria e tensione. Queste coppie raccontano del loro primo incontro senza
affettività, addirittura con banalità; viene sottolineata la “codificazione” dei fatti raccontati,
verbalmente la parola “cosa” viene usata spesso.
Sin dall’inizio del racconto, balza all’evidenza la logica distruttrice di questi incontri, ribattezzati
dagli Autori “anti-incontri”. Nello svolgersi della narrazione ci si accorge che entrambi i partner
sono primi attori in scena e colludono efficacemente, uniti in quello che viene identificato
come selfgrandioso (pag. 53), caratteristico della perversione relazionale.
La dinamica della coppia perversa obbedisce ad alcune leggi fondamentali:
• Il concetto del tempo, come abbiamo visto, è peculiare, dal momento che non esiste;
ciò è testimoniato anche dall’aspetto dei due partner, che sembrano eternamente giovani.
• L’“altro” è una cosa, di cui si parla spesso con contrastante calore; è una cosa che ridisegna
il rapporto di coppia come una transazione commerciale; il fatto importante è che “la cosa”
accetta di essere tale, di essere un feticcio.
• È evidente il disprezzo dell’altro (per evitare il disprezzo di sé), fatto di parole e di non detto,
come il volgere le spalle al partner che parla, mostrarsi annoiato, ecc.
• La paura è eccitante per queste coppie, ed è funzionale alla minaccia di separazione
ed al mantenimento della tensione; le giornate trascorrono letteralmente spaventandosi a vicenda.
• Si tratta di una relazione violenta, palese o mascherata da atteggiamenti velati.
È un gioco reciproco attento e snervante, tesa a svelare le debolezze dell’altro per distruggerlo.
Individuare la violenza come strumento complice è fondamentale per una buona terapia.
• La realtà quotidiana viene ridisegnata secondo i bisogni perversi, legittimando qualsiasi trasgressione
che quindi non viene percepita come tale.
Nella coppia perversa si ripete la dinamica relazionale della precedente generazione.
Si parla di relazione abusante, laddove “abuso” è il connotato morale di “perverso” e designa
un rapporto di predazione. Il concetto di abuso non può non richiamare alla mente quello di incesto,
dal momento che gli Autori hanno evidenziato come non poche volte, nel loro lavoro
sulla perversione, abbiano dovuto affrontare questo trauma. Viene brevemente ripercorsa la storia
della psicanalisi sul tema: coraggiosi e difficili avvicinamenti e clamorose scotomizzazioni
ed interpretazioni neganti. È invece da mettere in evidenza il terrore, il dolore fisico ed emotivo,
le difese, la gigantesca delusione di chi ha dovuto inventarsi nuovamente la fiducia,
dopo averla definitivamente annullata verso chi avrebbe dovuto proteggere ed invece ha tradito.
Chi non ha la possibilità di elaborare al più presto ed in ambiente protetto ciò che ha dovuto subire,
non potrà disinnescare quei meccanismi di difesa che di certo hanno aiutato a sopravvivere,
ma che altrettanto certamente avranno pesanti ripercussioni per il resto della vita.
Segni che gli Autori riconoscono quotidianamente nel loro lavoro di terapeuti: segni psichici ma anche
fisici, verbali e non verbali; a volte clamorosi, a volte così sottili che se non inquadrati in uno scenario
di relazioni a violenza mascherata rischiano di far parte della cosiddetta normalità.
L’incesto viene qui esplorato nella sua vastità d’espressione: non solo l’abuso sessuale vero
e proprio ma tutti quegli equivalenti caratterizzati da un rapporto transgenerazionale erotico
di predazione. Sono riportati casi di coppie in seduta ed attente analisi delle dinamiche rivelate
e testimoni del coattivo ripetersi di quelle modalità relazionali esistenti nella famiglia d’origine.
583
L’adulto abusante mina la fragile stima di sè del bambino, confondendolo con continue alternanze
di adulazione e disprezzo e conferendogli lo stigma del “capro espiatorio”, della “pecora nera”;
è un tatuaggio difficile da cancellare: capita così che molte antiche vittime, pur essendo ormai adulte,
si sentano “anormali”, quando non addirittura “sporche”. Tale abuso narcisistico è stato descritto
da altri studiosi, ma gli Autori mettono in evidenza come non sempre si ponga l’attenzione sul grado
di coscienza del genitore abusante e del piacere che egli prova nel giocare con il narcisismo
del bambino. Richter (1) descrive tre tipi di abusi narcisistici:
• Il bambino vissuto come parte di sé, per cui il genitore non è in grado di tollerare che il figlio
sia un individuo differenziato.
