7th floor n°3

Transcript

7th floor n°3
Edizioni MAP Cross Communication - Anno 1, numero 3
free spirits at work
Marketing Forum
Car Sharing
Corporate Blog
Web 2.0
Intranet
Wikipedia
James Gosling
Enzo Rullani
Marco Stancati
Bepi Hoffer
iannovation
wa rd
free spirits at work
7th Floor è nato con un desiderio: dare espressione all’originalità della
vita aziendale, riportando funzioni, procedure e pratiche quotidiane ai
soggetti umani che le ideano e le realizzano.
Crediamo in un genius loci specifico, che ha a lungo attraversato
pittura, musica, cinema e letteratura, e ora si manifesta anche nelle
relazioni professionali, nell’organizzazione e nelle pratiche quotidiane.
Per questo abbiamo pensato a un Innovation Award particolare: non il
tradizionale tributo al nuovo gadget tecnologico, né il pur necessario
riconoscimento al politicamente corretto dell’impresa responsabile o
culturalmente orientata.
Vogliamo puntare al cuore del problema e premiare direttamente le
persone che sono dietro i progetti più interessanti, la creatività espressa
nella vita aziendale quotidiana, il contributo immateriale e spesso
trascurato dei molti capitalisti personali, che operano negli spazi
ovattati degli uffici post-fordisti.
I moduli d’iscrizione saranno disponibili a partire dal mese di novembre sul nostro sito:
www.7thfloor.it
Il nostro staff è a vostra disposizione per ulteriori chiarimenti
(tel 06.85356443; e-mail [email protected])
Interazioni
Un canale diretto di comunicazione con
le persone che ci leggono, ci criticano,
ci spingono a continuare e magari ad
allargare il panorama che ogni mese
proponiamo dalle finestre di 7th Floor.
Mens sana in corporate office
Ho letto con interesse, sulle pagine delle riviste
di settore e tra i blog della rete, le critiche e i
commenti al nostro progetto editoriale. Mi hanno
offerto diversi spunti di riflessione e qualche
consiglio davvero niente male per la nostra
ricerca di una rivista non convenzionale per il
mondo corporate. Tuttavia ho l’impressione che
la cattiva fama di cui soffre la parola ‘corporate’
offuschi lo spirito e le intenzioni di 7th Floor.
Noi non ci sentiamo assolutamente milanoda-bere come qualcuno ha commentato; anzi,
decisamente l’opposto. 7th Floor vuole essere
un’alternativa alla comunicazione istituzionale
del mondo d’impresa: noiosa, patinata e
incartapecorita. Vuole scavalcare le barriere
della competizione tra aziende e all’interno delle
stesse. Vuole raccontare e condividere le storie
di persone concrete e originali che vi lavorano,
persone con un volto e un nome, esseri peculiari,
creativi, non convenzionali, cercando di violare
e scartare l’involucro patinato degli Uffici Stampa
che filtrano e omologano le vicende.
Intanto godetevi questo nuovo numero dedicato
alla condivisione: aperto alle tecnologie ma
anche attento alle inquietudini e agli squilibri che
il lavorare in rete genera. A proposito, ci tengo a
dirvi che lavorare in rete è la nostra esperienza
quotidiana: anche 7th Floor prende corpo senza
quasi contatto fisico: il timone è on line, gli archivi
sono sotto licenza Creative Commons, le foto
vengono dal Tajikistan, molti collaboratori da
Linkedin.com o da Frappr.com.
Eppure tutte queste parti in una suggestiva
coralità asincrona partecipano al progetto e infine
lo portano alla luce.
Manca qualcosa? Sì, a volte. La rete avvicina,
accelera e filtra; qualcosa crea attrito e qualcosa
si perde. Ecco, ad esempio un silenzio, uno
sguardo, un sorriso, un gesto semplice che ha
quell’ineffabile capacità di smontare una tensione
e un’arrabbiatura come per magia.
Aspettiamo le vostre critiche e i vostri commenti!
Andrea Genovese ([email protected])
Map - 7th Floor
}
Non è un caso che il board editoriale sia
costituito principalmente da persone di
formazione umanistica. Lo spirito editoriale
è critico, ironico e provocatorio rispetto
all’impostazione business school americana,
tutta profitto e tecnologia. Il nostro è un lavoro
partecipativo, che attraversa una fitta rete di
collaboratori sparsi per il Paese - designer,
giornalisti, manager, professori, artisti,
professionisti -, tutte persone impegnate a
riflettere sulle attuali logiche di organizzazione
del lavoro, insoddisfatte dall’assenza di
finalità propriamente umane nel modo di
fare impresa oggi.
È chiaro che per far questo noi dobbiamo stare
sia dentro che fuori dal ‘sistema’. Non possiamo
esimerci dall’attraversare righe e colonne
della matrice capitalistica, altrimenti saremmo
innanzitutto disinformati e poi poco credibili. Ma
in questo mondo desideriamo essere portatori
sani di un virus di dubbio, di un’anomalia, di
una spezia esotica che contamini l’aria e porti
a mettere in discussione le logiche con le quali
ideare, fare, agire. Forse non ancora quanto
vorremmo, ma ci stiamo lavorando sodo!
La realtà non ridotta a cliché
Trovo l’idea interessante. Basata, mi pare,
sull’individuazione di un punto sensibile
che accomuna i manager/specialisti, cioè
il peso di fare un lavoro che appassiona.
La passione ruba molte più energie di
una qualunque professione ed è difficile
dimenticarsela, pure quando non la si
esercita (nel tempo libero, intendo).
Mi sembra che i contenuti della rivista
si collochino nel ridottissimo spazio
che i suoi lettori/scrittori lasciano fra
la realizzazione personale e la sfera
personale. Uno spazio che sembra
sempre sfumare e che, per quanto
contenuto, viene sempre rimpinzato di
libri interessanti, viaggi interessanti,
dischi interessanti, programmi radiofonici
interessanti. Per non dimenticare mai di
avere un ruolo. Croce e delizia.
Non so se ho indovinato e se mi sono
spiegata, comunque non rileggo il
paragrafo, perché quando vado sul
filosofico mi faccio ridere e finisce che
cancello tutto.
Interessante anche l’idea di fare una free
press, togliendo alla rivista l’etichetta
alto-borghese del prezzo (che fa sempre
un po’ Men’s Health). Molto bella la veste
grafica. Però c’è qualcosa che non mi
convince.
L’intenzione di Abruzzese è raccontare
i “mille piani di esperienza vissuta”,
“l’Impresa di stare la mondo” liberandosi,
quando si può, dai ritmi del tempo
sociale. In realtà, mi pare che questa
patina di esistenzialismo che avvolge le
foto, gli articoli, il font faccia sprofondare
ancora di più i personaggi raccontati
(perché assomigliano davvero poco a
delle persone) nella loro dimensione di
professional. Sembrano un po’ in gabbia,
come se non potessero essere altro che
quello che il lavoro suggerisce loro di
essere. E sono costretti nel cliché di uomini
di successo pure quando parlano del più
e del meno.
A me sarebbe piaciuto di più uno stile
scanzonato, lievemente cinico, alla
‘diotifulmini’. Ma davvero vogliamo
credere che Giuseppedomingo (con chi
dobbiamo prendercela per il nome?
Coi genitori o col suo personal coach?)
a 28 anni sopravvive al logorio della
vita moderna pensando “all’amore in
generale. Inteso come star bene. Love”?
Manco Ghandi dopo due anni di digiuno
se la sentirebbe di pronunciare simili
aforismi. A questo creativo, così vestito da
creativo da non poter essere altro che un
creativo, suggerisco immersioni intensive
nella realtà, con l’unico effetto collaterale
di farlo sopravvivere al logorio della vita
moderna pensando “al delitto in generale.
Inteso come vendetta. Kaputt”. Non per
fare la vittima…però non se po’ sentì.
Cordiali saluti,
Roberta Casasole
7thflo or
free corporate magazine
Anno I, numero 3 settembre/ottobre 2006
Aria nuova in azienda
Ieri ho ricevuto un nuovo mensile che
reputo decisamente interessante. Si
chiama 7th Floor ed è un prodotto della
MAP, un’agenzia di comunicazione
romana, ed è il primo (almeno che
io sappia) free press aziendale che
non tratta solo argomenti focused
sul marketing e sulla comunicazione
(finalmente!!), ma vuole essere un
approfondimento culturale (nel senso più
allargato del termine) per tutti i settori ed i
componenti di un’azienda.
Questo secondo numero è interessante
perchè è focalizzato sui viaggi fuori
dai “soliti schemi”, e anche sulla
comunicazione e sulla pubblicità; il bello
di tutto ciò è che questa commistione di
argomenti avviene in maniera che gli
argomenti si amalgamino bene tra di
loro senza sentire il “passaggio”. Io l’ho
trovata una di quelle riviste che regalano
momenti di svago lasciando però anche
lo spunto per pensare, per una rivista
aziendale (gratuita), non è poco.
Aria nuova in ufficio!
Andrea Signori
marketingroutes.com
Riuscirete a raccontare “l’uomo
corporate”?
Letto tutto d’un fiato in vacanza, lontano
dal mondo aziendale, ho trovato l’idea
del primo “free press per il mondo
corporate”, molto gustosa e azzeccata.
Anche quando siamo lontano Km dalla
nostra scrivania o dagli attrezzi del
mestiere, non riusciamo a mandare del
tutto la testa in vacanza. A me succede
sempre!
Sarà colpa dei due telefonini sempre
accesi - ufficialmente per la moglie
“in carica” -, del Blackberry che - sia
benedetto - mi permette di leggere le
email anche nel bel mezzo di un digital
divide “montano”.
Progetto ed Edizione
Direttore editoriale
Direttore responsabile
Direzione creativa progetto
Art Director
Vivere l’azienda è soprattutto uno stato
d’animo, una predisposizione del proprio
ego che non riesce proprio a staccare
la spina, dalla propria corrente vitale,
neppure per 15gg. Ecco perché una rivista
che abbracciasse “l’uomo corporate”
mancava, e ecco perché l’ho trovata una
lettura interessante.
Co ordinamento editoriale
Photo editor
Marketing e Comunicazione
Consulenza editoriale
Eppure qualcosa non torna: l’esperimento
andrà infatti seguito attentamente per
capire quali sono gli obiettivi reali. Quanto
la rivista sarà davvero lontano dal leit
motiv dell’house organ e dai luoghi
comuni delle riviste di settore? Quanto la
pubblicità la terrà per il collo, quando i
numeri della sua diffusione comincieranno
a languire e le rubriche a essere
patinate?
Quanto dell’Uomo aziendale, che prima
di tutto è Uomo e poi dipendente,
sarà davvero raccontato? Le interviste
passeranno tutte al vaglio degli uffici
stampa o si potrà parlare senza
bavaglio dei problemi sociali e umani che
attanagliano l’Impresa post-moderna tutto
profitto bocconiano e poco squadra?
lele dainesi
leledainesi.com
Abbiamo voluto inaugurare questo
rapporto diretto con voi ospitando – senza
commenti – alcune delle “recensioni“che
ci sono pervenute. 7th Floor è scritto
per chi si sente – usando un vocabolo
molto in voga nei paesi anglosassoni
– un maverick, ovvero colui che fonda
il proprio lavoro e la propria vita su un
principio: l’indipendenza di pensieri e di
azioni. Finché durerà questo rapporto
diretto tra la redazione e i lettori, finché
sapremo raccontarci dal caffé mattutino
(moka) al fine settimana (LogOut), 7th
Floor avrà compiuto il suo dovere. Il tema
del numero è la condivisione. Non è un
caso che si apra questo spazio proprio
all’insegna della partecipazione condivisa
del giornale.
Map Cross Communication S.r.l.
via Lima, 22 00198 Roma
06.8535.6443 F. 06.8535.6507
www.00map.com - [email protected]
Alberto Abruzzese ([email protected])
Andrea Genovese ([email protected])
Andrea Genovese
Giuseppedomingo Romano
([email protected])
Stefano Marucci
Alice Pedroletti ([email protected])
Studio Alikè - Milano
Stefania Capaccioni ([email protected])
Tel. 06.8535.6443
Lucio D’Amelia
Board di progetto
Alberto Abruzzese, Andrea Granelli,
Maria Grazia Mattei, Nanni Olivero,
Andrea Pollarini, Enzo Rullani
Consulenti di progetto
Fabrizio Canevari, Stefano Diana,
Manuela Romagnoli, Fabrizio Pascale
Realizzazione grafica
Francesca Malandra, Davide Grimoldi
([email protected])
Supervisione alla produzione
Immagine di copertina
Hanno scritto su questo numero
Fotografie
Pubblicità e iniziative speciali
Prestampa
Stampa
Il contenuto e le opinioni espresse dagli autori e dagli intervistati non coincidono
necessariamente con quelle di 7th floor.
Domenico Paternoster
([email protected])
“Net” di Giuseppedomingo Romano as Stub43
Andrea Genovese, Enzo Rullani, Marino Masotti,
Stefano Marucci, Idel Fuschini, Alessandro Bernardini,
Mauro Lupi, Roberto Galoppini, Antonella Beccaria,
Stefano Diana, Carlo Infante, Stefania Capaccioni,
Marco Romagnoli, Manuela Romagnoli, Lucio D’Amelia,
Francesco D’Orazio, Stefano Triulzi, Federico Spinetti,
Matteo Catoni, Mario Vigna, Roberta Casasole, Marisa
Orlando, Krasnapolsky, Francesca Pispisa
Alice Pedroletti, Stefano Triulzi, Sham Shahrin
MAP Cross Communication S.r.l.
Sede Roma: via Lima, 22
00198 Roma (t. 06.8535.6443)
La Cromografica srl - 912, v. Tiburtina - Roma
(www.lacromografica.it)
WebColor srl - loc. Le Campora - Oricola (Aq)
(www.webcolorprint.it)
7th Floor può dare voce alle vostre idee, ai progetti o alle
iniziative della vostra azienda.
[email protected]
Tutti i marchi registrati citati sono di proprietà delle rispettive aziende.
Nessuna parte del contenuto di questa rivista può essere pubblicato, fotocopiato,
distribuito e diffuso attraverso qualsiasi mezzo, online e offline, senza il consenso
scritto della MAP S.r.l.
© MAP S.r.l. Roma 2006. Tutti i diritti riservati.
Questa pubblicazione è in fase di registrazione
presso gli organi competenti, Tribunale di Roma.
Copia gratuita.
7th Floor può circolare nella vostra azienda ed essere letto
da altri manager.
[email protected]
7th Floor può essere un nuovo mezzo di comunicazione per i
vostri prodotti e la vostra attività.
[email protected]
7th Floor è una novità assoluta nel panorama editoriale
attuale e un canale privilegiato per arricchire la
comunicazione business (ma anche consumer in ambiente
business). Contatta Map: [email protected]
Tel. 06. 8535.6443
net work
risvegli e transiti
Andrea Genovese
Genoves
m3(moda/modi/mood)
p. 1
14
l’auto(in)partecipazione
Marino Masotti
pause
cercasi
ercasi tribù
p. 40
Francesco D’Orazio
tattoo you too
feed reader
Stefano Diana
tech news
Stefania Capaccioni
moka
/login
p. 10
insieme,
ognuno per sé
Enzo Rullani
p. 1
18
soggettive
p. 44
logout
p. 53
seguendo
eguendo il Falak
sulla cresta dell’onda
un amico a contratto
Andrea Genovese
Marco Romagnoli
Stefano Triulzi
internet, maneggiare con cura
la potenza degli dei,
l’impotenza dell’uomo
i vini dell’Alto Adige
Stefano Marucci
web 2.0, istruzioni per l’uso
Manuela Romagnoli
Idel Fuschini
tra sé digitale e
società digitale
intranet , cambia la mappa del
intranet,
potere informativo in azienda
Lucio D’Amelia
Alessandro Bernardini
la comunicazione corporate,
raccontata dal mondo corporate
Mauro Lupi
performing media
Carlo Infante
Matteo Catoni
scusi, dov’è l’uscita?
Mario Vigna
codice binario
Roberta Casasole
straordinaria
spettacoli, cinema, musica, libri...
p. 50
Insieme, ognuno per sé
Lavorare in rete, il segreto dell’auto-organizzazione
di Enzo Rullani
Enzo Rullani è uno dei più acuti osservatori
della realtà economica dei distretti industriali
italiani, e delle reti di impresa.
Attualmente è professore ordinario di
Strategia d’impresa dell’Università Ca’ Foscari
di Venezia, dopo aver insegnato presso
l’Università di Verona e di Udine; ha tenuto un
corso di dottorato presso l’Università Bocconi
ed è stato visiting scholar presso il MIT di
Boston (USA).
La storiella è nota, anche se istruttiva. Ci dice di
quanto spesso, nei contesti decisionali, si scambi
il mondo reale per le proprie premesse teoriche
e professionali, preferendo ragionare come se i
ferri del mestiere bastassero – per definizione – a
risolvere i problemi a cui vengono applicati.
Ma gli economisti – e i “managers” che imparano da
loro – sono davvero così?
Ebbene sì. Ma non è colpa loro. Sono così finché
vivono in un contesto che parte dal presupposto
di non prendere il mondo come è – con la sua
complessità naturale – ma di ridurlo a macchina.
macchina Un
grosso meccano in cui si possa usare il calcolo come
mezzo unico, o quasi, di decisione.
Supponiamo di avere un apriscatole ……. Ossia
supponiamo che il mondo sia calcolabile. È la stessa
premessa di chi, di fronte ad un problema, dice: c’è
da scegliere? Datemi una stima precisa dei costi
e dei ricavi associati al set (dato) di alternative
possibili.
Se il mondo in natura non è calcolabile, peggio
per lui. Basta renderlo tale o far finta che lo
sia. Restringiamo (arbitrariamente) il set dato di
alternative e stimiamo, in qualche modo, le misure
che mancano. Dopo di che ….. il problema svanisce.
Il modo più semplice (e più banale) di usare
U
n ingegnere, un biologo e un economista sono
naufragati in un’isola deserta, con un carico di
carne e bevande in scatola che potrebbe bastare
a farli sopravvivere a lungo. Ma, purtroppo, le
scatole sono chiuse e non è facile aprirle senza
farsi venire una buona idea in proposito. Dice
l’ingegnere: proviamo a fare forza con questa leva
e questa pietra appuntita. Ma non funziona. Dice
il biologo: lasciamo corrodere il coperchio dal sale
marino, sommato a questa sostanza acida che sta
nella corteccia delle piante. Macchè, non funziona
nemmeno questo tentativo.
Ultima chance: tocca all’economista. Tutti gli occhi
sono puntati su di lui, che – dopo averci pensato un
bel po’ – la mette così: “Supponiamo di avere un
apriscatole ….”
10
il cervello umano è quello di utilizzarlo come
macchina per calcolare. Chiunque abbia esperienza
di organizzazioni sa che la burocrazia ha un
irrefrenabile tendenza a ragionare così, pensando
se stessa e le persone da essa governate come
macchine che, per funzionare, devono disporre di un
mondo calcolabile.
te ne chiederà conto, specie nel caso che le cose
vadano male. Ma il contesto non è modificabile
nemmeno se le variabili e i criteri sono quelli decisi
dal mercato esterno, ossia da comportamenti che
– essendo fuori della sfera del comando proprietario
– la gerarchia organizzativa dichiara incontrollabili,
dati. Qualcosa da prevedere e calcolare, come
le traiettorie dei pianeti nel sistema solare, per
scegliere la propria posizione.
Ma quanta parte della nostra vita economica oggi
assomiglia ad un sistema solare di questo genere? Il
mondo è diventato complesso e imprevedibile, fuori
controllo per le gerarchie che pure si affannano
ad inseguirlo con ogni mezzo. E fuori portata per
i mercati, che oscillano vistosamente tra massimi e
minimi abbastanza caotici: basti pensare ai cambi e
al petrolio, per avere l’idea di quanto poco, oggi,
la produzione di valore si svolga in condizioni
calcolabili.
