Giuseppina Pellegrino

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Giuseppina Pellegrino
Daedalus, 2006
PASSATO/PRESENTE
GIUSEPPINA PELLEGRINO
CLASSIFICAZIONI, VITA QUOTIDIANA ED ETICA
DELL’AMBIGUITÀ NELL’APPROCCIO ECOLOGICO DI
BOWKER E STAR
Con l’apertura di questo numero (il primo della versione completamente
on line nella storia ultradecennale della rivista) Daedalus intende avviare un
dibattito ed invitare alla riflessione su temi che si collocano ineludibilmente
all’attenzione tanto della storia quanto delle scienze sociali.
Si tratta di temi che riguardano la vita quotidiana di ciascuno di noi innanzitutto, e poi immediatamente il modo in cui le nostre vite si collocano
all’interno di sistemi tanto invisibili quanto potenti, che ne segnano e ne vincolano il passo, l’andatura e l’ordine interazionale.
L’intervista a Geoffrey Bowker e Susan Leigh Star dell’Università di Santa
Clara (California), rilasciata in occasione del primo convegno nazionale
dell’associazione STS Italia (Studi Sociali su Scienza e Tecnologia) tenutosi
a Cagliari nel giugno 2006, si propone di portare all’attenzione dei lettori di
Daedalus un dibattito che potrebbe essere collocato, appunto, sotto l’etichetta
STS (Studi sociali della Scienza e della Tecnologia). Un “campo” di riflessione inter e trans disciplinare ampiamente istituzionalizzato in ambito accademico anglosassone ed europeo, che nel nostro paese sta incominciando ad
emergere (e che sarà al centro di due giornate di lavori ospitate all’Università
della Calabria, la prossima primavera, sotto l’egida di STS Italia).
L’oggetto di questi studi – riprendendo una definizione di Roland Barthes
per la trans-disciplinarietà (cit. in Clifford, 2005) - “non appartiene a nessuno” in quanto si colloca al confine tra diverse comunità scientifiche.
La relazione tra scienza, tecnologia e società si è configurata per lungo
tempo come unilaterale e lineare, all’interno di meccanismi di produzione,
diffusione e innovazione considerati quasi automatici, per cui la scienza e la
tecnica “determinano” l’innovazione, “offrendo” strumenti nuovi alla società.
L’ambito di studi denominato STS è accomunato proprio dalla volontà e dal
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progetto di superare la rappresentazione deterministica della relazione tra
scienza, tecnologia e società.
Il punto di partenza, in questo senso, è costituito dalla consapevolezza del
carattere processuale e plurideterminato (storicamente, socialmente, politicamente) di questa relazione (Bijker e Law, 1992; Bijker, Hughes e Pinch,
1994). All’interno degli studi su scienza e tecnologia, il dibattito teorico si è
articolato nel tempo attraverso “convergenze plurime” che ne hanno segnato
l’andamento: in senso costruzionista (Bijker, 1995); nella direzione semiotica
di una ridefinizione della distribuzione di competenze e concatenamenti tra
umani e non-umani come superamento di separazioni “artificiali” (Latour,
1992 e 1996); in senso “ecologico”, ovvero guardando alle interconnessioni
invisibili che ci circondano attraverso le infrastrutture informative emergenti
da un continuo lavoro di classificazione (Bowker e Star, 2000). Proprio a
quest’ultimo approccio Daedalus dedica uno spazio di approfondimento, “interrogando” i suoi rappresentanti più illustri sul rapporto tra “la classificazione e le sue conseguenze”, per riprendere il sottotitolo del testo a quattro mani
in cui Bowker e Star ripercorrono, principalmente attraverso indagini di tipo
storico-documentario, una serie di pratiche e di oggetti (dalla classificazione
internazionale delle patologie all’Apartheid, dal trattamento della tubercolosi
alla professione infermieristica) risultanti da scelte, classificazioni e processi
di esclusione.
Si tratta di uno studio che, a detta degli autori stessi, si colloca a cavallo
tra “sociologia della conoscenza e della tecnologia, storia e scienza
dell’informazione” (Bowker e Star, 2000: 6) e che pone particolare attenzione ai processi attraverso cui le categorie “residuali” (l’altro, ciò che non rientra nelle categorie operate e “riconosciute” dalle classificazioni) vengono create, escluse e in ultima analisi discriminate, procurando sofferenza e disuguaglianza. Ed è proprio a questi aspetti del loro studio che l’intervista dedica un
approfondimento, chiedendo di esplicitare i legami tra le infrastrutture informative e i processi di globalizzazione, la Società dell’Informazione e il rapporto tra oblio e memoria in un’epoca di sovraccarico informativo. I modi in
cui “diamo ordine” al mondo, tanto nella routine della vita quotidiana quanto
nella formalità della vita organizzativa, cambiano nel tempo. Ma l’atto di
classificare – inteso come selezione di una complessità da cui saremmo altrimenti schiacciati - resta cruciale soprattutto quando le informazioni e le
infrastrutture che le veicolano si moltiplicano esponenzialmente.