• Il bambino che incarna l’ideale dell’Io, destinato quindi a soddisfare le aspirazioni genitoriali.
• Il bambino che incarna l’identità negativa dei genitori: è il meccanismo di scissione-negazioneproiezione che permette la sopravvivenza alle parti negative di sé; l’“altro”, in questo caso
il bambino, diventa oggetto di attacchi ripetuti e spesso feroci.
Gli abusi narcisistici lasciano solchi profondi nell’identità del bambino: sia che venga elevato a
“re dell’universo” alla ricerca di una perfezione impossibile, sia che venga schiacciato perché
risulti invisibile, è sempre un’identità maltrattata e minacciata nel suo tentativo di esprimersi
e disegnarsi crescendo. Per sopravvivere, il bambino attua le sue difese, prima fra tutte negare
a sé stesso l’indegnità dei propri genitori: non si lamenta, anzi, si attacca morbosamente a coloro
che da adulto descriverà come “severi ma buoni”, “duri ma giusti”.
Dirà di aver meritato tutte quelle punizioni. Gli Autori parlano parentificazione dei figli, trasformati
in piccoli adulti diventati collante e sostegno di tutta la famiglia. Una famiglia che non sarà mai
in grado di riconoscere gli sforzi immensi che il bambino compirà, perché sarà sempre squalificato
qualunque cosa faccia. Si tratta, il più delle volte, di figli indesiderati o qualche volta desiderati troppo;
il rifiuto del figlio è espresso in mille modi, ma sempre con inaudita ferocia. Ferenczi (2) parla di vero
e proprio “terrorismo della sofferenza”: figli legati a madri cagionevoli di salute e designati
come colpevoli di ogni malattia; figli sostituti del marito morto o andato via di casa, o che in casa
non è mai entrato; figli che reincarnano fratelli defunti. Hanno il compito di sedare le liti, di impedire
che un genitore nuoccia alla vita di un famigliare. Tornando alle coppie in terapia, dunque,
gli Autori evidenziano come il copione transgenerazionale si ripeta, anche nella particolare abilità
nel costruirsi reti sociali perverse al di là dell’ambiente famigliare. Nel libro sono citati casi
esemplificativi. Il modello perverso, infatti, può vivere in diversi contesti di relazione: esempi di abito
perverso del gruppo di lavoro sono illustrati efficacemente. Le modalità in cui la perversione si esplica,
il tessuto sociale in cui ricama la sua presenza, rispondono all’esigenza principale: presentare
il sintomo in una forma difficile (ma non impossibile) da identificare perché espressa in modo tale
da non scatenare la sofferenza bruta. Gli Autori spiegano come le varie modalità d’espressione
possano essere riconducibili a tre assi nosologici (pag. 127):
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
a. Asse psicosomatico.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
b. Asse psicotico.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
c. Asse perverso.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
a. Si evidenzia un linguaggio povero, interamente orientato all’azione;
le relazioni sono vissute unicamente dal punto di vista quantitativo.
b. Gli Autori parlano di equivalenti di delirio (pag. 128): idee ossessive, gelosie patologiche, ecc.
c. È evidente una grande intelligenza strategica, per manipolare ed utilizzare gli altri.
La sintomatologia è varia, e viene spiegata con esempi di casi in trattamento seguendo lo schema
dei tre assi nosologici appena descritti. Il denominatore comune è il sintomo che diventa “semplice”
disfunzione, scindendo da sé ed attribuendo all’altro la sofferenza normalmente connessa. L’“altro”
può essere anche il terapeuta, con il tentativo di trasformare le sedute in un campo di battaglia.
Le riflessioni teoriche della penultima parte del libro mettono in evidenza alcuni tratti fondamentali:
584
• La perversione può essere una vera e propria struttura di personalità patologica,
ma può anche essere una massiccia organizzazione difensiva che lascia intavedere
capacità psichiche represse dal trauma.