“Se il mondo in natura non è
calcolabile, peggio per lui. Basta
renderlo tale o far finta che lo sia”
E’ razionale, è conveniente, è logico ci accade
di dire ogni volta che questi calcoli indicano che
la scelta A ci porterà più vantaggi della scelta B.
E tutta l’attenzione di chi lavora, parla, pensa si
concentra in questo dispositivo di calcolo.
Usare la testa per calcolare i costi e ricavi di
alternative date è il lascito filosofico che abbiamo
ereditato dalla tradizione fordista, che piazza le
persone a lavorare e decidere in un contesto da
esse non modificabile. Non è modificabile se il
contesto della decisione è definito dalla gerarchia
organizzativa: ci sono sempre variabili e criteri che
qualcuno ha deciso prima di te e sopra di te.
te Non
ti si chiede di decidere bene (a tuo giudizio) ma di
rispettare quelle variabili e quei criteri: qualcuno
Le persone e le imprese – specialmente le persone
e le imprese senza potere – hanno imparato a fare
senza apriscatole, immergendosi nella complessità
crescente e cercando anzi di imbrigliarla. Lo hanno
fatto sfruttando appieno le capacità della mente
umana, che nella storia si è modellata sulla gestione
della complessità e che solo da poco – in era
moderna – ha cercato di ridurre l’arte del pensiero
complesso a calcolo meccanico, iper-semplificato.
11
E lo hanno fatto mettendosi in rete.
Nessuno ormai – da solo – ha le
competenze, la visione e la capacità
di assumere rischi che servono per
esplorare la complessità, navigando in
un mare dove la varietà, la variabilità e
l’indeterminazione sono destinate ogni
anno a crescere. E dove gli spazi del
controllo e della previsione diventano
sempre più ristretti e precari, dovendo
essere difesi da un fiume in piena che
continuamente minaccia di rompere gli
argini.
fissati da altri, ma spesso per cambiare
le premesse del loro operato. O forse
per cambiare il proprio capo, o il senso
del proprio lavoro.
Calcolare ed eseguire certo serve
ancora. Ma non basta. Lavorare in
rete è un’altra cosa. Lavorare in rete
significa accettare di dipendere da altri
che a loro volta dipendono da te. In
questa condizione di interdipendenza
c’è sicuramente materiale per un
potenziale conflitto; ma c’è anche
la possibilità di inventare significati,
esperienze, regole che permettano
alle persone di modificare il contesto
della loro interdipendenza, facendolo
evolvere in forme gestibili, utili, rispetto
alle loro esigenze.
Al contrario del mercato e della
gerarchia, che rimandano a regole
superiori, fissate da qualche
autorità superiore, la rete è autoorganizzazione. E’ capacità di costruire
Dunque, si lavora in rete, mobilitando
una filiera di specialisti che, pur
rimanendo autonomi l’uno dall’altro,
si attrezzano per condividere
la conoscenza, gestire progetti
convergenti, usare alfabeti e significati
comuni, fidarsi l’uno dell’altro.
dell’altro E
soprattutto si impegnano a rigenerare,
ad ogni passo le ragioni e i vantaggi
della loro relazione. In Italia lo
abbiamo visto, con diverse accezioni,
nei distretti industriali, nelle filiere
di subfornitura, nei mestieri e nelle
estetiche in cui si è sedimentata una
capacità di condividere, di andare
avanti insieme. Ma anche l’impresa
post-fordista americana o giapponese
ormai ragiona così: manda avanti unità
di business autonome, creando una
rete che consente di mantenerle coese,
ma senza vincoli soffocanti. E lo stesso
management è sempre più improntato
all’idea del team, della condivisione
di conoscenze e di responsabilità tra
persone che continuano a ragionare
ed agire con la propria testa. Non solo
e non tanto per eseguire i programmi
“Al contrario del mercato
e della gerarchia, che
rimandano a regole
superiori, fissate
da qualche autorità
superiore, la rete è autoorganizzazione”
la trama delle relazioni tra i soggetti
che percepiscono l’interdipendenza
come minaccia ma anche come risorsa
possibile. La rete funziona se le
12
persone immaginano alternative che
eccedono l’esistente, ci credono, le
comunicano agli altri e li convincono
della loro esistenza e validità. La rete è
il sostegno del cantiere che costruisce il
mondo in cui quelle persone andranno
ad abitare, modificando insieme
se stessi e i problemi che devono
risolvere.
“La rete è la premessa
di una condivisione
responsabile: non ci
garantisce il risultato, ma
ci dà delle responsabilità,
ci impegna”
Essere in rete significa dare agli altri
il potere di cambiare il mondo comune
in cui siamo chiamati ad abitare. E
sapere che, in una certa misura, lo
stesso potere lo abbiamo anche
noi, nei loro confronti. La rete è una
potente leva per trasformare la nostra
reciproca debolezza in una forza
potente: l’intelligenza collettiva che
cambia, anche per nostra iniziativa,
il contesto dei problemi su cui stiamo
lavorando, aprendo nuove alternative
che dipendono dagli altri e che gli altri
13
ci rendono accessibili.
La rete è la premessa di una
condivisione responsabile: non ci
garantisce il risultato, ma ci dà
delle responsabilità, ci impegna. La
tecnologia, compresa la macchina
da caffé, ci avvicina, provocando
spesso qualche crash, più o meno
involontario. Ma è l’intelligenza
che – responsabilizzandoci - rende
questo avvicinamento una condizione
produttiva, capace di generare valore.
Economico e non.
Ma c’è differenza?
“La tecnologia,
compresa la macchina
da caffé, ci avvicina,
provocando spesso
qualche crash, più o
meno involontario”
L’auto(in)partecipazione
Car sharing, un’alternativa sostenibile ai problemi di mobilità
di Marino Masotti
Un’automobile trascorre la maggior parte della
propria vita parcheggiata, e un’altra parte
importante della sua esistenza è dedicata alla
ricerca di un parcheggio. Quando viaggia è spesso
semivuota, raramente è a pieno carico e quasi
sempre è occupata dal solo conducente.
dei rifiuti nel mondo ma sommandosi a quello di altri
diventa un elemento importante.
Certo si tratta di un contributo modesto rispetto
alla complessità del tema del trasporto pubblico
e privato: “Il car pooling e il car sharing non sono
in grado, da soli, di dare una risposta ai problemi
strutturali della mobilità – spiega Roberto Arosio,
docente al Master in Trasporti dell’Università
Bocconi di Milano – i numeri per il momento sono
esigui e anche se dovessero crescere di parecchio
non si arriverebbe a proporzioni paragonabili a
quelle della massa dei pendolari”.
E’ anche a causa di questo tipo di utilizzo, funzionale
alle esigenze del singolo, ma poco razionale rispetto
a una risorsa sempre più scarsa nelle ore di punta
quale è la strada, che le città sono congestionate.
In attesa che il ministro Antonio Di Pietro e i sindaci
delle città italiane trovino i soldi per migliorare le
strutture del trasporto i cittadini automobilisti si
attrezzano per conto proprio e provano a risolvere
un problema complesso e pesante come quello della
mobilità con un approccio al tempo stesso easy e
light: la condivisione.
condivisione
sono in molti casi soggetti pubblici ma non mancano
anche privati che si stanno cimentando nell’impresa,
una conferma che car pooling e car sharing possono
anche essere servizi in grado di sostenersi e di
portare profitto. Negli ultimi mesi, con il diffondersi
del servizio, sono arrivate a queste società anche
richieste di clientela business che chiede un tipo di
servizio premium ed è disposta a pagare cifre più
alte per prestazioni tagliate su misura:
“Il car sharing non si può gestire come se fosse un
servizio pubblico, deve adeguarsi alle esigenze
di mobilità dei partecipanti, non è un caso che sia
andato in crisi nelle città in cui è stato trattato
come un’aggiunta alle corse degli autubus”,
aggiunge Morrone.
Tra i soggetti privati attivi nel settore c’è Muoversi.
net, una società nata poco meno di un anno fa
all’interno del Politecnico di Milano che organizza
tra le altre cose, servizi di car pooling per i grandi
eventi: “Abbiamo messo in piedi il servizio per i due
concerti del Jamming Heineken Festival di quest’anno
e dell’anno scorso – afferma Federico Bianchi, uno
dei tre ex studenti che hanno fondato la società – si
è trattato di allestire una spazio virtuale dove le
persone senza auto e quelle senza compagnia per il
viaggio potessero incontrarsi”.
Al forum hanno partecipato centinaia di persone e
nel caso del concerto dell’anno scorso si è arrivati
alla formazione di 50 equipaggi. (Vedi nello spazio
“la condivisione è anche un modo per
pensare al proprio conto economico”
“è necessario non rinunciare ad
agire sui comportamenti dei singoli
e incentivare ogni forma di utilizzo
responsabile dell’auto da parte del
cittadino”
Se la gestione pesante è un affare che, per
dimensioni e investimenti richiesti resta una
prerogativa della politica e della mano pubblica,
dall’altra parte, prosegue Arosio, è necessario non
rinunciare ad agire sui comportamenti dei singoli
e incentivare ogni forma di utilizzo responsabile
dell’auto da parte del cittadino: “Sono due approcci
che prendono atto dell’esistenza di costi ambientali,
introducono un dato culturale importante nel
rapporto con l’automobile e con il problema della
mobilità”, conclude l’esperto.
Condividere l’auto con altre persone (car sharing) e
attrezzarsi per riempire la propria quando la si usa
su un percorso fissato in precedenza (car pooling)
sono due tra le ultime risposte arrivate da un mondo
che si è accorto di essere diventato schiavo della
mobilità. Non si tratta solo di un gesto di assunzione
di responsabilità rispetto ai costi associati al proprio
movimento, la condivisione è anche un modo per
pensare al proprio conto economico: rinunciando al
possesso si tagliano le spese fisse e si paga soltanto
l’effettivo utilizzo. Il risparmio, soprattutto con il
petrolio sopra i 60 dollari, non è poca cosa: per
farsene un’idea si può andare sul sito Milano Car
Sharing (www.milanocarsharing.it).
Sono gli stessi operatori del settore a rendersi
conto che la condivisione dell’auto, da sola, non è
in grado di dare una risposta efficace al problema
del traffico: “E’ solo una parte del servizio pubblico,
un elemento che ha bisogno per poter funzionare,
di una buona rete di trasporti: le città in cui ha
avuto più successo sono proprio quelle dove gli
spostamenti sono più facili”, afferma Nicoletta
Morrone, che nel 2004 è stata chiamata da Lega
Ambiente a lanciare su scala cittadina Milano Car
Sharing, un servizio che oggi ha 850 utenti suddivisi
tra 34 auto sparse in 15 garage.
I 7500 italiani sparsi nelle 11 città italiane che si
sono associati a un servizio di condivisione dell’auto
risparmiano e contemporaneamente danno un
piccolo aiuto al problema della congestione delle
strade e dell’inquinamento: un po’ come capita con
la suddivisione della spazzatura, un gesto di buona
volontà che da solo non può risolvere il problema
Dietro a queste iniziative, che per il momento sono
cresciute quasi soltanto attraverso il passa parola, ci
14
15
accanto il racconto di un’esperienza di condivisione)
Ai concerti non si va più in autostop. Da Milano a Imola
a sentire i Metallica con 20 euro.
Bianchi ci tiene a precisare che il car pooling è
solo una delle risposte possibili al problema della
mobilità e spiega che per poter funzionare c’è
bisogno di grandi volumi di persone che si spostano
in contemporanea verso uno stesso luogo:
luogo “Noi
pensiamo ai centri commerciali ma anche ai grandi
eventi unici come i concerti o alle partite di calcio”.
Il car sharing e il car pooling non sono soltanto
elementi leisure che riguardano soprattutto il
tempo libero delle persone, sono anche temi che
competono alle aziende: il decreto Ronchi del
1998 ha infatti imposto alle società con più di 300
dipendenti di avere il mobility manager: un dirigente
responsabile dell’organizzazione degli spostamenti
casa-lavoro del personale. Il provvedimento avrebbe
dovuto riguardare circa 4000 aziende ma in realtà
si è arrivati alla nomina di 600 manager della
mobilità, di questi, quelli che effettivamente hanno
preso sul serio l’incarico e hanno elaborato un piano
sono meno della metà.
“E’ solo una parte del servizio
pubblico, un elemento che ha bisogno
per poter funzionare, di una buona rete
di trasporti: le città in cui ha avuto
più successo sono proprio quelle dove
gli spostamenti sono più facili”
“Durante il viaggio iniziammo a
parlare, all’inizio di musica e poi
anche di altro: un po’ in italiano, un
po’ in inglese, un po’ in spagnolo.”
Proprio per formare mobility manager l’Aci e la
facoltà di Statistica dell’università “La Sapienza” di
Roma hanno organizzato un master in “Gestione
della mobilità sostenibile” che si concluderà entro il
prossimo novembre e che prevede la partecipazione
alla docenza di esperti di livello internazionale
(http://w3.uniroma1.it/mobility/index.htm).”
www.icscarsharing.it
www.carsharingfirenze.it
www.genovacarsharing.it/public/index.htm
www.milanocarsharing.it
“Mi ero allontanato da un po’ di tempo dal giro degli
amici metallari più accaniti della mia zona e così,
quando venni a sapere che i Metallica avrebbero
suonato a Imola mi ritrovai senza compagni con cui
andare al concerto” racconta Alberto, uno studente di
22 anni di Cassano (Milano).
“Essendo un vero fanatico del gruppo avevo comunque
deciso di andarci, anche da solo, affrontando la spesa
del viaggio in un momento non troppo brillante da
punto di vista delle finanze”. Visitando il sito dell’evento
trovai l’indicazione di un sistema per abbattere i costi
e per trovare compagnia, ciccai sul link che segnalava
l’esistenza di un servizio di car pooling, in quel momento
non sapevo si chiamasse così, e lasciai un messaggio di
disponibilità a dare un passaggio da Milano.
Attraverso Internet fui contattato da due ragazze
messicane in Italia per motivi di studio e di seguito
da un ragazzo turco, un fan anche lui dei Metallica,
da qualche mese a Milano per seguire un master
in economia. All’ultimo momento, e così arrivammo a
cinque, si aggregò anche il fidanzato di mia sorella.
Ci ritrovammo alla stazione della metropolitana di
Gessate: Olga, Daniela e Koray erano lì ad aspettare.
Partimmo con la mia Golf in direzione Bologna, all’inizio
si parlava poco, figuriamoci, cinque persone di tre paesi
diversi…
Durante il viaggio iniziammo a parlare, all’inizio di
musica e poi anche di altro: un po’ in italiano, un po’
in inglese, un po’ in spagnolo. In turco no. A Imola
comunque eravamo amici. Ci ritrovammo tutti insieme
sotto il palco e alla fine del concerto ci ritrovammo uniti
nel tirare lì la notte.
A casa, alla stazione di Gessate, arrivammo alle 9
del mattino, un po’ stanchi ovvio. Prima di lasciarci e
di scambiarci i numeri di telefono saldammo i conti: 20
euro a testa, non male per un’andata e ritorno da Imola.
E mi sono pure divertito.
I GESTORI CAR SHARING
Comune di Genova
Paolo Caputo
Genova Car Sharing SpA
Piazza Dante 8/1 - 16121 Genova
tel. 010 5761563 fax 010 5303662
[email protected]
[email protected]
Comune di Modena
Silvano Cavaliere
ATCM SpA
Strada Sant’Anna 210 - 41100 Modena
tel. 059 416925 fax 059 416850
[email protected]
Comune di Roma
Valdo Mastrangelo
ATAC Spa
Via Prenestina, 45 – 00176 Roma
tel. 06 46953846 fax 06 46953831
[email protected]
[email protected]
www.bluecoast.biz
www.carcityclub.it
www.guidami.net
www.muoversi.net
Comune di Milano
Sede Regionale Legambiente Lombardia Onlus
Via G.Vida, 7 - 20127 Milano
tel. 02 45475777 fax: 02 45475776
E-Mail: [email protected]
Comune di Torino
Carlo Barzan
Car City Club Srl
Corso Cairoli, 32 - 10123 Torino
tel. 011 8137805-6 fax. 011 8137809
[email protected]
16
17
Sulla cresta dell’onda
Marketing Forum 2006: una nave da crociera, a largo di Southampton,
è il luogo ideale per fare business e creare nuovi contatti
di Andrea Genovese
Per quattro giorni, tra il 6 e il 9 settembre, alcune centinaia di manager e imprenditori
inglesi e italiani si sono incontrati, scambiati informazioni, idee e tantissimi biglietti da visita.
I rapporti di forza tra gli invitati inglesi
e italiani rispecchiano l’andamento
economico e il PIL delle rispettive
nazioni: 350 uomini di MK inglesi
- grandi aziende tipo Xerox, Pepsi,
Lego, Electronics Arts, etc. di tutti i
settori, finance, automotive, I&CT,
media – contro 75 italiani - Poste
Italiane, Microsoft, eBay, Fiat - non
tantissimi direttori però molti brand
manager, assistenti e collaboratori
giovani.
Loro sono i cosiddetti “delegates”:
in sostanza gli invitati, i pesci grossi
delle aziende. I paganti sono invece
gli “exhibitor”, le piccole e innovative
imprese di comunicazione che si
mettono in mostra.
Lo staff di Richmond Italia
A Southampton, a circa un’ora da
Londra, ancora abbronzati dal sole
delle vacanze, ci siamo imbarcati
su una splendida nave da crociera,
direzione le bianche scogliere di Dover.
L’occasione è un forum del marketing
europeo, l’obiettivo è allargare il
proprio net-work, ed eventualmente
scoprire nuove aziende e fare qualche
amicizia. Per noi di 7th Floor è la prima
volta, siamo molto curiosi, anche se
l’evento, organizzato da Richmond
Italia e Richmond Events di Londra, è in
realtà alla sua undicesima edizione.
Il format sembra molto promettente:
un incrocio tra un matrimonio e un
convegno aziendale, una fiera di
settore e un sistema di match/dating
online. Tutto è organizzato come
online
nei migliori matrimoni, il placement
a tavola è pianificato e rigoroso,
a rotazione, tra pranzi, cene e
colazioni, si incontrano e chiacchierano
amabilmente direttori Marketing
di multinazionali insieme a direttori
creativi di agenzie di comunicazione.
Il cuore del progetto è infatti un
software di “accoppiamento”,
o matching, che incrocia i profili
aziendali e professionali, le preferenze,
i budget e le competenze di ognuno
ed elabora un’agenda di appuntamenti
personalizzata e serratissima.
“Un incrocio tra
un matrimonio e un
convegno aziendale,
una fiera di settore e
un sistema di match/
dating online.”
Richmond Italia
Dieci anni nel campo della comunicazione e nella
progettazione di eventi business oriented, una forte
determinazione nella creazione di network e marketing
community ad alto livello.
L’azienda riconferma, quest’anno accanto all’edizione
anglosassone di Marketing Forum, l’impegno
nella costruzione di efficaci strumenti e metodi di
comunicazione integrata volti all’incontro tra domanda
e offerta del mercato dell’advertising e della
communication strategy.
La sera è rigorosamente in smoking,
come tradizione anglosassone vuole.
Durante le danze, tra un boccale
di birra, camerieri indiani (non tutti
decidono di fare gli ingegneri a
Bangalore) e hostess inglesi, complice
un po’ di musica anni ottanta, è facile
creare “legami emotivi” con la propria
value chain o con i prospect customers!
Scusate, ma l’inglese è d’obbligo in
questi contesti (tra poco anche il cinese
mandarino e l’hindi).
18
19
“L’obiettivo - spiega Pietro Cerretani (business &
poject director) - è quello di creare una profonda
contaminazione di saperi basata sul confronto e la
relazione costante tra top manager dei più diversi
settori, integrando grandi aziende e prestigiose
agenzie, con l’innovativo metodo delle agende
appuntamenti pre-organizzate, che consentono
di costruire forti comunità di business e sinergie
costantemente attive, per l’ideazione e lo sviluppo di
ogni progetto”.