Al centro dell’analisi di Bowker e Star si colloca una serie di concetti.
Primo fra tutti, quello di classificazione, appunto, che gli autori definiscono
formalmente come “una segmentazione spazio-temporale unica, mutuamente
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esclusiva e completa”. Gli esempi di questa segmentazione attraverso cui
diamo ordine ai concetti e al mondo sono innumerevoli: esistono classificazioni statistiche, giuridiche, botaniche e così via. Si tratta criteri e parametri
funzionali ad effettuare delle distinzioni, che quasi mai sono esaustive, e quasi mai sono unanimemente accettate come la definizione formale di classificazione lascerebbe credere. In effetti, Sorting Things Out è un testo in cui il
carattere formalmente e convenzionalmente univoco delle classificazioni viene de-costruito, messo a nudo, “rivelato” nella sua complessità e nelle sue
contraddizioni.
Ancora, tra i concetti chiave degli studi di Bowker e Star vi sono gli standard e i processi di standardizzazione, ovvero regole concertate (anche attraverso conflitto e competizione), che hanno una inerzia e persistenza significativa nel tempo: si pensi ad esempio alla tastiera QWERTY che dalle macchine da scrivere è stata “trasferita” ai computer (cfr. David, 1985); o allo standard VHS per il videoregistratore, e così via. Infine, per entrare nel “vocabolario concettuale” di Bowker e Star, è importante tenere in considerazione il
termine “infrastruttura informativa”. Questa corrisponde ad un apparato che è
incorporato dentro una tecnologia, che diventa trasparente ai suoi utilizzatori,
ed è visibile (messo in questione) solo in seguito a guasti o “rotture”. I grandi
sistemi tecnologici (la rete elettrica, la rete ferroviaria, oggi la rete Internet)
sono esempi di sistemi che operano e funzionano grazie a sistemi di classificazione, standard e infrastrutture.
Questi concetti costituiscono altrettanti “oggetti”: oggetti di confine
(boundary objects: Star e Griesemer, 1989) che essendo flessibili e allo stesso
tempo coerenti, consentono a diversi mondi sociali (diverse comunità di pratica, cfr. Lave e Wenger, 1991) di cooperare tra di loro.
Le comunità di pratica si caratterizzano per il fatto che i loro membri (ad
esempio, un gruppo di infermieri nell’organizzazione ospedaliera, o un gruppo di scienziati in un laboratorio) condividono i significati da attribuire alle
“cose” (routine, oggetti, pratiche) e le “naturalizzano”: considerare certe cose
date per scontate (e non altre) è fondamentale rispetto al sentirsi parte di una
certa comunità di pratica. L’appartenenza passa attraverso oggetti, repertori,
routine, modi di fare le cose: si diventa membri di una comunità di pratica
per mezzo di questo processo.
Classificazioni, standard e infrastrutture operano all’interno di un gioco di
visibilità/invisibilità: sebbene ognuno di questi oggetti sia costruito attraverso
negoziazioni e conflitti, inclusioni/esclusioni, differenze e similarità, questo
lavoro “costitutivo” diviene invisibile e dato per scontato nel momento stesso
in cui classificazioni, standard e infrastrutture si costituiscono come “resi-
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stenti” e “operanti”, con una forza materiale che li rende a tutti gli effetti “fili” di un tessuto in cui si intrecciano biografie, regole materiali e simboliche
per l’ordine sociale, interrogativi etici e questioni squisitamente politiche. Ma
non per tutte le comunità che “incontrano” questi oggetti le stesse cose saranno visibili (o invisibili), e per alcuni (i “marginali” che appartengono a più
comunità) sarà particolarmente difficile portare a compimento il “lavoro categoriale”, ovvero la gestione cooperativa di significati e categorie interpretate diversamente da diverse comunità di appartenenza (che si costituiscono in
quanto tali per il significato condiviso attribuito a certi oggetti). E’ probabile
che questi “marginali” divengano eccezioni così rilevanti rispetto alle classificazioni correnti, da configurarsi come entità “mostruose” (in quanto troppo
diverse/dissimili rispetto a ciò che le classificazioni hanno categorizzato ed
istituzionalizzato come “normale”/ordinario ).
