AK IsTANI a Bergamo - Rapporto Immigrazione 2006

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AK IsTANI a Bergamo - Rapporto Immigrazione 2006
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Politiche
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di E. Brumana
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INDICE
PREMESSA
p. 3
INTRODUZIONE
p. 5
EMERGENZE SOCIALI: UNA SPINTA ALL’EMIGRAZIONE
p. 8
IL PROCESSO MIGRATORIO
Le fasi dell’emigrazione
Le zone dell’emigrazione
La scelta di emigrare
Le donne nel processo migratorio
p. 12
p. 14
p. 18
p. 23
LA PRESENZA IN ITALIA E IN PROVINCIA
I dati e gli insediamenti
L’approdo
Il lavoro
La lingua e la scuola
Le relazioni sociali
p. 27
p. 29
p. 32
p. 36
p. 41
LA CULTURA: FRA TRADIZIONE E RELIGIONE
La famiglia
La donna: dalla protezione al diritto
II tema dell’onore
La religione
Maternità e salute
Istruzione: scuole pubbliche, private e madrasa
Il tempo libero e il cricket
p. 45
p. 50
p. 54
p. 57
p. 58
p. 61
p. 66
LE PROSPETTIVE
p. 70
APPENDICE
Il Pakistan da dominion a repubblica islamica
Informazioni generali
Economia
Interscambio Italia-Pakistan
p. 71
p. 73
p. 74
p. 75
2
PREMESSA
La presenza d’immigrati pakistani nella nostra Provincia è relativamente recente, ma, numericamente, comincia ad essere
significativa. Infatti l’Istat1 ci dice che alla fine del 2006 i residenti
pakistani si collocavano all’ottavo posto come presenze sul territorio provinciale.
Nonostante questo, essa sembra essere una presenza ancora
poco visibile. Infatti le risposte a domande come: “Conoscete
pakistani nelle vostra zona? Se sì, cosa sapete di loro?”, poste in
modo casuale a persone diverse per età, sesso, dislocazione geografica, rivelano incertezza, stereotipi, difficoltà a focalizzare e
riconoscere caratteristiche di questo “collettivo di passaporto”2.
Le seguenti ed altre dello stesso tono sono state le risposte più
frequenti: “personalmente non ne conosco… penso che siano qui
perché nel loro paese non c’è lavoro…” “Ho un alunno in classe, ha
difficoltà di relazione…” “Certamente ci saranno, ma io non so…“
“Mah… vedo soprattutto uomini… forse mi confondo con gli indiani…”
“Sconosciuti…” “…sono riservati, penso che incontrino difficoltà qui
da noi” “...nel loro paese c’è la guerra?…”
Una scarsa conoscenza reciproca e gli indici d’immigrazione in
continua crescita in provincia, evidenziano l’insufficienza dei dati
quantitativi, i soli attualmente disponibili, soprattutto perché questi ci presentano ”i pakistani” come blocco omogeneo.
L’approccio qualitativo di questa ricerca, invece, che al suo centro
colloca interviste in profondità condotte con metodo conversazionale, smonta quest’assunto e cerca, attraverso la narrazione, di
far emergere le storie, le esperienze, le differenze.
“I contatti avvengono tra individui, non tra culture…di fatto sono gli
individui che esistono, con i loro atteggiamenti e le loro norme di
comportamento: essi vivono in habitat culturali molteplici (familiari,
1
2
www.demoistat.it (Stranieri - Bilancio demografico, 2006).
Termine usato per indicare la nazionalità ed il legame che questa rapresenta.
3
lavorativi, massmediali, della società d’origine, della società di accoglienza…”3 (Santerini 2001).
Le interviste con gli immigrati pakistani sono state organizzate
con la collaborazione di mediatori e di facilitatori, che hanno aiutato a costruire attorno al colloquio un clima di fiducia e disponibilità. L’obiettivo è stato quello di raccogliere informazioni sulla
decisione di emigrare, sull’arrivo in Italia, sull’inserimento nel
mercato del lavoro e, infine, sulle prospettive future. Altri temi
sono emersi spontaneamente dagli intervistati (il ruolo della donna, della famiglia, la religione, l’istruzione, la salute…).
A questo nucleo centrale d’informazioni vanno aggiunti i punti
di vista di testimoni italiani privilegiati, che da anni operano nei
servizi e che hanno incontrato immigrati pakistani nella scuola,
agli sportelli del Sindacato, all’ASL. La scelta è stata quella di
organizzare un focus group4 per favorire il confronto, la messa
in comune d’esperienze, l’emergere delle differenti percezioni. Il
focus, di cui il rapporto riporta ampi stralci, ha evidenziato come
il nostro agire e pensare siano ancora in parte condizionati da
stereotipi, soprattutto nel caso di quegli immigrati che conosciamo più attraverso le notizie riportate dai mass media che non
attraverso un incontro personale. Corollario del focus sono stati
anche un’intervista e colloqui informali, sempre con testimoni
italiani, che hanno permesso di puntualizzare alcuni aspetti di tipo
giuridico o legati ad informazioni sull’imprenditoria degli immigrati pakistani.
Una fase della ricerca è stata dedicata all’individuazione e all’analisi di documentazione, che, ricavata da testi, periodici e riviste,
siti internet, ci permette di conoscere qualcosa in più sulla storia,
sull’economia, sulla cultura del Pakistan. A queste informazioni
sono dedicati paragrafi specifici, accompagnati da stralci di interviste.
3
4
M. Santerini, Progettare l’intercultura, in Animazione Sociale n°10, ott. 2001.
Organizzato presso l’IC di Verdellino il 5 Giugno 2007.
4
INTRODUZIONE
In apertura, il rapporto propone alcune informazioni che forniscono al lettore una cornice generale di carattere economico,
storico e politico del Pakistan per collocarvi i successivi approfondimenti.
Nella seconda parte sono analizzate le caratteristiche del progetto
migratorio (la scelta, il luogo di partenza, le speranze, l’approdo) e
il lento processo d’inserimento (la casa, la lingua, il lavoro). Nelle
differenti esperienze di vita dei vari testimoni si ritrovano alcune
costanti che aiutano a scoprire le ragioni delle loro scelte, le regole di vita e le tradizioni a cui fanno riferimento. Nella terza parte è
dato ampio spazio agli aspetti concernenti la cultura, la religione,
i valori, che acquistano maggior autenticità e dinamicità, in quanto
presentati a partire dalla quotidianità narrata nelle interviste con
ricchezza di particolari e con il desiderio dei protagonisti di mettersi in gioco per aprire nuovi canali di comunicazione.
Uno dei guadagni della ricerca è stato scoprire, intervista dopo
intervista, l’eterogeneità della presenza pakistana in provincia.
Questa caratteristica dipende dall’appartenenza a differenti etnie,
dall’area geografica di provenienza, dallo status socio-economico
della famiglia, dal contesto abitativo in Pakistan (villaggio o città).
C’è una prevalenza maschile fra gli immigrati, quindi, una certa
omogeneità di genere, l’arrivo è recente in alcune aree, in altre è
più datato e qualcuno già accenna al concetto di seconda generazione. La maggior parte dei pakistani, però, è approdata qui circa
dieci- dodici anni fa, ha regolarizzato la propria posizione con le
ultime sanatorie, in particolare quella del ’98, i ricongiungimenti
con le famiglie (mogli e figli o fratelli maschi) sono avvenuti negli
ultimi cinque anni. Molto limitato attualmente, dopo l’inserimento
del Pakistan nel Decreto Flussi, il numero degli irregolari.
E’ una presenza caratterizzata da differenze economiche e culturali,
dovute alla situazione familiare di partenza che influenza, a causa di
livelli diversi di istruzione, l’accesso sia al lavoro, sia ai servizi. Sono
emerse, inoltre, differenze di religione, testimoniate dalla presenza
in provincia sia di pakistani cristiani, sia di musulmani.
5
I lavoratori pakistani sono prevalentemente dipendenti, occupati
in vari settori (agricoltura, servizi, industria), ma esistono anche
esempi di imprenditorialità, specialmente nel commercio. L’attività in questo settore richiede un buon livello d’istruzione e disponibilità ad impegnarsi, a ricercare il successo in un business
personale, del quale far inorgoglire la propria famiglia.
Fondamentale è il ruolo delle famiglie allargate, in grado di supportare i nuovi arrivati con una rete di aiuti e relazioni, senza creare conflitti con la comunità italiana residente. Meno consistenti,
al contrario, appaiono i rapporti fra le diverse famiglie e con altri
immigrati, eccezion fatta per la comunità indiana della provincia,
con cui viene condivisa la passione per il cricket.
L’accesso ai servizi (scuola, asili, sanità) non presenta difficoltà,
se non per la particolare attenzione, che viene richiesta agli operatori relativamente alla questione di genere.
Centrale è il tema dei diritti delle donne e, legato ad esso, il tema
dell’onore, su cui le differenze culturali fra italiani e pakistani
sono ancora forti. La ricerca ha approfondito alcuni dei temi che
riguardano la donna, dal matrimonio combinato alla maternità
alla possibilità di lavoro. E’ da notare che, pur all’interno di una
cornice culturale comune lontana dalla nostra, varie sono state
le letture e le posizioni degli intervistati.
Anche in questo caso, la famiglia allargata è il centro delle decisioni personali, lavorative e affettive dei singoli. Il processo migratorio, fatto di allontanamenti e ricongiungimenti, mette alla prova
la famiglia, che, per rinsaldare i suoi legami, diventa il punto di
riferimento della tradizione, ma che pare anche in grado, di fronte
ai cambiamenti, di reinterpretare regole, valori, consuetudini. Lo
sforzo di apprendere la lingua, l’impegno negli studi, la tenacia nel
lavoro e il rispetto dei ruoli e della comunità residente sono i tratti
caratteristici che accomunano le rappresentazioni mentali sugli
immigrati pakistani che ho raccolto fra gli italiani intervistati5.
5
Non vanno sottaciuti alcuni fatti di cronaca riportati dal quotidiano
L’Eco di Bergamo (8 marzo 2008) relativi a risse e fatti violenti nella zona
di Albano S. Alessandro che hanno visto coinvolti giovani pakistani.
6
Le pagine che seguono, approfondendo i diversi temi, attraverso i
racconti di vita degli immigrati, cercano di valorizzare le differenze
ed evitano conclusioni o classificazioni affrettate: è il primo passo
di un lungo percorso, che richiede nuove riflessioni, proposte ed
incontri.
“…ognuno esplora una strada differente e torna dalla spedizione con
scoperte diverse (…) ciascuna scoperta potrebbe arrecare benefici a
tutti gli esploratori, a prescindere dalla strada battuta da ciascuno
di essi”6 (Baumann, 2003).
6
Z. Baumann, Voglia di comunità, Laterza, Bari, 2003, pagg.131-132.
7
EMERGENZE SOCIALI: UNA SPINTA ALL’EMIGRAZIONE7
- Tasso di natalità: 30 per mille, quasi il 42% della popolazione ha
meno di 14 anni
- Mortalità infantile nel primo anno di vita: 79 ogni mille nascite
- Mortalità infantile entro il 5° anno di vita: 99 ogni mille nati vivi
- Tasso di fertilità: 4,5 figli per donna
- Tasso netto di iscrizione alla scuola primaria: 56% femmine, 76%
maschi
- Tasso di alfabetismo fra gli adulti: 36% femmine, 63% maschi
- Speranza di vita alla nascita: 64 anni
- Prodotto nazionale lordo pro capite: 690 dollari USA
- Crescita annua della ricchezza nazionale (PIL) nel periodo
1990-2005: 1,3%
- Accesso all’acqua potabile: 91% della popolazione (89% nelle aree
rurali)
- Accesso a servizi igienici adeguati: 59% della popolazione (41%
nelle aree rurali)
Il Pakistan è un paese in cui la precarietà sociale e la povertà diffusa della popolazione convivono con il ruolo di pedina strategica
sullo scacchiere politico internazionale. Il ruolo che il Pakistan
riveste nel nuovo scenario internazionale, quale alleato islamico
degli USA nella lotta al terrorismo, crea tensioni interne con le
componenti della società aderenti ai partiti islamici. La sicurezza
è una preoccupazione crescente: lo dimostrano gli attentati di
matrice islamica estremista, che si ripetono periodicamente da
alcuni anni ed i recentissimi fatti di cronaca.
“Sono venuto in Italia per guadagnare più soldi per mantenere la
famiglia, ma soprattutto perché abitavo in una zona di confine pericolosa…. Quando c’è la guerra, quando bombardano…non è sicuro
per la famiglia e dove io abitavo la guerra c’è stata due volte…Con
7
Fonti: Rapporto UNICEF “La Condizione dell’infanzia nel mondo 2007;
Il Sole 24 Ore, 25/02/07; www.wforw.it., L’Eco di Bergamo,10/10/06.
8
i soldi che inviavo, la mia famiglia stava bene, ma era in mezzo ai
pericoli per gli scontri continui nel Kashmir …loro quando vedevano
girare i soldati o sentivano di notte una o due bombe avevano paura,
perché anche se hai soldi la tranquillità manca…perchè la guerra è
un pericolo vero” [intervista 6].
S’intuisce da queste parole la preoccupazione per la famiglia, che
ha accompagnato per anni A.M., pakistano residente a Bergamo,
che finalmente quest’anno ha completato le pratiche per il ricongiungimento familiare.
In alcune regioni gli spostamenti richiedono, quindi, scorte armate e ciò rende difficili gli aiuti umanitari nei momenti di grande
emergenza. Le condizioni di vita della popolazione sono, inoltre,
aggravate da disastri naturali che si ripresentano frequentemente. Sorgendo su un’area a forte rischio sismico, infatti, il Pakistan
è stato più volte teatro di devastanti terremoti, l’ultimo dei quali ha
colpito le zone nord occidentali del paese nell’ottobre 20058.
Quasi tutti i pakistani a Bergamo, come è stato confermato nelle
interviste, hanno la possibilità, grazie ad una antenna parabolica,
di seguire i programmi della TV pakistana e di essere aggiornati
sulle vicende politiche del loro paese. C’è un grande interesse a
riguardo, da parte degli immigrati, soprattutto in questo periodo,
ed è maggiore fra i capofamiglia, mentre i giovani sembrano più
distaccati rispetto alle vicende del loro paese di origine. Attraverso le emittenti pakistane arrivano anche richieste ed indicazioni
per inviare aiuti. Bergamo è stata testimone di una grande mobilitazione a favore dei terremotati nel 2005 e come afferma H.M.,
residente ad Azzano S. Paolo:
8
Il sisma di magnitudo 7,6 della scala Richter, il più violento dell’ultimo
secolo, ha colpito un’area montagnosa estremamente impervia, causando
una vera e propria catastrofe umanitaria: oltre 4 milioni le persone colpite,
di cui 3,3 milioni rimaste senza tetto; 73.000 le vittime finora accertate e
altrettanti i feriti, mentre 9.000 persone risultano tuttora disperse.
9
“Molte associazioni chiedevano di mandare soldi in Pakistan quando
c’è stato il terremoto, lo vedevamo alla tv pakistana” [int. 2].
L’impegno del CESVI di Bergamo in quell’occasione è stato notevole e, oltre all’avvio della ricostruzione di tre scuole con il supporto dell’ONG pakistana MGPO (Mountain and Glacier. Protection
Organization), ha appoggiato il viaggio di Giovanni Diffidenti che ha
realizzato un libro ed una mostra fotografica sul sisma.
Anche la situazione dei profughi provenienti dalle zone confinanti
con l’Afganistan è drammatica. Il Pakistan, paese poverissimo,
dove il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, ha,
negli ultimi 20 anni, accolto più di 2.500.000 profughi (numero in
aumento nonostante la chiusura delle frontiere). Chi arriva lo fa
passando attraverso le montagne dello sterminato confine, oppure pagando la polizia pakistana con tutto quello che possiede;
molti raccontano di aver visto i loro parenti morire nello sforzo
di raggiungere i campi rifugiati, caotica distesa di tende di plastica, piantate nel terreno polveroso, gelide in inverno e roventi
in estate.
A questo si aggiungono scontri fra etnie e scontri religiosi, che
spesso seminano terrore e morte nei villaggi. Va rilevato che le
tensioni religiose, che periodicamente sfociano in conflitti armati
riguardano sunniti, sciiti, ortodossi, ahmadiyya, ma anche cristiani.
“I Cristiani in Pakistan sono pochi sono una minoranza…- dice il presidente pakistano dell’Associazione L’amicizia di Gioventù Cristiana,
residente a Montello, -..ci sono dei fatti come quello successo sei
mesi fa, quando c’è stato uno scontro fra pakistani musulmani e pakistani cristiani, che ha causato anche l’incendio di tante case di un
villaggio grande quasi come Montello, anche la scuola e la casa delle
suore…sono intervenuti anche i volontari di Amnesty e il vescovo di
Lahore su questo fatto. Il governo pakistano dice che c’è libertà, ma
quando succedono gli scontri fra la maggioranza musulmana e la
comunità cristiana non interviene. Noi abbiamo creato qui in Italia
10
questa associazione che non solo opera qui per aiutare i pakistani
immigrati, ma, soprattutto, cerca di aiutare la comunità cristiana in
Pakistan” [ int. 4].
11
IL PROCESSO MIGRATORIO
Le fasi dell’emigrazione9
La prima fase dell’emigrazione s’indirizzò verso l’Inghilterra nel
periodo che va dalla II guerra mondiale agli anni ‘60. La Gran
Bretagna fu il primo paese interessato dall’afflusso di migranti
provenienti dalle ex colonie del subcontinente indiano. Durante
la II guerra mondiale molti punjabi10, spinti principalmente da
motivazioni di carattere economico, si unirono alle forze alleate e
decisero di restare a vivere in Gran Bretagna richiamando familiari e parenti. L’ afflusso di rimesse da parte dei primi migranti,
che portò un significativo miglioramento delle condizioni di vita
delle famiglie in patria, ebbe il risultato di incrementare l’emigrazione (si stima che 70.000 pakistani, la maggior parte uomini, si
stabilirono in Gran Bretagna tra il 1955, data dei primi massicci
arrivi, e il 1962)11.