• Perversione sessuale e perversione relazionale sono in genere compresenti,
nel senso che la relazione perversa ingloba (parola degli Autori) la sessualità.
• La varietà di manifestazione è permeata di sadomasochismo, testimone della messa in opera
di una violenza inaudita.
La tabella comparativa a pag. 206 illustra la differenza tra nevrosi e perversione:
• Il piacere perverso non è ascrivibile ad una vittoria narcisistica, ma racconta il processo
di inversione e di vittoria sulla sofferenza.
• Attraverso l’utilizzo del doppio legame il perverso sfugge alle sue responsabilità
e rende la realtà adattabile a suo piacimento.
• Lo scopo è la distruzione dei legami, insopportabili per il perverso.
• Il ruolo del feticcio è fondamentale: esso è il prodotto della disumanizzazione,
del disinvestimento delle relazioni, e nello stesso tempo è la protezione dalla relazione.
• Nelle coppie con figli l’odio per il bambino è palese in una vera e propria coalizione verso il nemico.
A tale proposito, la rivisitazione del mito di Edipo conferisce ad esso un nuovo significato.
Gli Autori si chiedono se esista una terapia giusta per la patologia perversa, tenendo conto
del fatto che il terapeuta è visto il più delle volte non come alleato ma come grave minaccia,
e che la domanda d’aiuto è paradossale. Vengono illustrati aspetti e fasi del contratto terapeutico,
dal primo colloquio alla periodicità delle sedute, all’onorario.
Nell’ultima parte dell’opera, le reti perverse vengono analizzate a livello macrosociale,
dalle comunità più piccole presenti in ambienti ristretti, sino alla politica delle nazioni.
INDICE.
Ringraziamenti. .................................................................................................................... (Pag. 5)
Prefazione di Paul-Claude Racamier. .....................................................................................(Pag. 7)
Premessa. ............................................................................................................................ (Pag. 13)
Capitolo 1.
LA RELAZIONE PERVERSA. ................................................................................................ (Pag. 17)
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
I.
INTRODUZIONE. ........................................................................................................... (Pag. 19)
II.
1.
2.
3.
4.
OSSERVATORIO DELLE COPPIE DAL RAPPORTO PERVERSO. .......................................... (Pag. 23)
Tratti patognomonici delle coppie dalla relazione perversa. ........................................... (Pag. 24)
La comunicazione perversa in seno alla coppia. .............................................................(Pag. 30)
La scelta degli oggetti perversi. ..................................................................................... (Pag. 41)
La dinamica della coppia perversa. ................................................................................ (Pag. 54)
Capitolo 2.
L’ABUSO. LA SEDUZIONE NARCISISTICA. ........................................................................ (Pag. 79)
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
I. ALLA RISCOPERTA DEL TRAUMA. ......................................................................................(Pag. 81)
1. L’incesto. ...................................................................................................................... (Pag. 83)
2. L’abuso narcisistico. ...................................................................................................... (Pag. 105)
II.
PERVERSIONE FAMILIARE. .............................................................................................(Pag. 113)
III.
LE RETI MICROSOCIALI PERVERSE. ................................................................................ (Pag. 118)
585
Capitolo 3.
L’INTRICO ABUSIVO-PERVERSO:
CONSEGUENZE TARDIVE DELL’ABUSO E IMPLICAZIONI PSICOPATOLOGICHE. ............ (Pag. 121)
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
I.
IL LINGUAGGIO CIFRATO DEL SINTOMO. ......................................................................(Pag. 123)
II.
1.
2.
3.
IL TRITTICO PSICOSOMATICA-PSICOSI-PERVERSIONE. ................................................... (Pag. 127)
Descrizione. .................................................................................................................. (Pag. 127)
Polimorfismo dei sintomi. ............................................................................................. (Pag. 129)
I due livelli o l’utilizzazione relazionale perversa della disfunzione PPP individuale. ......... (Pag. 188)
III.
1.
L’IDENTITA’ SESSUALE ROVINATA. ............................................................................... (Pag. 189)
La fobia sessuale “fredda” come retroscena comune delle difese psicosomatiche,
perverse o psicotiche. ................................................................................................... (Pag. 190)
Capitolo 4.