E’ possibile riconoscere in questo studio una ricca eco della sociologia
classica (e non solo), dall’oggettivazione di Simmel alle tipizzazioni schutziane, dall’archeologia del sapere foucaultiana all’uomo marginale di Park.
Nello stesso tempo, è lo sguardo trasversale e storico (ma sempre, anche, rivolto al presente e al futuro) a rendere questa analisi tanto ricca ed illuminante, il ricondurre una varietà di pratiche lavorative, conoscitive e classificatorie
ad un’ecologia di persone e cose, densa di implicazioni etiche e metodologiche, rispetto al rapporto con gli artefatti (materiali ed immateriali), ma anche
all’analisi delle pratiche attraverso le quali osserviamo il mondo e lo classifichiamo.
Qui emerge il carattere paradossale e le distorsioni che le classificazioni
finiscono per incorporare e riprodurre, così come il loro carattere ineffabilmente e totalmente “umano”: altrimenti detto, non vi è nulla di dato, nessun a
priori, nel modo in cui le cose vengono distinte le une dalle altre, ed entrano a
far parte di diversi “archivi”, o diversi “cassetti”. Eppure, questa è una pratica
“naturale”, o meglio naturalizzata, che accompagna le azioni più banali e
quotidiane del nostro giorno per giorno, informalmente, e insieme “nasconde” strati di decisioni, negoziazioni e conflitti su come quegli archivi e quei
cassetti sono stati costruiti, e su quali contenuti andranno a riempirli.
Ripercorrere il processo che questa archiviazione ha stratificato in se stessa, dare voce a coloro che questa archiviazione, implicitamente o esplicitamente, ha dimenticato e reso silenti, ed infine dare spazio ad una “ontologia
pratica” (Bowker e Star, 2000: 45) che consenta di disseppellire le “politiche
in pratica”, le decisioni che stanno alla base di relazioni fondamentali e antichi dilemmi (universale e particolare, ordinario e straordinario, simile e dissimile): è questo il “programma di ricerca” che Geoffrey Bowker e Susan
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Leigh Star ci (si) danno in Sorting Things Out, ed approfondiscono in questa
intervista.
Questi problemi sono una porta d’accesso per interrogarsi sui modi in cui
le più recenti infrastrutture informative (tra tutte, Internet e il web) realizzano
ed impongono nuove classificazioni materiali e simboliche, nuovi standard
che si affermano entrando nel nostro quotidiano, in maniera impercettibile.
Quali conseguenze tutto ciò riveste per coloro che da queste categorie e standard sono toccati, da vicino e da lontano? Riflettere sulle classificazioni ci
aiuta a formulare e a sviscerare questa, come molte altre domande.
Non solo per quanti indaghino direttamente la scienza e la tecnologia (o,
con un termine che enfatizza le continuità tra questi due ambiti, la tecnoscienza), ma per tutti coloro i quali non si accontentano di prendere le cose
così come ci appaiono, questo apparato concettuale e questo approccio possono offrire spunti e chiavi di lettura inedite, guardando alla miriade di “altri”, (categorie residuali o “orfani”) che le classificazioni creano e allo stesso
tempo escludono, consegnando al silenzio le loro istanze. “Altro” è tutto ciò
che le classificazioni lasciano al di fuori, tutto ciò che in esse non rientra, e
che non si adegua ai loro parametri. E’ un universo variegato, fatto di malattie rare e di ibridi, di categorie “miste” che non rispondono, per definizione, a
quella “purezza”, quella “linearità” che le classificazioni cercano di imporre
alla caoticità e all’imprevedibilità del mondo.
Bowker e Star, con i loro studi, ci invitano a mettere (ancora) più in questione i sistemi invisibili che avvolgono le nostre vite e che orientano la nostra conoscenza, collocandoci all’interno di potenti strumenti che è bene – di
tanto in tanto almeno – non dare troppo per scontati.
Il richiamo a questa messa in questione è un richiamo al riconoscimento
della molteplicità delle appartenenze che ci accomuna, alle implicazioni che
la riduzione di questa molteplicità comporta, ed insieme l’invito a riscoprire
un’ “etica dell’ambiguità” (Bowker e Star, 2000: 313) che renda possibile
l’ascolto e la cooperazione: attraverso infrastrutture di confine, ed in una tensione che si proietti oltre l’irrigidimento materiale e simbolico dei sistemi di
classificazione, profondamente intessuto di dolore, discriminazione e sofferenza.
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