Le conferenze e i laboratori, sparsi
nelle varie sale della nave a tutte
le ore del giorno sono mediamente
interessanti, a seconda delle aree
di competenza, dal branding
all’advertising, dal marketing fino al
product placement. Molto interessanti
i laboratori creativi di Pasquale
Diaferia (Brain Factory), “L’officina
dell’impossibile” o “I luoghi dei
nostri sogni” e i workshop dedicati
all’investimento in cultura come asset
strategico per l’impresa organizzati da
Michela Bondardo (con Microsoft e il
Gruppo Loccioni).
Chisei/
hisei/ Mi chiamo Cristian Corotto, da
qualche mese sono Brand Manager
per eBay.it e questo nuovo incarico
arriva dopo alcuni anni di esperienza
lavorativa in giro per il mondo. In
precedenza, ho lavorato a Chicago,
Londra e Torino. Nonostante sia
un ingegnere, prima di entrare in
eBay, ero International Marketing
Coordinator per il brand Alfa Romeo e
ho trascorso più di due anni nel team
di branding, co-marketing e licensing
che ha rivitalizzato il marchio Fiat sul
mercato italiano.
Nella vita e nel lavoro ho sempre
bisogno di agire, non mi spaventano i
cambiamenti, anzi sono uno stimolo per
non fermarsi. La cosa bella di vivere
in molti posti è quella di avere amici
di tutte le nazioni, idee e religioni,
persone con le quali cerco sempre di
rimanere in contatto, con le email, il
cellulare, o internet. Per stare a mio
agio in ogni posto del mondo, ho un
segreto, porto con me la mia musica, è
lei che mi fa sentire sempre a casa.
Gli inglesi sono molto attivi e vitali,
partecipano, ridono e applaudono
ai diversi workshop che a noi
francamente lasciano un po’ freddi,
tipo “Marketer of the year” o “Are
you a manager or a leader?”; più
interessanti “Brand metrics” e “Neuro
marketing research” – a proposito,
le locandine dei film che andremo a
vedere questo inverno sono realizzate
anche grazie all’analisi delle risposte
elettrochimiche registrate dalle
macchine di Melissa Mullen della
Twenty Century Fox di Los Angeles!
Abbiamo incontrato diversi manager
e creativi interessanti, due sono
presenti in questo numero (Cristian
Corotto brand manager di eBay Italia
e Massimo Franzosi, responsabile
Co-Marketing/Licensing FIAT) e altri
verranno nei prossimi.
dinamici e internazionali.
Oggi, la comunicazione aiuta
moltissimo, ho una grande rete di amici
tutti collegati con Skype, così dovunque
siano possiamo parlarci, rimanere in
contatto e mantenere viva l’amicizia.
e ovviamente con una grande fiducia
nel coach e nei compagni di squadra.
Darsi degli obiettivi è importante, poi
si lavora per raggiungerli e se non si
raggiungono… pazienza l’importante è
sempre di aver dato il massimo.
eBay è una azienda fatta di persone
eccezionali con le quali condividiamo
l’obiettivo di far crescere questo
marchio sempre di più in Italia (più di
3 milioni di utenti registrati, io vorrei
raddoppiarli!) di dare la possibilità a
tutti di sviluppare la propria fantasia
imprenditoriale, di comprare qualsiasi
prodotto nel mondo e di collegare
e far comunicare persone da tutto il
globo, oggi eBay ha più di 203 milioni
di persone.
Chevedi/ C’è una bella espressione
che dice “if you dream peanuts you will
get monkeys” (se sogni noccioline avrai
scimmie) mi sono sempre posto degli
obiettivi a medio e a lungo termine
anche ambiziosi, un po’ come fece
Matthew Pinset (grande protagonista e
galvanizzatore del Marketing Forum),
che decise di gareggiare per le
olimpiadi e le vinse, allenandosi tutti i
giorni, per anni, sempre focalizzato su
un unico grande obiettivo,
La nuova edizione del Marketing
forum, attraccherà il prossimo maggio
a Milano, a Palazzo Mezzanotte, per
una “due giorni” interamente dedicata
al mercato Italiano, con i piedi per
terra e senza il rollio della nave.
chisei/ Sono Massimo Franzosi, classe
’65, segno zodiacale capricorno,
piemontese d’origine ma lombardo
d’adozione (sono pure tifoso del
Milan), papà ingegnere e mamma
casalinga, una sorella laureata in
lettere (sicuramente la componente
più intellettuale della famiglia) e una
nipote dodicenne (promette bene
anche lei al liceo classico). E poi, una
laurea in economia aziendale alla
Bocconi di Milano, un matrimonio
fallito alle spalle, pochi amici fidati,
una carriera promettente di giornalista
abbandonata due anni fa per
accettare la sfida di ridare lo smalto
perduto a Fiat.
Il vizio di scrivere non l’ho perso
collaboro ancora con i miei vecchi
(non in senso anagrafico, ovviamente)
amici del mensile Mark Up e con la
redazione del magazine Monsieur
(unico nel suo genere). Tengo anche
lezioni di brand management allo Ied
di Milano e all’Università di Torino. Mi
aiuta a confrontarmi con la realtà dei
nostri giorni nonché con i top manager
di domani (lo spero per loro, almeno).
Alla fine del 2004 ho accettato con
entusiasmo la proposta di Lapo Elkann,
allora al marketing operativo di Fiat, di
mettere le mie conoscenze al servizio
di Fiat Auto. Detto, fatto. Il salto è di
quelli da fare venire le vertigini e,
nonostante non possa lamentarmi dei
risultati conseguiti finora, la strada da
percorrere è ancora lunga e piena
di insidie, sia esterne sia, soprattutto,
interne. Ma da buon capricorno,
cocciuto e testardo, tengo duro,
convinto possa contribuire a cambiare il
mondo. In meglio, “ça va sans dire”.
Chefai/ Lavoro a Torino nel team
di Fiat Communication in qualità di
responsabile worldwide licensing e comarketing. Insieme al mio team curo lo
sviluppo di un’ampia gamma di prodotti
che, seppure posti sotto l’egida dei
marchi Fiat, Lancia e Alfa Romeo, più
che all’automobile tout court rimandano
a dei veri e propri life style. Felpe,
sneakers, mp3 player, vino, orologi ecc.
contribuiscono, infatti, ad ampliare la
sfera di percezione dei nostri marchi
al di là e al di fuori delle quattro ruote
accrescendone, di fatto, il loro valore.
Così, per realizzare quelli che, tra noi,
chiamiamo oggetti di comunicazione,
ci avvaliamo della collaborazione di
imprese esterne selezionate.
ancora il “barometro” dell’andamento
dell’economia italiana. Certo fare il
mio ingresso nel suo momento, forse,
peggiore, in un contesto economico
generale assolutamente sfavorevole,
ha contribuito a far sì che la mia
avventura assumesse all’inizio i tratti
tipici di una mission impossibile. Ma
proprio da questa considerazione,
in sé banale, sono scaturite risorse
ed energie fino ad allora impensabili.
Almeno per me. L’obiettivo è, ora di
far entrare FIAT nella graduatoria
dei marchi che secondo la mia
personalissima opinione rappresentano
il top dei brand in questo momento:
Nike, Oakley, Diesel, Ducati, Ralph
Laurent. Rappresentano infatti dei
benchmark per capacità di leggere il
mercato, di sapersi innovare, di saper
tenere e valorizzare le persone.
Chevedi/ Difficile non essere
orgoglioso di far parte di Fiat,
un’azienda che ha legato la sua storia
a quella del Paese, e che rappresenta
“La nuova edizione di Marketing forum,
attraccherà il prossimo maggio a Milano,
a Palazzo Mezzanotte, per una ‘due giorni‘
interamente dedicata al mercato Italiano.”
Chefai/ Lavoro all’interno del team di
Marketing, e sono responsabile di tutte
le attività di branding, così come delle
iniziative speciali con partner esterni.
Mi piace lavorare dove c’è allegria e
voglia di fare, preferisco gli ambienti
Massimo Franzosi, responsabile licensing e co-marketing FIAT
Cristian Corotto, brand manager eBay
20
21
Le aziende danno i numeri
di Marino Masotti
“Murdoch cambia casa”
casa
Rupert Murdoch sta ristrutturando il
suo appartamento nell’Upper East Side
di Manhattan comprato due anni fa
per 44 milioni di dollari ed in
attesa che i lavori siano terminati
vive provvisoriamente in un altro
appartamento in Trump Park Avenue:
a pagare l’affitto di 50.000 dollari al
mese è la News Corp., la società
media della quale detiene il 30% del
capitale.
“Un fondo azionario gestito secondo
la Sharia”
Investire soldi seguendo le regole
della legge islamica può dare ottimi
risultati: il fondo azionario “Amana
Trust Growth” è gestito secondo i
dettami della Sharia ed è anche uno
dei primi nella classifica dei migliori
rendimenti elaborata da Morningstar.
Negli ultimi tre anni ha reso il 18,1%
l’anno. A guidarlo è Nicholas Kaiser,
un gestore di religione non islamica
che si avvale di consulenti musulmani.
Divieti: alcool, fumo, pornografia,
società molto indebitate o con molti
soldi in cassa, banche.
”Marte porta fortuna alla Lockheed”
La Nasa ha assegnato alla Lockheed
Martin l’incarico di costruire la nuova
serie di razzi spaziali Orion destinati
a riportare l’uomo sulla Luna entro
il 2020 ed in seguito a spingersi da
questa verso Marte. Il contratto può
arrivare a generare ricavi per 8,1
miliardi di dollari. L’Ente spaziale
americano avrebbe preferito la
Lockheed a soggetti con maggiore
pedegree nella corsa verso il cosmo
come la Boeing perché ha dimostrato
di saper tenere sotto controllo i costi
meglio di altri.
“Speculazioni finanziarie per 11/9”
Nei giorni successivi all’11 di settembre
del 2001, mentre le ruspe iniziavano
a scavare tra le macerie del World
Trade Center e le Borse precipitavano,
un anomalo numero di società
americane decidevano di concedere ai
propri manager opzioni per acquistare
azioni ai prezzi stracciati di quei
giorni. Per i destinatari di questi piani
di incentivazione detti “stock options”,
più basso è il prezzo dell’azione al
momento dell’emissione al diritto di
acquisto, più alta è la possibilità di
guadagnare nel momento in cui i titoli
si riprendono e risalgono le quotazioni.
Tra il 17 e il 30 di settembre del 2001
186 aziende americane quotate
in Borsa, tra cui anche alcune con
propri dipendenti uccisi negli attacchi
terroristici della settimana precedente,
approfittarono del crollo dei mercati
azionari e della tragedia mondiale
per emettere opzioni destinate a
511 manager, una corsa all’emissione
di opzioni anomala, il doppio della
media del mese di settembre negli
ultimi 10 anni.
”Il titanio per le due ruote, un lusso
che costa caro”
Gli scandali del doping a Tour de
France non raffreddano la domanda
di biciclette, soprattutto dei modelli
ipersofisticati da corsa o da escursione.
Il boom di questi modelli extra lusso
(costano più di 3000 dollari) ha
contribuito a spedire su livelli record
il prezzo del titanio, metallo utilizzato
per produrre le leghe super leggere
con cui fino a poco tempo fa si
costruivano principalmente aerei e
materiale per l’industria nautica.
Le società minerarie non riescono
da qualche tempo a tenere testa
agli ordini in arrivo e nemmeno gli
aumenti dei prezzi hanno portato a un
rallentamento della richiesta.
Alcuni grandi clienti del settore
aeronautico sono riusciti a contrattare
un blocco dei prezzi mentre i
produttori di biciclette, che restano
comunque una porzione minima
del mercato (circa il 5%) sono stati
costretti ad accettare altri aumenti.
Autore della presenta truffa Hardy
Rodenstock, a sua volta collezionista
d’arte e grande concoscitore di
vini, soprattutto di quelli d’epoca.
Rodenstok si è specializzato nelle
produzioni precedenti al 1945, anno
in cui i vitigni di tutta Europa furono
devastati dalla Filossera, prima
di dedicarsi a questa attività e di
cambiare nome (si chiamava Meinhard
Goerke) era stato un organizzatore di
concerti pop in Germania.
”I vecchi della new economy scelgono
il nuovo”
La prima ondata delle società Internet
comincia già ad accusare i malanni
dell’ingresso nell’era geriatrica:
l’emorragia di personale. Una new
wave di start up sta rubando cervelli e
competenze ai colossi che hanno
contribuito 10 anni fa a scrivere la
Storia della Rete. Nel giro di pochi
mesi da Yahoo! se ne sono andati
parecchi manager di rango: uno degli
ultimi è stato, all’inizio di settembre
2006, Gideon Yu, diventato direttore
finanziario di You Tube, il sito di video
frequentato ogni giorno da circa
100 milioni di visitatori, soprattutto
teen ager. Nel corso dell’estate, ad
accettare le lusinghe arrivate da
SideStep (sito di viaggi) era stato
il vice presidente della divisione
shopping on line Robert Salomon. In
precedenza a lasciare la società
erano stati il Chief Product Officer
Geoff Ralston e John Robinson, uno
dei principali architetti software.
Parola di guru
“Internet,
maneggiare con cura”
James Gosling, l’inventore di Java mette in guardia sulle fragilità della rete
di Stefano Marucci
James Gosling,
Gosling è a pieno titolo considerato
il padre del linguaggio Java
Java, dalle prime
linee di codice fino all’ultima versione
della Virtual Machine . Lavora alla Sun
Microsystem dal 1984, e ne è uno dei
vice presidenti. Ha programmato sistemi
di acquisizione di dati dai satelliti, una
versione di Unix per multiprocessori, diversi
compilatori, programmi di posta elettronica.
“Ho un rapporto catastrofico con la tecnologia: se passo
sotto a un lampadario a gocce, si mette a piovere“
Woody Allen
La Sun Microsystem ha organizzato
la scorsa estate, e per la prima
volta a Roma, un grande evento di
comunicazione per e tra tutti coloro
che utilizzano i loro programmi (il Java),
i loro sistemi operativi (Solaris) o
per chi avesse voluto incontrare una
grande azienda che ha costruito il suo
successo seguendo la filosofia dell’ open
source . Sun Microsystem è davvero
un’azienda fuori dall’ordinario: il blog
aziendale è usato in maniera estensiva,
tanto che il suo amministratore
delegato, Jonathan Schwartz, ha usato
il suo spazio digitale per annunciare il
licenziamento di cinquemila dipendenti.
Insomma una realtà è diventata parte
del mito. In una sala gremita ci siamo
ritrovati ad aspettare le parole di un
guru, James Gosling, che tanto ha
dato alla comunità internet, ai suoi
programmatori e i suoi usufruitori.
Poi potrò intervistarlo. Ascolto il suo
intervento, riguardo i miei appunti.
E decido di buttarli tutti nel cestino.
Finalmente mi ritrovo faccia a faccia
con lui. E il mito si trasforma in un
signore in maglietta arancione, la
barba curata e un po’ di pancetta. Il
classico informatico che potresti trovare
in un’azienda qualunque.
Stefano Marucci – Il web 2.0 si fonda
sul concetto di “rete sociale” (social
( social
networking).). James Gosling costruisce
networking
con Sun le fondamenta dell’interattività
tra gli utenti, considerati come
sinapsi di un unico motore pensante .
Cerchiamo di conoscere allora meglio
la persona dietro la filosofia e la
tecnica della nuova internet.
I miei colleghi dell’ufficio stampa
sorridono, ed io mi domando se
apprezzano l’idea o si aspettano una
qualche reazione da parte di Gosling.
Lui non trattiene una smorfia…
S.M. Dunque iniziamo da come James
Gosling si “aggiorna”: stampa,
televisione, internet. Qual è la sua
interfaccia preferita verso il mondo
esterno?
James Gosling – [lunga pausa, sospiro]
che domanda crudele! [sussurra] Non
saprei [lunga pausa]. In realtà io evito
sistematicamente qualsiasi contatto
con il mondo esterno
esterno. Il mio lavoro
mi assorbe moltissimo e non coltivo
25
nessun tipo di interfaccia con la rete
sociale, anzi uno dei miei principi
è di non affogare nella rete. Il vero
problema è che internet si è talmente
adattata per essere una rete sociale
che potresti ritrovarti a impiegare il
100% della tua vita non facendo altro
che “social networking”. Quindi, in un
modo o nell’altro io mi batto contro
l’idea di interfacciarsi con questo
aspetto di internet, se non altro per
riuscire a continuare a lavorarci con la
giusta prospettiva. Prendi per esempio
i blog. Una grossa percentuale dei
blog è semplicemente spazzatura,
spazzatura ed
è diventato un vero e proprio lavoro
riuscire a trovare un articolo decente
pubblicato su un blog. C’è molta gente
che cerca di scrivere nel modo corretto
un blog, e che riesce ad interfacciarsi
nel modo giusto con gli utenti di
internet, ma io non faccio parte di
queste persone, non sono bravo a
scrivere, né a raccontare.
S.M. – Si può dire che le aziende
generalmente hanno a disposizione
una potenzialità tecnologica che non
viene sfruttata, o che comunque la
tecnologia corre più velocemente
di quanto un’impresa sia in grado di
ammodernarsi, nella sua struttura e
nel modo di comunicare all’interno e
all’esterno?
J.G. – Si, Sun sicuramente è un caso
straordinario, viviamo proiettati nel
futuro già da qualche anno, e molti di
noi si sorprendono quando vedono che
molte delle cose che noi facevamo 10
anni fa iniziano ad essere implementate
nelle altre imprese solo oggi. Molti
dei miei colleghi ed io abbiamo
lavorato nel mondo del networking da
decenni, e io stesso mi sono trovato a
raccontare aspetti del mio lavoro ad
amici e che suonavano al tempo come
un romanzo di fantascienza.
S.M. – 7th Floor, come ti dicevo, è un
S.M. – James, come si coniuga questo
tuo rifiuto di interazione sociale, di
partecipazione digitale e reale, con
la necessità di viaggiare spesso e
incontrare molte persone per il tuo
lavoro?
J.G. – Mettiamola così, cerco sempre
di scegliere con cura con chi e quando
relazionarmi. E’ facile lasciare che il
mondo che ci circonda, e le possibilità
di interagire con gli altri, finiscano per
rinchiuderci in una specie di prigione.
Ci sono tante persone che non hanno
altra vita che all’interno dei loro blog,
o nei blog dei loro amici. Io sono un
ingegnere elettronico, sono felicemente
sposato, ho dei figli e tutte queste
cose sono più importanti per me che
navigare tra i blog altrui.
Fa caldo in questa stanzetta,
nonostante l’aria condizionata. Fa
caldo, e mi pare di capire che il mio
tempo sarebbe già scaduto da molto.
S.M. – Nel tuo lavoro ti sei trovato
a conoscere e scontrarti magari con
culture diversissime dalla tua e tra di
loro. Si può però dire che internet sia
diventata un linguaggio universale?
J.G. – Bhè si. C’è stato un libro che
mi ha cambiato la vita, è stato per
me come uno spartiacque. Sarà
stato 25 anni fa. E’ un libro sulla
teoria dei giochi, “l’evoluzione della
cooperazione” [in Italia “Giochi
di reciprocità: l’insorgenza della
cooperazione”, Feltrinelli 1985, n.d.g]
del matematico Robert Axelrod. C’è
questa teoria chiamata “il dilemma
del prigioniero”, che è tutta fondata
sull’interazione. Il libro è accessibile
a tutti. E’ difficile generalizzare
quelle che sono le sue riflessioni
applicandole al modello di una società,
ma si può dire che le sue teorie
portano a pensare che se ci sono
poche interazioni sociali la strategia
migliore è lavorare per conto proprio.