RIFLESSIONI TEORICHE SULLA PERVERSIONE. .................................................................(Pag. 201)
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
1. Il concetto di perversione. ............................................................................................. (Pag. 203)
2. Il paradosso. ................................................................................................................. (Pag. 210)
3. Distruzione del desiderio. ..............................................................................................(Pag. 213)
4. Distruzione dei legami. ................................................................................................. (Pag. 214)
5. Il feticcio. ......................................................................................................................(Pag. 216)
6. Il pensiero perverso. ......................................................................................................(Pag. 218)
7. La colpa e il rifiuto della responsabilità. ......................................................................... (Pag. 221)
8. La perversione bianca. .................................................................................................. (Pag. 223)
9. La follia. ....................................................................................................................... (Pag. 226)
10. La relazione narcisistica. ................................................................................................(Pag. 228)
11. Il bambino da distruggere. ............................................................................................ (Pag. 229)
12. La madre. ..................................................................................................................... (Pag. 229)
13. Il trionfo dell’odio: la relazione “thanatica”. .................................................................. (Pag. 232)
14. Edipo vittima. ............................................................................................................... (Pag. 234)
Capitolo 5.
CONSIDERAZIONI TERAPEUTICHE. ................................................................................... (Pag. 239)
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
I.
PROCESSI TERAPEUTICI. ................................................................................................ (Pag. 241)
1. Principi generali. ........................................................................................................... (Pag. 241)
2. La domanda paradossale. ............................................................................................. (Pag. 245)
3. Il masochismo: trappola relazionale per il nevrotico. ......................................................(Pag. 246)
4. La trappola dell’atteggiamento “neutro”. ......................................................................(Pag. 247)
5. Stimolazione della relazione perversa. ........................................................................... (Pag. 248)
6. Odio della curiosità. ...................................................................................................... (Pag. 248)
7. L’odio della verità. ........................................................................................................ (Pag. 249)
8. Il ruolo. ........................................................................................................................ (Pag. 250)
9. La cattiva fede. ............................................................................................................. (Pag. 253)
10. Il naufragio della relazione verbale. ............................................................................... (Pag. 254)
11. Annichilimento retroattivo. ........................................................................................... (Pag. 254)
12. Il transfert. ....................................................................................................................(Pag. 255)
13. Reazioni familiari. ......................................................................................................... (Pag. 257)
II.
1.
2.
3.
4.
5.
STRATEGIE TERAPEUTICHE. .......................................................................................... (Pag. 258)
La scoperta. .................................................................................................................. (Pag. 259)
La reintroduzione del conflitto. ..................................................................................... (Pag. 259)
L’intervento etico. ........................................................................................................ (Pag. 260)
L’intervento a due mani. ............................................................................................... (Pag. 261)
La restaurazione e la ricostruzione. ............................................................................... (Pag. 261)
586
III.
IL TERAPEUTA. ..............................................................................................................(Pag. 262)
IV.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
8.
9.
LA TERAPIA. ................................................................................................................. (Pag. 267)
Lavoro in coppia. .......................................................................................................... (Pag. 267)
Presa di contatto e primo colloquio. ..............................................................................(Pag. 268)
Il denaro. ...................................................................................................................... (Pag. 269)
Creazione di una “zona franca”. ................................................................................... (Pag. 270)
Utilizzazione perversa delle sedute. ............................................................................... (Pag. 270)
Fine delle sedute. ..........................................................................................................(Pag. 271)
Annichilimento retroattivo. ........................................................................................... (Pag. 272)
Pluritrattamenti. ........................................................................................................... (Pag. 272)
Conclusione. ................................................................................................................ (Pag. 273)
Capitolo 6.
IMPLICAZIONI MACROSOCIALI. ....................................................................................... (Pag. 275)
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
I. ARTE E PERVERSIONE. ....................................................................................................... (Pag. 278)
1. Picasso. ........................................................................................................................ (Pag. 278)
2. Il terzo uomo. ............................................................................................................... (Pag. 289)
II. SVILUPPI PSICO-SOCIALI. .................................................................................................. (Pag. 292)
1. Le sette. ....................................................................................................................... (Pag. 292)
2. Le istituzioni perverse. .................................................................................................. (Pag. 294)
3. La mafia. ...................................................................................................................... (Pag. 295)
4. Perversione politica. ...................................................................................................... (Pag. 300)
Conclusione. ........................................................................................................................ (Pag. 325)
Note. ................................................................................................................................... (Pag. 329)
Bibliografia. ......................................................................................................................... (Pag. 333)
Indice. ..................................................................................................................................(Pag. 338)
COMMENTO.