La decisione del governo pakistano, nel 1960, di costruire una
diga a Mangla, nel distretto di Mirpur nel Kashmir meridionale,
incrementò il flusso migratorio. Per fare posto alla costruzione di
questa enorme opera idraulica circa 250 villaggi furono sommersi
dalle acque: il governo pakistano, di conseguenza, promosse la
migrazione di circa 5.000 abitanti della zona come risarcimento
per le perdite di case e terreni. In questa fase la migrazione verso
9
Fonti: M. Brambilla, Percorsi pakistani: etnografia di un processo
migratorio, Tesi di laurea in Sociologia della comunicazione, Facoltà di
lettere e filosofia, Università di Bologna, a.a 2006-2007;
E. Giunchi, Approfondimenti su Pakistan e Bangladesh, Atti del Convegno
Famiglie migranti e stili genitoriali, Bologna, 2005.
10
Etnia di origine indo-islamica (la maggiore, circa 48% della popolazione)
situata nella regione del Punjab, una delle quattro province principali del
Pakistan.
11
R. Scaglioni, Pakistani a Bologna: solidarietà informali e percorsi di
insediamento in una vicenda migratoria, Tesi di laurea in Etnologia,
Facoltà di lettere e filosofia, Università di Bologna, in: M. Brambilla,
Percorsi pakistani: etnografia di un processo migratorio.
12
l’Inghilterra si caratterizzò come temporanea: l’idea, per la maggior parte di questi migranti, era di effettuare un periodo di lavoro
all’estero e di guadagnare il necessario per garantirsi un futuro
in patria, al punto che diversi autori parlano di un vero e proprio
“mito del ritorno”.
A seguito della restrizione dei flussi, data dalla crisi economica in
Gran Bretagna, gli anni ‘70 videro incrementarsi gli spostamenti
verso il Golfo Persico. Diverse furono le cause che portarono ad
un cambiamento di direzione e ad un deciso incremento dei flussi
verso paesi quali Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi ed in misura minore l’Iraq. Come fattore attrattivo agì senza dubbio il boom
economico, con l’impennata del prezzo del petrolio a causa della
crisi del 1973 e la conseguente crescita della domanda di forza lavoro nelle regioni arabe. Nell’arco di un decennio, dall’inizio degli
anni Settanta all’inizio degli Ottanta, circa due milioni di pakistani
emigrarono verso le regioni del Golfo. Migliaia di agenti, molti di
origine pakistana, fecero accordi con le compagnie di costruzioni
per la fornitura di lavoratori specializzati.
Vi fu negli anni ‘80 una controtendenza causata dalla guerra del
Golfo e il flusso migratorio si indirizzò nuovamente verso Europa
e Nord America. A partire dai primi anni ’90 anche Olanda, Germania, Francia, Italia divennero mete d’approdo dell’immigrazione
pakistana, come testimonia la maggior parte degli intervistati:
“Prima nel 1998 sono stato in Francia, poi in Italia perché conoscevo
un pakistano che mi ha aiutato per la casa e perché qui era più facile
avere i documenti e il permesso di soggiorno” [int. 5].
“Mio suocero è arrivato in Italia nel 1990 dopo essere stato in Francia,
ha girato molti altri paesi, ma il permesso di soggiorno l’ha ottenuto
in Italia; era emigrato dal Pakistan in cerca di lavoro” [int. 1].
“Mio padre era arrivato qua dieci anni prima di me, circa 14 anni fa,
per trovare lavoro, mia madre lo ha raggiunto con qualche mese di
13
anticipo rispetto a noi tre figli che siamo qui ormai da 4 anni” [int.
2].
“Muhammad Yousaf Amin nel 1996 parte per l’Italia in cerca di una
occupazione che gli permetta di mantenere i genitori, i fratelli e la
moglie, che già aspetta un bambino. In mano ha un permesso per
turismo, nel cuore il desiderio di rimanere per aiutare chi è lontano.
Così quando il permesso scade decide di restare in Italia”. (BergaMondo, 17-04-07).
Le zone dell’emigrazione
La maggior parte degli emigranti pakistani proviene da un’area
situata tra il Punjab settentrionale e la parte meridionale del
Kashmir, zona compresa tra le città di Islamabad e Lahore: è
una delle aree meno povere del paese, con un notevole sviluppo
agricolo e la presenza di alcuni distretti industriali. Il distretto di
Gujrat occupa una superficie di oltre 3.000 Kmq compresi fra il
fiume Jehlum a nord-ovest e il Chenab a sud-est12.
Secondo il censimento del 1998, il distretto conta oltre due milioni e mezzo di abitanti, di cui circa il 25 % risiede in aree urbane,
mentre il restante 75 % vive in villaggi rurali. La zona di Gujrat,
pur a prevalenza agricola, si caratterizza anche per la presenza
di alcuni distretti industriali.
Sebbene la regione di provenienza della maggior parte degli immigrati sia la stessa, molte sono le differenze culturali, che dipendono dal contesto abitativo di origine, come sostiene Shagufta
Arshad, mediatrice culturale, di Verdello:
“… il Pakistan non è tutto uguale, il 95% dei pakistani immigrati che
sono qua provengono da paesi piccoli o villaggi, alcuni anche da città
12
Fonti: M. Brambilla, Percorsi pakistani: etnografia di un processo
migratorio, Tesi di laurea in Sociologia della comunicazione, Facoltà di
lettere e filosofia, Università di Bologna, a.a. 2006-2007;
www.larivistadelmanifesto.it; Il Sole 24 ore, 7/08/07
14
e le città sono moderne, hanno tutti i servizi come in Italia..…ma si
deve capire che cosa è un villaggio, che qui è davvero sconosciuto,
è un posto dove si vive con gli animali, dove la mattina ci si alza e si
munge la mucca…” [focus group].
Una sottolineatura simile viene anche da A.R., proveniente da Gujranwala studentessa del Liceo Falcone di Bergamo e residente
a Ciserano:
“ …l’idea di villaggio da noi è quella di un posto fuori, difficile da raggiungere, dove non ci sono ospedali, o servizi…quelli sono i villaggi…
il nostro paese di provenienza, invece, si trova alla periferia di una
città e vicino ad una zona militare, con i servizi per i militari…. come
ospedali, scuole. In pratica questo ha aiutato lo sviluppo anche cul-
15
turale del paese….con tante scuole nell’area militare, tutti i bambini,
anche io e mio fratello, abbiamo cominciato la scuola lì, anche perché
le materie erano insegnate in inglese” [int. 8].
Da alcuni decenni a questa parte, l’emigrazione costituisce per
il distretto di Gujrat una risorsa economica importante. La quasi
totalità delle famiglie, con l’esclusione solo delle più povere, prive di mezzi economici per finanziare una partenza, fa in modo di
inviare qualche proprio membro all’estero.
La selezione delle destinazioni avviene secondo vari criteri, uno
dei quali è il costo del viaggio ed eventualmente il rischio ad esso
correlato. Fra i rischi viene considerata anche la possibilità di
dover rimanere per molto tempo in clandestinità, come afferma
K.T., proveniente da Jhelum, una cittadina di medie dimensioni
nella regione di Gujrat, ed ora residente a Gorlago:
“… nella regione di Jehlum il novantacinque per cento degli emigranti
vuole andare in Inghilterra perché se dal Pakistan vai in Inghilterra
prendi il visto subito, ma è più difficile per il resto d’Europa, poi è
più facile per la lingua perché in Pakistan studi inglese nella scuola
pubblica e nella scuola privata si studia in inglese, i libri sono in
inglese” [int. 1].
La scelta dei Paesi in cui immigrare è dovuta anche alle reti di
conoscenze, che sono di tipo etnico e geografico. Questo significa,
ad esempio, che i punjabi tendono ad inserirsi in comunità dove
ci sono già altri punjabi provenienti dagli stessi villaggi o dalle
stesse città.
Laura Cruciani scrive su BergaMondo del 31/07/07, “ C’è un piccolo Pakistan in alta Valle Seriana formato da una sola famiglia, che
porta i cognomi Hashim, Bhatti e Khoklar. Ventidue persone in tutto
tra fratelli, cugini e zii[…]. A dare il lá alle grandi partenze [avvenute
in periodi successivi] dalla città di Lahore è stato 17 anni fa Perviaz
Hashim, 42 anni, residente a Ponte Nossa[…]:
“«Quando lasci la terra dove vivi non sai cosa trovi e dove arrivi. Le
16
uniche cose che conosci sono quelle che ti vengono raccontate e
avere già qualche parente nella terra straniera ti dà un po’ più di
sicurezza»“.
Conta, poi, la possibilità di guadagno, che diventa il principale fattore di preferenza. A fronte di uno stipendio che per un lavoro manuale consente in patria di guadagnare l’equivalente di circa 100
euro mensili, infatti, abbiamo un corrispondente di 350-400 euro
in un paese del Golfo, di circa mille per la stessa tipologia d’impiego in Italia ed una ancor maggiore negli Stati Uniti. Chi riesce
ad espatriare si garantisce, quindi, un reddito che è la fonte di una
rapida mobilità sociale altrimenti difficilmente raggiungibile:
“Mio padre ha deciso di emigrare perché in Pakistan c’è l’idea che chi
va nei paesi europei guadagna tanto e in pochi giorni diventa molto
ricco. Mio padre in Pakistan aveva un negozio, era un fotografo molto
bravo, conosciuto in gran parte del paese, però vedeva che se uno
emigrava, la famiglia diventava man mano più ricca, allora ha scelto
anche lui di provare ad andare via” [int. 9].
Secondo quanto scrive nell’aprile del 200713, il giornalista e mediatore culturale pakistano Ejaz Ahmad, membro della Consulta
Islamica, le rimesse degli emigranti garantiscono anche potere
alle loro famiglie in Pakistan:
“Nel paese cresce anche il potere degli emigrati. Infatti, prende sempre più consistenza all’interno del governo il valore aggiunto rappresentato dalla forte emigrazione. Non solo le rimesse degli immigrati
sono una ricchezza oramai fondamentale per il paese, ma molti pakistani all’estero si sono organizzati e hanno cominciato a fare politica.
E ritorneranno in patria come candidati. La loro presenza potrebbe
essere destabilizzante per la vecchia politica e potranno così vendere
a caro prezzo le loro alleanze. Chauddary Shabbir, presidente della
federazione dei pakistani in Italia, sarà uno di loro. Partirà per il suo
villaggio nel Gujrat per partecipare alle prossime elezioni politiche.
13
www.stranieriinitalia.it
17
Già da tempo in Italia, dove vivono più di cinquantamila pakistani
(per la stragrande maggioranza provenienti dalla provincia del Punjab), i leader dei vari partiti organizzano spesso raduni, in particolare
in Lombardia, dove è più alta la presenza degli immigrati. Parlano,
convincono e spingono. Sanno che gli emigrati non potranno votare.
Ma mandano a casa i soldi e hanno un potere sul parentado. E’ sufficiente una loro telefonata per indirizzare il voto su questo o quel
candidato. Ora sono sette milioni i pakistani sparsi in tutto il mondo.
Di sicuro non possono votare. Ma la loro influenza sul resto della famiglia rimasta in Pakistan è altissima. E questo i politici lo sanno. Già
Zulifqar Ali Bhutto, negli anni settanta, aveva istituito un ministero
per l’immigrazione, che si occupasse dei primi immigrati nei paesi
del Golfo. Ma Musharraf è andato oltre: ha ridato vita a quest’istituzione molto sonnolenta con l’intenzione di progettare un consiglio di
nove immigrati nel mondo con possibilità decisionale”.
La scelta di emigrare14
La scelta migratoria è principalmente dettata dalla famiglia che,
mossa da ragioni economiche e dalla prospettiva di un miglioramento della qualità di vita, accumula i beni atti a favorire il
progetto d’emigrazione (il costo medio per lasciare il Pakistan è
sui 4000$).
Per avere un’idea dei miglioramenti, basti pensare che il prodotto nazionale lordo pro-capite annuale è paragonabile a quello
mensile italiano. Un importante contributo alle entrate delle famiglie pakistane, quindi, proviene dalle rimesse dei numerosissimi
emigranti sparsi per tutti i cinque continenti, che in questo modo
garantiscono il passaggio della loro famiglia ad uno status socioeconomico decisamente migliore.
“Mio papà è venuto per lavorare e guadagnare - racconta A.M., ope14
E. Giunchi, Approfondimenti su Pakistan e Bangladesh, Atti del Convegno Famiglie migranti e stili genitoriali, Bologna, 2005.
18
raio residente a Ghisalba - in Pakistan c’è lavoro, ma si guadagna
poco. La mia famiglia in Pakistan con i soldi mandati dall’Italia viveva
molto bene…andavamo nella scuola privata ma anche qua stiamo
bene …lavoriamo in tre…” [int. 7].
“…se un uomo è da solo qui, i soldi inviati in Pakistan sono circa il novanta per cento dello stipendio, se un uomo ha la famiglia qui manda
là i soldi, ma solo a volte, perché la cosa principale è provvedere alla
propria famiglia” [int. 1].
Anche Emilia Naldi, avvocato, per anni impegnata sul fronte dei
diritti degli immigrati conferma questo dato:
“… ci sono legami familiari molto forti e i padri che io ho conosciuto
effettivamente spedivano a casa quasi tutto quello che prendevano,
vivendo davvero con il minimo…. tra le persone straniere credo che i
pakistani siano quelli che riescono a mandare il più possibile a casa”
[int. 10].
Con gli anni, il progetto migratorio può mutare in base alle relazioni d’accoglienza del tessuto socio economico del territorio
d’approdo e giungere sino allo stanziamento definitivo grazie anche a reti d’appoggio che garantiscono l’ospitalità e favoriscono
l’inserimento lavorativo dei nuovi arrivati. A.B. più volte ribadisce
nella sua intervista di aver trovato a Montello un ambiente accogliente che lo ha aiutato ad intessere buoni rapporti e a costruirsi
una vita e a fondare proprio nella nostra Provincia l’associazione
L’amicizia di Gioventù Cristiana, che oggi conta più di cento iscritti
e che si sta diffondendo anche in altre città d’Italia, in particolare
Bologna, Roma e Napoli:
“Sento l’Italia come il “mio” paese e non penso di ritornare in Pakistan; nel paese di Montello sto bene….ho una casa, un appartamento
in affitto regolare, la macchina e tutto …e mi sento come in mezzo ai
parenti…con gli altri pakistani della zona va tutto bene, anche se sono
musulmani, e ho buoni rapporti anche con gli indiani” [int. 4].
19
Gli immigrati pakistani che giungono nel nostro paese hanno una
forte connotazione di genere (maschile), l’età media è di 44 anni,
hanno un grado di scolarizzazione medio-alto e vengono impiegati
regolarmente nel settore agricolo, nelle industrie tessili e meccaniche, nel commercio. La prevalenza delle presenze è maschile
poiché è sull’uomo che ricade la responsabilità del progetto migratorio: spinto dal biraderi, gruppo patrilineare in cui è inserito
dalla nascita, l’uomo pazientemente prepara l’arrivo delle donne,
predispone una casa dignitosa, anche impegnandosi in onerosi
mutui per l’acquisto della stessa. Ancora Emilia Naldi ci conferma questo dato, riferendosi agli anni di esperienza maturata nel
supportare le pratiche di ricongiungimento familiare:
“…poi preparano l’arrivo della famiglia: comprano la casa, si indebitano fino al collo anche perché i mutui spesso sono onerosi. E di
solito arrivano famiglie numerose, quindi uno dei problemi grossi
è raggiungere il reddito per farli venire qui. C’è stato il boom dei
ricongiungimenti in questi ultimi anni, dal 2002: famiglie numerose,
fratelli maschi, pochi genitori, poche persone anziane” [int. 10].
“ …gli uomini se aspettano di far arrivare la propria famiglia, abitano con sei o sette altre persone nello stesso appartamento, mentre
quando arriva la famiglia c’è bisogno di trovare una vera casa. Alcuni
la trovano in affitto, mentre molti altri fanno il mutuo come noi. Chi
vive qui da solo sta in appartamenti con altri pakistani e anche con
indiani. Conosco molti uomini che vivono qui in una stanza e pagano
quasi 200 euro al mese” [int. 1].
Quando si apre l’iter burocratico di ricongiungimento, gli immigrati si trovano impreparati ad affrontare un percorso tutt’altro
che facile, spesso rallentato dalle lungaggini o dagli errori, e l’intervento degli operatori impegnati agli sportelli del sindacato può
solo in parte ridurre i disagi.
“Dal 2002 i pakistani hanno una quota riservata nei flussi e l’avevano
avuta già per quanto riguarda i lavori stagionali. Quindi, oggi, c’è
20
il passaggio a una forma di presenza più stabile in Italia e questo
favorisce i ricongiungimenti; anche per le tensioni al confine con
l’Afganistan c’è stato un aumento delle richieste, infatti, molti che io
conosco provengono da quella fascia…
Sono gli uomini a venire, io non ho mai conosciuto donne pakistane
che siano venute da sole e ho seguito molti uomini che negli ultimi
anni hanno dovuto impegnarsi con questi “percorsi burocratici”:
sono ricongiungimenti molto lunghi e difficili, quindi ho seguito le
vicende di molte famiglie per tanto tempo.