Ma quando le interazioni sociali
sono frequenti, allora si raggiunge
il maggior risultato attraverso la
collaborazione. Quindi se mettiamo
nella condizione di incontrarsi più
persone possibili, non importa quale
sia la loro strada o il loro modo di
pensare, queste persone inizieranno
a collaborare. E questo in fondo è
internet, il luogo per eccellenza dove si
possono incontrare persone, superando
le barriere geografiche, politiche, e
di pensiero. Internet è stato il collante
durante la transizione dell’Unione
Sovietica in Comunità degli Stati
Indipendenti. Senza internet sarebbe
avvenuto un colpo di Stato, perché
i media erano già sotto controllo, e
nessuno avrebbe saputo nulla. Ma
attraverso internet la gente ha saputo,
e si è potuto fermarlo. Come in Russia,
in qualsiasi altro posto.
S.M. – Grazie per il tuo tempo James,
sono davvero felice di aver potuto
chiacchierare con te.
J.G. – Grazie a te, e buona fortuna a
7th Floor!
giornale gratuito e al tempo stesso un
luogo virtuale di incontri e condivisione
per dirigenti e quadri di tutta Italia.
Credi ci siano degli aspetti in comune
tra l’idea di un free press e l’l’open
open
source??
source
J.G. – Io credo che l’open source sia
molto, molto più libero che un giornale
gratuito [“freer than a free press” in
inglese, n.d.r.] e comunque un giornale,
per quanto abbia anche uno spazio
web di condivisione, rimane meno
interattivo, per via dei limiti della
stampa. E poi penso all’attività di
condivisione. Prendi anche un blog.
Se scrivessi qualcosa di controverso,
di sensazionale, potrei avere in
poche ore centinaia di risposte al mio
articolo, ma di queste il 99% sarebbero
solo spazzatura, e perderesti molto
tempo a cercare tra quelle le poche
risposte convincenti…
S.M. – Credo si possa dire che la vera
sfida per il web 2.0 sia trovare il modo
di filtrare il buono dall’inutile, in una
rete che è sempre più ridondante e
dispersiva?
J.G. – Guarda, almeno la metà delle
risposte in un qualsiasi blog sono fatte
da persone che non hanno nemmeno
letto l’articolo in questione, leggono
il titolo e gettano un loro commento,
per poi passare a un altro blog per
imprimere una nuova impronta.
Sono ateo delle risposte che ricevo,
credo che si sentirebbero così quei
fedeli di una qualche religione che
scoprono il loro sacerdote ateo.
S.M. – Mi pare di capire che non ci sia
la consapevolezza della potenzialità
del web 2.0 . Tutta questa interattività
che la nuova piattaforma della rete ci
mette a disposizione, alla fine, viene
sprecata. Cosa manca? Cosa ci manca
come utenti, progettisti e uomini di
comunicazione per poter sfruttare a
pieno questo potenziale che persone
26
come te hanno costruito e raffinato
nel corso degli anni? Come si può
raggiungere questa consapevolezza
per entrare davvero in quella che hai
definito “l’età della partecipazione?”
J.G. – Ci sono esperienze significative
come quella di slashdot.org che
utilizza un gruppo di moderatori
con determinate caratteristiche che
possono fare filtro a tutto ciò che è
indesiderato di internet. I moderatori di
slashdot (http://slashdot.org/) scelgono
le storie che interessano un certo
tipo di utente, e lo mettono in grado
di leggerle senza dover rovistare in
mezzo alla spazzatura. [di nuovo una
pausa, come a riascoltare cosa mi
ha appena detto] Allo stesso tempo
sono un po’ perplesso rispetto a un
filtro umano che sceglie per me cosa
leggere. Non lo so, spero che questa
consapevolezza di far parte di una
comunità responsabilizzi i suoi utenti di
più nel futuro.
*
sun
Sun Microsystem è un’azienda che
nel 2005 ha fatturato 11,1 miliardi
di dollari, e impiega oltre 35.000
persone in 100 paesi diversi, leader
nella vendita di computer, accessori
per comuter, programmi e servizi
per l’information technology. Sun è
l’azienda privata che più ha fatto per
lo sviluppo dell’open source, donando
tra le altre cose il codice sorgete del
suo ultimo sistema operativo, Solaris
10. In Italia questa propensione alla
condivisione ha creato il progetto Java
Open Business, per promuovere una
nuova generazione di applicazioni per
le PMI italiane applicando il modello
collaborativo proprio dell’Open
Source.
27
java
Java è un linguaggio di
programmazione che ha visto la luce
nei primi anni ‘90. Diversamente dagli
altri linguaggi, Java non ha un suo
linguaggio proprio, ma si complica
in linee di codice che vengono poi
lette dalla Java virtual machine. Il
linguaggio, che si ispira al più noto C
e C++, è stato pensato per manipolare
con maggiore facilità gli oggetti.
Contrariamente a quanto si pensa,
è solo un lontano parente dello
JavaScript utilizzato nelle pagine web
Web 2.0:
istruzioni per l’uso
di Idel Fuschini
Internet non deve essere considerato
una semplice “rete di reti”, né un
agglomerato di siti Web isolati e
indipendenti tra loro, bensì la sintesi
delle capacità tecnologiche raggiunte
dall’uomo nell’ambito della diffusione
dell’informazione e della condivisione
del sapere.
Queste sono le considerazioni alla
base del “Web
Web 2.0”
2.0 o “Internet
Internet 2.0”,
2.0
che non è un punto d’arrivo, ma la
partenza per nuove metodologie
di sviluppo e applicazioni software,
all’insegna della collaborazione tra
diverse entità.
La rete non subirà evoluzioni epocali.
Sarà probabilmente più veloce e non
più dipendente dal cavo, i linguaggi
di sviluppo rimarranno pressoché
gli stessi ed anche gli applicativi
software funzionalmente non subiranno
evoluzioni.
In poche parole Web 2.0 non è una
rivoluzione tecnologica.
Internet diventerà “la rete dei servizi”
alla quale ciascuno di noi potrà
attingere per creare nuovi servizi da
mettere a disposizione della “comunità
della rete”.
Ma vediamo adesso le potenzialità
del web 2.0.
Immaginiamo che una grossa
azienda che fabbrica porte metta a
©
disposizione sulla rete il catalogo con
relativo listino prezzi; poniamo anche
che questo avvenga anche nel mondo
dell’ idraulica, della pavimentazione,
dell’arredamento etc. Ipotizziamo
quindi che ciascun azienda del settore
metta a disposizione, perché è nel suo
interesse, questo tipo di informazioni.
A questo punto potremmo immaginare
un servizio terzo che permetta di
utilizzare tutte queste informazioni.
Un applicativo con un’architettura
orientata al mondo dei servizi
SOA, Service Oriented
web (detta SOA
Architecture) permetterebbe, tramite
un software grafico, di progettare il
proprio appartamento utilizzando come
oggetti i prodotti che la rete ci offre
ed avere in tempo reale un preventivo
dei costi.
Da ciò che può essere il web 2.0
a quello che già propone. I flussi
RSS (abbreviazione di Really Simple
Syndication, che tradotto liberamente
potremmo chiamare distribuzione
molto semplice) sono un formato di
interscambio di informazioni, nati
inizialmente per dare modo a siti di
news e blog di distribuire e scambiare
le proprie novità in uno standard
semplice e veloce da interpretare.
Le applicazioni dell’RSS si sono in
realtà ampliate notevolmente, tanto
il confronto tra siti Web 1.0 e Web 2.0
Web 1.0
DoubleClick
Ofoto
Akamai
mp3.com
Britannica Online
Website personali
domain name speculation
pagine visitate
cattura di pagine web
publicazione
content management systems
cartelle (“tassonomia”)
Web 2.0
Google AdSense
Flickr
BitTorrent
Napster
Wikipedia
blogging
ottimizzazione dei motori di ricerca
costo per click
web services
participazione
wikis
tagging (“folksonomy”)
28
che qualsiasi tipo di informazione può
essere distribuita in questo formato.
Google attraverso il suo portale,
utilizza questo formato per costruire
una “home page personalizzata”,
che contiene diversi oggetti web che
aggregano in una singola pagina
i contenuti esposti dai diversi siti.
Tali oggetti sono stati sviluppati con
la tecnologia AJAX (Asynchronous
JavaScript and XML) che permette
di gestire lo scambio dei dati
tra il browser e i vari webserver
separatamente dalla gestione della
grafica della pagina stessa.
Porta il web 2.0
nella tua azienda
La new economy è ancora più nuova con l’avvento del web 2.0. La rivista Wired mette a disposizione
dei suoi lettori un simpatico congegno, lo StartUp-O-Tron. E’ un algoritmo che permette di costruire
un’azienda che sfrutta il potenziale dei nuovi strumenti partecipativi della nuova rete in pochi
passaggi. Basta scegliersi il mercato di riferimento, le tecnologie del sito, i servizi che offre e le
architetture da utilizzare.
Alcuni esempi di questo tipo di
applicazioni sono: Delicious (http://del.
icio.us/) che consente di organizzare
i bookmark in modo collaborativo tra
tutti gli utenti del sito; Flickr (www.
flickr.com) per la gestione di immagini;
GoogleMaps (http://maps.google.com/)
che conosciamo tutti.
Ma l’esempio reale a mio parere
più esaustivo, che illustra al meglio il
concetto di Web 2.0, è housingmaps.
com (www.housingmaps.com).
Il sito fornisce informazioni riguardo
appartamenti in affitto e in vendita
divisi per classi di prezzo. Questo
servizio sfrutta due siti: il già citato
GoogleMaps ed un altro meno
conosciuto craigslist (http://sfbay.
craigslist.org/), che è un portale
che fornisce anche in formato RSS
le inserzioni immobiliari. Grazie a
housingmaps.com possiamo, con
pochi click, fare una ricerca di un
appartamento e sapere graficamente
dove è posizionato nella città.
E’ un sito che si occupa di Foto sfruttando le tecnologie del Tagging e gli Rss per fare Ricerche in una Comunità -> Flickr.com
E’ un sito di Mappe che sfrutta gli Rss e il Tagging per la Compravendita in un Portale -> Housingmaps.com
E’ un sito di Informazione che sfrutta gli Rss e la tecnologia Ajax per fare Ricerche in Blog ->
Googleblogsearch.com
Lo StartUp-O-Tron è di proprietà della rivista Wired. L’articolo in questione è stato pubblicato sul numero di settembre 2006; gli autori sono
Robert Cappes e Adam Rogers.
Idel Fuschini è responsabile del
Centro di Competenza Internet
e Mobile della Wintec.
29
Intranet, cambia la mappa del
potere informativo in azienda.
che è il centro, cioè l’essere umano. Il
tecnoentusiasta, sposa la tecnologia per
se stessa. Si riempie anche fisicamente
di tecnologia, è appesantito dalla
tecnologia. Non ha più abbastanza
orifizi nel quale schiaffare altri
auricolari. Nella comunicazione nessun
canale cancella quelli precedenti. I
migliori successi li registriamo quando
si fa un mix fra comunicazione calda e
fredda. La comunicazione calda richiede
un qualche rapporto fisico, addirittura
un contatto. Nei momenti di crisi, è
sintomatico vedere quanto ci si tocca
fisicamente. Si sente la necessità di
trasmettere il contatto, di essere anima
e corpo. Quando si devono prendere
decisioni gravi, importanti, allora il
vecchio meeting, il vecchio ritrovarsi, il
fare squadra, è ancora assolutamente
indispensabile. So di vicende aziendali
importanti, fusioni, licenziamenti prese
tramite teleconferenza…beh insomma ho
delle riserve in merito.
Ne parliamo con Marco Stancati, responsabile comunicazione INAIL
di Alessandro Bernardini
Marco Stancati
Stancati, oggi responsabile della Comunicazione
dell`Inail dirige la struttura della comunicazione interna, esterna,
internazionale, l`Ufficio stampa, il portale Internet, la Intranet
aziendale e l`Editoria. È giornalista pubblicista, direttore
responsabile della newsletter “Dati Inail”. Dal 2003 è docente
di “Comunicazione interna ed Intranet” e dal 2005 anche di
“Pianificazione dei media e comunicazione interna” presso
la facoltà di Scienze della Comunicazione dell`Università “La
Sapienza” di Roma.
Alessandro Bernardini - Grazie di
averci accolto. Parliamo di convivenza
e condivisione. Cosa intende lei
per condivisione della conoscenza
aziendale?
Marco Stancati - La possibilità di
una conoscenza diffusa, tra tutto il
personale, di quello che è il thesaurus, il
patrimonio di conoscenza dell’azienda.
Questo oggi è sicuramente reso
possibile dalla tecnologia. In passato
sarebbe stato sicuramente più
complicato mettere questo patrimonio a
disposizione di tutti quanti.
A.B. - Lei è esperto di Intranet. Se
dovesse spiegarlo a chi non ne sa nulla?
M.S. - Immaginiamoci una Internet
privata che viene condivisa da tutti
gli appartenenti di un’organizzazione.
Il vero valore aggiunto della Intranet
sono le persone, cioè, la possibilità, di
contribuire a costruire e a implementare
la conoscenza aziendale.
aziendale Se la
leggiamo solo come un sistema per
velocizzare l’informazione non ne
sfruttiamo le potenzialità. Sarà solo
un sistema più veloce per passare le
informazioni che passavamo prima,
sarebbe come sprecare un’occasione.
Intranet è rivoluzionaria,
rivoluzionaria perché cambia
la mappa del potere informativo
all’interno dell’azienda e costringe il
manager - e quando dico manager
parlo di chiunque abbia responsabilità
di risorse umane e risorse strumentali
– a svolgere il vero ruolo al quale non è
però abituato: ricomporre le componenti
organizzative del suo sistema. Accertarsi
che l’informazione sia recepita nella
maniera giusta, in relazione alle
strategie aziendali. Intranet, lo costringe
a fare il suo mestiere. E spesso si sente
nudo e impreparato. Per molto tempo
il manager ha detenuto l’informazione.
Niente di nuovo: informazione uguale
potere. Anche l’informazione più
potere
banalmente tecnica, voglio dire,
oltre che quella istituzionale. Questo
fatto lo poneva in una condizione di
superiorità rispetto ai collaboratori.
Perché decideva dove, come e quando
e a chi elargire, gocce, molliche e
pillole dell’informazione. Le nuove
tecnologie, internet e in particolare
Intranet, scavalcano le mediazioni, le
intermediazioni, e questo ha provocato
delle conseguenze non da poco,
perché l’operazione informativa di
base, può essere tranquillamente svolta
da Intranet. Il manager si è sentito
scavalcato. La struttura apparentemente
non aveva più bisogno di lui. Più che mai
invece. Perché a lui spetta di chiudere il
cerchio comunicativo. Una scelta che si
fa è quella di dire: “ti avverto che ti ho
inviato informazioni. In un determinato
luogo della Intranet ti colloco delle
informazioni che tu puoi andare a
prendere tutte le volte che vuoi”. E poi
c’è la parte più bella: se è possibile tu
me la devi migliorare. La devi integrare,
portare il frutto delle tue elaborazioni,
come wikipedia….
Rimane tutto come prima, ma è tutto
più veloce. Un passo più avanti è già
la Intranet di supporto ai processi
operativi. Cioè io entro comunque
nel mio universo lavorativo, lì trovo
le mie utilities, le facilities. Terzo e più
importante, al quale tutte le aziende
dovrebbero aspirare, è la Intranet
di knowledge management. Cioè la
Intranet di gestione della conoscenza,
quindi informazione strutturata.
Condivisione della conoscenza. Diverso
atteggiamento del singolo rispetto alla
conoscenza aziendale. Consapevolezza.
Passaggio successivo: knowing
management. La partecipazione alla
costruzione della conoscenza che è il
livello più alto della Intranet. Pensiamo
però cosa vuol dire. Da ex responsabile
della formazione, mi sono reso conto
che quello che la gente vuole è il
riconoscimento di essere “individuo”
e quindi creativo, anche se il dato
economico è importante.
A.B. - Proprio in questo senso i
tecnoresistenti, hanno paura che le
innovazioni possano spersonalizzare i
rapporti all’interno delle aziende…
M.S. - C’è un dato in più, i
tecnoresistenti hanno paura di tutto
quello che cambia il loro mondo, hanno
paura per se stessi. E’ sintomatico che
ogni volta che noi abbiamo paura di
qualcosa ricorriamo alla memoria, a
“come si stava meglio quando…”. In
realtà c’è sempre bisogno del confronto.
Solo così scatta il vero processo
comunicativo. Se non è almeno a due
vie non c’è comunicazione
A.B. - Lei spesso parla di tecnoresistenti
e tecnoentusiasti dei processi innovativi.
Chi sono e come si comportano?
A.B. - Non c’è però il rischio di
perdersi?
M.S. - Premetto subito che non è detto
che io sia un fautore dei tecnoentusiasti.
Possono essere più pericolosi. Il
tecnoresistente, magari proviene da
una cultura diversa, si arrocca. Molte
volte ho sentito dire: “ma io provengo
da una formazione umanista”. Spesso
invece chi proviene da una cultura
umanista, e quindi portato a porre
l’uomo al centro del sistema, finisce
per utilizzare meglio le tecnologie,
dando l’importanza vera a quello
M.S. - In che senso?
A.B. - Di perdersi nel magma delle
informazioni….
A.B. - Un po’ come nell’Open Source…..
M.S. - Il concetto è quello. Andando
per ordine: Intranet, concepita solo
per la velocità, è una risorsa sprecata.
30
31
M.S. - Come no! Per questo uno
dei comandamenti aziendali è che
l’informazione deve essere sempre
strutturata e che all’informazione
segua un processo comunicativo vero.
Tutti siamo prigionieri della società
dell’informazione. Come gestire la
dipendenza è il vero problema. Più che
un problema aziendale credo che sia
soprattutto un problema individuale.
M.S. - E’ il problema di avvicinare le
fasce deboli. Non esiste una soluzione
valida per tutti. Ogni target ha il
suo linguaggio. Faccio un esempio.
Lavoratori extracomunitari. Fascia
debole e fortissima allo stesso tempo. Io
rimango ancora sconvolto dal fatto che
non ci si renda conto che un lavoratore
su quattro nel nostro Paese, è straniero.
straniero
Il nostro Paese di loro non può più
farne a meno. Gli extracomunitari si
infortunano il 50% in più degli italiani.
Per motivi oggettivi, e quelli li possiamo
individuare - perché fanno lavori più
pericolosi - ma anche in quelli a parità
di rischio. Perché c’è un problema
di cultura, di lingua, informazione,
di formazione. Spesso lavorano allo
sbaraglio o a nero. Noi, il problema
lo abbiamo affrontato nel modo più
banale: abbiamo tradotto in 24 lingue i
nostri opuscoli su come non farsi male.
Problema: la distribuzione. Come faccio
a farglieli avere? Difficilissimo. Il primo
ostacolo da abbattere è la diffidenza.
Mi devo accreditare, dire: “Io sto dalla
tua parte. Abbiamo un interesse comune,
che tu non ti faccia male. Anche se
lavori in nero l’INAL ti indennizza, non
è vero quello che ti dicono i ‘caporali’
per spaventarti”. Ti ricordi il caso del
lavoratore rumeno bruciato dal datore
di lavoro? L’INAL ha indennizzato
la famiglia, pur essendo una cosa
scoppiata fuori dall’ambito di lavoro a
seguito di una rissa. Beh, questo è stato
più importante di qualsiasi campagna
comunicativa. Agli occhi della comunità
rumena e non solo, noi siamo quelli che
hanno indennizzato quell’uomo. Non
c’è più diffidenza. Questo conta più di
qualsiasi cosa. Il passaparola. Andiamo
incontro ad una società multietnica.
Queste persone stanno pagando il
nostro sistema pensionistico.
A.B. - Quale potenzialità della
Intranet non è stata ancora sfruttata
adeguatamente?