Forse, nella prefazione, P. C. Racamier ha detto tutto: dalla prima all’ultima pagina si palpa
il coraggio di affrontare un viaggio duro e spesso crudele in un mondo di relazioni difficile
da immaginare. È un racconto fatto “senza peli sulla lingua” da chi non vuole certo ergersi
a giudice morale, ma da chi semplicemente ha capito, vuole continuare a capire e vuole informare,
per l’urgenza di imparare a decifrare comportamenti che hanno come scopo la distruzione.
È un invito a leggere la relazione di coppia come un’alternanza continua e funzionale dei ruoli
di vittima e carnefice; un’alternanza rapida e scaltra, a volte sapientemente diluita in un’apparenza
di “normonevroticità” forse ai limiti superiori della norma.
È un invito a non cadere nel moralismo: non serve, non aiuta a capire e risolvere, semmai aiuta
a chiudere gli occhi. L’efficacia del linguaggio degli Autori è evidente nella codificazione terminologica
degli eventi patologici: non fredda etichetta, ma sapiente condensazione di ciò che comunque
viene abbondantemente spiegato al fine di creare un dizionario che rimanga impresso e che tracci
un percorso di comprensione chiaro ed esaustivo.
Un libro forse un po’ tecnico, ma che offre spazi di chiarimento anche ai non addetti ai lavori,
poiché si sforza di riprendere più volte i concetti espressi ed oscilla continuamente
tra la definizione tecnica e l’espressione non gergale.
587
LA PERCEZIONE DEL NEMICO.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
(A cura di 33).
Nel corso dei miei studi universitari ho analizzato e confrontato tra loro le rappresentazioni
del nemico che emergono dalle pagine di tre romanzi appartenenti alla letteratura relativa
alla Prima Guerra Mondiale; questi sono “Vent’anni” di Corrado Alvaro (1930),
“Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu (1938) e “Niente di nuovo sul fronte occidentale”
di Erich Maria Remarque (1929).
La scelta delle tre opere ha avuto come unico criterio quello di avere tra le mani un campo d’indagine
che, per quanto ristretto, potesse offrire un quadro d’insieme sufficientemente vario;
i tre romanzi si differenziano infatti per nazionalità, impatto ideologico (i primi due furono scritti
da ufficiali dell’esercito italiano che abbracciavano una posizione interventista,
Remarque fu invece un pacifista) e struttura narrativa.
Tali macro differenze iniziali hanno reso ancora più interessante e universalmente valido l’esito
della mia ricerca. I risultati ottenuti li ho suddivisi e catalogati in tre grandi categorie,
le quali pur presentando leggere varianti interne, possono essere lette come le tappe di un’evoluzione
del concetto di nemico sorprendentemente comune ai tre romanzi in esame e quindi forse anche,
più in generale, al comportamento umano.
Il primo stadio in quest’ideale linea di sviluppo è caratterizzato da un’immagine dell’avversario
assolutamente irreale e fortemente brutalizzata; questi, nell’immaginazione dei soldati
particolarmente giovani o inesperti, ben lungi dal rappresentare semplicemente il secondo elemento
in un sistema oppositivo quale è quello bellico, diventa una summa di tabù sociali e crudeltà.
In questa fase inziale è particolarmente evidente come la massiccia opera propagandistica,
portata avanti dalle alte sfere politiche e militari volta a indebolire eticamente l’icona avversaria,
volta a motivare l’adesione alla guerra e a manipolare l’opinione pubblica, sia riuscita molto bene
nel suo intento proprio perché toccò corde già molto scorperte.
La Prima Guerra Mondiale fu una guerra di logoramento durante la quale soldati spesso giovanissimi
si trovarono a vivere in condizioni deplorevoli, in una sorta di moderno girone infernale fatto di fango,
insetti, sporcizia e promiscuità, atterriti dalla presenza di un nemico che viveva a poche centinaia
di metri ma che poteva non mostrare il suo volto per molto tempo.
Di lui si conosceva il rumore dell’artiglieria e l’immagine inquietante che popolava le singole fantasie.