Lunghi e difficili perché l’ambasciata è sottodimensionata rispetto
al potenziale di immigrazione, per cui, per esempio, quando la legge Bossi Fini ha introdotto una forma particolare di validazione dei
documenti, gli appuntamenti per la validazione datavano 1 anno e
mezzo dopo la consegna della richiesta. Il problema sorgeva perché
in Pakistan hanno una lettura particolare del nome e cognome e di
come viene riportato nel nulla osta della ricongiunzione familiare:
c’è una specie di possibilità di scelta su quale è il nome e quale
il cognome quindi, alla fine, emergevano tantissime incongruenze,
per cui ci volevano due anni minimo per la ricongiunzione familiare.
Io ricordo un caso di un pakistano che era rientrato nella sanatoria
del ‘98 e solo nell’aprile di quest’anno finalmente ha visto i sei figli.
Durante questo difficile percorso di ricongiungimento familiare incomincia un’attesa molto lunga; sulla prospettiva di ricongiungersi
ci sono una serie di scelte che vengono fatte, sia da chi è qui, sia da
chi è dall’altra parte e quindi si ha questo crescere delle aspettative,
anni di attese e di speranze…” [int. 10].
Emma Chiodi, su BergaMondo del 3/07/07 racconta la lunga attesa
di Bhatti Mohammad Rashid Tufail, occupato in un’azienda agricola di Carobbio degli Angeli e residente a Chiuduno, per ottenere i
visti e portare in Italia moglie e figli. Così il protagonista ricorda i
due anni di errori e lungaggini burocratiche “Lei [la moglie] ad un
certo punto era arrivata a diffidare della mia onestà, dal momento
che avevo promesso un ricongiungimento in tempi rapidi” continua,
poi “Da solo impazzivo. Ho raccontato il mio caso ad Adriano Allieri
dell’Anolf-CISL, che mi ha aiutato per una nuova pratica…”.
21
Heidi Busetti sempre su BergaMondo del 17/04/ 2007 riporta le
vicissitudini passate da Muhammad Yousaf Amin, giornalista, per
regolarizzare la sua posizione:
“Arrivai a mezzanotte in Questura e dormii sul marciapiede per poter
essere il primo della fila, ma tutti i giorni, per un’intera settimana
fui costretto a tornare perché il computer era guasto. Alla fine dopo
sette giorni, riuscii ad ottenere il permesso tanto atteso.”
Con l’arrivo delle donne si ricostruiscono i legami familiari tipici della comunità denominati lena-dena: un sistema di scambio
di doni e ospitalità attuato soprattutto dalle donne attraverso la
perpetuazione dei legami sociali, ma sorgono anche dei problemi
di adattamento notevoli.
“I soldi che mandano migliorano decisamente il benessere della famiglia in Pakistan, perchè là il costo della vita è bassissimo, perciò
la costanza delle rimesse ti fa diventare ricco, ma poi questo diventa uno dei problemi più grossi ….., perchè quello che succede qua,
quando arrivano dopo anni di attesa, è esattamente l’opposto: qua
li aspetta un tenore di vita bassissimo, perché sono famiglie molto
numerose, per cui, specialmente tra gli adolescenti, ci sono delle
tensioni” [int. 10].
E’ proprio la testimonianza di una diciannovenne, che ci racconta le sue percezioni da adolescente neoarrivata e le difficoltà di
adattamento della famiglia:
“E’ cambiato tutto, siamo passati dalla vita di una famiglia aristocratica, in Pakistan, alla vita da emigrati in Italia ed è stato difficile.
Io l’ho presa male. Mia mamma non era abituata a fare i lavori di
casa, pulire il bagno, lavare i piatti, però piano, piano ha imparato
perché ama la sua famiglia, ama suo marito, lei si è data da fare. Ci
sono certi vestiti che lei non avrebbe mai messo e che qua indossa,
perché lo stile di vita è cambiato, lei deve adattarsi… Tra noi tre che
siamo venuti qua è lei che ha sofferto di più, quella che è rimasta più
22
a casa, quella con meno libertà…ha dovuto sacrificare certi principi
della sua vita…” [int. 8].
Le donne nel processo migratorio15
Negli anni ’50, la migrazione interna verso i centri urbani del
Punjab e verso Karachi, che è la città portuale più importante del paese, quella successiva verso l’occidente, in particolar
modo verso l’Inghilterra, e quella verso i Paesi del Golfo hanno
determinato cambiamenti sulla famiglia del migrante. Nel caso
dell’immigrazione verso il Golfo (persone che vanno nei Paesi
del Golfo a lavorare per 2, 3, massimo 4 anni, poi tornano nella
comunità d’origine), vi è un immediato arricchimento e, quindi,
un maggior prestigio sociale della famiglia, ma anche l’adozione
di una serie di misure che corrispondono al modello familiare
saudita. Viene imposta una maggiore segregazione alle donne
della propria famiglia e si adottano forme di vestiario femminile
più “coprenti”. L’adozione di queste misure esprime non solo il
desiderio di mostrare all’intera comunità che si può fare a meno
del lavoro femminile, ma anche l’adozione di un’ideologia purista,
ultra-conservatrice, che è stata “riscoperta” in terra saudita, culla
dell’Islam. Poter dimostrare che si è in grado di fare a meno del
lavoro femminile significa anche mostrare di seguire fedelmente
i principi religiosi ed è per l’uomo una nota di merito:
“… se una donna lavora lo fa per se stessa, quello che guadagna non
deve consegnarlo alla famiglia per il mantenimento, che è compito
di un marito e di un padre; secondo i principi religiosi nessuna donna si deve sentire in obbligo di lavorare, il matrimonio ha stabilito
l’obbligo del marito e della sua famiglia di mantenerla. Questa è una
libertà per la donna, così che gli uomini devono fare il loro dovere…”
[int. 9].
15
E. Giunchi, Approfondimenti su Pakistan e Bangladesh, Atti del Convegno Famiglie migranti e stili genitoriali, Bologna, 2005.
23
Il processo migratorio dei mariti, insomma, affranca le donne da
incombenze legate al duro lavoro agricolo, ma impone loro una
riduzione fortissima delle relazioni esterne, relegandole all’ambito familiare. Alcuni studi hanno osservato che il controllo da parte
della famiglia allargata, quando il marito è assente, soprattutto se
la donna è giovane e senza figli, si approfondisce. Questo avviene
anche quando la giovane moglie raggiunge il marito in un paese
straniero e si può esporre in pubblico in un contesto culturalmente pericoloso.
“In Pakistan sono stata insegnante per tre anni e per me era più facile essere autonoma, invece qui nella comunità di immigrati, dove c’è
anche la mentalità più chiusa delle famiglie che vengono dai villaggi,
il primo anno è stato brutto. Alcune donne pakistane devono essere
accompagnate da un uomo della famiglia quando escono di casa.
Questa scelta dipende soprattutto dalla mentalità della famiglia.
Nella mia famiglia bisogna seguire alcune regole fondamentali in
rispetto della religione e della cultura, ma per il lavoro o per fare la
spesa o per una visita medica possiamo uscire, perché se loro sono
al lavoro, cosa facciamo noi? Però, più spesso è la comunità dei
pakistani che parla, critica le donne se sembra che abbiano troppa libertà. Anche io quando andavo da sola alla scuola di italiano…
loro sempre parlavano di me…raccontavano se mi vedevano… anche
quando ho cominciato a studiare per la patente di guida. Prima anche mio cognato e mio suocero mi hanno dato un po’ di problemi …
quando loro stavano fuori, ascoltavano queste voci e queste notizie
su di me…ma adesso hanno capito che anche noi donne dobbiamo
fare qualcosa in più… adesso anche mio suocero è molto contento del
lavoro di mediatrice che sto facendo da due anni nelle scuole, negli
ospedali e nei servizi sociali” [int. 1].
Il fenomeno dell’urbanizzazione ha effetti contraddittori analoghi
sulle donne: da una parte, allarga le loro possibilità, le espone
allo spazio pubblico e ne accresce l’istruzione e quindi la consapevolezza. Al tempo stesso è proprio nelle città, luogo della promiscuità e dell’immoralità, che le famiglie recentemente inurbate
24
o emigrate tentano maggiormente di controllare le proprie figlie,
imponendo restrizioni talora superiori a quelle della comunità
di origine. Così sostengono S.N. e H.M., entrambe residenti ad
Azzano, provenienti da due cittadine del Pakistan, una nella zona
di Lahore e l’altra nei pressi di Rawalpindi:
“In Pakistan le donne possono fare più cose e sono meno criticate
per ciò che fanno mentre in Italia gli altri ti controllano di più…loro
vedono …parlano… «abbiamo visto tua moglie là…e non è bello…».
Ci sono gruppi familiari molto chiusi e allora le donne non possono
uscire se non accompagnate da un uomo o da un bambino ogni volta”
[Int. 3].
“Noi che veniamo da una città siamo molto più libere ed indipendenti…in famiglia non ci costringono a fare le cose che noi non vogliamo…
ci permettono di uscire da sole e non vanno a riferire agli altri padri
o mariti di aver visto la loro figlia o la loro moglie in giro …è dovuto
anche alla mentalità del luogo da cui provieni” [int. 2].
Anche E.N., a sostegno di questa tesi, nella sua intervista porta
l’esempio di un pakistano che ha seguito allo sportello per molto
tempo:
“..è una persona che è qui da moltissimi anni, a suo modo molto
emancipato …… ma quando è arrivata la famiglia è tornato meno europeo di prima. Per esempio la figlia maggiore che ha 15 anni voleva
frequentare il centro EDA, ma si è capito che non frequentava più
perché lui non voleva che prendesse il pullman da sola, poi la madre
doveva accompagnarla …” [int. 10].
Quando le donne raggiungono il marito, perché la scelta migratoria è definitiva, incontrano molta difficoltà per l’apprendimento
della lingua anche perché ad esse, generalmente, è affidato il
lavoro di cura all’interno del contesto familiare dove si parla urdu
o punjabi. Il ruolo dell’uomo, quindi, risulta parzialmente mutato,
poiché diventa il fondamentale e primario mediatore con l’ester-
25
no delle esigenze della famiglia (comunicazione e traduzione,
rapporti con la scuola, accompagnamento, assistenza sanitaria).
Come si sottolinea in una delle testimonianze successive, ciò che
prevale è il senso di protezione per la donna, che, però, relega la
donna nell’ambito domestico.
“Quando loro (rivolgendosi ai familiari) sono arrivati era un sogno,
ma loro i primi tempi non capivano niente e allora io dovevo fare
tutto, la spesa, se chiamavano a scuola dovevo andare io, loro non
sapevano, poi le vaccinazioni, poi le pratiche del comune per due/
tre mesi è stato così, poi Kiran è andata anche a scuola a Redona
e altri mi hanno aiutato per il biglietto per andare e tornare con il
pullman” [int. 6].
“Molte donne arrivano dal marito in Italia e vengono dai villaggi: è per
questo che gli uomini parlano al posto delle donne, è per rispetto e
certe decisioni vengono per protezione e non per voler essere separati o per voler togliere libertà alle donne” [focus group].
26
LA PRESENZA IN ITALIA E IN PROVINCIA16
I dati e gli insediamenti
La comunità pakistana residente in Italia, pur non particolarmente
numerosa se rapportata ad altre, è sicuramente tra le più attive
ed integrate sul piano economico; secondo gli ultimi dati ISTAT
numericamente si trova al diciannovesimo posto fra le collettività
immigrate. I pakistani residenti alla fine del 2006 erano 46.085, di
cui 13.489 donne. In Italia attualmente le comunità pakistane più
numerose sono stanziate in Lombardia (Brescia, Milano, Bergamo), in Alto Adige (Bolzano), in Emilia Romagna (Bologna, Modena), in Toscana (Prato). La presenza si concentra soprattutto nelle
regioni centro-settentrionali (dove si trovano il 74 % dei residenti
in Italia, Lombardia in testa, con il 44 % del totale).
Percentuali per motivo della presenza
Totale motivi di lavoro
Motivi familiari
Somma motivi di lavoro e familiari
Motivi di studio
Motivi religiosi
Altri motivi
70,5 %
25,3 %
95,8 %
0,2 %
0,4 %
3,5 %
Secondo i dati forniti dall’Ufficio Italiano Cambi, dal 2001 al 2004 le
rimesse ufficiali verso il Pakistan vanno calando. Pare un segnale
concreto della sempre maggiore integrazione, se non altro sul
piano economico, di questi immigrati, che decidono di stabilirsi
definitivamente in Italia.
Per quanto riguarda la Provincia di Bergamo, i dati forniti da
DEMOISTAT ci dicono che 1966 pakistani risultavano residenti al
31/12/2006, con un incremento percentuale di presenze nel periodo 2002-2006 addirittura del 150,4%, il che porta questo collettivo
16
Fonti: INFORM n.182, sett. 2004; www.stranierinitalia.it 22/05/06; www.
demo.istat.it (Stranieri - Bilancio demografico, 2006); www.provincia.
bergamo.it (Politiche Sociali-Rapporto immigrazione, 2006).
27
di passaporto ad essere al nono posto come presenze sul nostro
territorio. Si tratta di una presenza prevalentemente maschile
( 69,2%), che geograficamente si colloca in modo diffuso nelle
aree industriali, con concentrazioni forti nel polo di Zingonia ( in
particolare nei comuni di Verdello e Verdellino e Osio Sotto, che
insieme contano più del 15% dei residenti di tutta la provincia) e
nell’area che comprende i comuni di Chiuduno, Telgate, Montello.
Attraverso un’elaborazione grafica17 è possibile visualizzare la
distribuzione della presenza sul territorio provinciale:
17
Dati elaborati dall’Osservatorio Politiche Sociali, Area immigrazione,
della Provincia di Bergamo.
28
L’approdo
Molte testimonianze sottolineano che esiste ancora una quota
di immigrazione irregolare fra i Pakistani, ma negli ultimi anni
si è ridotta, poichè la gran parte dei Pakistani presenti avevano
ottenuto la regolarizzazione con la sanatoria del ’98 e che, ultimamente, i nuovi arrivi avvengono prevalentemente per ricongiungimento familiare o attraverso le quote flussi18.
18
I dati forniti dall’Osservatorio Regionale per l’integrazione e la multietnicità
rilevano al luglio del 2006 una presenza media di 14 irregolari su 100
presenze con una variazione del -4,2 rispetto al luglio dell’anno precedente.
29
“Fino a quando il Pakistan non ha avuto la sua quota nel decreto
flussi, gli irregolari erano molti di più. Oggi ci sono, ma diminuiscono, anche perché in Pakistan hanno rafforzato il controllo alle frontiere ed è quasi impossibile uscire irregolarmente…” [int. 10].
“Sono arrivato 12 anni fa in aereo con un visto turistico, all’inizio
sono stato aiutato da un amico che vive a Bologna e poi sono venuto a Bergamo, ho trovato un lavoro in nero come muratore per
qualche mese. Per i primi tempi ho dormito per strada, alla stazione, poi ho trovato posto al dormitorio Caritas…lì hai un posto di
notte…ma la mattina devi andare via presto, danno da mangiare…
e questo per un anno e anche di più…. Poi ho lavorato in agricoltura, ed ho anche ricevuto il decreto di espulsione e sono andato
via da Bergamo, ma sono sempre rimasto in Italia” [int. 6].
“Ci sono gli aiuti di familiari e amici per quelli che arrivano, per
trovare il lavoro, per la casa, per altre cose. Io sono entrato in
Italia facilmente per il ricongiungimento familiare, ma per altre
persone è più difficile. Ci sono anche le persone che arrivano da
sole, senza documenti, passano negli altri paesi e poi arrivano
qua…allora è difficile: chi non ha documenti regolari, prima di arrivare in Italia, va in Germania e Spagna. Se uno non è regolare qui
può distribuire la pubblicità, o lavorare in campagna. E’ difficile
avere lavoro in fabbrica o fare il muratore senza i documenti… è
anche giusto, è meglio anche per loro” [int. 7].
“All’inizio è stata dura per mio padre vendeva anche i fiori e quando
è arrivato ha dovuto dormire alla stazione o per strada” [int. 9].
“ …quelli ti fanno pagare, poi una volta arrivati in Italia se ne
fregano, ti lasciano lì. Mio padre è arrivato via mare, passando
per la Turchia. Quelli che organizzano il viaggio promettono, come
han fatto con mio padre, una casa, un lavoro, garantiscono anche
di regolarizzare i documenti …mio papà è venuto qua con la sicurezza che avrebbe trovato un lavoro ed una casa ad aspettarlo
e per questo aveva pagato così tanto… e si è trovato in stazione
30
e molte volte non sapeva dove mangiare…Per fortuna ha trovato
conoscenti che l’hanno aiutato e così da Milano è andato in Svizzera” [int. 8].
“La vita di un clandestino è durissima perchè è come se tu non
esistessi. Chi arriva in Italia ha spesso esperienze terribili alla
spalle e una vita per la quale si arriva ad abbandonare il proprio
paese […]. Il mio carattere mi imponeva di non chiedere l’elemosina e di cercare subito un lavoro” Muhammad Yousaf Amin,
BergaMondo del 17/ 04/2007
“Per il lavoro e il contratto bisogna sempre rivolgersi al sindacato, ma se una persona arriva in Italia per lavorare non ci
sono problemi. In Europa non ci sono paesi dove un pakistano
non trova il lavoro: devi avere parenti, amici e i documenti…”
[int. 5].
Anche per garantire un supporto ai neo-arrivati quest’anno
sono sorte due associazioni che operano da alcuni mesi a livello provinciale:
“L’associazione che ho fondato l’amicizia di Gioventù Cristiana, è a
favore delle comunità cristiane in Pakistan, ma è un aiuto anche
per quelli che sono appena arrivati: io faccio qualcosa per loro, li
aiuto per i documenti alla questura di Bergamo, le persone cristiane, ma anche tutti gli altri…è normale” [int. 4].
Nell’intervista a Shagufta e Mohammad Arshad, tratta da BergaMondo del 25/09/2007, si legge:“ […] un anno fa hanno fondato
un’Associazione Tarkeen-e-Watah, che riunisce duecento membri,
ma si rivolge comunque a tutti i pakistani presenti in provincia […].