M.S. - La capacità di tutti di portare
nuova linfa al patrimonio di conoscenza
aziendale. Se il valore aggiunto è la
community, il dato mancante è la sua
realizzazione.
A.B. - Secondo lei esistono oltre la
Intranet nuove frontiere comunicative a
livello aziendale?
M.S. - La nuova frontiera dovrebbe
essere la razionalizzazione della
multicanalità all’interno. La possibilità di
passare lo stesso messaggio attraverso
canali diversi. Come garantire all’essere
umano non soltanto di essere informato,
ma dargli la possibilità di vivere meglio
sulla scorta di queste informazioni.
Attualmente viviamo la bulimia
dell’informazione. Ci dobbiamo curare
prima psicologicamente come avviene
per i bulimici. L’homo tecnologicus campa
male. Passa più tempo a garantirsi la
possibilità di utilizzare la tecnologia di
quanto tempo non passi ad utilizzarla
veramente. Il rapporto costo-benefici è
alterato. C’è bisogno di tecnologia dal
volto umano.
A.B. - Jeremy Rifkin parla di “Era
dell’accesso”. Come si possono aiutare
le categorie sociali che non hanno
accesso alle informazioni?
Calo degli infortuni sul lavoro nel 2005
Un primo bilancio consuntivo indica una riduzione complessiva pari al 2,8%.
Il dato è ancora provvisorio e non ufficiale ma, sulla base di esperienze storiche ormai consolidate, si stima
un calo definitivo non inferiore a 2,5 punti percentuali.
L’andamento premia soprattutto il settore dell’Agricoltura (-4,4%), il Nord-Est (-3,8%) e la componente
maschile (-4%); quella femminile, invece, fa registrare un incremento di 0,5%.
Corporate Blog
Il nuovo volto della comunicazione aziendale
di Mauro Lupi @ Ad Maiora
Ogni giorno, trenta milioni di persone
accedono ad Internet per aggiornare il
proprio blog. Da casa o dall’ufficio, la
giornata inizia aggiornando il proprio
diario on line. Sempre più spesso questa
finestra con il mondo ha a che fare
con il proprio lavoro. Il blog aziendale
rappresenta una forma di comunicazione
strategica, che supera quella istituzionale
perché aggiunge un elemento di
partecipazione attiva e informale. Si stima
che in Europa nascano circa 50.000 blog
al giorno, un fenomeno che continua a
crescere e modificare l’uso e la percezione
della rete.
Mauro Lupi
Lupi, autore del primo CEO blog italiano, ha moderato
il workshop a Roma “Alle aziende piace blog”. E’ presidente di
Ad Maiora, vice presidente di IAB Italia, membro del consiglio
direttivo di SEMPO e membro del comitato scientifico di
Assodigitale. Collabora con IlSole24Ore, IULM e La Sapienza.
www.maurolupi.it
Fonte: www.inail.it/statistiche/DatiInail/osservatorio2006
32
33
Non è un caso, dunque, che a Roma
si è tenuto il workshop “Alle aziende
piace blog” nella Casa del Jazz. Una
villa confiscata al boss della banda della
Magliana Enrico Nicoletti, in un progetto
fortemente voluto dal sindaco Walter
Veltroni, che intreccia cronaca nera,
letteratura, musica e cinema e fa di questa
bellissima villa la location ideale per
parlare di futuro della comunicazione.
Volendo osare nell’associazione con
l’evento sui blog, potremmo cogliere
simbolicamente il segnale di cambiamento
forte che necessita la comunicazione
aziendale. Un passaggio importante,
nel quale le iniziative di marketing, PR e
pubblicità vanno riconsiderate alla luce di
alcuni elementi di rottura. Innanzi tutto la
necessità di evolvere l’orientamento della
comunicazione destinata a “target”, verso
una deriva individuale, rivolgendola quindi
alle “persone” e non più ai “consumatori”.
Allo stesso tempo, queste persone (e qui
sta il secondo nodo cruciale) acquistano
sempre maggiore capacità conoscitiva
e soprattutto diventano produttori di
contenuti proprio attraverso i blog. E questi
spazi personali online iniziano ad assumere
forte rilevanza sia per numerosità che per
influenza. Uno dei modi che le aziende
hanno per adeguare la relazione con i
loro mercati di riferimento, è proprio quello
di cogliere queste nuove frequenze e
sintonizzarsi su di esse, magari utilizzando
loro stesse lo strumento dei blog, come il
“”
“Il blog è un sistema moderno
per relazionarsi e dialogare con
le persone, interne ed esterne
all’azienda”
“Il blog aziendale rappresenta una
forma di comunicazione strategica”
workshop romano ha dimostrato, mostrando cinque
modi diversi di intendere un blog aziendale.
sostituito l’area stampa del sito web.
Stefano Hesse ha invece raccontato l’esperienza
del blog italiano di Google
Google, il primo dell’azienda
in Europa. Per loro il blog è un modo per esprimere
la voce delle persone dell’azienda e per stimolare
feedback sui servizi e sulle iniziative di Google.
Nella decisione di avviare il blog, ha inciso
fortemente l’esperienza maturata da Hesse stesso
nella gestione di un blog personale, riuscendo a
realizzare un prodotto aziendale in linea con il
mondo della blogosfera, pur dovendo allinearsi alle
politiche della multinazionale in tema di struttura e
contenuti.
Sun Microsystems è una di quelle che fa sul serio:
sono oltre 3.000 blog di dipendenti e manager,
e ormai raggiungono un’audience superiore di
dieci volte a quella sviluppata attraverso le PR
tradizionali. Si tratta di blog di tutti tipi: da quelli
esclusivamente personali a quelli più strettamente di
business, come il popolare spazio dell’amministratore
delegato, Jonathan Swartz. Una delle riflessioni che
ha portato Simon Phipps di Sun, è che la fiducia
verso l’azienda e le sue persone si sviluppa quando
queste si raccontano nei loro blog attraverso le
vicende personali o quando scrivono di argomenti
non legati direttamente al proprio lavoro.
Molto interessante anche il caso di SanLorenzo.com
SanLorenzo.com,
un’azienda che vende prodotti alimentari di qualità
e che attraverso il supporto di Antonio Tombolino,
ha trovato nel blog un sistema per avvicinarsi ai
propri clienti anche attraverso iniziative originali,
come l’invio gratuito di prodotti ai blogger che ne
facessero richiesta.
Patrizia Cianetti ha invece riportato l’esperienza del
blog di Federico Minoli, l’amministratore delegato
di Ducati
Ducati. Il progetto è stato fortemente voluto dal
manager che, a guardare la frequenza e la qualità
dei suoi interventi online, sembra che ci abbia preso
decisamente gusto.
Dall’esperienza dei casi analizzati, emerge
chiaramente che il blog non è solo uno strumento
di comunicazione e benché meno un semplice tool
tecnologico. È invece un sistema moderno per
relazionarsi e dialogare con le persone, interne
ed esterne all’azienda. Un modo di porsi con gli
azionisti che, se ben fatto, sviluppa credibilità,
fidelizzazione, consapevolezza.
Più tradizionale è il blog di Samsung anche se
l’iniziativa, caso ancora unico per la multinazionale
coreana, sta producendo ottimi risultati. Gestito da
Andrea Andreutti, web marketing manager italiano,
il blog riceve centinaia di visite al giorno senza
nessun supporto pubblicitario ed ha totalmente
34
Quali suggerimenti si possono dare ad un’azienda interessata a
sviluppare un blog?
Innanzitutto esprimere passione, ed essere “veri” (o, a dirla
con le parole di Phipps di Sun, “essere credibili”). Un’altra
caratteristica importante è quella di segnalare altri siti e blog, in
linea con la legge non scritta che vige nella blogosfera secondo
cui “link chiama link”. Da non dimenticare il fatto di puntare
su obiettivi ben definiti: un blog può servire a parecchi scopi,
ma occorre identificare solo quelli più consoni all’azienda e
concentrarsi su questi. Due le principali ritrosie legate ai business
blog: mancanza di tempo e paura dei commenti negativi. Sul
fattore tempo, legato allo sviluppo periodico di contenuti, il
suggerimento è quello di guardare i tesori nascosti che spesso si
celano in azienda, specie quando si guarda il materiale prodotto
dai singoli individui piuttosto che dall’ufficio comunicazione.
L’argomento “commenti” è forse più di tipo culturale, partendo
dall’assunto che se esistono valutazioni negative sull’azienda
o sui suoi prodotti, queste verranno comunque fuori sui blog,
proprio perché ormai fungono da amplificatore della “voce della
gente”. Gestire commenti negativi sul blog aziendale non è
semplice ma, come ha testimoniato l’esperienza Ducati, spesso le
discussioni vengono ricondotte su temi positivi e costruttivi dagli
altri visitatori del blog. In ogni caso, i benefici che derivano dallo
sviluppare un rapporto trasparente e sinceramente interessato
all’ascolto, superano in genere ogni possibile rischio derivante da
un commento negativo.
©
Il blog, strumento di consenso politico
L’Inghilterra è sempre stata in grado di dettare, spesso di imporre,
nuovi stili, metodi e regole per la comunicazione. Patria degli spin
doctor , ha cambiato le regole della politica e del rapporto con gli
elettori. Un nuovo passo avanti, da quest’anno, è stato fatto dal
partito conservatore e dai liberal democratici.
Durante il congresso dei conservatori, numerosi parlamentari,
attivisti, possibili candidati hanno raccontato le giornate, promosso
i loro punti di vista, cercato in qualche modo di fare la differenza
anche rispetto alla corrente maggioritaria del segretario Cameron.
(conservativehome.blogs.com).
I liberal democratici hanno invece costruito un portale per tutti i
blog che “credono nella democrazia”.
(www.libdemblogs.co.uk).
Blair, alla fine degli anni ’90, rivoluzionò la politica con il New
Labour, vincendo la scommessa. Ma il blog ufficiale del suo
partito impedisce l’inserimento di commenti (www.thirskandmalton.
blogspot.com). L’uso dei blog da parte dei conservatori e i liberaldemocratici farà la differenza per le prossime elezioni? E quanto
aspetteremo prima che arrivi in Italia?
35
*
Sun Microsystems
Come una multinazionale si racconta attraverso
le storie delle persone che vi lavorano. Oltre
3 mila blog che parlano di tutto: dal business
sull’open source alla vita del proprio gatto.
http://blogs.sun.com/roller/
Ducati
Si chiama Desmoblog ed è curato direttamente
dall’amministratore delegato di Ducati. Storie di
moto, di circuiti e piloti, di persone, condite con
tanta sana passione.
http://blog.ducati.com
Samsung Italia
Il blog diventa lo strumento che razionalizza le
news su azienda e prodotti, sviluppato però con
una logica discorsiva, informale e arricchito di
segnalazioni di interesse generale
www.samsung-italia.net
Google Italia
Le persone di Google annunciano i nuovi
prodotti, spiegano le funzioni più recenti,
segnalano le posizioni di lavoro aperte.
Ovviamente utilizzando il loro servizio blogger
http://googleitalia.blogspot.com
SanLorenzo.com
Il sito dell’azienda è un blog, così come
l’approccio al business segue i canoni della
blogosfera: conversazione e genuinità,
quest’ultima riferita anche ai prodotti alimentari
venduti
www.san-lorenzo.com
Mauro Lupi - Ad Maiora
Un blog che parla di comunicazione on line
gestito da un manager di una new-media
agency. Divulgazione e confronto, conditi con
spunti di riflessione sull’evoluzione della Rete
www.maurolupi.com
Tils – Telecom Italia Learning Services
Blog e non solo. L’informazione di Tils da e per i
suoi dipendenti passa attraverso l’house organ
“L’asterisco”, disponibile anche on line, vero
snodo del traffico delle comunicazioni aziendali
www.tils.com
Prove tecniche di rete sociale
La partecipazione creativa in due siti web
di Roberto Galoppini e Antonella Beccaria
“Quando una rete ha lo scopo di diffondere qualcosa che ha un valore per le persone
come nel caso di una rete televisiva, il valore dei servizi è lineare. Se la rete consente
transazioni tra nodi individuali, il valore aumenta al quadrato. Quando la stessa rete
include la possibilità che gli individui formino gruppi, il valore è invece esponenziale”
(Donald Reed)
Le reti di utenti Internet stanno vivendo una seconda giovinezza. Il web 2.0 ha semplificato
l’accesso a servizi e informazioni, enfatizzando il significato di queste ultime, fino al punto
di personalizzarne per il singolo utente l’importanza ed il valore soggettivo.
LinkedIn
LinkedIn è un servizio di social networking specializzato
nella creazione di reti sociali legate al business. Risultano
ufficialmente iscritti al portale oltre 6 milioni di utenti, che
utilizzano il sito per trovare lavoro, contatti ed opportunità
di business, principalmente attraverso la rete dei propri
contatti che si estende fino a tre livelli (secondo la “teoria
del mondo piccolo”, di cui esistono evidenze empiriche
come dimostra uno studio del 2001 della Columbia
University, ognuno di noi ha al massimo sei “gradi di
separazione” da una qualunque altra persona, ndr).
curriculum come contattare head-hunter e addetti alla
ricerca del personale, il tutto verificando ex ante la rete di
relazioni che la persona è in grado di vantare.
Alcune aree e funzionalità del sito sono ristrette a servizi a
pagamento, ed il modello di business comprende la vendita
di servizi premium a valore aggiunto ed un posizionamento
di primaria importanza nell’area dei motori di ricerca
verticali, area nella quale si nota un certo fermento; dal
mese di aprile di quest’anno LinkedIn ha raggiunto la
redditività, il venture capital che la segue è lo stesso di
Google (Sequoia Capital) e l’amministratore delegato è
Reid Hoffman, già vice presidente di PayPal.
L’approccio di LinkedIn, noto come gated-access approach,
prevede che un utente per essere in “contatto” (linked) con
un altro utente deve già conoscerlo, oppure richiedere
ad un terzo che conosce entrambi di presentare l’altro:
lo scopo quindi è quello di favorire lo sviluppo di reti di
fiducia. Le imprese utilizzano LinkedIn per fare ricerche, i
fiducia
candidati per scegliere manager a cui sottoporre il proprio
Per sapere come funziona il sito, consigliamo il seguente
articolo che descrive passo per passo come inserire il
proprio profilo sul sito:
http://www.apogeonline.com/webzine
Radio Radicale
Radio Radicale possiede un patrimonio unico in Italia
in termini di archivi audio-video di sedute parlamentari
e convegni. Il sito, che fa capo all’emittente diretta da
Massimo Bordin è già on line da diversi anni e ha compiuto
recentemente un passo ulteriore. Anzi, due.
sono i principali: innanzitutto un blog personale all’interno
del quale poter scrivere propri articoli, poi un bookmarklet
per segnalare notizie da fonti esterne e i Feed RSS per
importare automaticamente le novità pubblicate su sitifonti di riferimento. Inoltre un meccanismo di rating dei
contenuti e di ranking degli utenti, che potranno essere
votati dagli altri, contribuirà a una sorta di selezione degli
articoli: i più apprezzati - e quindi maggiormente segnalati
- guadagneranno una maggiore visibilità all’interno delle
pagine e negli meccanismi di navigazione degli archivi.
Diego Galli, responsabile del progetto web, ci ha
raccontato che il patrimonio di materiali ed informazioni
che si sta digitalizzando arriverà a comprendere documenti
fin dal 1977. Ma la progettazione del nuovo sito, ancora
in Rete in versione beta, ha voluto escludere a priori una
fruizione dei suoi contenuti “uno a molti”. Interazione e
informazione dal basso sono stati infatti i principi ai quali si
è teso nei mesi scorsi.
Infine, altri tre elementi vanno a completare il panorama
del nuovo sito. Innanzitutto l’integrazione con l’enciclopedia
Wikipedia, che potrà essere fruita e alimentata
libera Wikipedia
partendo da RadioRadicale.it. Quindi l’importazione delle
immagini attraverso il sito di photo sharing Flickr sul quale
viene creato il corrispondente gruppo “Fai Notizia”. Infine
- come annunciato a fine 2005 - il ricorso alla licenza
Creative Commons Attribuzione 2.0 con cui i contenuti
del sito - laddove non diversamente specificato - possano
essere riprodotti in parte o integralmente, modificati,
utilizzati anche a fini commerciali con un unico vincolo:
mantenere inalterata la paternità morale dell’opera.
E il risultato è la sezione “Fai notizia” che si fonda
interamente sul concetto di giornalismo partecipativo.
Partendo dal modello che i blog vanno imponendo
all’informazione mainstream, l’obiettivo della nuova
iniziativa di RadioRadicale.it è quello di coinvolgere nella
costruzione dei contenuti direttamente gli utenti
utenti, intesi non
come militanti o simpatizzanti, ma come cittadini di vario
orientamento politico che vogliono esprimere la propria
opinione. I quali hanno a disposizione una serie di strumenti
per “fare” comunità e “costruire” informazione. Tra questi, tre
www.linkedin.com
http://it.wikipedia.org
www.flickr.com
http://creativecommons.org
36
37
performing
l’angolazione dello sguardo sul
territorio, coniugando la dimensione
locale con quella globale.
Il CarpeNoctem del TarantaVideoBlog
Il diario partecipativo de La Notte della Taranta: la festa salentina che ha
lanciato il format delle Notti Bianche
di Carlo Infante
Cogli l’attimo: carpe diem, dicevano
i latini. Cogli il giorno. Chiaro ed
ineludibile, almeno fino al 1879, l’anno
dell’invenzione di Edison: la luce
elettrica. Fino ad allora si “coglieva”
solo nel giorno, mentre la notte era
off limit: luogo e tempo di malfattori e
stravaganti. Eppure sappiamo quanto
la notte, che mi diverte definire La
Metà del Tempo Rimossa dalla Storia,
Storia
sia teatro di vita, di passioni, di eventi
extra-ordinari.
E’ nella notte che nel Salento,
per La Notte della Taranta (www.
lanottedellataranta.it), si è pensato
di agire in quella “metà del tempo”,
per coglierne l’attimo notturno: carpe
noctem. La Notte della Taranta è nata
nel 1998 al Melpignano, un piccolo
comune della provincia di Lecce e
nell’arco di questi anni è diventato il
più grande festival musicale dedicato
al rapporto tra innovazione pop e
tradizione popolare: tra musiche
etniche e altri linguaggi musicali che
vanno dalla world music al rock, dal
jazz alla sinfonica contemporanea. Va
detto, a questo punto, che l’evento
salentino ha anticipato la Nuit Blanche
parigina (2002) e le Notti Bianche
veltroniane (2003) nonchè quelle
Olimpiche in cui una Torino postindustriale ha amplificato la sua nuova
vocazione di città culturale. E’ un dato
che va ben oltre l’idea di promozione
turistica per costruire un percorso
Innovazione
che può essere definito d’Innovazione
Territoriale. Esiste infatti un’economia
Territoriale
del tempo libero. Roma con la sua
ultima Notte Bianca ( è stato stimato
un giro d’affari di 94 milioni di euro)
lo ha dimostrato. E’ l’economia del
Plaisir (come direbbe Abruzzese)
o dell’Ozio Creativo (secondo De
Masi). Fare della Notte uno spaziotempo pubblico significa conquistare La
Metà del Tempo Rimossa dalla Storia,
Storia
farne un’occasione per inventare
nuova socialità. E qui che s’innesta
l’esperienza del blog come pratica di
social networking capace di sostenere
il tessuto connettivo delle relazioni
sociali create in un evento, per
estenderle nella rete, l’infrastruttura
della Società dell’Informazione.