In quest’atmosfera già carica di tensione operò quindi la capillare azione propagandistica statale,
la quale altro non fece che dare una fisionomia e una valenza politica ai fantasmi dei militari logorati
da mesi di trincea; l’efficacia di tale azione educativa fu tale che l’immaginazione negativa inculcata
dall’alto ebbe in moltissimi casi a lungo la meglio sulla stessa percezione.
Il secondo stadio segna invece un’apertura nei confronti di una percezione autonoma, sempre
più indipendente dalle precedenti suggestioni negative. Il contatto visivo con quello che doveva essere
un mostro informe e l’abitudine alla guerra rappresenta per i soldati più smaliziati una svolta notevole
perché in un’atmosfera emotivamente meno carica si apre la possibilità di un personale sviluppo
di senso critico e di un affrancamento dalle coercizioni ideologiche passivamente assorbite.
La percezione deformata cede gradualmente il posto a un timore reverenziale che si tramuta
in senso di inadeguatezza, ma al contempo inizia anche a farsi strada l’intuizione di una condizione
condivisa da tutti i soldati fatta di morte e di dolore.
Il contatto visivo profondo, quello occhi negli occhi col tanto odiato e temuto nemico,
è ciò che mette in moto l’evoluzione finale verso una ritrovata autonomia emotiva perché
improvvisamente gli occhi del soldato rivelano l’uomo.
La scoperta è così sconvolgente nella sua ovvietà da ribaltare radicalmente la percezione precedente
mettendo in discussione la stessa adesione della guerra; il singolo riacquista la propria capacità
di discernimento, i concetti di nemico e di avversario si scindono e la figura realmente ostile
e nemica appare in tutta la sua evidenza.
Il terzo momento vede quindi delinearsi una nuova fisionomia, quella del nemico interno,
colui che abita le retrovie, da ordini assurdi mandando al massacro ragazzini impreparati
sotto l’egida dell’amor di patria e di altri astratti valori demagogici.
Quello tracciato fin qui è un percorso di maturazione individuale che manifesta
delle profonde analogie con il difficile cammino di liberazione dalle coercizioni dell’educazione
infantile che ha la possibilità di compiere chi intraprende un lavoro psicoterapeutico.
L’educazione improntata ai principi della pedagogia nera, così a lungo analizzati da Alice Miller
nei suoi saggi, assomiglia molto all’opera di indottrinamento ideologico messo in atto
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dagli Stati Maggiori delle nazioni belligeranti nei confronti dell’esercito. I risultati di tale lavoro
protratto lungo tutto il processo di sviluppo del bambino hanno dimostrato di portare alla formazione
di una schiera di giovani uomini e donne incapaci di sviluppare un proprio senso critico,
di applicare alla vita e alle sue manifestazioni una propria griglia interpretativa ed emotiva.
Il punto di contatto più evidente fra le due condizioni, quella militare e quella infantile,
è l’abitudine a obbedire alla regola per impossibilità che diventa poi incapacità di ribellarsi,
e questo porta a modificare la percezione autonoma sulla base di suggestioni subdolamente
inculcate. Azioni di questo genere possono agire a livelli così profondi da modificare
persino l’autopercezione di sé, al punto che lo specchio potrebbe riflettere un giorno solo più
quella maschera che anni di pedagogia nera diligentemente applicata sono riusciti a imporre
alla libera espressione dei sentimenti.
Se questa catena non viene spezzata, il rischio è di giungere a una così profonda cecità emotiva
e a una così piena capacità di reprimersi e non ascoltarsi da celare il vero Io,
rendendolo irriconoscibile, estraneo e quasi nemico.
L’azione dell’educazione che un bambino riceve dall’adulto, al quale è legato da un amore
incondizionato, è certamente molto più difficile da mettere in discussione e smascherare qualsiasi
addestramento militare; nei confronti dei genitori il bambino non ha difese, e tale condizione
di totale abbandono non è simulabile dall’amore di patria o dalla fedeltà all’istituzione militare.
Gli autori dei tre romanzi sono stati soldati che hanno mantenuto un certo grado di libertà,
e per questo motivo è stato possibile che ai loro occhi si manifestasse l’epifania dell’umana empatia,
l’unica in grado di spezzare la catena ideologica.