Innanzitutto i coniugi Arshad provvedono alle prime necessità dei
neo-immigrati pakistani, li aiutano a cercare lavoro, a compilare
moduli e documenti burocratici, a stendere il proprio curriculum.
Shagufta accompagna anche dal medico chi ne ha bisogno, per
fare da interprete”.
31
Il lavoro
La gran parte dei pakistani immigrati in Italia lavora come dipendente in particolare modo nell’agricoltura, nell’industria e nei
servizi turistico-alberghieri, il 20 % lavora come imprenditore.
Ejaz Ahmad, giornalista e mediatore, che è stato anche candidato per le elezioni alle ultime amministrative a Roma, in una
intervista afferma19: “Siamo di alta statura e questo ci facilita nel
trovare lavoro nelle fabbriche del Nord a differenza degli immigrati
del Bangladesh, più minuti che s’indirizzano verso il terziario nel
Centro-Sud.” Ejaz spiega che stili di vita e consumo dei pakistani
dipendono dal motivo per cui hanno lasciato il loro Paese. “In
molti casi è culturale: pagare la dote alla sorella per il matrimonio
(circa 15mila euro)”. Solo dopo si comincia a risparmiare soldi per
guadagnare una posizione sociale. Il sogno di molti è, prima o poi,
aprire un’attività commerciale. E chiamare casa per annunciare:
“Mamma, ce l’ho fatta, ho il mio business”. Questo sta succedendo
a Bologna e Brescia, dove i commerci di frutta e verdura stanno
passando a loro.
L’imprenditoria pakistana è particolarmente vivace nel commercio
al dettaglio, nell’importazione dei prodotti ortofrutticoli, nei servizi
per gli immigrati (come internet point e trasferimento all’estero di
denaro), reinveste molto i proventi della sue attività nell’economia
italiana. Anche a Bergamo si sta sviluppando un’imprenditoria
soprattutto nel commercio, che alla fine del 2006 contava in provincia 31 unità corrispondenti all’1,6% del totale dei residenti20.
“Alcuni dei pakistani che conoscevo lavoravano negli alpeggi: ne ho
conosciuto uno che è rimasto su in Val Imagna per mesi e rimangono per tenere le bestie, come i Pakistani a Mantova che sono tutti
impegnati in agricoltura, o meglio nell’allevamento. Da noi lavorano
in alcune cascine della Bassa, dove ci sono gli animali, nelle fattorie
19
20
www.metaforum.it (Vita da Immigrati, 2003).
Provincia di Bergamo, Elaborazioni su dati Infocamere.
32
e negli orti dove prima venivano assunti stagionalmente.
Molti pakistani lavorano anche nelle fabbriche e come operai anche nell’edilizia, in settori dove c’è un alto numero di incidenti sul
lavoro.
Mi sono chiesta come facciano negli alpeggi: il problema più grosso
è che lì è tutto isolato e quindi con la lingua sono a zero completo.
Un’altra cosa da capire è come corre e funziona il< tam tam>, che ti fa
arrivare a quei posti di lavoro… un po’ lo intuisci …ci sono immigrati
che vedi più spesso agli sportelli, sono persone a cui i nuovi arrivati
fanno riferimento, che potrebbero essere quelli che aiutano i connazionali nell’inserimento lavorativo. Io, però, non ho mai individuato
con certezza persone specifiche …” [int. 10].
“Ho lavorato in una ditta metalmeccanica, ma lì dovevo fare un po’
di tutto, andavo con il camion…mi usavano per carico e scarico, per
lavaggi e per altro ancora ma poi ho dato le dimissioni … la paga era
poca” [int. 6].
La prevalenza di lavoro in fabbrica e in agricoltura significa anche,
purtroppo, infortuni sul lavoro.
“Fra i Pakistani c’è un tasso di infortunio molto alto. Non so quali dati
aggiornati ci siano, ma nella mia esperienza di lavoro all’Ufficio Diritti
gli infortuni peggiori (tagli di mani, dita, anche incidenti in motorino
andando al lavoro) riguardavano proprio Pakistani. Certo gli infortuni
sono in relazione al tipo di lavoro (probabilmente accettano lavori fra i
più pericolosi) e all’ambiente di lavoro, ma potrebbe anche essere una
difficoltà di lettura del pericolo, cioè il fatto che non avendo confidenza
con certi tipi di pericoli non riescano a prevenire la situazione. Per
esempio da noi l’agricoltura è molto meccanizzata e da loro no; così
come incide la provenienza da certi villaggi dove lo stile di vita è lontanissimo dal nostro …ci vorrebbe una maggior formazione” [int. 10].
Come si può notare nella tabella seguente, che riporta dati della
Ricerca 2004 dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale, i pakistani si
collocano fra gli immigrati con una percentuale di rischio/ infortunio
media ed elaborazioni più dettagliate (Dossier Statistico Immigrazio-
33
ne. Elaborazioni su dati INAIL ) indicano che i settori in cui ricorrono
più infortuni sono: metalli con il 28,1%, meccanica con il 7,7% e il
tessile con il 7,3%.
Paese
di nascita
Marocco
Albania
Tunisia
Jugoslavia
Svizzera
Senegal
Germania
Romania
Francia
Quota
infortuni
20,2
10,7
6,0
5,8
5,6
5,3
4,1
3,4
3,0
Quota
soggiornati
11,6
10,6
3,4
2,7
1,2
2,6
2,6
5,5
1,9
Paese
nascita
Ghana
Egitto
India
Pakistan
Bangladesh
Algeria
Macedonia
Tutti i paesi
Quota
infortuni
2,4
2,0
1,9
1,8
1,7
1,6
1,6
100,0
(58.496)
Quota
soggiornati
1,3
1,9
2,2
1,4
1,5
0,9
1,7
100,0
(1.362.630)
ITALIA. Differenza per paesi tra quota dei soggiornanti e quota degli infortuni (2001)
“Chi è già qua da tanti anni e ha esperienze di lavoro, può aver avuto
l’opportunità di aprire un’attività autonoma. Ci sono tanti pakistani
imprenditori, che hanno ditte che fanno import-export in tutta Italia,
fondamentalmente aprono negozi di alimentari, o call-centre, anche
cooperative. Qui nella provincia si tratta di commercianti di generi
alimentari e macelleria. Per arrivare a questo traguardo in Italia devi
avere il permesso di soggiorno, deve sistemare tutto, dopo devi avere
la casa, servono dieci anni per fare tutto questo percorso, devi fare
il ricongiungimento familiare, che è il primo impegno, prima ancora
del business” [focus group].
Durante il focus group è emerso anche che, con fatica e grinta,
alcuni immigrati pakistani hanno avuto successo e questo, a volte,
mette in crisi anche chi opera nel sociale, perché spesso lo stereotipo dell’immigrato povero è più rassicurante.
“Quando ti trovi uno straniero che ha raggiunto un certo successo,
che tratta l’import-export come se fosse una cosa molto facile, ti
disorienta e pensi < non dovevi essere povero?>. Pesa il vantaggio di
conoscere l’inglese in un certo modo, il fatto che certe esperienze di
immigrazione costruite con successo sono esperienze che potenziano
34
le capacità imprenditoriali perché hai già viaggiato, hai incontrato il
mondo, hai già lavorato in termini interculturali e tu italiano che
sei qua… ti senti spiazzato, inferiore. Io recentemente ho visto un
pakistano di Zingonia intervistato in TV, perché ha avuto un percorso
di questo tipo, ossia 20 anni fa era in stazione a Milano centrale e
oggi è uno dei maggiori importatori rispetto a tecnologie agricole e
abita qua” [focus group].
Nel focus group viene confermato che l’utenza pakistana dei vari
servizi è nettamente classificabile in due gruppi diversi: c’è un
gruppo di pakistani che frequenta il liceo, che frequenta l’università e che economicamente sta bene, c’è un altro gruppo di immigrati pakistani che molto spesso arriva senza aver mai frequentato la scuola, con i genitori analfabeti, con dei grossi problemi
di inserimento lavorativo e, quindi, di reddito.
Le ragazze, figlie di immigrati pakistani, per il 90% terminano gli
studi con la scuola media, mentre i ragazzi che vogliono ed hanno
le capacità possono proseguire. Se non hanno le capacità per andare avanti negli studi possono fare qualche corso professionale
o cominciare a lavorare.
Difficilmente le donne pakistane trovano lavoro in Italia, alcune
lo cercano e frequentano corsi professionali, come H.M., ma, per
ora, la sola prospettiva che vedono è quella di lavorare nell’ambito
della mediazione culturale. Due sono, infatti, i problemi : il primo
è che, anche in Pakistan, le donne hanno accesso solo ad alcune
professioni, l’altro è che i loro titoli qui non sono riconosciuti e,
quindi, proprio le professioni nelle quali potrebbero inserirsi, che
sono quelle di insegnante, medico, avvocato, infermiere o hostess,
sono loro precluse.
“Ci sono lavori che possono fare le donne, ma qua noi uomini non
vogliamo che li facciano. In Pakistan alcune donne fanno le sarte, le
insegnanti, lavorano in ufficio, ma è meglio che lavorino in casa..”
[int. 7].
“Anche adesso in Pakistan il lavoro per le donne è un tabù, seb-
35
bene dipenda dalle famiglie e dall’estrazione sociale. Le famiglie
aristocratiche sono molto chiuse. Nostra madre in Pakistan faceva
l’insegnante, aveva frequentato anche un corso di infermiera. Ha fatto
tante cose nella sua vita, ma quella di mia mamma era una famiglia
eccezionale di letterati; mio zio era preside di una scuola e anche mio
nonno e riconoscevano il valore della cultura e dell’emancipazione
per le donne e per gli uomini. Mio padre non ha mai vietato a mia
mamma qualcosa che potesse servire per la sua formazione, tanto
è vero che lei ha seguito un corso di infermiera lontano da casa …
Questo non era “normale” per una donna, ma lei l’ha fatto aveva le
abilità, lei è una donna eccezionale…” [int. 8].
Come si può notare, ancora una volta, abbiamo testimonianze
diverse, che confermano come l’appartenenza di genere, la provenienza, le tradizioni familiari influiscano sulle scelte e i comportamenti molto più della religione o della nazionalità.
La lingua e la scuola
Le lingue ufficiali in Pakistan sono l’urdu e l’inglese. L’urdu (letteralmente lingua dell’accampamento) tuttavia, pur essendo lingua
nazionale (usata nelle scuole), è parlato solamente dal 7,6% della popolazione, mentre il punjabi è parlato da più del 48% della
popolazione. L’urdu è una lingua molto lontana dall’italiano e non
sempre avere l’inglese come “lingua ponte” ha aiutato gli immigrati nelle nostre zone. In quasi tutte le interviste emerge il
problema della lingua e uno dei bisogni primari per gli immigrati
pakistani è proprio imparare l’italiano (a riprova di ciò recentemente presso la Scuola di Italiano della comunità Ruah è stata
formata una classe di primo livello per oltre dieci pakistani tutti
maschi neoarrivati).
“Appena in Italia la difficoltà più grande è stata quella della lingua,
perché anche quando leggevo, dovevo <andare al contrario> ma ora
capisco, parlo e scrivo in italiano, anche se so che per fare la mediatrice devo studiare ancora molto” [int. 2].
36
Gli adulti che stanno tutto il giorno a lavorare e la sera vanno a
scuola fanno molta fatica perché l’urdu è una lingua lontana dalla
nostra e perché la maggior parte degli altri adulti che frequentano
i corsi non conoscono l’inglese. C’è anche un’altra difficoltà, sottolineata nel focus group: mentre indiani o cinesi spesso lavorano
insieme, i pakistani hanno occupazioni diversificate e la questione
della lingua, oltre che centrale per un buon inserimento, diventa
vitale per evitare l’isolamento. A casa, poi, evidentemente, si parla
la lingua madre.
“In casa io parlo la lingua urdu, mentre mio marito, suo fratello e il
suocero parlano la lingua punjabi, ma loro capiscono. All’inizio era un
po’ difficile, perché io con i miei fratelli ho sempre parlato la lingua
urdu…sono molto diverse. Io parlo la lingua urdu, che è ufficiale e
loro rispondono in punjabi, ma se qualcuno viene a trovarci e parla
punjabi, allora lo parlo anche io…ho seguito un corso di lingua italiana per sei mesi e non ho incontrato molte difficoltà nel capire la
lingua italiana. Nonostante mio marito e mio cognato siano in Italia
dall’ottobre del 1994, non mi hanno aiutata“ [int. 1].
Comprendere l’italiano e parlarlo è un modo per essere meno
emarginati e questo è davvero importante per i bambini e gli adolescenti che frequentano la scuola o gli oratori.
“…i miei bambini stanno imparando in fretta, vanno a scuola e guardano la televisione, soprattutto i cartoni animati, e così imparano
l’italiano, ma mia moglie non ancora. L’anno prossimo potrà frequentare la scuola di italiano, ma vicino a casa …” [int. 6].
“Sono arrivato in Italia, sicuro che in Italia tutti conoscessero l’inglese, ma non è vero, in un primo tempo le difficoltà di comunicare sono
state tante e capirsi in paese era veramente un problema” [int. 4]
“Ho avuto molta difficoltà con la lingua, perché l’urdu è molto diverso
dall’italiano, nei suoni, e nella scrittura. Ho imparato l’italiano alla
scuola della Ruah e mi ha aiutato, perché i ragazzi italiani all’oratorio
37
mi prendevano in giro e dicevano le parolacce che non capivo…poi
ridevano…ma…poi piano, piano ho capito l’italiano e hanno smesso”
[int. 7].
Nel focus group, a proposito della lingua, è emerso che il mantenimento della lingua urdu può anche essere un modo per mantenere i rapporti on line con il paese di origine, soprattutto per le
future generazioni. Questo è anche uno degli obiettivi dichiarati
della Associazione Tarkeen-e-Watah, che si propone di realizzare
un progetto ambizioso in collaborazione con l’Istituto Comprensivo di Verdello e il Centro Interculturale di Zingonia, cioè quello
di offrire ai bambini pakistani l’opportunità di imparare la lingua
urdu con la collaborazione delle ragazze o delle madri. L’urdu,
infatti, è parlato da milioni di persone ed è una lingua con cui sono
creati portali internet.
Molti degli intervistati dichiarano di possedere un’antenna parabolica, che permette loro di ricevere programmi dal Pakistan e di
visitare siti internet pakistani.
“Ho la possibilità di guardare la televisione pakistana, TV GEO, ARY,
PRIME, grazie alla parabola e che quasi tutte le famiglie pakistane
ne hanno una. Qualche volta arrivano nei negozi pakistani anche dei
giornali nazionali. Internet è un altro modo di comunicazione molto
usato, anche se non sono diffusi dei forum“ [int. 1].
Affrontare il problema della lingua porta direttamente alla questione della scuola, che riguarda sia bambini, sia ragazzi che
arrivano da noi con un percorso scolastico di tutto rispetto; per i
giovani e gli adulti che vogliono cercare lavoro un passaggio importante è la frequenza di corsi d’alfabetizzazione e/o di formazione professionale, che sono, all’inizio, un modo per inserirsi
nella nuova realtà.
Tutti i presenti al focus group che operano nella scuola o nella formazione confermano che i ragazzi o gli adulti pakistani che hanno incontrato dimostrano una grande abnegazione e motivazione
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nello studio. Soprattutto chi ha titoli di studio elevati, conseguiti
in Pakistan, tiene moltissimo a riuscire bene a scuola, a capire
bene l’italiano, studia, chiede esercizi, si impegna ed i risultati
sono positivi nonostante le grandi difficoltà con la lingua. Ancora,
però, ritornano le differenze di genere:
“Io rilevo che i migliori studenti figli di immigrati, che ho avuto nella
mia scuola, sono stati pakistani ed oggi frequentano i licei con ottimi
risultati. A scuola, però, ho un problema da segnalare: le ragazze
fanno sempre più fatica dei maschi ad avere riconosciuto il diritto di
venire a scuola, non è sempre così scontato che le ragazze possano
continuare il percorso scolastico. C’è un atteggiamento diverso tra
l’educazione del maschio e della femmina: la madre arriva a prenderla, lei non può uscire da casa per andare in biblioteca se non
accompagnata e, anche se io capisco che fa parte delle tradizioni
religiose e culturali e che è importante rispettarle, credo che un conto è conservare e preservare le tradizioni quando si vive in Pakistan,
un conto è preservarle qui, quando ci si misura con le altre ragazze. Io vedo ragazzine adolescenti in situazione di profondo disagio e
sofferenza per queste limitazioni, non solo perché non possono mai
andare in biblioteca, uscire, ma perché, essendo cresciute con le
compagne italiane, si sentono in difficoltà se è il fratellino di seconda
elementare ad accompagnarle. Si stanno creando delle sofferenze
e dei disagi importanti che incidono poi anche sul rendimento scolastico” [focus group].
Nel focus group emerge anche che, in una zona della provincia,
il rapporto della scuola con alcune famiglie pakistane è difficile,
perché chiedono di non far frequentare alle figlie attività come
musica, disegno, educazione motoria, gite scolastiche. Dice E.R.
dello sportello per gli alunni stranieri:
“In due situazioni, in cui sarebbe stata utile una proposta di sostegno
e d’aiuto alla famiglia per affrontare i problemi scolastici dei figli, c’è
stata la volontà di costruire quasi una linea netta di separazione tra
pubblico e privato da parte delle famiglie”.
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Anche il comune di Albano ha richiesto un’attività di mediazione
culturale per la difficoltà d’inserimento di un’adolescente pakistana nella scuola media. La dirigente del Servizio Sociale del
comune sostiene:
“Furono attivate iniziative con la famiglia perché permettesse alla
ragazza di frequentare tutte le lezioni e ci trovammo proprio in mezzo ad uno scontro incredibile; io ebbi questa percezione di fatica,
della necessità da parte nostra, degli italiani, di doversi mettere in
discussione”.