E’ in questo senso, rilanciando il
rapporto tra innovazione tecnologica
e promozione del territorio, che si
è caratterizzato un progetto che
ha dato forma al carpe noctem
38
salentino nel web, attraverso un blog
che ha tracciato un diario innervato
di parole ed immagini. Nasce così
il TarantaVideoBlog che ricrea online le emozioni de La Notte della
Taranta dal 2005, creando allora
uno dei primi videoblog (contribuì
all’avvio della BlogTV di Nessuno.
tv). L’idea dell’utilizzo di un videoblog
si basa sulla ricostruzione, giorno
per giorno, delle informazioniemozioni dell’esperienza sul
campo, in un dribbling leggero tra
flussi di parole e video. Nel 2005
l’interfaccia del TarantaVideoBlog
www.performingmedia.org/vlog
rappresentava una ragnatela posta
sulla vista satellitare del Salento.
Una ragnatela “tessuta” giorno per
giorno sulla base dei video caricati.
La penisola salentina vista dall’alto
si rivelava poi con diversi toni di
colore (scanditi dalla luce del giorno),
secondo il momento in cui ci si connette
(rilevando il clock del computer in rete),
secondo la tradizionale divisione della
giornata salentina: matinu, menzatia,
mericiu, espira, sira e notte. La poetica
del TarantaVideoBlog prende così
forma dal desiderio di armonizzare
prospettive globali e cultura locale.
Una risposta alla globalizzazione
che tende a omologare e a soffocare
le particolarità a scapito di una
standardizzazione del pensiero e
dell’azione. Una poetica che si fa
politica quando riesce a declinare
la comunicazione multimediale con
una capacità di amministrare la
cosa pubblica attenta a progettare
innovazione territoriale, per cambiare
Sull’onda di questo assunto è nato
il PerformingMediaLab/Salento che
con il coinvolgimento di ragazzi
dell’Università di Lecce (del corso di
Performing Media) e dell’Accademia
di Belle Arti ( attraverso Antonio
Rollo, docente di Computer Graphics)
ha sistematizzato l’azione, creando
maggiore radicamento nel territorio,
fino alla nuova edizione del
TarantaVideoBlog 2006.
Il PerformingMediaLab/Salento nasce
per promuovere un social networking
che possa fare dell’interattività una
nuova forma d’interazione sociale
e culturale, per esprimere una
sorta di palestra di comunicazione
interattiva: utilizzando una piattaforma
collaborativa, ludico-partecipativa,
attraverso cui sviluppare un’azione
di “performing media” (performaregiocare i media) basate sull’evoluzione
dell’esperienza dei blog.
La novità del vlog di quest’anno
www.performingmedia.org/lab/salento
è stata quella di realizzare in ogni
tappa del festival, un set supportato
da un gazebo e un pulmino attrezzato
con i computer connessi on line,
per svolgere la funzione costante
del diario di bordo dell’evento,
pubblicando direttamente le impressioni
dei partecipanti nella forma di una
scrittura multimediale che espande il
gioco delle visioni soggettive.
Sul TarantaVideoBlog realizzato da
Antonio Rollo, in collaborazione con
ClioCom e MoviMedia, è attiva anche
una mappa interattiva del Salento
(iMap) per individuare la dislocazione
geografica di tutti i luoghi in cui si
svolgono gli eventi: una mappa che in
uno sviluppo prossimo vedrà inserite
sulla rappresentazione del Salento
visto dal satellite, le animazione
grafiche in Flash basate sulle immagini
e i suoni raccolti nel vlog. L’aspetto
principale del lavoro di quest’anno
è stato comunque quello sul “social
tagging”: dieci tag (parole chiave)
hanno permesso di taggare (ancorare,
marcare) i vari contenuti multimediali
pubblicati.
Il TarantaVideoBlog continua a tessere
la sua rete, ponendo emergenze
politiche e non solo poetiche, come
è emerso nell’ incontro pubblico su
Performing Media: il social networking
per l’ Innovazione Territoriale svolto
in un’area franca con connessione
Wi Fi. In quest’ambito s’è posto il
giusto accento ad un’esperienza
che all’interno della manifestazione
più importante dell’estate musicale
mediterranea vede coniugare azione
culturale, comunicazione multimediale e
innovazione territoriale, interpretando
e valorizzando le particolarità della
Grecìa Salentina, dalle culture materiali
alla lingua “grika”. Coniugando per
davvero il globale del web con il
locale delle comunità, al di là degli
slogan di astratta intellettualità.
[email protected]
“Le parole d’ordine del
TarantaVideoBlog
Facce, Paesaggi, Politiche, Poetiche,
Visioni, Mani, Cibo, Performing
Media, Griko, Concerti.
foto Luc Rabaey
Su questi concept i ragazzi del PerfomingMediaLab hanno lavorato
producendo cinquantadue video, diciotto tracce audio (di cui molte in
podcast), oltre un migliaio di foto ( da cui è stato tratto un prototipo di
interfaccia contestuale: un puzzle umano, una sorta di “geomorfologia
facciale” che gioca l’idea di un’interfaccia composta di facce
portatrici di storie).
39
Una smartcard
contro l’inquinamento globale
Tattoo you too
Nasce il tatuaggio fai da te!
di Stefano Diana
Nell’icona della strepitosa vittoria ai
Mondiali di calcio 2006, sul crocchio
azzurro esultante svetta Cannavaro
con Coppa tesa al cielo. Le cose che si
vedono meglio del Capitano, e quindi
della foto, sono: a) la Coppa d’oro, b)
il grido felice, c) il grande tatuaggio
sull’interno del braccio destro dove si
legge, in fioriti caratteri gotici, il nome
“Andrea”. Passando alla storia con
tutto il blocco, la prova (c) consacra
definitivamente il tatuaggio fra i segni
del nostro tempo, insieme al grido, alla
squadra e allo sport italiano di questa
magica estate. Il poster più popolare
che si possa immaginare, immortalando
e diffondendo ovunque quella gloriosa
epidermide indelebilmente inchiostrata,
segna anche il culmine dell’epidemia
tatuaria che negli ultimi cinque anni non
ha mai smesso di dilagare.
I tatuaggi se li fanno tutti, come ha
dimostrato l’estate appena trascorsa. Ci
sono tante di quelle ragioni, del resto.
Negli primevi dell’uomo, quando il
mondo era raccontato dai miti e non
dalla scienza, il tatuaggio era una
celebrazione e una sacra insegna
portata addosso. Significava prima di
tutto condivisione di una particolare
veduta del mondo e appartenenza a
una comunità. Il suo contenuto faceva
riferimento a un incorruttibile insieme
di simboli, di valori, di pratiche e di
rituali profondamente intrecciati – una
cultura, in una parola – che dava forma
e sostanza all’intera esistenza umana
all’interno di un gruppo ben definito.
E oggi, oggi che il mondo è raccontato
dalla scienza e dal gossip, come
funziona?
Funziona che ciascuno si sceglie il
tatuaggio per conto suo dal catalogo
universale dei simboli: cristiani, islamici,
induisti, buddisti, pagani, wiccan,
massoni, celtici, rune, il linguaggio
segreto dei fiori, farfalle insetti serpenti,
proteine famose, ritratti di grandi
uomini, quello che ti pare. Il contenuto
è un puro vezzo estetico, non vuol
dire più niente davvero. Non significa
più alcuna condivisione o coesione di
gruppo, alcuna appartenenza; anzi,
semmai entra in competizione con i
tatuaggi degli altri: vinca il più bello, il
più esteso, il più colorato. Sì, esiste del
tatuarsi di massa una specie di flebile
cultura: si condivide il fatto di portare
un tatuaggio; però l’enorme diffusione
della moda l’ha dilavata ormai del
tutto. Non è più legato ad alcun
complesso inviolabile e stabile di valori,
bensì frutto di una scelta contingente,
provvisoria, sradicata, divisa da ogni
altra scelta di quel gran mucchio che
la nostra splendida libertà ci richiede
di fare ogni giorno. Detergente alla
passiflora o all’aloe? Thai boxing
o aikido? Botox o lifting? Pensione
integrativa o assicurazione?
Però il tatuaggio è una risposta che
resta per sempre, e stride in mezzo
alle altre risposte precarie con
un’inconciliabilità che fa molto pensare.
Come perdersi il sorriso di pensare,
di fronte alla balda gioventù istoriata
in spiaggia, ai vecchi che saranno un
giorno con la pelle floscia tutta colorata
e le immagini squagliate dal tempo
40
come Dalì viventi? Le cose vanno molto
veloci e lontane, adesso, il tatuaggio
sembrerebbe così inadatto a questi
tempi; ma non sarà proprio per questo
che è tanto desiderato? È il sogno di
un freno a mano: fermate il tempo!
E siccome capiamo benissimo questo
sogno, non lo vogliamo ostacolare.
Anzi. Visti tutti i rischi igienici del caso,
consigliamo di far da soli.
Chiunque può acquistare una tattoo
machine – che prima di tutto è uno
splendido oggetto tecnologico che
fa pensare a un’arma di fantascienza
concepita da H. R. Giger o Philip K.
Dick – e imparare a usarla con un
tutorial trovato in rete o con uno dei
tanti manuali reperibili in libreria.
In mezzo a impugnatura, armatura
esterna, serbatoi per l’inchiostro e vari
regolatori meccanici, campeggiano
le bobine elettromagnetiche che
servono a imprimere alle punte la
percussione intermittente, e gli aghi
che imbevuti di inchiostro per capillarità
lo depositano nel derma dopo avervi
scavato un alveo microscopico. Di
contro all’omogeneità dei meccanismi,
le marche sono parecchie e la scelta di
fogge davvero ampia, con prezzi che
vanno dai 65 ai 300 euro. Tra le tante,
a noi sono piaciute più le preziose
Mao Machines di fascia alta (285
euro), tutte contraddistinte da acciaio
carbonato, fattura a mano, bobine
trasparenti e alta risoluzione; e la
misticosinuosa Sacred Heart in edizione
limitata di Lauro Paolini, in ottone
cromato e finiture smussatissime (290
euro su tattoo-machines.com).
E se uno proprio proprio non ha il
coraggio? Una scappatoia c’è: tatuaggi
per il cellulare. Ti scarichi un tribale
come wallpaper, ed è fatta. Del resto
non siamo affatto lontani dalla verità
che il cellulare sia ormai una parte
del corpo. Una parte con un grande
vantaggio: si può facilmente sostituire.
di Stefano Diana
a tecnologia molto avanzata che incorpora
un chip e un minischermo flessibile. Pagando
con la card, che sotto ogni altro aspetto è una
normale carta di credito, ad ogni acquisto lo
schermo dovrebbe informare il proprietario
delle conseguenze ecologiche del suo acquisto
e rendicontare il corrispondente esborso di
ecocrediti.
Alcuni hanno criticato questa proposta perché
sembra spostare le gravose responsabilità
dell’inquinamento sui singoli cittadini, laddove
l’attenzione andrebbe concentrata sull’industria
e sugli altri grandi inquinatori. Secondo noi,
invece, l’idea è ottima per due ragioni. La
prima è che di fronte a condizioni che destano
ormai un allarme irreversibile e globale, e alle
prese con dimensioni della popolazione umana
che funzionano da eccezionale amplificatore
degli effetti di diffuse pessime abitudini
individuali, anche il comportamento dei singoli
va assolutamente educato a una maggiore
solidarietà con l’ambiente; e l’iniziativa di
Miliband fa assumere allo Stato il ruolo positivo
che gli compete in questa missione. La seconda
ragione è che con essa si assegna d’autorità,
finalmente anche agli occhi dei consumatori
finora corteggiati e incondizionati, un valore
misurabile all’aspetto ambientale degli scambi
economici; e questo è un passo indispensabile
nella direzione di un nuovo rapporto con
l’ambiente che deve diventare necessariamente
più consapevole per ciascuno. Niente più diritti
senza doveri.
Nel film-documentario The Corporation, un
broker di materie prime racconta candidamente
che tra i dati di trend che i professionisti della
sua categoria ricevono ogni giorno, in base
ai quali decidono se acquistare o vendere per
conto dei loro clienti e incassare la commissione,
non c’è nulla che riguardi l’ambiente; «quindi
per noi semplicemente… non esiste!» È chiaro,
come è chiaro che c’è sotto un errore strutturale.
Purtroppo, come dice Ronald Wright nel
suo recente Breve storia del progresso, «la
nostra presenza è talmente colossale che non
possiamo più permetterci il lusso dell’errore».
Il ministro dell’Ambiente inglese, David Miliband, ha
proposto un’idea per applicare al mondo consumer
criteri esecutivi di salvaguardia dell’ambiente molto
simili a quelli che nel Protocollo di Kyoto ci si sforza
di far adottare ai Paesi più sviluppati, e al mercato
dei diritti di emissione per le industrie che esiste in
Europa.
Miliband immagina che un’apposita agenzia
governativa, una sorta di banca speciale, assegni
ad ogni cittadino una certa dotazione di moneta
che chiama “punti-carbone”. Questa valuta circola
accanto a quella tradizionale, indipendentemente
da essa, e serve esclusivamente per pagare il
valore ecologico di un bene acquistato. Il costo dei
beni in punti-carbone è proporzionale all’impatto
sull’ambiente, diretto o indiretto: i beni più gravosi
per le risorse naturali costano di più e quindi
consumano più rapidamente il credito ricevuto. Ad
esempio, per fare un viaggio in un’auto a benzina
si spenderebbe molto di più che per farlo in treno.
In questo modo lo Stato sarebbe in grado di tenere
traccia dei comportamenti dei consumatori e di
imporre delle regole al gioco: da una parte stabilire
dei limiti ai punti spendibili e far pagare penali per
il loro superamento, pertanto frenando le abitudini
più inquinanti; dall’altra premiare i cittadini più
virtuosi che potrebbero rivendere allo Stato i punti
risparmiati.
Veicolo di questa interessante politica, una smartcard
41
Chi ci protegge dalla libertà?
Wikipedia, l’enciclopedia on line più cliccata al mondo ha blindato
alcune delle voci più controverse
Jimmy Donal “Jimbo” Wales, oggi
quarantenne, coadiuvato dal suo
fidato collaboratore Larry Sanger, è
riuscito a trasformare un’idea semplice
e un po’ bizzarra, in un progetto
dai grandi numeri, confermando la
logica secondo cui le idee che hanno
enormi conseguenze sono spesso
idee semplici!Il lungimirante Jimbo, con
l’obiettivo di offrire ad ogni individuo
accesso libero a tutta la conoscenza
umana, gratuitamente e nella propria
lingua, intraprese il suo promettente
quanto allora inverosimile percorso.
Serviva però uno strumento. Il modello
dei wiki - software collaborativi e
siti web dove è possibile modificare
contenuti - diffuso qualche anno prima,
ben si prestava allo scopo. Chi non
conosce Jimmy Wales, avrà comunque
capito ormai di cosa stiamo parlando.
Si tratta di Wikipedia, la più
grande, libera, gratuita e discussa
enciclopedia on line, fatta dalla
collettività, per la collettività. Il nome
è nato come neologismo dalla fusione
del vocabolo hawaiano Wiki che
significa “veloce” e il termine “pedia”
suffisso di enciclopedia che in greco
significa “insegnamento”. Attraverso
tale strumento, i navigatori avrebbero
potuto offrire il proprio apporto
intellettuale su qualunque argomento,
mettendolo a disposizione di altri
navigatori. Come in un grande puzzle,
il grande mondo della conoscenza ha
così cominciato a prendere forma sotto
la mano di sconosciuti internauti che,
con pazienza e devozione, tentativi ed
errori, incastrano quotidianamente e
“sapientemente” tante piccole sagome
in un armonico insieme. In Wikipedia
tutti possono spiegare il significato di
di un’evoluzione nella tecnologia, ma di
una trasformazione sempre più radicale
dell’approccio alla Rete. L’esplosione di
contenuti creati da utenti, poi riutilizzati
e modificati si basa sul concetto di
collaborazione, di interazione sociale,
di condivisione dei dati.
La distinzione tra Web 1.0 e 2.0
è un po’ quella che separa la
nostra Wikipedia dall’Enciclopedia
Britannica. Unilaterale quest’ultima e
multidirezionale la prima.
Nel Web 2.0, di cui Jimbo già alla
fine del secolo scorso aveva colto
l’essenza e presagito le innumerevoli
potenzialità, i contenuti e le
informazioni passano per l’interazione,
si arricchiscono di apporti multiformi
e seguono percorsi reticolari: dalla
creazione alla pubblicazione su un
sito, alla rielaborazione su un blog,
alla divulgazione su un’enciclopedia
collaborativa, all’identificazione di un
social network, per un solo grande
scopo: la conoscenza condivisa. Come
si suol dire “Sapere, Fare, Saper Fare,
Far Sapere”!
L’acido desossiribonucleico
dell’enciclopedia più cliccata
di Stefania Capaccioni
Un ingegnoso giovane, uno dei più
importanti fenomeni sociali del web
quindi una forma di “governo delle
informazioni” indubbiamente diversa
dalla democrazia. Riduzione della
democrazia digitale o necessaria
protezione dall’anarchia? Certo,
qualunque sia l’indirizzo preso
dall’enciclopedia collaborativa
resta ferma la sua lodevole filosofia:
condividere quanto più sapere possibile
con l’intera umanità.
una nuova voce o modificare quelle già
esistenti, secondo un modello - neo e
virtù allo stesso tempo - di progressivo
arricchimento e accuratezza.
Basta andare sul sito http://it.wikipedia.
org per lasciarsi affascinare dalla
semplicità con cui si può conoscere,
contribuire, navigare tra link di
informazioni o curiosità proprie di una
tradizionale enciclopedia, ma anche
di almanacchi, dizionari geografici e
di attualità, nonché creare ex novo
le più disparate voci enciclopediche.
Questa libertà ha portato milioni di
persone in tutto il mondo a consolidare
un forte senso di appartenenza alla
comunità wikipediana, in costante
aumento ovunque. Oggi Wikipedia è
diventata un colosso della rete che
contribuisce considerevolmente alla
circolazione del sapere; viene citata da
più parti come fonte e ha una assidua
presenza ai primi posti dei principali
motori di ricerca. Se poi si considera
che solo i primissimi risultati ottenuti
dalle ricerche con tali motori vengono
solitamente consultati, si evince quale
sia l’importanza ricoperta da Wikipedia
nell’attuale circolazione del sapere.
Da grandi poteri derivano grandi
responsabilità
Come spesso accade di fronte ai
grandi fenomeni, però, critiche e
polemiche non sono mancate. Un coro
di voci più o meno autorevoli si è
alzato più volte gridando “all’untore!”
e giudicando le ambizioni di Wikipedia
rischiose ed azzardate. Da più parti
si sono sollevate voci tipo “come
si può pretendere di costruire il
sapere scientifico con il contributo di
chiunque?” Inaffidabile, assolutamente
non autorevole, fuorviata da pregiudizi
42
personali e soggetta a vandalismi
di sorta: questi i colpi di accetta
costantemente inflitti dai critici più
aspri. La stessa Wikipedia riconosce
la non autorevolezza dei contenuti
nell’immediato, ma presenta questa
lacuna come limite superabile grazie a
un modello di Darwinismo Sociale: la
possibilità di revisionare e correggere
articoli, sarebbe in grado di far
sopravvivere gradualmente solo le voci
corrette.
Il “punto di vista neutrale” inoltre,
condizione ritenuta non negoziabile che
gli enciclopedisti wikipediani devono
rispettare per inserire i loro contenuti,
aiuterebbe il raggiungimento dello
scopo senza passare per infinite guerre
a colpi di correzioni. Ma la delicatezza
di questioni politiche, ideologiche e
culturali mista a quella legge universale
che vede “la procreazione infinita di
alcune inconfondibili specie di esseri
umani”, ha reso questo non sufficiente
ed ha costretto Jimbo a correre ai ripari.
Dopo alcuni atti vandalici compiuti su
biografie di personalità più o meno in
vista, Wikipedia ha deciso di blindare
alcune voci, rendendone talune – come
Cuba, Kosovo, diritti umani nella
repubblica Cinese, Islam, Antisemitismo,
elezioni 2004 nell’Ohio – totalmente
non editabili ed altre – come Gay,
Dio, Ku Klux Klan, 11/09, sesso – solo
parzialmente modificabili.