Per molti bambini maltrattati oramai cresciuti, purtroppo la liberazione passa per strade più tortuose,
e molti tenteranno a loro volta di terrorizzare i loro sottoposti, cercando inconsapevolmente di rifarsi
in questo modo delle antiche ferite.
Per altri forse il testimone soccorrevole, di cui parla Alice Miller, forse l’esperienza dell’affetto
anche in un rigido regime educativo renderanno possibile la sopravvivenza di una seppur offuscata
e condizionata consapevolezza emotiva. Questi adulti saranno in grado di spezzare la loro catena
il giorno in cui, guardandosi nello specchio, saranno in grado di cogliere una certa velatura di dolore
nei loro occhi e sentiranno il desiderio e il bisogno di conoscere il loro vero volto, permettendo
finalmente a quel bambino lontano il diritto di esistere.
LA PERCEZIONE DEL NEMICO.
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(A cura di 20).
“All’alba del 13 Luglio 1942, gli uomini del Battaglione 101 della Riserva di Polizia tedesca
entrarono nel villaggio polacco di Jozefow. Al tramonto avevano rastrellato 1.800 ebrei.
Questo non fu che l’inizio. Ordinaria crudeltà nazista?”
Gli uomini del Battaglione 101 erano operai, artigiani, impiegati. Tutti arruolati da poco.
Non erano altro che uomini comuni reclutati per estrema necessità, non erano nazisti, né antisemiti.
Come giustificarono il loro comportamento?
E soprattutto, perché furono così spietatamente efficienti nell’eseguire gli ordini?
La spiegazione data da Christopher Browning è sorprendente e angosciante.
“Un uomo comune”, afferma l’Autore, “può diventare uno spietato assassino. I sentimenti più banali
e apparantemente innocui possono essere i motori della più estrema inumanità. Ieri e oggi”.
Browning, Christopher R.: “Uomini comuni: polizia tedesca e ‘soluzione finale’ in Polonia”.
Si cercano varie spiegazioni su quali siano i possibili fattori che hanno fatto diventare uomini comuni
terribili aguzzini, carnefici. Gli stereotipi razziali, l'abbruttimento della guerra, l'indottrinamento,
ma soprattutto la conformità al gruppo e il senso di distacco psicologico attraverso
la disumanizzazione dell'altro, arrivare quasi a colpevolizzare “l’altro”, in questo caso gli ebrei,
come per giustificare le proprie crudeltà e poter fare cadere il proprio senso di repulsione
nell'oblio, tramite giustificazioni apparenti o con sostanze come l'alcool per alterare
il proprio senso emotivo e morale.
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“... tentai di uccidere solo bambini e ci riuscii. Siccome le madri tenevano i bambini per mano,
il mio vicino uccideva la madre e io il figlio, perché, ragionavo tra me, dopotutto, senza la madre
il figlio non avrebbe più potuto vivere. Il fatto di liberare i bambini che senza la madre
non avrebbero potuto vivere mi sembrava consolante per la mia coscienza”.
(Testimonianza di un operaio metallurgico facente parte del Battaglione 101 - pagg. 75-76,
capitolo ottavo “Riflessioni su un massacro”).
“... Dopo il massacro di Jozefow, quando gli uomini arrivarono in caserma erano arrabbiati e depressi.
Furono messe a disposizioni generose quantità di alcolici e molti si ubriacarono. Nessuno parlò
dell’accaduto, chi non era stato nel bosco non volle sapere niente e chi c’era stato non volle più
parlarne, né allora né in seguito”. (Pag. 72, capitolo settimo “L’iniziazione al massacro: Jozefow”).
QUALE PUÒ ESSERE STATO IL MECCANISMO CAUSALE DI QUESTO ORRORE?
L’evoluzione tende a favorire la sopravvivenza di coloro che sanno adattarsi alle situazioni ambientali,
sociali, politiche. Se percepisco un sistema come legittimo mi sento “obbligato” ad adottare il punto
di vista “dell’autorità”. Questo vale sia per quanto concerne il carnefice, sia per quel che riguarda
la vittima. Gli ebrei, vittime dei vari massacri, colpevolizzati di un qualcosa di incomprensibile,
annullati nella loro persona, nei loro sentimenti, nelle loro emozioni, derisi nei loro valori.