Dal punto di vista degli immigrati emergono, invece, la fatica
dell’inserimento e le frustrazioni, che le difficoltà nel seguire le
attività scolastiche e il rapporto con i coetanei italiani, portano
con sé:
“In Pakistan ho frequentato la scuola fino alla prima superiore, ma
sono arrivato in Italia, e non ho più ripreso a studiare per la lingua.
Qui in Italia la mia licenza non vale e per ora non posso iscrivermi a
nessun corso professionale, ma non sono interessato …C’è un mio
amico indiano che ha preso il diploma qua, ma non cambia niente per
il lavoro… la paga è uguale…” [int. 7].
“All’inizio è stato molto difficile, ora è un po’ meglio… nel senso che
mi sono abituato e riesco a controllare la situazione e a controllarmi,
magari non parlo con loro se vengono a disturbarmi, anche se non
sono tutti uguali. Prima gli stranieri erano di meno ed erano più
disprezzati, la gente non era abituata a vederli a parlare con loro”
[int. 9].
“I miei rapporti con i compagni di scuola mi turbavano molto. Io mi
vestivo sempre con abiti pakistani, per una questione di famiglia e
poi perchè mi piace. Io non voglio vestirmi come gli altri e non voglio essere una tra le tante…loro mi guardavano male e c’era anche
la difficoltà di comunicazione…mi sembrava tutto assurdo. Ero alla
scuola media … una cosa davvero dura…non capendo la lingua, non
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sapevo quello che dicevano, avevo paura, mi chiedevo come fare ad
andare avanti. Ogni volta che ridevano, ero “strasicura” che ridevano
dei miei vestiti, ogni volta che dicevano qualcosa, ero “strasicura” che
parlavano di me perché magari avevo detto qualcosa di sbagliato in
italiano”. A. R. continua: “A Milano, dove abitavo prima, la gente è
molto più aperta. A Milano, dopo l’esperienza della scuola media, non
mi sentivo più straniera, avevo amici a scuola e sul pullman e tanti
mi salutavano per strada, ma qui a Bergamo sento che la situazione
è ben diversa. Ricordo che, i primi tempi, a scuola mi guardavano
tenendomi a distanza…io non volevo tornare al tempo della scuola
media, ormai sapevo la lingua, ma dovevo ricominciare. Avevo fatto
tanta fatica a fare le amicizie…qui la gente non dice sempre quello
che pensa e, magari, poi critica alle spalle e poi le voci arrivano…“
[int. 8].
“Mio padre e mio zio hanno imparato l’italiano perché lavorano, ma
in casa continuano a parlare nella loro lingua e, così, la mamma che
non lavora non ha imparato l’italiano. I miei fratelli, uno in prima
superiore e uno in prima media, parlano bene l’italiano, anche se a
scuola hanno delle difficoltà. Il fratello più grande va all’ITIS Paleocapa, ma è stato bocciato, per lui è molto difficile. Forse non è un
problema di lingua, ma della poca voglia di studiare perché a casa
non studia, non apre i libri…è distratto….ma se io dico qualcosa non
mi ascolta. Il fratellino più piccolo va meglio a scuola, grazie anche a
due insegnanti di sostegno che ci sono, ma ha bisogno del mio aiuto
per studiare e fare i compiti. Io vado a parlare con le maestre che
sono molto brave e ci hanno chiarito dei problemi del fratellino che
noi a casa non capivamo” [int. 2].
Le relazioni sociali
Se si affrontano i temi delle relazioni sociali, della solidarietà,
dell’accoglienza, dei conflitti ci si confronta con il concetto di comunità. Nel focus group molti partecipanti hanno rilevato, innanzi
tutto, la necessità di trasformare la nostra comunità, intesa come
contesto territoriale, sociale e culturale, per renderla più capace
41
di accoglienza e d’apertura alle diversità. Gli operatori presenti
hanno descritto i pakistani che hanno conosciuto come persone
molto corrette, rispettose dei ruoli, educate negli atteggiamenti
e volonterose.
E’ stato rimarcato anche che il tipo d’impiego lavorativo ed il contesto nel quale avviene (valli, campagna, piuttosto che industria)
influiscono molto sull’apertura e chiusura nei confronti della comunità ospitante . Di conseguenza, può esserci una differente
percezione da parte degli abitanti di un paese piuttosto che di un
altro, e questo si è notato anche nelle testimonianze raccolte.
E’ emerso, infatti, che gli operatori della zona di Zingonia riportavano un’ immagine molto diversa da quella testimoniata da
operatori di altre zone:
“Zingonia ha proprio una storia con i pakistani … sono qui da molti anni, parliamo già di seconda generazione, mentre nella zona di
Chiuduno si parla di ultimi arrivati. E’ vero che le donne pakistane
si vedono poco a scuola, ma è anche vero che se c’è uno spettacolo,
per esempio, aiutano a confezionare gli abiti, cucinano per le feste….
nel momento in cui si crea una relazione di fiducia, certe distanze
vengono superate” [focus group].
E’ quello che sostiene anche Zulfqar Hashim nell’intervista a BergaMondo del 31/07/07:
“…tutta la nostra famiglia è cristiana, frequenta la messa, fa il presepio
a Natale, celebra tutte le vostre festività e ama molto le vostre chiese.
E credo che anche questo sia molto importante perché ci unisce nei
valori, nei principi e nelle intenzioni alle persone che vivono qui”.
H.M. è una ragazza dal carattere allegro, aperta e disponibile
verso gli altri e racconta solo episodi positivi riguardo alle sue
relazioni con italiani e stranieri di Azzano, il paese dove vive. Ricorda che, quando ha accompagnato il suo fratellino a casa di
un suo compagno di scuola per la festa di compleanno, è stata
accolta cordialmente dalla padrona di casa. Ha anche dei vicini
42
di casa immigrati e dice di avere un buon rapporto soprattutto
con una ragazza rumena. Molto spesso va a trovare conoscenti
ed amiche e pone l’accento sul fatto che fra i pakistani non vi è
l’usanza di telefonare prima di andare a far visita ad un’amica,
perché le donne sono sempre in casa: “Per noi chiamare qualcuno
è come dire di preparare qualcosa perchè stiamo arrivando…e non
è bello…” conclude.
Anche A.R. e H.R. sono in buoni rapporti con i loro vicini a Ciserano, conoscono alcuni negozianti e hanno con loro buone relazioni,
di fiducia. H. racconta di un ragazzo del suo palazzo che lo ha
molto aiutato nei compiti di matematica e ricorda che andava da
lui spesso e mangiava anche da lui. “Non ci sono state mai manifestazioni di rifiuto o isolamento, anzi per il paese eravamo quasi una
novità, ci chiedevano sempre «Siete voi i pakistani arrivati?...». Ci
sono, invece, pochi rapporti con altri pakistani residenti in paese,
aggiunge H.: “Ci sono altre famiglie pakistane, ma sono famiglie
chiuse, non parlano con nessuno, quasi neanche con noi… Le donne
non le vedi…Quando io, mia mamma o mia sorella andavamo fuori a
fare una passeggiata, loro le criticavano ….”.
C’è anche chi non si trova molto bene nel paese dove vive:
“Ghisalba è un paese piccolo, non ci sono molte opportunità come in
città, mancano amici, mancano svaghi, posti in cui ritrovarsi, se non
un bar dove la gente si ritrova a bere il caffè. Io non ci vado molto
volentieri, c’e una pizzeria dove vado ogni tanto” [int. 7].
Alcuni degli intervistati lasciano trapelare una certa diffidenza
verso altre famiglie pakistane ed anche nel focus è emerso che
più che ad un’unica comunità si deve fare riferimento a grandi
famiglie allargate.
“Io faccio fatica a definirla comunità quella pakistana, perché è fortemente divisa tra le varie famiglie e nei vari clan familiari, nel senso
che i pakistani che conosco io, tra l’altro provenienti tutti dalla stessa
regione, sono fra loro divisi, non si parlano …. adesso noi dovremmo
assegnare una casa ad un pakistano vicino ad un altro pakistano,
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non sarà una cosa facile perché ci sono anche elementi di conflitto”
[focus group].
Alcuni riportano notizie di contrasti fra indiani e pakistani soprattutto se neo-arrivati, perché nel loro paese esiste ancora un conflitto forte ed esistono scontri alle frontiere.
“Nella nostra zona i pakistani e gli indiani sono i nuovi flussi migratori e gli indiani, ad esempio, sono diventati la maggioranza. Esistono
esempi di conflitto tant’è che mi segnalavano dal Centro di Istruzione
Professionale di Trescore grossi scontri tra ragazzi pakistani e indiani
finiti anche a botte pesanti, all’esterno del C.F.P. , più di una volta.
Quando sono piccoli si parlano tranquillamente: anche stamattina
ho visto una ragazzina indiana, che è qui da molto più tempo con una
ragazzina pakistana, appena arrivata, tra loro si parlavano amichevolmente… man mano che si va su d’età, diventa una cosa sempre
più difficile” [focus group].
Sicuramente, se ci si riferisce a famiglie residenti in Italia da molto tempo, questo conflitto storico-politico-religioso è poco sentito,
in questo caso, all’opposto, è importante aver vicino qualcuno che
proviene da una zona affine alla propria area d’origine, come gli
indiani e in questo caso ci si sente più forti e sicuri. Quindi i conflitti che i neoarrivati portano con sé, si attenuano con il passare
del tempo:
“Viviamo nella provincia di Bergamo, ma viviamo proprio realtà diverse: queste cose mi sembrano molto strane perché la comunità
pakistana e quella indiana che vivono qua a Verdello sono molto diverse, noi abbiamo scuole di lingua italiana dove la maggior parte delle
donne iscritte sono pakistane o indiane e frequentano insieme, qui ci
sono anche un’indiana e una pakistana che vivono insieme, se io non
riesco ad andare a prendere il mio bambino, io chiamo la mia vicina
che è indiana e va a prenderlo lei. Certo, questo conflitto fra i due paesi c’è sempre stato, è storico non lo possiamo negare,ma la gente che
adesso vive qua, però, non sente questo conflitto” [focus group].
44
LA CULTURA: FRA TRADIZIONE E RELIGIONE21
La cultura del Pakistan, e anche quella della sua comunità immigrata in Italia, è complessa per situazioni, valori, interessi talvolta
contrastanti. E’, quindi, riduttivo parlare dei pakistani senza far
riferimento alla tante differenze culturali e religiose, alle zone
di provenienza urbane o rurali, alla classe economico sociale
di appartenenza (aristocratica, medio-alta, bassa). I medesimi
simboli, infatti, acquisiscono significati diversi a seconda delle
situazioni. Vi sono sicuramente elementi comuni, soprattutto in
materia di onore familiare e di relazioni di genere, ma sono solo
un prodotto indiretto della religione islamica, derivano piuttosto
da una struttura patriarcale dominante preesistente all’Islam, che
ha portato ad una interpretazione conservatrice della religione,
usata a vantaggio di chi detiene il potere sia a livello sociale, che
familiare. Pertanto nel considerare la struttura familiare, lo “status“ della donna pakistana (nel nostro caso immigrata) occorre
tenere a mente che la stessa identità di genere è determinata da
una molteplicità di fattori non riducibili semplicemente a nazionalità o religione.
La famiglia
La distinzione dei ruoli all’interno della famiglia pakistana tende ad essere netta: l’uomo è prevalentemente attivo nello spazio
pubblico, la donna nell’ambito familiare. La struttura familiare è
patriarcale, patrilineare e poligamica (anche se la poligamia è in
sostanza limitata a due mogli dopo aver ottenuto il permesso per
richiesta formale).
Il matrimonio, soprattutto tra i ceti medio-bassi urbani e in am21
Fonti: E. Giunchi, Approfondimenti su Pakistan e Bangladesh, Atti del
Convegno Famiglie migranti e stili genitoriali, Bologna 2005;
E. Giunchi, Essere donna in Pakistan”, in: Donne in transizione in culture
e società diverse. Atti del ciclo di incontri per docenti di scuola media e
primo biennio superiori, operatrici di servizi informativi, culturali e sociali,
Commissione Pari Opportunità di Brescia, Brescia, 2001.
45
bito rurale, è combinato dai genitori senza la partecipazione della
futura sposa nella scelta del partner e nella determinazione delle
clausole che possono essere inserite nel contratto matrimoniale.
“I matrimoni sono combinati e avvengono senza che i due si conoscano prima del matrimonio. Io conoscevo mio marito perché è mio
cugino, ma l’ho conosciuto da piccolo e poi l’ho perso di vista perché
si era trasferito in Italia. Comunque sono stata contenta perché già
da giovanissimi ci piacevamo a vicenda” [int. 3].
“Anche i miei genitori si piacevano prima di sposarsi e la sorella di
mia mamma ha sposato il fratello del padre” [int. 2].
In teoria la donna che si sposa avrebbe diritto al mahr, una “controdote” che dovrebbe essere corrisposta dalla famiglia del futuro
marito alla sposa. Nei fatti, però, la controdote viene raramente
riconosciuta alle donne o consiste in una somma di denaro di poco
conto o in oggetti dal valore irrilevante. Più spesso è la famiglia
della sposa a ricevere dal futuro marito una somma di denaro, di
oggetti o di terre. Si tratta del cosiddetto “prezzo della sposa”, il
cui ammontare dipende da una serie di caratteristiche della sposa
e dal prestigio della sua famiglia. Il matrimonio delle figlie è considerato, quindi, un obiettivo importante per ogni famiglia.
“Il matrimonio nella vita di una donna è molto importante, se una
donna non si sposa, dopo 40…50anni, la società la critica…le persone parlano. La donna non sposata ha dei problemi...ed è anche un
problema per la famiglia. Se invece un uomo non si sposa non dicono
niente, non viene criticato dalla società, ma ci sono pochissimi uomini
non sposati” [int. 2].
Esiste anche la dote che la famiglia della sposa fornisce alla figlia
al momento del matrimonio, come in uso in Italia tempo fa, ma
l’urbanizzazione e l’emigrazione hanno modificato anche questa
abitudine:
“In Pakistan la dote della moglie è molto importante, anche se or-
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mai è una tradizione che si sta un po’ perdendo. Io non voglio avere
la dote dai miei genitori, ma di solito è la famiglia che vuole dare
tutto, persino il frigorifero o il letto alla figlia. Il rispetto per questa
tradizione dipende molto dal tipo di famiglia: per alcune non è così
importante, ma per altre la dote ha ancora un gran valore e danno
tanto in dote. Io non ho dovuto portare nessuna dote, perché sono
venuta in Italia da mio marito, ma senza il suocero. L’abitazione per
gli sposi, di solito, è quella dei genitori dello sposo, dove la sposa
vive praticamente tutta la vita, ma noi abbiamo preso la casa qui”
[int. 3 ].
Il matrimonio, poi, è un evento per tutti i familiari:
“La cerimonia è molto bella, si svolge in Pakistan, sia che entrambi
siano emigrati in Italia, sia che la moglie viva ancora in Pakistan. Per
il matrimonio ci vogliono abiti belli e nuovi, si invitano tutti i parenti
della coppia, gli amici, e i festeggiamenti durano due giorni. Prima
di sposarsi non è necessario che il ragazzo e la ragazza si incontrino
o si conoscano dipende da cosa decide la famiglia” [int. 7].
Una volta concluso il matrimonio, il marito può ricorrere allo strumento del talaq, cioè al ripudio, per scioglierlo. Dopo il ripudio,
segue un periodo di ritiro, che dura tre o quattro mesi a seconda
delle circostanze. Durante il ritiro la donna non può risposarsi,
pena la condanna per relazione sessuale illecita, che comporta
punizioni severissime, ma ha diritto al mantenimento, che scade
allo scadere del periodo di ritiro. Il fatto che la donna non abbia
solitamente fonti proprie di reddito, la porta a cercare di evitare in
ogni modo dissidi col marito che possano portare al ripudio, che
è fonte di vergogna per la donna e per la sua famiglia d’origine.
Spesso la donna ripudiata è, infatti, respinta dalla famiglia o costretta a risposarsi a condizioni sfavorevoli: il suo allontanamento
dal tetto paterno è considerato del tutto prioritario. Occorre, tuttavia, distinguere tra donne del ceto basso e medio-basso urbano e
del ceto alto rurale, la cui autonomia è oggetto di numerosi limiti,
e donne del ceto alto urbano, che godono di maggiori diritti.
47
In Pakistan lo statuto del diritto personale, che risale al 1961,
stabilisce una serie di norme che applicano il diritto islamico in
modo più moderno. Per fare due esempi, l’uomo che vuole ripudiare la propria moglie è costretto comunicarlo per iscritto alle
autorità competenti e solo dopo 90 giorni dalla comunicazione
il talaq diventa valido e ha inizio il ritiro, o ancora la legge dice
che le donne non si possono sposare se hanno meno di 16 anni.
Queste norme, però, sono rimaste lettera morta e, soprattutto a
partire dagli anni ’70, quando è iniziato in Pakistan un processo
di islamizzazione che ha toccato soprattutto la sfera sessuale e
familiare: sono state emanate nuove leggi tra cui punizioni severe
per varie forme di relazione sessuale illegale e norme che squalificano la testimonianza femminile nei processi.
“Anche se all’interno della famiglia, si sa che la donna è brava, la
cosa principale è che le donne si comportino nel modo giusto, al fine
di non disonorare la famiglia. Il concetto di onore è fondamentale
per i pakistani” [int. 4].