Wikipedia, per quanto imponente
come fenomeno web, non esaurisce
le tipologie di siti collaborativi in cui
la condivisione di contenuti costituisce
l’ossatura principale.
Tale strumento rappresenta un
bell’esempio di un’importante
evoluzione dell’utilizzo della Rete da
parte di internauti e tecnocrati, che
vede da qualche anno il passaggio
dalla semplice fruizione passiva
alla partecipazione. Condivisione
e collaborazione sono alla base di
quella che ormai da qualche tempo
viene definita “la nuova era di internet”
altrimenti detta Web 2.0. Non si tratta
©
Per saperne di più:
Wikipedia nacque nella sua prima versione – in
inglese – il 15 giugno 2001.
A tutt’oggi è pubblicata in 230 lingue in tutto il
mondo con un numero complessivo di oltre 5 milioni
di voci.
Le sue edizioni più grandi sono, in ordine
decrescente, quelle in lingua inglese, tedesca,
francese, polacca, giapponese, olandese, italiana.
Attualmente la versione italiana ha superato le
197.000 voci con una crescita media di 10.000
nuovi articoli al mese. Non mancano anche mini
enciclopedie in dialetto: dal friulano al siciliano
passando per il sardo e il romano, attive comunità
che cercano di preservare e diffondere le tradizioni
locali.
Forse il modello di perfetta democrazia
del sapere si è un po’ incrinato.
Contatti:
L’addetta stampa di Wikipedia Italia è Frieda
Brioschi
[email protected]
l’addetta stampa della Wikimedia Foundation è
Elisabeth Bauer [email protected]
il fondatore di Wikipedia è Jimmy Wales
[email protected]
D’altronde qualcuno si chiede quale
criterio guidi questo inasprimento; la
scelta di alcune voci e non di altre già
di per sé rappresenta un giudizio di
valore, quindi una scelta soggettiva
alla quale la comunità deve sottostare,
43
“”
Roma Giorgio è un ragazzo di 15 anni. Terzo figlio di
Roma.
una coppia di immigrati africani, a 11 anni ha iniziato
ad avere problemi di varia natura, che nel giro di un
paio di anni hanno spinto i genitori a rivolgersi ad
una struttura pubblica della propria città per avere un
sostegno terapeutico. E’ iniziato così, poco più di due
anni fa, il suo percorso di riabilitazione e il suo incontro
con un compagno adulto.
Quando iniziò il lavoro, Giorgio faceva da alcuni
mesi psicoterapia, ed era un ragazzo difficile. Il suo
malessere era caratterizzato da una grande passività.
Nessun interesse, nessun hobby, niente amici, niente
sport. Mai un’impennata di gioia o di rabbia. Alla base
di questi comportamenti un grande conflitto di natura
culturale tra la cultura italiana e l’ortodossia dei genitori
alla propria cultura di origine. E’ cominciato così un
percorso che, in affiancamento alla psicoterapia, si
proponeva di riportare il ragazzo ad una vita sociale
attiva e soddisfacente.
Gli incontri con il compagno adulto erano due a
settimana di circa tre ore l’uno. Col compagno adulto
Giorgio ha iniziato a passare più tempo fuori di
casa, ad esperire nuove situazioni in una modalità
rassicurante. Lunghe passeggiate, sala giochi, cinema,
mostre, fiere e luoghi molto frequentati, sempre alla
costante ricerca di socialità. E poi grandi chiacchierate,
volte a soddisfare curiosità, a mitigare paure ed
incertezze in nome di una crescente complicità. Questo
è stato per poco più di un anno l’asse portante del
rapporto tra Giorgio ed il suo compagno.
E pian piano la passività ha iniziato ad attenuarsi.
Già dopo un mese iniziava ad essere Giorgio stesso a
proporre cosa fare ad ogni incontro ed a decidere dove
andare. I progressi sono stati molto lenti e graduali, ma
c’è stata l’opportunità di consolidare costantemente ed
empiricamente ogni passo avanti fatto da
Giorgio con il terapeuta.
E così certe sue ossessioni si sono attenuate fino quasi a
scomparire e gioia, rabbia ed entusiasmo hanno rubato
il passo all’astenia e alla passività
passività. Con il suo compagno
adulto si è confrontato alla pari. Ha imparato a vincere
e a perdere. Ad avere pazienza, ad aspettare gli altri e
ad avere fiducia in loro. E soprattutto nei propri genitori.
Dopo un lungo cammino, ormai terminato, Giorgio vede
la sua cultura di origine non più con rifiuto ma con
interesse, manifestando l’intenzione di andare in viaggio
a visitare i nonni e la città natale dei propri genitori.
Oggi è un ragazzo sereno. Timido, ma con gli strumenti
necessari a disposizione per affrontare con successo
l’adolescenza che gli resta dinnanzi.
Il compagno adulto
Un modello possibile per il reinserimento sociale dei giovani
di Marco Romagnoli
Essere genitore significa affrontare un lungo percorso ad ostacoli. Avere un ruolo che si può interpretare
secondo infiniti modelli, nessuno giusto davvero, nessuno sbagliato. E’ questione di relazione, di rapporti,
di sottili equilibri basati spesso sul non espresso, sul non detto. E così può accadere che a metà del
cammino, in quello che è forse il periodo più delicato della vita di un figlio, e cioè l’adolescenza, il nostro
ruolo di genitore possa entrare in crisi. Ci confrontiamo con problemi di cui non sappiamo se essere causa
o soluzione, vediamo un ragazzo in difficoltà e non troviamo il giusto canale di comunicazione.
Ci chiediamo inevitabilmente se è tutto normale, se passerà o se si tratta di problemi gravi. Ci si mette in
discussione come figura di riferimento e si cerca aiuto.
Il principale supporto in queste situazioni è ormai da
quasi un secolo lo psicoterapeuta. Certo, le cause dei
problemi di un adolescente sono le più varie, e si va
dalla patologia mentale vera e propria alla semplice
difficoltà di crescere, di cambiare; ma una figura
professionale di questo genere è l’unica a saperci
indirizzare al meglio in un periodo in cui la navigazione
è a dir poco a vista. Il terapeuta cura con l’approccio
ed il metodo più appropriato i problemi di un figlio e
al tempo stesso costituisce un valido supporto per i
genitori.
Ma la domanda che in queste pagine più ci preme fare
è: “ee dopo”?
La fase di riabilitazione di un adolescente,
il reinserimento corretto nel contesto sociale di
riferimento è una fase di cruciale importanza e il
ragazzo vi si trova spesso solo.
“Cinema, sport, passeggiate, lettura e
videogiochi sono esperienze semplici
la cui condivisione può rivelarsi
estremamente utile e costruttiva”
l’adolescente, durante o dopo il percorso terapeutico,
individua gli strumenti necessari per relazionarsi con
successo con il proprio mondo di riferimento, con i
coetanei, i genitori, la scuola.
Il compagno adulto rappresenta una “palestra sociale”
attraverso il quale acquisire sicurezza e allenarsi per
una corretta e totale riabilitazione.
Al ritmo di un paio di incontri settimanali, l’adolescente
ed il suo compagno riprendono una attiva esplorazione
della vita attraverso le più comuni situazioni di
vita sociale. Cinema, sport, passeggiate, lettura e
videogiochi sono esperienze semplici la cui condivisione
può rivelarsi estremamente utile e costruttiva. Il
compagno adulto è infatti una figura matura che si trova
a metà strada tra il ragazzo ed i propri genitori. E’ una
figura solida e rassicurante, ma al tempo stesso diversa
dall’immagine genitoriale. In un’età in cui il ragazzo
può essere schiacciato dall’esigenza di perfezione o
dal rifiuto conflittuale della strada indicata dai propri
genitori, egli si inserisce semplicemente come un
“modello possibile”. E rappresenta agli occhi del giovane
uno dei tanti modi possibili in cui potrà evolvere con la
crescita, stemperando le paure che le aspettative per il
futuro possono creare. Si relaziona col ragazzo in modo
paritario, allentando i timori e le insicurezze, come
mezzo attraverso il quale sperimentare comportamenti e
sentimenti (rabbia, amicizia, gioia, paura) che potrà poi
riproporre correttamente con i propri coetanei.
Nel rapporto con lo psicoterapeuta il compagno adulto
si è rivelato efficace su due distinti livelli.
Ad un primo livello egli con il suo apporto permette al
E’ così che nacque circa venti anni fa una nuova
figura professionale, studiata per affiancare prima e
completare dopo, il lavoro dello psicoterapeuta: il
compagno adulto.
Figura dal nome poco accattivante, il compagno
adulto è solitamente una persona matura, con un
percorso umano e sociale rilevante e una formazione
professionale che può essere di varia natura:
sociologica, psicologica, o anche pedagogica. Il suo
ruolo è perfettamente complementare a quello del
terapeuta, ma al contrario di quest’ultimo non svolge
la sua attività tra le mura di uno studio, bensì nella
vita quotidiana del paziente. Gli incontri del ragazzo
con il proprio compagno adulto rappresentano una
continua condivisione di esperienze attraverso il quale
“Gli incontri del ragazzo con
il proprio compagno adulto
rappresentano una continua
condivisione di esperienze”
44
terapeuta di lavorare più proficuamente con il paziente.
Lo esenta infatti dalla soddisfazione di tutta una serie di
esigenze che la curiosità adolescenziale riverserebbe
altrimenti sulla sua figura. I ragazzi infatti hanno grande
curiosità ed il lavoro di natura teorica e simbolica tipico
del terapeuta può risultare loro noioso e faticoso. Hanno
bisogno di condividere interessi e soddisfare tutte le
curiosità relative alla sua età: sulla vita, sull’amicizia,
sull’amore o perché no anche sul sesso. Il compagno
adulto subentra a soddisfare tutta questa serie di
esigenze pratiche, configurando quindi un’ottimizzazione
complessiva del lavoro di riabilitazione. Terapeuta e
compagno adulto quindi. Teoria e pratica.
Ad un secondo livello, il compagno adulto svolge
il compito vero e proprio di reinserimento sociale.
Spesso periodi di difficoltà nella crescita, che come
abbiamo detto a volte portano alla ricerca di un
sostegno medico, si concretizzano in una sorta di
“mutismo sociale” dell’adolescente. Ore ed ore davanti
ad internet o ai videogiochi, difficoltà a fare nuove
amicizie, rifiuto della scuola o di praticare sport
aumentano la distanza del ragazzo dal proprio mondo
dei pari. Distanza che un adolescente che anche ha
finito il percorso terapeutico può avere grande difficoltà
a colmare. Qui si trova il cuore della professione del
compagno adulto, qui si colloca la palestra sociale di cui
abbiamo parlato. In una piccola zona dove il terapeuta
non può arrivare e dove i genitori sono spesso ospiti
non graditi, trova il suo posto il compagno adulto, che
accompagnerà il ragazzo nella riappropriazione della
propria vita e della propria adolescenza.
“La fase di riabilitazione di un
adolescente, il reinserimento corretto
nel contesto sociale di riferimento è
una fase di cruciale importanza e il
ragazzo vi si trova spesso solo”
45
La potenza degli dei,
l’impotenza dell’uomo
Un caso di dipendenza da Internet
di Manuela Romagnoli
Asia è una ragazza di sedici anni. Molto bella, di una
bellezza nascosta dall’incertezza di essere diventata
donna. Capelli legati, niente trucco, jeans e felpa che
coprono ogni sessualità, aggressività da capobranco.
Apparentemente disinvolta, socievole, in realtà ritirata,
schiva, dipendente da internet.
Giorno dopo giorno la sua vita è scandita dal monitor
che le permette l’accesso ad un mondo parallelo,
nascosto, potente, al mondo degli dei.
In internet c’è la sua vita virtuale, la sua seconda
identità, quella scelta da lei, svincolata dalla crescita,
dai cambiamenti del corpo, dalla timidezza.
In rete Asia è diversa , si tramuta, diventa un uomo: un
ragazzo più grande, brillante, amato.
Per due anni lo ha fatto crescere, incontrare, baciare,
dalle centinaia di persone che come lei si collegavano
alla rete. Ha rinunciato a tutto per tenere in vita lui, il
ragazzo che voleva amare ma che la vita con i suoi
limiti assurdi ha fatto morire a diciotto anni.
Perché affrontare il lutto, la colpa, perché accettare
quello che non c’è più, potendo sostituirsi ad esso e
magicamente tenerlo in vita?
In compagnia di ‘complici inconsapevoli’ di un benevolo
delirio, comparse di una società che rinuncia volentieri
alla saggezza per l’onnipotenza infantile.
Internet, il mezzo che ci ha permesso il più grande
salto spazio temporale che si potesse sperare, seduce
con le sua voce e con le sue possibilità. Ci permette
di sperimentare l’anonimato, di spiare, di mettere a
volte sotto scacco quella piccola coscienza morale che
sostiene la vergogna.
Ma tutto questo ha un rischio e un costo, il costo di
navigare in un mondo fatto per gli dei, un mondo
onnipotente.
numero accettabile dei buchi sul corpo.
Oggi è così.
O peggio, al posto dell’intolleranza per l’immaturità
dell’adolescenza si sostituisce il gusto per qualcosa
che oggi si può fare, ieri no. E allora l’orecchino al
sopracciglio, il tatuaggio sulla schiena, divengono
simbolo di trasgressione, di libertà rubata alla moralità
condivisa.
Ma non potrebbe essere che quel tatuaggio nero sul
collo, quel buco largo un centimetro che allarga il lobo
dell’orecchio non stia lì a sancire un passaggio, lo stesso
passaggio che i ‘grandi’ avrebbero, in altre culture e
in altri tempi, operato per aiutare a crescere, per non
tornare indietro e diventare?
La crescita, la forza, il matrimonio, il lutto, la sessualità,
la sottomissione, il sacrificio, un simbolo per ogni
passaggio, per ogni individuazione, un simbolo visibile,
sulla pelle, per tutti.
Oggi non esistono riti di passaggio perché il concetto di
passaggio e quindi di tempo lineare è stato sostituito dal
concetto di tempo circolare e per questo ‘eterno’.
Ripetizione, reversibilità, nuova occasione, seconda
adolescenza.
Sbagliare, cancellare, ripetere.
Il suo personaggio, che tenendola incollata alla
rete più di dodici ore al giorno le ruba la sua
vita, non è solo un altro Sé, ma è l’esempio più
evidente che la nostra società offre la soluzione
al dolore, al lutto, alla rinuncia, offre l’elisir della
vita eterna
L’onnipotenza non è più prerogativa degli dei, e d’altra
parte se rinunciare non porta più con sé nessun valore
aggiunto, nessuna gratificazione, se l’impotenza non
è assoggettata ad un ideale, non è condivisa, sancita
dalla società e apprezzata, perché l’uomo dovrebbe
assoggettarsi ad essa, comprenderla e tollerarla?
Se un limite, un dolore, non è stato celebrato, visto,
riconosciuto per quanto tempo potrà essere accettato se
non per il tempo che da esso ne deriva un vantaggio?
E soprattutto che limite è se posso superarlo?
La potenza degli dei, l’impotenza dell’uomo.
In questa visione del mondo accettare i propri
limiti diventa un atto di coraggio, di dignità, di
riconoscimento. Ma la cultura dei riti di passaggio,
delle iniziazioni, della sottomissione alle forze naturali,
è svanita tramortita dalla vertiginosa velocità con cui
la scienza ha attraversato il ventesimo secolo.
Padri che osservano svalutanti il piercing sulla lingua
della figlia contrattando, con scarsa sopportazione, il
46
47
Percorsi di lettura
Tra sé digitale e società digitale.
di Lucio D’Amelia
di squatters americani ed europei negli anni Novanta. Ma
l’elemento cardine del sé digitale, permesso dall’evoluzione
della rete, è la propria rappresentazione nel Web sotto
forma di sito personale e, più recentemente, di blog.
Granelli rimanda al suo sito personale (www.agranelli.
net), attivo come archivio elettronico personale dal 1983
e presente su Internet dal 1995: in esso sono riversati
quotidianamente pensieri, riflessioni, letture, giudizi che
l’esperienza pratica suggerisce, costituendo una “memoria
estesa” strutturata attraverso aree informative e attraverso
associazioni con gli elementi preesistenti.
Il ragionamento si svolge in due parti: nella prima si
ricostruisce la grammatica dei network che permette alla
società digitale di disegnarsi dal basso, senza un controllo
centralizzato e pur tuttavia con una prospettiva di sviluppo,
e si richiamano alcune tappe fondamentali del processo
(dall’etica hacker ai giochi in rete Multi User Dungeon
- MUD, da Google e Yahoo all’economia del dono,
fino all’esplosione dei blog testuali o della condivisione
audiovisiva su Flickr e YouTube). Nella seconda parte la
riflessione verte sulle “cose che cambiano”: la conoscenza
in primo luogo, e poi il sistema dell’informazione, l’equilibrio
dei mercati, l’identità digitale e il mondo della politica.
L’ostacolo alla costruzione del sé digitale, poi, non è
rappresentato dai limiti di complessità e di sicurezza della
tecnologia, ma dalle paure che tale rappresentazione
innesca. La storia psicologica del “doppio” dimostra infatti
che esso è assurto a emblema minaccioso in grado di
ossessionare e annichilire l’io reale.
“Gli esseri umani – scriveva nel 1999 Tim Berners-Lee in
Weaving the Web – vivono in un equilibrio naturale tra
la parte analitica e quella intuitiva del cervello. I grandi
problemi analitici li risolveremo scatenando la potenza dei
computer sui dati concreti della Rete Semantica.
Invece, far scattare di livello l’intuito è difficile perché la
nostra mente contiene migliaia di associazioni effimere
nel medesimo tempo. Per facilitare l’interattività di gruppo,
il Web dovrà catturare questi fili, i mezzi pensieri che
nascono mentre lavoriamo senza deduzioni o logiche
evidenti, e presentarli a un altro lettore come complemento
naturale a un’idea informe. Funzionerà solo se ognuno
crea link mentre naviga, perciò scrittura, creazione di link
e navigazione devono essere totalmente integrati. Se
qualcuno scopre un rapporto ma non crea link, lui ne saprà
di più, ma il gruppo no”.
Per quanto riguarda la conoscenza e il sistema
dell’informazione, i cambiamenti sono dovuti al crollo delle
barriere all’entrata: “non c’è più bisogno di sostenere costi
enormi per diventare editori di testo, audio e video. E
con il crollo delle barriere viene a mancare la selezione
a monte delle voci” (p. 112). Un analogo fenomeno di
disintermediazione avviene sui mercati economici, ora
popolati da consumatori e utenti che non solo raccontano
le loro esperienze e le pubblicano, ma producono
(personalizzando i prodotti/servizi) e distribuiscono le
risorse digitali (secondo la logica del peer to peer).
Così, in due libri pubblicati di recente, si cerca di
sistematizzare la considerazione dell’era digitale a livello
del sé individuale e della struttura sociale. Tra gli autori di
riferimento, in entrambi i casi, troviamo Derrick de Kerckove
e Pierre Lévy, teorici rispettivamente dell’intelligenza
connettiva e dell’intelligenza collettiva; il quadro espositivo
spazia tra letteratura, psicologia, sociologia e politica, con
un ruolo subordinato delle tecnologie dell’informazione.
La maturità della dimensione di rete tende a (ri)fondare il
discorso dell’identità e della struttura sociale alla luce del
mondo virtuale e dell’always-on dei nostri giorni.
Andrea Granelli (Il sé digitale, Guerini, Milano 2006,
€ 19,50),
19,50) manager e studioso delle innovazioni
architetturali, esamina un’ampia letteratura dall’epoca
classica greco-romana fino agli esiti del post-umano,
per individuare l’emergere del sé digitale, a partire dal
fenomeno della virtualizzazione individuale che non
costituisce “una derealizzazione, ma un cambiamento di
identità” (secondo gli insegnamenti di Lévy).