Tutto questo fu sopportato da loro senza la benchè minima reazione, impotenti davanti a tutto ciò
che stava accadendo, come se il senso di vergogna e di colpa si stesse insinuando in loro.
“... Dopo il primo rastrellamento, quando giunse il rumore della prima salva, gli sventurati
avevano capito quale fosse il loro destino. Tuttavia dimostrarono una compostezza ‘incredibile’
e ‘sorprendente’”. (Pag. 65, capitolo settimo).
La vittima, alterata nel proprio stato emotivo e morale, deve sopravvivere e l’unico modo che ha
per farlo è quello propostole dal suo carnefice. E in tutto questo aggiungiamo anche il fattore
dell’incredulità davanti all’orrore. Come poter comprendere, ammesso che si sopravvivesse,
tutto quello che era accaduto? L’incredulità dinanzi a degli eventi orribili, disumani, avrebbe potuto
prendere il sopravvento sulla verità. Come poter credere che la crudeltà potesse arrivare a tanto.
“L’Olocausto fu possibile perché singoli esseri umani uccisero altri esseri umani, in gran numero
e per un lungo periodo di tempo”. (Prefazione, pag. XIII).
“... Comunque andrà a finire questa guerra l’avremo vinta noi. Nessuno sopravviverà, ma se qualcuno
scampasse il mondo non gli crederà”. (Prefazione, pag. 3, Levi, Primo: “I sommersi e i salvati”).
STORIE DI ORDINARIA FOLLIA FAMILIARE.
Proviamo a fare ora quello che può sembrare agli occhi di qualcuno un paradosso, un salto nel tempo.
Quante vittime e quanti carnefici ci sono ai giorni nostri, in ambienti familiari, senza che uno sappia
che di “violenza” o di annullamento dell’altro si tratti.

Quello che ci siamo sentiti dire da bambini:
“Stai fermo, muoviti, fai piano, non toccare, non ti sporcare, stai zitto, saluta, vieni qui,
non starmi sempre intorno, vai a giocare, non disturbare, attento che cadi,
te l’avevo detto che cadevi, non stai mai attento,non sei capace,
sei troppo piccolo, lo faccio io, ormai sei grande,
gioca per conto tuo, vai a letto, alzati, non si parla con la bocca piena”.

Quello che avremmo voluto sentirci dire da bambini:
“Ti voglio bene, sei bello, sono felice di averti,
parliamo un po’ di te, come ti senti, sei triste, hai paura,
perché non ne hai voglia, sei dolce, raccontami che cosa hai provato, mi piace quando ridi,
puoi piangere se vuoi, ho fiducia in te, ho voglia di parlarti, di ascoltarti, è bello stare con te”.
(Conoscenza personale di fotocopia anonima e senza titolo).
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Il bambino cerca calore e tenerezza, l’unico riferimento che ha sono i suoi genitori, l’ambiente
in cui vive al quale deve conformarsi anche quando i suoi bisogni affettivi vengono respinti o confusi.
Quando ciò accade non vi è per la vittima una reazione di odio o di rifiuto come normalmente
dovrebbe essere, ma prevale la paura della perdita dell’oggetto amato che lo induce a sottostare
alle richieste del genitore per evitare di affrontare l'angoscia e la solitudine.
Sottrarsi alle offerte di un genitore, “ribellarsi” a quello che l’ambiente gli offre non è possibile
perché quello è l’unico modo che il bambino ha per sentire di esistere, per riuscire in qualche modo
a sopravvivere alla presenza del vuoto interno, alla desolazione affettiva e alla solitudine
che lo pervade. Le figure di attacamento nei primi anni di vita sono per il bambino una “base”
che si pone come “rifornimento affettivo” indispensabile per la scoperta del mondo.
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Il venir meno di questa relazione, indipendentemente dalla sua qualità, le aspettative deluse
dalle figura di attaccamento, induce una carenza di autostima, un annullamento di sé,
forse un senso di colpa per l’abbandono affettivo subito, che fa sentire il bambino
inadeguato, cattivo e non degno di essere amato.
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Difficile mettere in discussione quanto più si ama, è troppo il carico di sofferenza per un bambino
che spasima solo dell’essere amato. In conclusione si può forse affermare quanto sia importante
poter elaborare, in ogni tempo, i propri vissuti.
Tutti si è un po’ vittime e un po’ carnefici nella propria individualità.
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