Dati particolarmente preoccupanti esistono sulla violenza contro
le donne, si stima che l’80% circa delle donne sia soggetta a violenza domestica. I dati sulle violenze sessuali e sui delitti d’ onore
sono impressionanti: si parla di 1000 delitti d’onore e 700 stupri
ogni anno, ma solo 1/3 viene denunciato. A questi si aggiungono
anche i casi di “stove burning”, uso di acido solforico e fuoco della
stufa, morti ovviamente non accidentali. Dietro a questi reati si
nascondono, non di rado, interessi economici: per esempio, uccidere una donna della propria famiglia accusandola di adulterio
permette di ottenere dal presunto amante un compenso, che può
essere un terreno o l’estinzione di un debito, o una donna della
sua famiglia. Le pene previste per i delitti d’onore sono di poco
conto. Dalle risposte fornite dalle donne intervistate si percepisce
che sposarsi all’interno dell’ampia cerchia di familiari, in fondo è
una sicurezza anche per prevenire questi eventi:
“C’è l’usanza di combinare i matrimoni, è bene che ci si sposi tra
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cugini, così sai già in che famiglia vai a vivere, è una sicurezza. Così
non arrivano problemi dopo sposati, perché già si conosce la famiglia,
perché noi non sposiamo solo il marito, ma tutta la sua famiglia. Certo, la tradizione di sposarsi in famiglia (fra cugini) viene dalla volontà
di mantenerla unita” [int. 2].
“Apprendo che per una ragazza pakistana sposare un uomo che non
conosce, non è così strano. La loro preoccupazione non è se è bello,
brutto, gentile, istruito… la loro paura è di andare a vivere nei villaggi. I loro villaggi non offrono buone condizioni di vita, vivere là è
molto duro. Per una ragazza che ha studiato e proviene dalla città e
stare la è molto triste. Si ritengono fortunatissime se rimangono in
città o meglio ancora se possono seguire i mariti all’estero, come ad
esempio in Italia” [int. 11].
Negli ultimi decenni, l’emigrazione e l’urbanizzazione hanno avuto
effetti rilevanti, e talora contraddittori, sulla struttura familiare e
sulla condizione femminile.
Affrontando, però, il tema della non libertà di scelta del promesso
o della promessa sposa, emerge consenso da parte degli intervistati, indipendentemente dal genere, e prevale l’adesione alla
tradizione, di cui la famiglia è l’anello forte. Nell’analizzare le diverse affermazioni va tenuto conto del fatto che la maggioranza
dei rispondenti proviene da centri industriali.
“Adesso che sono una promessa sposa sono condizionata nella mia
vita, io non mi sento del tutto libera di fare quello che voglio, il centro
dei miei pensieri è sempre quel ragazzo con cui sono fidanzata. Non
si tratta neanche di sentimenti, ma è capire che si è legati ad una
persona e questo richiede di tener fede alla promessa per rispetto
dei genitori, ma anche della vita di quella persona a cui sei legata.
Non sempre avviene che i genitori decidano il matrimonio senza interpellare la figlia, perché, spesso, prima di decidere chiedono anche
ai figli; io conosco la persona che sposerò, abita in Italia, ed ho concordato con i miei genitori la scelta. I miei genitori prima mi avevano
chiesto per un’altra persona, ma io non ho accettato anche per il
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differente livello culturale. Io voglio sposarmi con una persona a cui
parlo e che mi può comprendere” [int. 8].
“Io non ho ancora scelto una moglie, ma questa scelta sarà presa
dalla mia famiglia. Èmeglio così, dipende dai miei genitori: loro sanno
cosa è meglio per me” [int. 4].
“Non sono sicuro di far venire in Italia la mia promessa, quando
i miei genitori la sceglieranno, forse tornerò io in Pakistan, anche
perché qui in Italia non c’è una comunità numerosa; in Pakistan puoi
scegliere e tener anche conto del desiderio di scegliere fra cugini.
Far venire qua una ragazza dal Pakistan vorrebbe dire darle meno
possibilità, costringerla a restare in casa e toglierle l’opportunità di
continuare gli studi o di usare i suoi titoli di studio. E’ faticoso proseguire con gli studi in Italia, a scuola ho difficoltà, certo so che potrò
trovare un lavoro qui in Italia, ma la stessa cosa per la mia sposa
sarebbe molto difficile. Anche gli uomini che hanno studiato, poi,
lavorano in magazzino, per le donne è ancora più difficile. E’ successo
così anche alla mia mamma, lei in Pakistan lavorava tanto, faceva
tante cose, qua niente, tutto quello che aveva non serve a niente per
lei, non è valido…” [int. 9].
La donna: dalla protezione al diritto
Asma Jehangir, attivista per i diritti umani, presidente della Commissione per i diritti umani del Pakistan, in un’intervista del settembre 2005 al periodico “Emigrazione notizie”22 sostiene:
“Negli ultimi decenni in Pakistan c’è stato un cambiamento enorme. L’intera percezione della questione della donna è passata dalla protezione al diritto. Precedentemente, si pensava che le donne
avessero necessità di essere protette. Negli anni ’80 un approccio
più basato sui diritti si è manifestato, ma non è andato abbastanza
in profondità”.
22
www.womennews.net, Intervista a Asma Jehangir, 29/09/2005.
50
“Le donne si affermano in campi diversi, come la politica e l’economia. Ma se si esamina l’unita’ base della famiglia, dove la discriminazione comincia (e in tale discriminazione le donne restano impantanate tutta la vita), poco è cambiato”.
“Ci sono state continue campagne a sostenere i casi che poi hanno
vinto in tribunale. Per esempio, il fatto che una donna potesse sposarsi contro la volontà dei suoi genitori fu sostenuto da una campagna
molto dinamica, sui media e nelle strade. L’istanza venne dibattuta
praticamente in ogni casa, e la campagna risultò vincente…”.
“Uno dei cambiamenti di cui abbiamo bisogno riguarda le leggi sul
lavoro. Fino ad ora, non abbiamo ottenuto molto in questo campo. Ma
questo è un periodo in cui i sindacati sono banditi, e senza libertà di
associazione diventa più difficile ottenere diritti umani”.
Dal 1996 il Pakistan ha ratificato la convenzione sull’Eliminazione
di Ogni Forma di Discriminazione contro le Donne, impegnandosi
ad emendare ed abrogare leggi non conformi ad essa e a modificare tradizioni discriminatorie, tuttavia nessuna misura concreta
è stata presa, anzi nel 1997 l’indice di sviluppo dello UNDP (United
Nations Developement Programme) relativo al genere poneva il
Pakistan al 120° posto su 146 paesi.
Va detto, però, che la situazione si presenta “a macchia di leopardo”: la differenza è fra i settori medio-alti urbani e il resto della
popolazione; particolarmente nelle aree rurali e tribali la donna
pakistana ha scarsa autonomia, vive segregata ed è penalizzata.
L’analfabetismo femminile è molto diffuso nelle aree rurali (circa
il 75% a livello nazionale), le donne costituiscono solo il 25% della
forza lavoro. Le loro attività sono regolate da misure legislative
volte a limitare il coinvolgimento femminile in certi tipi di occupazione e, spesso, nel settore agricolo non sono remunerate. Da una
parte, quindi, la normativa ancora risulta in parte discriminante,
dall’altra la cultura e i comportamenti dentro la famiglia sono intrisi di pregiudizi verso le donne. Su questo tema si sono espressi
51
anche molti degli intervistati, fra cui donne, e le risposte mostrano
come il concetto di protezione offuschi quello dei diritti.
“…loro possono uscire da casa da sole, ma è meglio se sono accompagnate. Quando esce mia sorella a volte va con mio padre, a volte
con mio fratello…è meglio così perché la nostra religione dice che
la donna non può uscire da sola …” Gli uomini quando escono le
ragazze le guardano sempre, poi gli altri parlano e poi lo dicono ai
genitori….” [int. 7].
H.R. sostiene che le donne non vanno tenute in casa, ma per loro
ci vuole un livello di protezione, che, a suo parere, significa attenzione e cura da parte della famiglia: “…una donna non può uscire
da casa la sera quando vuole, deve rispettare delle regole che dà la
famiglia.” Afferma che quella islamica è una religione che rende le
donne libere e a sostegno del suo parere sulla libertà della donna
riporta l’esempio del velo.
“… il velo non è imposto dalla religione, certo anche io se devo pregare devo avere il cappello, le donne se pregano devono avere il velo,
ma se una donna, esce, parla con le persone, va a lavorare può non
mettere il velo, può vestirsi come vuole e non deve coprirsi tutta….
questa è una imposizione tramandata dalla cultura per sottomettere
le donne, tenerle in casa, non dare loro libertà” [int. 9].
“… nei miei confronti c’è rispetto e un modo di esprimerlo per un
uomo è anche non guardarmi negli occhi quando lavoro allo sportello” [focus group].
Il passaggio dall’idea di protezione della donna all’affermazione
dei diritti non è semplice, specialmente dopo la prova dell’emigrazione, fatta di allontanamenti e ricongiungimenti, che richiedono
di rinsaldare i legami familiari. Per farlo il punto di riferimento è
la tradizione con le sue regole ed i suoi valori.
“L’approccio rispetto la condizione delle donne è una cosa che a me
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interessa tanto, nel senso che, quando si parla della condizione delle
donne straniere dal punto di vista giuridico, ti confronti solo con i
diritti individuali delle donne, mentre tutti gli altri aspetti giuridici,
per esempio il diritto di famiglia, non vengono mai considerati e,
secondo me, questo è indicativo di una lettura molto etnocentrica.
Questo modo di intervenire ha come conseguenza che alcune situazioni si radicalizzino. Perciò, rispetto a questi temi così delicati
come l’onore, i rapporti interpersonali, io cerco di tenere un po’ le
distanze. Non è che io condivida certe posizioni, ma non ne so abbastanza per indicare una strada diversa; non penso che ci debbano
essere delle forzature. Per esempio abbiamo costituito addirittura
la commissione d’inchiesta sulla condizione delle donne straniere e
le commissioni d’inchiesta hanno potere nella comunità giudiziaria,
ma l’ambito d’indagine sono le famiglie e le comunità d’origine.
Io mi chiedo come sia possibile entrare nelle famiglie e definire
come deve essere la famiglia e cosa pensa la comunità d’origine:
ne consegue poi, dal punto di vista degli stranieri, che il privato e
il pubblico non si distinguono più. Mi preoccupa molto quando ci
sono degli interventi in ambiti come la cultura o la religione, perché
un’imposizione, per esempio rispetto alla frequenza scolastica per
certe attività o la partecipazione alle gite, può essere controproducente. Io penso che si debba andare nella direzione di potenziare la
possibilità di scelta e di studiare gli strumenti per dare tale possibilità di scelta…” [int. 10].
In caso di conflitto normativo fra l’ordinamento italiano e quello
pakistano – il che è probabile nell’ambito del diritto di famiglia,
man mano che aumenteranno i ricongiungimenti- occorre tener
conto del fatto che l’immigrato pakistano conosce e rispetta non
solo il proprio diritto nazionale, ma anche il diritto islamico non
codificato e le consuetudini locali del contesto di partenza. Il grado
di accettazione, da parte dell’immigrato, dell’ordinamento italiano
in materie così delicate, quali il matrimonio e la filiazione dipende
anche dalla classe sociale e dall’etnia di appartenenza: elementi
che influiscono molto sul livello di integrazione nel nuovo ambiente. L’insegnante, l’assistente sociale o l’avvocato italiano, che ha
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a che fare con conflitti culturali e normativi tra diritto pakistano
e diritto italiano, deve cercare di conoscere il diritto ”vivente” oltre a quello vigente. Il puro riferimento al diritto italiano sarebbe
semplicistico e si rischierebbe, come già veniva sottolineato nella
testimonianza precedente, la contrapposizione.
Il tema dell’onore
Il tema dell’onore è emerso sia nel focus group, sia nelle interviste
e viene sempre collegato alla donna e alla famiglia e al concetto di
rispetto. “Se hai una moglie sola, ci vuole molto rispetto e protezione
per lei e tutta la comunità lo riconosce” – afferma H. Il parere della
comunità è importante e porta a pensare molto ad ogni comportamento che può influire sull’immagine sociale della famiglia, è
importante non dare l’occasione di parlare o di dire qualcosa che
possa mettere in dubbio l’onore della famiglia.
“Quello che mi colpisce nei loro discorsi è il senso del rispetto e
dell’onore, un concetto abbastanza diverso dalla nostra concezione
del delitto d’onore. L’onore riguarda anche il comportamento dell’uomo: ho conosciuto due detenuti pakistani, che si mantenevano isolati
dalla comunità pakistana e non volevano far sapere la loro vicenda,
non volevano entrare in contatto nemmeno con la famiglia perché
non si doveva sapere che erano in carcere, per una questione d’onore” [int. 10].
“… non rispettare le regole e disonorare la famiglia può succedere
quando una ragazza ama un ragazzo e non segue la scelta dei genitori per il suo matrimonio, perché da noi sono i genitori a decidere.
Io credo che questa cosa sia giusta, io non parlerò neanche, quando
mio padre deciderà. Probabilmente sceglieranno per me una ragazza
in Pakistan” [int. 9].
Più di una volta nelle interviste è stato riproposto il caso di Hina,
la ragazza sgozzata dal padre, proprio per una questione d’onore
familiare.
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“La colpa è dei genitori, perché la ragazza aveva un modo di vivere,
di vestire, di comportarsi proprio sbagliato. I genitori non l’hanno
controllata, non le hanno parlato della religione, non le hanno insegnato niente. I genitori prima devono spiegare e solo così possono
pretendere che i figli facciano le cose giuste… il fatto poi di uccidere
è comunque sbagliato...” [int. 9].
A.R. a commento dell’assassinio di Hina ha sostenuto che l’onore può portare anche a decisioni estreme e sbagliate, perché la
gente è ignorante ed è ancora legata all’idea di un “finto onore”,
che è quello che si mostra all’esterno, un onore di facciata. Il controllo sociale da parte della comunità nei confronti della famiglia
è molto forte e, di conseguenza, lo è il controllo della famiglia sui
suoi singoli membri e sui loro comportamenti. Questo fatto non
viene messo in discussione da nessun intervistato, anzi è accettato come un elemento giusto e viene affermato che, quando manca
questa attenzione al singolo, che è il compito educativo primario
della famiglia, proprio allora si accendono i conflitti come per il
caso di Hina.
“Sembra che tutta la colpa sia della figlia, dell’immagine che ha offerto, ma i genitori devono guardarsi dentro e chiedersi cosa hanno
fatto per impedire a lei di fare quelle cose” [int. 6].
La mediatrice S.A. nel focus group precisa che spesso si fa confusione fra religione e cultura e certe decisioni di limitare la frequentazione di luoghi pubblici alle donne derivano non da principi
religiosi, ma dalla cultura. Nella discussione sviluppatasi durante
il focus, i pareri degli operatori sono rimasti piuttosto distanti da
quello di S.A., pur cercando di suggerire vie interessanti d’incontro
e sono manifestate difficoltà ad entrare nel merito di questioni che
sono sentite tanto lontane dal nostro quotidiano.
“Se non ci fossero delle differenze sarebbe tutto più semplice, le
differenze sono particolarmente faticose: ci sono alcune parole come
l’onore che non lasciano i nostri animi silenti. Non è facile scendere
55
subito a patti e trovare le soluzioni, quindi, secondo me, è importante
indicare quali possano essere i processi che aiutano un avvicinamento. Rispetto alle donne ho visto alcuni contesti funzionare proprio
perché c’è attenzione alle differenze culturali. Bisogna offrire e cercare dei luoghi tutelanti di incontro, dei luoghi intermedi tra l’essere
in casa protetta e l’andare in piazza. Ho visto alcune donne pakistane
uscire da casa, frequentare certi ambienti perché non si andava in
piazza, ma si andava in luoghi con altre donne, che diventano dei
punti di riferimento. Questo nulla toglie alle differenze che sul tema
dell’onore sono grandi, perché per noi significa oppressione della
donna” [focus group].
La Commissione per i Diritti Umani in Pakistan (Hrcp)23, organismo indipendente protagonista di molte battaglie democratiche, ha pubblicato un’indagine in cui afferma che stupri e «delitti
d’onore» sono in aumento in molte zone del Pakistan, in particolare le campagne del Punjab meridionale e del Sindh - ma anche
in ambienti urbani.
Questi delitti sono commessi proprio da mariti, padri, fratelli o
altri parenti contro donne accusate di aver portato disonore alla
famiglia. Secondo la Commissione per i Diritti Umani, circa metà
degli omicidi di donne, avvenuti nel Punjab meridionale sono
d’onore.
In questi casi, e in episodi di violenza sessuale, la polizia è restìa
ad indagare e la giustizia assai blanda verso i responsabili. Tutto
questo non è una novità per le attiviste della Commissione per i
Diritti Umani o delle organizzazioni di donne, mentre la sorpresa
è che il numero di queste violenze non diminuisca. I consigli di
villaggio non hanno legittimità, le loro «sentenze» sono basate
su tradizioni feudali e tribali e non sulla legge, ma spesso invocano l’Islam come fonte di legittimità. Così le autorità esitano ad
andare contro i panchayat per paura di offendere i «sentimenti
23
Il Manifesto, luglio 2003.
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religiosi» della gente e tollerano l’arbitrio. Insomma, i conflitti
legati all’onore tendono ad essere risolti dalla comunità in maniera extragiudiziale sulla base di un diritto consuetudinario non
codificato che punta al mantenimento dello status quo.
La religione
A.R. sostiene che la religione sia molto più importante per i musulmani rispetto a quanto non lo sia per i cristiani, anche perché
impone delle regole di comportamento quotidiano, che vengono
attentamente seguite.
“La regola più importante è pregare, condurre una vita buona e giusta, comportarsi bene, non mangiare carne di maiale e non bere vino.
Sono regole che servono a migliorare le persone” [int. 7].
La pratica religiosa, quindi, diventa fondamentale nella vita di pakistani. Nelle interviste si fa cenno a varie moschee frequentate
dagli uomini in provincia, specialmente nella giornata di Venerdì.
Le donne pregano a casa, mentre gli uomini, quando non hanno
impegni con il lavoro, vanno nella moschea di Bergamo o a San
Paolo d’Argon, o a Montello. I riti della religione islamica possono
essere praticati anche nelle moschee di Martinengo e Treviglio.
“Queste moschee non sono frequentate solo da pakistani, ma esistono delle moschee frequentate prevalentemente da marocchini o da
pakistani, dove però, ovviamente, possono andare tutti i musulmani”
[int. 7].
Anche fra gli immigrati in provincia di Bergamo esistono differenze nella pratica religiosa, a seconda dell’ etnia di appartenenza.
S.N. precisa che si tratta di abitudini, tradizioni, riti e anche feste
religiose differenti. La differenza di etnia non determina, però, in
Pakistan un conflitto così acre come quello in Iraq fra Sunniti e
Sciiti.
Uno degli obiettivi per i pakistani della provincia è quello di avere a
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disposizione uno spazio per un cimitero islamico, anche all’interno di quello italiano. Se ne sta occupando l’Associazione Tarkeene-Watah. A proposito del cimitero islamico S.A. ed H.A. spiegano
che le donne islamiche non possono andare nei cimiteri perché si
dice che “i morti vedano le persone vive da dentro e le vedono nude
così pregano da fuori e non dentro il cimitero”.
Una voce differente è quella di A.M, che non frequenta regolarmente le moschee, dice che preferisce pregare a casa, sostiene di non
fidarsi, ma non vuole precisarne il motivo. Interessante è anche
l’insediamento di pakistani cristiani nella provincia, che oltre a contare ben 50 iscritti ad un’associazione, vede una presenza cospicua
e sostenuta e incrementata proprio dall’associazione stessa.
“La scelta dell’Italia come meta è stata dettata dalla speranza di
trovare dei punti di riferimento per me cristiano, grazie alla presenza
della Città del Vaticano. Il mio credo religioso mi aveva creato, infatti,
numerose difficoltà in Pakistan, soprattutto a livello economico e
lavorativo” [int. 4].
Maternità e salute24
La salute delle donne pakistane non può essere separata dalla
più ampia questione dei diritti sociali e politici di genere. Una
serie di fattori culturali determinano la subordinazione del ruolo
femminile a livello sociale: in una società fortemente incentrata
sul maschile e dove solo l’uomo eredita, le donne vengono spesso
considerate una perdita finanziaria per le famiglie a basso reddito.
L’età media delle ragazze da matrimonio è compresa fra i 13 e i
16 anni, anche se sta lentamente innalzandosi. Entrata nel nuovo
contesto familiare come proprietà del marito, la sposa viene fortemente spinta verso la procreazione maschile. La donna introietta
a tal punto la preferenza sociale verso il maschile da sentirsi col24
www.pipol-integra.it (Ospedale-comunità pakistana, 20/12/05; MGF:
Modena apre al cambiamento, 22/05/05).
58
pevole in caso di parto femminile, sentendosi costretta a ripetere
la gravidanza nella speranza di un erede: se ciò non dovesse avvenire, sarebbe irrimediabilmente isolata dalla famiglia.
“Se una donna non può avere figli è una cosa molto triste: già il fatto
di non riuscire ad avere un figlio maschio crea tristezza, perché un
figlio maschio porta avanti il nome della famiglia. Solo per avere un
maschio certe donne fanno sei, sette figli e questo perché le femmine
sposate poi non fanno più parte della famiglia” [int. 3].
“Se una donna non può avere figli, il marito è autorizzato ad averne da un’altra donna, ma anche se mia zia non può avere figli, suo
marito non ha voluto sposare un’altra donna e neanche lasciarla.
Di solito, mentre un uomo può chieder il divorzio perché la moglie
non può avere figli, la donna, se il marito non può averne, non può
chiederlo” [int. 2].
Tra il 1991 e il 2001 l’uso di contraccettivi come strategia di pianificazione familiare è cresciuto in Pakistan fino al 28%: il Programma di Pianificazione Familiare avviato dal Ministero della Salute
ha studiato un intervento specifico in merito alla contraccezione,
ma le intervistate sostengono:
“Nelle famiglie pakistane, non è diffusa la scelta di non avere figli.
Non si pratica l’aborto, anche se un figlio non è voluto, e non si utilizzano metodi contraccettivi” [int. 2].
Attualmente le levatrici tradizionali sono le sole referenti per parto ed aborti nelle campagne, agendo spesso con strumentazione
inadeguata. I recenti dati di ricerca sul campo danno stime tra
le 280 e 700 morti materne per ogni 100.000 nascite soprattutto
nelle zone rurali del Pakistan. L’80% delle nascite avviene in casa
e solo il 18% è affiancato da attendenti abbastanza qualificate.
“La morte materna è così frequente in Pakistan che, come mestruazioni, tensione premestruale e sindrome climaterica, è considerata
59
una «cosa di donne» Shershah Syed, Segretario Generale dell’Associazione medica del Pakistan.
S. durante l’intervista afferma che aspetta una bambina e assicura che partorirà in ospedale, ma conferma che in Pakistan,
soprattutto nelle campagne, sia molto diffuso il parto in casa.
L’intervistata ha con sé anche il primo figlio di ventuno mesi, che
l’anno prossimo andrà all’asilo. In ospedale, in occasione del primo parto, S. dice che si è trovata bene. Anche H. conferma che
la zia ha preferito l’ospedale, mentre la madre ha partorito il suo
ultimo figlio, nato in Italia, in casa.
L’emergere della prospettiva di genere, provocata dall’effetto dei
numerosi ricongiungimenti familiari, anche a proposito dei servizi
sanitari, comporta un ripensamento da parte degli operatori dei servizi dell’area materno-infantile sulla presa in carico delle donne.
I rapporti di genere, infatti, sono collegati a radici culturali profonde che toccano il ruolo della sessualità femminile all’interno
della cultura di riferimento: queste specificità andrebbero accolte e comprese dagli operatori per stabilire un efficace ponte
di comunicazione finalizzato alla presa in carico della donna. La
comprensione delle diversità nel vivere il percorso di gravidanza
dall’utenza è fondamentale, poiché la donna migrante spesso vive
la maternità come un evento non solo biologico e affettivo, ma
che coinvolge l’intero ordinamento sociale del gruppo familiare, il
progetto della comunità d’appartenenza, oltre che fattori spirituali
costituiti da forze altre (antenati, spiriti, energie...).
Dalle interviste, e anche da dati raccolti nelle province di Modena
e Prato, emerge che la comunità pakistana, in genere, si serve del
servizio sanitario pubblico, in particolare del Pronto Soccorso e,
di solito, sostiene di ricevere un buon trattamento.
“In Pakistan esistono persone molto ricche e persone molto povere e
i migliori servizi scolastici e sanitari sono a pagamento e tutti i poveri
sono esclusi. In Italia invece c’è più uguaglianza fra tutti i cittadini
60
qua la legge è buona…là è diverso se sei ricco o povero…” [int. 6].
“Mia suocera da un anno ha il problema dei denti e dopo aver girato
tanto, perfino a Brescia, ha avuto risposte diverse, ha dovuto fare
esami e richieste ma senza risultato; adesso è tornata in Pakistan
per farsi curare, ha cominciato subito la cura ed ora sta bene.” In
India e Pakistan l’assistenza sanitaria costa tanto, ma è molto veloce, se hai soldi. Per gli emigrati è possibile. Abbiamo cercato anche
in Italia un intervento a pagamento ma hanno chiesto 15.000 euro,
invece in Pakistan lei ha pagato solo 500 euro” [int. 1].
Fra le cause più frequenti di malattie gli intervistati indicano la
diversa alimentazione. La mamma di M. H. ha dei seri problemi
allo stomaco, causati a parere della figlia dal tipo di alimenti.
“ La farina di granturco, che usiamo tutti i giorni per fare il pane qui è
molto diversa da quella che usavamo in Pakistan. Là non sono assolutamente usati cibi congelati o contenenti conservanti. La frutta non
ha lo stesso sapore, qui ho visto anche l’anguria senza semi. Come
può essere?!! Ecco perché molte persone immigrate, soprattutto se
ormai adulte, non riescono a digerire i cibi” [int. 2].
Tutti i giorni, al pomeriggio, le intervistate e, in generale, le donne pakistane preparano il pane in casa senza lievito.”E’ una cosa
normalissima, perché siamo 7 in casa, allora io al pomeriggio faccio
12 o 10 piadine...”. Anche R.A. sostiene: “Le donne in casa fanno il
pane tutti i giorni perché non è possibile mangiare tutti i giorni il pane
comprato al supermercato”.
Istruzione: scuole pubbliche, private e madrasa25
L’istruzione e la scuola sono state tematiche importanti su cui
gli intervistati e i partecipanti al focus group si sono espressi.
25
Le Monde Diplomatique, marzo 2006; www.tempi.it; L’Eco di Bergamo,
30/07/05; Il Sole 24 Ore, 25/02/07; www.asianews.it; La Repubblica, luglio
2007.
61
Innanzitutto perché la scuola è il servizio meglio conosciuto e
più utilizzato dagli immigrati e, in secondo luogo, perché c’è una
particolare attenzione delle famiglie pakistane a questo aspetto.
Riccardo Sorrentino, sul Sole 24 Ore del 25/02/07, ricorda di aver
visto i bambini del Kashmir studiare all’aperto, dopo il terribile sisma del 2005 che aveva distrutto la maggior parte delle scuole.
“Il piccolo Awais ha un po’ di freddo, a 1.400 metri di altezza l’aria è
pungente. Studia, il sussidiario aperto; ripete ad alta voce le lezioni
in coro con una ventina di compagni.”
Sostiene che “In Pakistan le famiglie sono pronte a fare sacrifici per
l’istruzione e spesso devono farli” anche perché le scuole pubbliche
mancano e le famiglie si rivolgono a quelle private per garantire
ai figli un’istruzione per un futuro migliore.
Infatti, il bilancio dell’insegnamento pubblico rappresenta non
più dell’1,8% del Pnl. Questo spiega perché il 15% delle scuole
non possiede spazi appropriati, il 40% non ha l’acqua corrente e
il 71% è senza elettricità. Nel corpo insegnante l’assenteismo è
frequente e, in realtà, molte scuole esistono soltanto sulla carta.
I proprietari terrieri, infatti, hanno impedito alle scuole di nascere o di funzionare bene, perché l’ignoranza è uno strumento per
mantenere il potere. Non dimentichiamo che il tasso di alfabetizzazione nelle campagne è del 37,8%.
“La scuola pubblica non funziona bene e le maestre vengono, ma non
fanno niente…. i bambini allora continuano a giocare. Nella città in
cui vivevo, le scuole private erano di più di quelle pubbliche, che sono
solo per coloro che non riescono a pagare quelle private” [int. 2].
L’alternativa, per chi se lo può permettere, è la scuola privata. Ce
ne sono migliaia nel paese e coprono tutti gli ordini d’istruzione,
dalla primaria all’Università. Le scuole private hanno successo
perché si insegna in inglese (va ricordato che il generale Zia im-
62
pose l’urdu come lingua nelle scuole pubbliche), lingua indispensabile in università. Inoltre gli standard sono migliori e le punizioni
corporali sono vietate. Solitamente le rimesse degli emigranti
permettono ai figli di studiare nelle scuole private.
“In queste scuole si segue il modello inglese del periodo coloniale,
con qualche cambiamento e aggiustamento per stare al passo con i
tempi. Gli iscritti in maggioranza erano figli di militari, ma c’era una
quota di posti riservata ai civili, che prima di essere ammessi dovevano fare un esame di ammissione in inglese, dove si richiedevano
conoscenze e abilità” [int. 8].
H.R. si ricorda bene quell’esame di ammissione, che ha sostenuto
quando aveva quattro anni:
“…Ricordo che mia mamma mi faceva studiare tanto perché era importante e si doveva dimostrare di conoscere i numeri fino a cento e l’alfabeto inglese…. ogni anno dovevo superare tre esami e ricordo che avevo
paura di questi esami sempre per ogni livello. Mi trovavo abbastanza
bene in quella scuola, ma avevo delle difficoltà, perché non studiavo
gran che, ma mia mamma che era insegnante mi aiutava” [int. 9].
Il quasi-fallimento dell’educazione nazionale significa che per una
parte rilevante della popolazione l’unica speranza di migliorare la
propria sorte è di mandare i figli nelle madrasa, le scuole religiose, dove sono certi che riceveranno una formazione severamente
tradizionale ma totalmente gratuita.
Uno studio del Ministero degli Interni, svolto dopo l’11 settembre,
ha mostrato che esistono nel Pakistan ventisette volte più madrasa che nel 1947. Al tempo dell’indipendenza, ce n’erano 245, nel
2001 erano diventate 6.870, oggi ci sono 13.500 madrasa dichiarate e, tra queste, una parte significativa è diretta o associata ad
una unione dei partiti islamici, che ha imposto un regime di tipo
talebano nella provincia della Frontiera Nord-Ovest, vietando la
musica in pubblico e ogni rappresentazione della forma umana.
63
“Oltre alle scuole pubbliche e private ci sono anche le scuole islamiche gratuite, dove lo studio è prevalentemente basato sulla religione.
Anche nelle scuole pubbliche e private si studia la religione islamica,
ma non così” [int. 3].
Il programma in molte madrasa in Pakistan è arcaico: si insegna la geometria a partire da Euclide e la medicina da Galeno. Si
impara il Corano a memoria invece di farne uno studio critico e il
fatto di diventare un hafiz - che conosce tutto il Corano a memoria
- passa per qualcosa di molto prestigioso. Si impara che il sole
gira intorno alla terra e si trovano persino alcune madrasa in cui
si riservano seggi per gli spiriti islamici invisibili, gli jin. Ma non
è il caso di tutte le madrasa, alcune sono invece sorprendentemente evolute.
I partiti islamici conoscono i vantaggi che possono trarre dal controllo di questi luoghi di insegnamento e non lo nascondono. Ad
esempio, la sede del partito Jamaat-e-Islami a Lahore è anche
una madrasa, dove duecento studenti ricevono una educazione
coranica con chiaro indirizzo politico. Un portavoce del partito è
stato molto esplicito:
«La trasformazione politica fatta dalle nostre madrasa sta massicciamente modificando il futuro del Pakistan. Esiste un legame molto
stretto fra i recenti successi elettorali dei partiti islamici e il lavoro
che svolgiamo nelle nostre madrasa».
La rapida proliferazione di queste madrasa è iniziata negli anni
‘80 sotto l’egida del generale Zia ul-Haq. Complessivamente ci
sarebbero come minimo 800.000 studenti nelle madrasa del Pakistan, un intero sistema educativo islamico libero e gratuito, che
offre vitto e alloggio, che fa concorrenza ad un settore pubblico
moribondo.
Studi di recente pubblicazione mettono in dubbio la teoria secondo
cui le madrasa non sarebbero altro che i centri di addestramento
di Al Qaeda. Certo è vero che molte di esse aderiscono alle cor-
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renti di pensiero più dure del pensiero islamico, ma pare che gli
studenti delle madrasa non abbiano affatto le competenze tecniche richieste per portare a termine attentati sofisticati come quelli
rivendicati da Al Qaeda negli ultimi anni.
Comunque, dopo i fatti dell’11 settembre, la comunità internazionale ha chiesto al presidente Musharraf che lo Stato ristabilisse
il controllo o ordinasse la chiusura delle madrasa nel paese. Lui
ha promesso molto, ma ha fatto poco. All’indomani della strage
di Londra, con la scoperta che alcuni kamikaze del 7 luglio erano stati istruiti in Pakistan, Musharraf annunciò la riforma delle
madrasa e ordinò l’allontanamento degli stranieri dalle scuole
coraniche in Pakistan, così i 1.400 studenti stranieri presenti nelle
diecimila scuole di formazione islamica dovettero interrompere i
loro corsi. Ma la riforma non è andata avanti.
Secondo un’indagine del linguista Tariq Rahman il 99,2 % degli
studenti delle madrasa ritiene che la conquista del Kashmir debba
essere una priorità della politica pakistana, il 97,7% indica come
fondamentale l’applicazione integrale della sharia, il 96,1% lo sviluppo di armi nucleari, l’87,7% l’aumento delle spese militari; il
76% vorrebbe proibire i media elettronici, il 73 per cento respinge
l’uguaglianza di diritti fra uomini e donne e il 71,7% dichiara la sua
aperta ostilità a cristiani e indù.
“In Pakistan esistono gruppi di terroristi islamici, che fanno pressione
sul governo. Musharraf dice che devono pensare solo alla religione
e non interessarsi delle scuole, ma i terroristi islamici hanno scuole
per diffondere la religione e per abituare alla guerra…” [int. 4].
Continuamente nelle interviste si compara il modo di far scuola
in Pakistan con quello sperimentato qui in Italia e l’opinione che
ricorre è quella che la scuola pakistana sia più esigente, più
selettiva ed anche più efficace.
“La scuola pakistana è più severa: là una classe è composta di 35
65
alunni e anche le famiglie sono severe negli studi. A mio padre non
piaceva lo studio e allora è stato mandato dal padre a lavorare. Il
controllo della famiglia sullo studio dei figli è maggiore in Pakistan,
i figli sono mandati a scuola anche a fare i compiti: i genitori vogliono che i figli imparino molto, secondo me gli studenti italiani hanno
troppo tempo libero” [int. 2].
“Il mio fratellino si trova bene a scuola. Ha molti amici anche italiani,
ha degli insegnanti bravi, anche se in Pakistan gli insegnanti sono
molto più severi e autoritari…nelle scuole picchiano tanto…danno
tanto compito e se non ti ricordi la lezione…ti puniscono e tu impari
di più…” [int. 7].
”Là ti facevano studiare <tosto>, qui invece lo studio per i bambini è
molto, molto soft…” [int. 8].
Il tempo libero e il cricket26
Il tempo libero dalle interviste sembra dedicato a rinsaldare i legami, le tradizioni e anche le abitudini sportive del paese di origine. Prevalentemente si fanno visite a parenti, a cugini e zii, poi
si seguono insieme i programmi televisivi di emittenti pakistane.
“Mi pace leggere e faccio parte di un gruppo di donne, italiane e
straniere, per lo scambio culturale e l’integrazione: ci sono lezioni di
italiano, lezioni di cucina, di cucito eccetera. I miei abiti tradizionali
li cucio e li preparo direttamente io con la macchina… Gli uomini
nel tempo libero giocano molto a cricket. In Pakistan giocano molto
anche a football, mentre non è diffuso il ritrovo nei bar, perché non
beviamo alcolici. Mio papà si trova con gli amici, a casa di uno o
dell’altro e parlano di lavoro…” [int. 2].
Il più importante motivo di svago sono le partite di cricket. Nel
subcontinente indiano, e quindi nel Pakistan, il cricket è, infatti,
26
www.stranieriinitalia.it; www.anolf.it
66
lo sport nazionale. Lo praticano il sabato anche i residenti nelle
diverse zone d’Italia. Nella cittadina di Medicina (Bo) il 25 luglio
2007 si è svolto il campionato italiano di serie C. Una manifestazione organizzata dal Comune e dalla Federazione Cricket
italiana, con il patrocinio del Ministero delle Politiche giovanili e
Attività sportive e della Provincia di Bologna . Si sono confrontate
12 squadre (in rappresentanza di 6 regioni), non certo composte
dai fuoriclasse inglesi o indiani, ma soprattutto da immigrati pakistani che durante la settimana lavorano nei negozi o alla catena di
montaggio, nonché da un numero crescente di stranieri e italiani
affascinati da questo sport aristocratico, nato in Inghilterra nel XIV
secolo. La metà delle formazioni proveniva da Lazio e Lombardia e
una delle tre squadre lombarde era la pakistana Tarkeen el Watan
di Bergamo (giunta terza).
“Nel tempo libero mi incontro con amici pakistani, gioco a cricket.
Faccio parte di una squadra, che si allena a Calcinate dove il Comune
ci ha dato un campo e nel fine settimana ci sono degli incontri amichevoli anche con gli indiani. C’è molta gente la domenica, vengono
a giocare 4 o 5 squadre. Gioco anche a calcio, non in squadra, ma
con gli altri che si ritrovano tutti all’oratorio. Non ho molti amici italiani e preferisco passare il tempo libero con altri ragazzi stranieri
pakistani, indiani e marocchini. Con loro gioco a calcio, a volte passeggiamo…andiamo dentro al bar e parliamo…andiamo dietro alle
ragazze” [int. 7].
Il cricket ha incuriosito anche i locali, dapprima hanno osservato
a distanza, qualcuno lamentando l’uso di spazi pubblici, poi è intervenuto in alcuni un interesse più diretto che ha portato al coinvolgimento di enti locali e a seguire anche le partite organizzate
all’interno di tornei veri e propri ufficialmente riconosciuti.
“Due anni fa ho incontrato questi primi crickettari, con questa mazza,
questa pallina da tennis rivestita di scotch giocare nei parcheggi. Ogni
tanto una macchina veniva centrata, quindi c’era qualche problema
anche di gioco. A me quello che ha colpito di quei ragazzi, e che mi
67
colpisce tuttora, è che hanno chiamato la loro squadra Pak-cricket
club Zingonia, quindi hanno assunto il nome di Zingonia come loro,
si sono identificati non solo con un luogo, ma con un contesto di
relazioni” [focus group].
Anche a Bergamo si è organizzato al campo Coni di via delle Valli,
il torneo di cricket con partite che si alternano per alcune domeniche consecutive. L’iniziativa, nata da un’idea di ANOLF CISL,
associazione che si occupa di immigrazione, vede la partecipazione di CSI e cooperativa Kinesis di Zingonia. Attorno al torneo
c’è una cornice di pubblico numerosa e partecipe, come già era
stato durante la prima edizione, disputata in forma sperimentale
nel novembre 2006.
“Da allora - dice Adriano Allieri, dell’ANOLF e tra gli animatori
dell’inziativa - il consenso attorno all’evento è sensibilmente cresciuto. Quest’anno ci saranno 7 squadre, contro le 4 della scorsa
edizione, con oltre 100 atleti coinvolti. Una grande soddisfazione sono
le squadre miste, composte cioè da diverse etnie, tutte comunque
riconducibili ai tre grandi protagonisti mondiali di questo sport,
India, Pakistan e Bangladesh. Anche l’interesse “italiano” attorno
alla nostra iniziativa si sta ampliando - continua Allieri- l’idea che
l’aggregazione e l’integrazione possano passare anche attraverso
lo sport inizia a contagiare sempre più persone, che si avvicinano
a discipline considerate estranee alla nostra cultura, e soprattutto
amministrazioni pubbliche, che ci chiamano per avere “consulenze”
sull’organizzazione di eventi multiculturali e sportivi”.
Un importante contributo alla diffusione del gioco del cricket vuole darlo l’Associazione fondata da Shagufta e Mohammad Arshad
a Verdello, come riporta l’intervista riportata su BergaMondo del
25/09/2007.
“L’obiettivo primo fra tutti è favorire il gioco del cricket nella Bergamasca «I nostri ragazzi si allenavano a Verdellino, dopo aver ricevuto
qualche lamentela, abbiamo pensato di far sentire la voce ufficiale di
68
un’Associazione. Subito è arrivata anche la squadra ufficiale Tarkeene-Watah Youngsters Cricket Club Bergamo, composta da 25 atleti non
professionisti, tutti operai, quest’anno hanno disputato il campionato
italiano di serie C, classificandosi al terzo posto. Al momento giocano
dove capita, ma stanno cercando un campo dove permetter a tutti di
giocare, solo di Pakistani a Bergamo ci sono 5 squadre»”.
69
LE PROSPETTIVE
Le prospettive per il futuro ci presentano ancora modi differenti
di vivere ed interpretare il proprio progetto migratorio.
Qualcuno è ormai legato all’Italia, in particolare a Bergamo:
“Nessuno di noi, nonostante le difficoltà vuole ritornare in Pakistan
anche per gli attentati e le guerre che succedono là… io voglio rimanere qua fino a quando muoio…loro non lo so”, dice A.M. e anche i
figli confermano.
Altri sentono la nostalgia del Pakistan e dei parenti e sognano di
tornare e prevedono un ritorno facilitato dalle sostanziose rimesse inviate a casa:
“Penso che la mia famiglia non rimarrà per sempre in Italia, ma ritornerà fra un po’ di anni in Pakistan perché … lá è meglio” [int. 7].
Le donne per ora sanno di non poter decidere, perché dipenderà
dal loro matrimonio o dalle decisioni della famiglia, ma c’è chi ha
più fiducia nelle sue possibilità future:
”Io voglio aprire questa chiusa mentalità pakistana, noi donne dobbiamo fare qualcosa in più nei nostri limiti, nel rispetto della religione, per avere più autonomia” [int. 1].
70
APPENDICE
II Pakistan da dominion a repubblica islamica27
La nazione che oggi è il Pakistan è stata parte dell’India fino al
1947. I primi sostenitori dell’indipendenza di una nazione musulmana comparvero al tempo dell’India coloniale britannica.
Tra loro c’era lo scrittore Muhammad Iqbal, che sosteneva che
una nazione separata per i musulmani fosse essenziale nel
subcontinente altrimenti dominato dagli Indù.
La causa trovò una guida in Muhammad Ali Jinnah, che portò
gli inglesi a dividere la regione in due parti (Partition): il Pakistan a maggioranza musulmana e l’India a maggioranza indù.
La nuova repubblica, che la Lega islamica si proponeva di costruire, s’ispirava alle democrazie occidentali e, pur essendo
islamica, dichiarava che la religione avrebbe influenzato solamente la vita privata. Il presidente sostenne, a più riprese, di
non avere simpatia per gli ‘ulama, né per la shari’a. All’interno
dei settori religiosi pochi, quindi, appoggiarono la Partition,
sostenendo, invece, uno Stato islamico, cioè una teocrazia.
Dal 1947 fino al 1971 la nazione era suddivisa nel Pakistan
occidentale e nel Pakistan orientale, i cui territori erano separati dall’India. Nel 1971 il Pakistan orientale si ribellò e,
con l’aiuto di truppe indiane, divenne lo stato indipendente
del Bangladesh.
Da allora, Pakistan ed India hanno vissuto una situazione di
conflitto permanente, il cui obiettivo esplicito è il territorio di
confine del Kashmir: tensioni diplomatiche, conflitti armati
e scontri di frontiera hanno caratterizzato sessanta anni di
rapporti tra i due paesi, mettendo più volte in pericolo la pace
internazionale, soprattutto da quando entrambi sono entrati
27
Fonti: E. Giunchi, Lo stato islamico in Pakistan tra realtà e finzione,
in: F. Montessoro (a cura di), Lo stato islamico: teoria e prassi nel
mondo contemporaneo, Guerini, Milano, 2005; Rapporto Unicef 2007;
L’Eco di Bergamo 4/08/05; www.larepubblica.it; www.wikipedia.it; www.
larivistadelmanifesto.it.
71
in possesso della bomba atomica.
La storia politica pakistana è scandita da periodi in cui si alternano dittatura militare e governo democratico parlamentare. Lo status di dominion terminò nel 1956 con la promulgazione di una Costituzione e la dichiarazione del Pakistan come
una repubblica islamica; i militari presero però il controllo
nel 1958 e tennero il potere per più di 10 anni. Il governo civile ritornò ad essere eletto dopo la Guerra indo-pakistana
del 1971, ma alla fine degli anni ‘70, con l’esecuzione di Ali
Bhutto, che fu dichiarato colpevole d’avere assassinato un oppositore politico, si ritornò al regime militare con Muhammad
Zia ul-Haq.
Negli anni ’80, il Pakistan ricevette sostanziosi aiuti dagli USA,
e assorbì milioni di rifugiati afghani, soprattutto Pashtun, che
fuggivano a causa dell’intervento sovietico. L’afflusso di così
tanti rifugiati – il più grande gruppo mondiale – ha avuto un
grande impatto sul Pakistan, che divenne la base strategica
per la formazione e l’addestramento dei gruppi di guerriglieri
mujahidin, per l’islamizzazione della resistenza anticomunista. La dittatura del generale Zia vide un’espansione della
legge islamica, oltre a un afflusso di armi e droghe dall’Afghanistan. Nel 1988 il generale morì in un incidente aereo e
il Pakistan ritornò ad avere un governo eletto democraticamente.
Dal 1988 al 1998 il Pakistan ebbe un governo democratico,
guidato alternativamente da Benazir Bhutto e Nawaz Sharif,
che furono entrambi eletti due volte e deposti con l’accusa
di corruzione. La crescita economica declinò verso la fine di
questo periodo, a causa di politiche economiche sbagliate
associate a corruzione politica e clientelismo.
Altri fattori limitanti in questo decennio furono la crisi finanziaria asiatica e le sanzioni economiche imposte al Pakistan
dopo i suoi primi test nucleari nel 1998. Questi avvennero dopo
che anche l’India aveva testato armi nucleari, accrescendo il
72
timore di una corsa agli armamenti nucleari nell’Asia meridionale.Il crescente autoritarismo e la corruzione del governo di
Sharif eletto nel 1997 portarono al colpo di stato militare del
generale Pervez Musharraf del 1999.
Nel 2004 Musharraf iniziò una serie di passi per far ritornare
la nazione a una certa democrazia, essendosi impegnato a
dimettersi da capo militare per la fine del 2004. Mentre le
sue riforme economiche avevano portato alcuni benefici, il
programma di riforme sociali incontra ancora resistenze.
Il regime di Musharraf è attualmente stretto nella morsa che
vede da un lato i gruppi moderati chiedere un governo democratico, e dall’altro i gruppi di estremisti islamici realizzare gravi attentati terroristici. Questi ultimi, particolarmente
irritati dalla stretta alleanza politica e militare con gli Stati
Uniti, chiedono l’allontanamento di Musharraf dalle politiche
filo occidentali.
Alla fine del 2007 la situazione politica precipita con una serie
di gravissimi attentati terroristici culminati nell’assassinio di
Benazir Bhutto, rientrata in patria per partecipare alle elezioni politiche, che Musharraf ha posticipato a febbraio, proclamando lo stato d’emergenza nel paese e la sospensione
della Costituzione.
Informazioni generali
Superficie: 796.095 Km2
Capitale: Islamabad (circa 900.000 abitanti)
Altre città principali: Karachi (10.100.000 ab.); Lahore
(5.600.000 ab.); Faisalabad (2.300.000 ab.); Hyderabad (760.000
ab.); Rawalpindi (795.000 ab.)
73
Popolazione: 156.700.000 i di abitanti (densità 189,2 ab. per Km)
Lingua: Le lingue ufficiali sono l’urdu e l’inglese. L’urdu (letteralmente lingua dell’accampamento) tuttavia, pur essendo
lingua nazionale, è parlato solamente dal 7,6% della popolazione. Altre lingue: punjabi (48,2%), pushto (13,1%), sindhi
(11,8%), saraiki (9,8%)
Religione: Musulmani (96.3%), Cristiani (2%), Induisti (1,7%)
Moneta: L’unità monetaria del Pakistan è la Rupia pakistana
(PRs)
Economia28
Nonostante l’avvio di processi d’industrializzazione negli anni
Settanta e Ottanta, l’agricoltura resta il settore dominante
dell’economia pakistana. Il settore agricolo contribuisce per
oltre il 20% al PIL, impiegando circa il 50% della manodopera
disponibile e fornendo (direttamente o indirettamente) il 70%
dei proventi derivanti dalle esportazioni.
Contributo dei diversi settori alla formazion del PIL29
(composizione %)
Settore
2002/03 2003/04 2004/05
Agricoltura
23,6
n.d
21,6
Settore Manifatturiero e Minerario18,4
n.d
20,2
Elettricità, gas e acqua
3,4
n.d
2,5
Costruzioni
3,3
n.d
2,3
Servizi
51,2
n.d
53,4
28
www.mondimpresa.it
Fonti: EIU, Economist Intelligence Unit Country Report, settembre 2006;
CIS Italia, Conoscere il mondo, Franco Angeli, 2005.
29
74
Oggi, sebbene l’economia risulti in crescita (tasso di crescita
6% all’anno), la povertà rimane diffusa ed interessa il 40%
della popolazione e, ad una maggiore attenzione verso l’istruzione e l’assistenza sanitaria, si contrappone una riduzione
degli investimenti nel settore idrico e igienico-ambientale.
Nel mercato mondiale il Pakistan si presenta con alcuni punti
di forza: l’offerta di manodopera a basso costo e molto competente nelle lavorazioni manifatturiere e la presenza di una
classe dirigente giovane, formata in collegi ispirati al modello
inglese; di contro, presenta anche punti deboli: pericolo terroristico, la difficoltà di comunicazione per la mescolanza di
gruppi, dialetti, culture che potrebbe causare conflitti interetnici, nonché una fragile democrazia.
Interscambio Italia-Pakistan30
Nello scambio commerciale con il Pakistan, l’Italia ha registrato negli anni 2000 saldi generalmente positivi e andamenti stabili . Nel 2006 le esportazioni italiane in Pakistan sono
aumentate del 19%, fino a un valore di 544 milioni di euro. Si
è trattato del terzo anno consecutivo di crescita molto sostenuta, dopo aumenti del 29,5% nel 2004 e del 20,5% nel 2005.
Nello stesso periodo le importazioni italiane dal Pakistan, che
ha nel nostro mercato un importante punto di riferimento (terzo in Europa dopo Regno Unito e Germania), sono aumentate
del 4,9%, per un valore di 429 milioni di euro, dopo la flessione
subita nel 2005 (-3,3%).
Sul piano merceologico, l’Italia esporta principalmente macchine e macchinari, mentre importa prodotti del settore tes-
30
Fonti: EIU, Economist Intelligence Unit. Country Report, settembre
2006; Elaborazioni Caritas e Microfinanza su dati dell’Ufficio Italiano
Cambi, 2005; www.ice.it. (Istituto nazionale per il Commercio Estero.
Rapporti Paese congiunti Ambasciate-Uffici Ice estero, 1^ sem. 2007).
75
sile/abbigliamento. Tra questi, le principali voci dell’import
italiano sono tessuti di filati in cotone , biancheria e arredo per
la casa, cuoio e pelletteria. Tra le prime voci dell’import italiano compaiono, sebbene in calo, anche le materie plastiche.
Il Pakistan acquista soprattutto macchine per le industrie tessili e per la lavorazione delle plastiche.
Aumentano le vendite italiane verso il Pakistan d’apparecchi
riceventi per la radiodiffusione e di macchine automatiche per
la dosatura, la confezione e l’imballaggio di parti e accessori
per autoveicoli e motori. La composizione dell’interscambio
con l’Italia è sintomo emblematico del tentativo del Pakistan
di diversificare la propria produzione e i propri mercati di
sbocco.
Nel rapporto economico Italia-Pakistan va posto anche l’accento sull’entità delle rimesse inviate dagli immigrati nel loro
Paese. Negli anni ‘90 il continente al secondo posto per volume di rimesse era l’Asia con 156 miliardi all’anno. Un ruolo
fondamentale è ricoperto dal subcontinente indiano (India,
Pakistan e Bangladesh) con riceve il 60% delle rimesse giunte
nel continente. Per quanto riguarda l’Italia le rimesse verso
il Pakistan erano in aumento fino al 2001, successivamente
sono parse in lieve diminuzione, a testimonianza di una migrazione che comincia a stabilizzarsi, grazie ai ricongiungimenti familiari.
Anno Rimesse (in milioni di euro)
1990
32
1995
208
1996
246
1998
392
2000
588
2001
749
76