Il Web nasce all’inizio degli anni Novanta per realizzare
l’utopia di uno spazio che fosse al tempo stesso
ipertestuale e ipermediale, informativo e interattivo,
ma soprattutto relazionale e intercreativo. Una seconda
citazione sempre dal testo di Berners-Lee del 1999:
“La mia definizione di interattivo non comprende solo la
possibilità di scegliere, ma anche quella di creare. Sul Web
dovremmo essere in grado non solo di trovare ogni tipo di
documento, ma anche di crearne, e facilmente. Non solo
di seguire i link, ma di crearli, tra ogni genere di media.
Non solo di interagire con gli altri, ma di creare con gli
altri. L’intercreatività vuol dire fare insieme cose o risolvere
insieme problemi. Se l’interattività non significa soltanto
stare seduti passivamente davanti a uno schermo, allora
l’intercreatività non significa solo starsene seduti di fronte a
qualcosa di interattivo”.
Non si tratta di una rivisitazione del mondo dei simulacri
o di quello dei cyborg, cari rispettivamente a Philip
Dyck e a William Gibson; né di una divagazione delle
ricerche psico-biologiche, i cui esiti sono pure presenti
nelle riflessioni dell’autore: per Granelli il sé digitale si
configura come uno spazio sulla rete che è al tempo stesso
“sintesi, strutturazione e organizzazione dell’informazione”,
e comporta un processo parallelo e aperto al mondo
dell’evoluzione dell’intera soggettività razionale ed
emotiva.
Il sé digitale si struttura a partire da una componente
interna, presente secondo il fisiologo francese della
percezione Alain Berthoz in ogni persona come “doppio
mentale del corpo fisico” e alla base della capacità di
decidere: attraverso questo schema siamo in grado di
“cambiare punti di vista” e di guardare la realtà secondo
prospettive originali e noi stessi sotto punti di vista diversi.
Sono passati quasi 25 anni dai primi browser ipertestuali e
più di dieci anni dal raggiungimento della “massa critica”
per il salto di qualità della rete Internet. Il sogno è diventato
realtà, al punto che si è parlato di un Web 2.0, ossia di
una nuova fase della ragnatela mondiale, dopo le sbornie
tecnologiche e finanziarie. Al punto che sono possibili
prime riflessioni sui cambiamenti prodotti dalla nuova sfera
connettiva sulle singole persone e sulle relazioni sociali.
Come esperimento precorritore Granelli ricorda Luther
Blissett, uno pseudonimo collettivo utilizzato da performer,
artisti, riviste underground, operatori del virtuale e collettivi
48
L’identità digitale è legata alla presenza sulla rete
attraverso i blog personali: così “un individuo privo di
blog o non riconducibile a un blog tende ad essere
percepito come portatore di un’identità debole” (p. 176);
il suo posizionamento è legato al numero di relazioni
che è riuscito a costruire e a mantenere, acquisendo una
“reputazione” simile a quella dell’artigiano di precedenti
epoche.
Questi cambiamenti, infine, potranno avere un riflesso sul
sistema della politica e della partecipazione democratica,
perché abbattono le barriere culturali per la libertà di
espressione, mettono a disposizione di tutti un patrimonio
ingente di conoscenza per comprendere e controllare le
scelte di indirizzo e di governo ai vari livelli. Il network
digitale diventa un campo di azione anche per i politici di
professione, modificando alla base le regole tradizionali
della comunicazione politica.
Il secondo libro (La società digitale, Laterza, Roma-Bari
2006, € 10)
10 ) prende le mosse da uno dei punti di arrivo
di Granelli: Giuseppe Granieri (www.bookcafe.net/blog/),
che ha pubblicato lo scorso anno, sempre per Laterza, un
saggio di successo sui blog (Blog Generation), si interroga
sugli esiti di un’architettura di rete che collega centinaia
di milioni di persone per condividere la conoscenza e
organizzarsi dal basso, fuori dei sistemi e degli ordinamenti
tradizionali.
©
Granieri conclude la sua esposizione con 95 tesi di sintesi sulla società digitale (pp. 172-180),
che sintetizzano in punti l’analisi svolta. Ne riproduciamo alcune particolarmente significative:
“11. I network digitali non possono essere descritti come un medium o come una semplice infrastruttura, perché
contengono al loro interno tutta la complessità di un sistema sociale.
12. Questo sistema sociale è quanto chiamiamo la società digitale.
25. La società digitale si nutre e si concretizza attraverso lo scambio delle informazioni e la costruzione delle
relazioni.
72. La società digitale, centrata sull’attività dell’individuo in tutti i settori, stimola la partecipazione politica e
aumenta le sue aspettative di essere ascoltato.
95. La società digitale è la più grande occasione di sviluppo che l’uomo abbia mai avuto. Abbiamo l’obbligo di
provare, tutti insieme a sfruttarla nel migliore dei modi possibili”.
49
una realtà ‘altra’. Ma un’esperienza
del genere richiede competenze
organizzative, cognitive e disponibilità
economica. In un contesto in cui la
rivoluzione dei trasporti rende
possibile l’estensione del viaggio
alla massa, il problema diventa come
renderlo accessibile al maggior numero
di persone possibile, di qualsiasi
background culturale ed economico.
Cercasi Tribù
“È proprio questa
idea del viaggio come
‘esperienza mediata‘ che
sta alla base della nascita
del turismo moderno”
La merce di scambio è l’esperienza
di Francesco D’Orazio
Ben Keene, appassionato di turismo
d’avventura, e Mark James, esperto
di comunità on line, hanno deciso di
giocare a Civilization. Niente di strano,
se non fosse che lo stanno facendo
nella realtà. In un’isola sperduta delle
Isole Fiji, e 25 minuti di barca dalla
costa dell’isola più vicina, i due inglesi
hanno trasformato una comunità
virtuale in un’esperienza reale immersa
nella giungla. Prendete l’idea dell’esilio
esclusivo dal mondo moderno di The
Beach, applicatelo ad un gruppo
di persone che hanno già stretto
relazioni interpersonali in rete in una
comunità tipo Myspace o in un mondo
virtuale sociale come Second Life;
aggiungete il coinvolgimento che nasce
dall’assunzione di un ruolo di gioco
e dalla consapevolezza che la storia
va avanti anche quando voi andate a
dormire o non state fissando il monitor
come in un MMORPG (massively
multyplayer on line role playing game)
tipo World of Warcraft; una volta messi
insieme questi ingredienti scaraventate
tutti su una vera isola tropicale deserta
come ne Il Signore delle Mosche,
o, meglio, in Lost, e otterrete Tribe
Wanted.
“Cercasi Tribù” è il nome di un
progetto integrato (comunità on line,
turismo estremo, web tv) che offre
la possibilità a cinquemila persone
sparse per il globo di entrare a far
parte di una tribù e vivere su un’isola
deserta presa in affitto dalla società
titolare del progetto per tre anni. Chi
vuole diventare membro della tribù
si iscrive sul sito del progetto come
Nomade, Cacciatore o Guerriero (tre
livelli di membership da 120 a 360
Sterline), entra così a far parte di una
comunità on line e ottiene il diritto di
abitare sull’isola per un massimo di 3
settimane l’anno. Da quando la tribù
si è riunita sull’isola, il 1° settembre
2006, il gruppo ha cominciato a
prendere le prime decisioni: dal
nome dell’isola all’elezione dei capi
tribù, dalle infrastrutture di base che
vanno costruite alle celebrazioni che
il gruppo dovrà osservare. Chi abita
l’isola viene filmato ma i contenuti
vengono trasmessi solo sul sito del
progetto e con accesso ristretto ai
membri della comunità on line. Tribe
Wanted è un ibrido che integra una
serie di idee centrali nella realtà
contemporanea: la socialità tribale,
il turismo avventuroso, l’esposizione
mediale dell’esperienza personale,
la socialità della rete e la volontà di
dare corpo a legami comunitari basati
esclusivamente sulla condivisione
di passioni e interessi. Ma che cosa
stanno vendendo esattamente i due
imprenditori britannici? E che cosa
comprano gli aspiranti membri della
tribù? Qual’è la merce di scambio?
Un volo? No. Un pacchetto vacanza?
No. Una capanna in riva al mare?
No. L’accesso ad un isola tropicale
50
Thomas Cook allora riscrive l’idea
del viaggio trasformandolo da atto
immersivo immediato, cioè senza
filtri tra viaggiatore e luogo, ad atto
immersivo mediato da un ‘autore’,
l’agente di viaggio, che organizza il
rapporto tra viaggiatore e luogo, lo
semplifica e abbassa il livello delle
competenze logistiche, cognitive e
della disponibilità economica richieste
al viaggiatore.
L’agente turistico di Cook è un
demiurgo che decide quali elementi
entreranno a far parte dell’esperienza
dell’’altrove’ e quali no, un fabbricante
di universi che costruisce una
membrana tra viaggiatore e luogo più
o meno sottile, a seconda dei casi, ma
comunque avvolgente. È proprio questa
idea del viaggio come ‘esperienza
mediata’ che sta alla base della nascita
del turismo moderno. Una logica
che farà un salto ulteriore negli anni
Cinquanta del Ventesimo secolo con
il Club Mediterranée, la corporation
francese che inventa la vacanza Total
All Inclusive. Laddove Thomas Cook
si pone come intermediario tra il
luogo e il viaggiatore, il Club Med
rimedia completamente il luogo del
viaggio ricostruendolo nel villaggio,
una realtà per così dire ‘aumentata’
che non è più il luogo originario ma
un ibrido tra quel luogo e una sua
ricostruzione tecnologica, cioè dotata
di infrastrutture, servizi e spettacoli
impiantati nell’ambiente originario
con l’obiettivo di ridefinirne la forma
abitativa. Con Tribe Wanted l’idea del
turismo come esperienza organizzata
fa un salto ulteriore.
“L’agente turistico è un
fabbricante di universi”
che non è privata? Chiaramente no.
La merce di scambio è l’esperienza.
Quello che Tribe Wanted vende è un
set di condizioni che garantiscono delle
possibilità d’esperienza.
“La merce di scambio è
l’esperienza”
La ‘vendita di esperienze’ ha una
tradizione relativamente breve che
ha origine proprio in Gran Bretagna
a metà del Diciannovesimo secolo
con l’invenzione del viaggio pubblico
organizzato. Il 5 luglio 1841 parte
l’Escursione di Thomas Cook da
Leicester a Loughborough e ritorno
(undici miglia); partecipano 570
persone che pagano uno scellino per
un pacchetto che include il trasporto
in treno (in terza classe, su carrozze
scoperte e prive di sedili chiamate
“vagonetti”), il pranzo e “uno spettacolo
di gran gala”. L’idea di Cook è
rivoluzionaria. Quando ha senso,
il viaggio è un’immersione totale in
51
Se Thomas Cook e Club Med
vendono ai loro clienti un’esperienza
esplicitamente ‘mediata’ e quindi
depurata del rischio dell’esperienza,
Tribe Wanted nasconde la mediazione
organizzativa e vende la simulazione
del rischio del confronto non mediato
con la realtà. Dal viaggio come
immersione attraverso uno scafandro
al viaggio come immersione con
mute sempre più sottili che fanno
percepire un gradiente maggiore delle
stimolazioni dell’ambiente circostante.
“Quello che tutte queste
proposte hanno in comune
è una nuova concezione
del bene di consumo”
Gli esempi in questo senso non
mancano: dai corsi di sopravvivenza
alle ‘cacce al tornado’, dal dark
tourism, che esplora i luoghi che
sono stati teatro di tragedie, stragi
e calamità, al turismo nelle zone
più pericolose del globo. Robert Y.
Pelton ha pubblicato recentemente la
nuova edizione di The World Most
Dangerous Places, e su Comebackalive.
com ha attivato il Dangerfinder, una
mappa dei luoghi più pericolosi del
mondo. Globaladrenaline.com offre
una serie di viaggi avventurosi più o
meno ‘estremi’ classificati per livelli
di difficoltà che vanno dal “facile”
all’“arduo”. La Incredible Adventures
Inc. offre esperienze di vario tipo
come volare su Mosca a bordo
di un MIG 29 o addestrarsi per
quattro giorni insieme alla squadra
speciale anti-rapimenti di Seattle.
La russa Armiya Tur (Army Tour) è
specializzata in turismo militare. Per
3000 rubli potrete vestire per 48 ore
i panni di una recluta in un campo di
addestramento militare russo. I tutor
sono veterani della guerra in Cecenia
“che hanno molta esperienza e sono
ansiosi di condividerla”. Quello che
tutte queste proposte hanno in comune
è una nuova concezione del bene di
consumo: non più un prodotto, non più
un servizio, ma un set di condizioni che
offre delle potenzialità di esperienza.
In una cultura basata sulla logica della
mediazione, in cui tanto il rapporto
col mondo naturale quanto i rapporti
sociali sono sempre più articolati dalla
tecnologia, la merce più preziosa
è l’immediatezza. Che sia reale o
simulata poco importa.
Seguendo il Falak:
La voce del destino
Fotografie: Stefano Triulzi
Testo: Federico Spinetti e Stefano Triulzi
Traduzioni dal persiano: Federico Spinetti
fino al 2002 nemmeno sapevo dove si
trovava il Tajikistan, solo mi ricordavo
di una guerra civile sanguinosa che lo
coinvolse dal 1992 al 1998.
Oggi dopo 3 viaggi nel paese, so
che la repubblica del Tajikistan è uno
stato indipendente nel cuore dell’Asia
centrale, che è il terzo paese con più
acqua dolce al mondo (dopo Russia
e Canada) e che tra le sue alte
montagne e le sue valli risuona ancora
la voce del falak,
falak letteralmente ” volta
del cielo” o “destino”.
“Il capitalismo genera il superfluo, e
siamo noi i primi a essere superflui“
Hannah Arendt
A introdurmi alla musica Falak fu
un caro amico, Federico Spinetti
etnomusicologo e professore
all’università di Edmonton in Canada.
Quando nel 2003 lo raggiunsi
per la prima volta nella capitale, a
Dushanbè, lui viveva da più di un anno
frequentando musicisti, condividendone
il quotidiano, e apprendendone la
53
lingua, il Farsì tajiko.
Insieme partimmo, con Muhammadali
Nurali noto poeta tajiko e
Muhammadvali Hasanov, musicista di
Falak, su di una UAZ, carica di benzina
e wodka, per un viaggio verso sud,
a ridosso del confine afgano nella
regione di Kulyab, da sempre tra le
aree più povere del tajikistan, che si
stende tra pianura e ampie valli cinte
dalle vette immense ai piedi del Pamir.
Qui ancora regna la tradizione
e l’impegno principale è il lavoro
nella casa , la cura dei campi di
frumento,degli alberi da gelso per i
bachi da seta,l’ ingrasso delle pernici
catturate, e accudire il poco bestiame.
Il buon vivere della comunità,
comunità così come
l’economia stessa del villaggio, dipende
non tanto dalla somma dei processi
individuali o dalle sfere private, ma
dall’intensa solidarietà comunitaria, del
lavoro in collaborazione, da estese
reti di legami familiari e di vicinato,
dall’autorità degli anziani.
A sud abbiamo viaggiato e soggiornato a
lungo, accolti in ogni casa come amici e ospiti
amati. “Benvenuto” era la parola più detta;
detta
l’ospitalità e uno dei doveri principe di un buon
musulmano e i Tajiki a ragione si fregiano d’averla
particolarmente a cuore.
Queste aree rurali sono il bacino vitale della
ricchissima tradizione musicale del sud.
La musica viene eseguita in occasione si matrimoni,
feste di circoncisione, in connessione al lavoro
agricolo o per genuina passione personale
nell’ambiente domestico o in compagnia di pochi
intimi.
Se tu verrai dinnanzi a me
Se tu verrai dinnanzi a me quando
ormai nella terra sarò sepolto
“ benvenuto” io ti dirò,
“benvenuto” ti dirò anche se dal
sudario sarò avvolto.
Il Falak (destino) è il genere di canto più diffuso
nel repertorio popolare del sud; si racconta che in
origine fosse eseguito lontano dal villaggio,
nelle pause di lavoro in tempo di mietitura o in alto
su un monte nella solitudine dei pascoli.
Poesia popolare
Canto di separazione per eccellenza, rivolgendosi
al cielo come una preghiera il falak dà voce a
profonda sofferenza, al dolore della lontananza da
casa e dalle persone care, allo strazio dell’esilio, al
senso della fragilità dell’esistenza.
Destino, sulla ruota tua mi hai
trascinato
Ero di Kulyab, fino a Balkh mi hai
trascinato
Ero di Kulyab e dolce acqua bevevo là
Dalla dolce acqua a quella amara mi
hai trascinato
Stefano Triulzi e Federico Spinetti hanno ideato un
progetto multimediale (musica, foto, documentari)
per preservare, divulgare e condividere le tradizioni
popolari del Tagikistan. Questo viaggio condiviso è
stato adottato dalla British Sound Library Archive che
distribuisce il CD musicale.
www.inthemiddleofasia.com
Poesia popolare
56
57
I vini dell’Alto Adige
Scusi,
cusi, dov’e’ l’uscita?
Per nulla comuni, ma fatti in comune
La mente è come un paracadute:
funziona solo quando è aperta
di Matteo Catoni
sommelier A.I.S.
DK photography
tardato a manifestarsi, perché alla fine i buoni propositi
e le belle parole contano poco se nel bicchiere non si
ha il necessario riscontro nel corso delle degustazioni. E’
opinione ormai diffusa che il primato nella produzione
dei vini bianchi italiani spetti a questa regione che,
anche nelle annate non di grazia, si attesta su una
qualità produttiva ottima, dimostrando come l’impegno
e la dedizione dei coltivatori attenti sia in grado di
colmare le bizzarrie di un clima non sempre clemente.
Basta assaggiare uno degli incredibili Gewurztraminer
(vitigno di cui la località Tramin rivendica la paternità
enologica) di queste zone per rendersi conto
dell’imponenza e della sontuosità di questi vini.
In particolare il Traminer Speziato (detto appunto
Gewurztraminer), riconoscibile già dai suoi acini che
presentano un’affascinante colore che spazia dal grigio
al rosso bruno, facendo parte della ristretta schiera dei
vitigni aromatici, è giocato inevitabilmente su dei sentori
donati dalla sua varietà (riconducibili in questo caso alla
rosa gialla). In questa zona però questo vino, grazie alla
particolare conformazione del terreno in cui spesso il
calcare la fa da padrone, riesce a sviluppare delle note
minerali incredibili ed uniche che lo rendono facilmente
riconoscibile ed apprezzabile. Non vanno inoltre
trascurati prodotti che si ottengono da altre qualità a
bacca bianca come il Pinot Bianco, lo Chardonnay ed
il Riesling che trovano in questa regione una terra di
adozione particolarmente vocata. Visitare la Strada del
Vino dell’Alto Adige, perdersi nelle stupende vallate,
rimanere affascinati dai colori e dai profumi di questa
terra, per poi ritrovarli e riscoprirli nel bicchiere, è
un’esperienza di cui nessuno dovrebbe privarsi.
Nicolas Mt
Jonathan J Mackintosh
Quando immaginiamo l’Alto Adige il nostro pensiero si
sofferma su paesaggi di montagna, su prati innevati,
su cime maestose e valli incontaminate, e sicuramente
questa regione, almeno a livello naturalistico, potrebbe
essere descritta in questo modo. Al contrario, se
cerchiamo di comprendere la situazione enologica di
questa luogo, il quadro generale risulta più complesso,
e sembra difficile afferrare la magia che sostiene
la realtà delle cooperative vinicole altoatesine. Un
semplice numero, appare in grado, in quest’occasione,
d’illustrare al meglio l’attuale situazione: il 75% della
produzione regionale proviene dalle Cantine Sociali,
da una miriade di soci che scrupolosamente seguono
le direttive dei Kellermeister (i responsabili enologi
delle varie cantine) ed ogni anno forniscono delle uve
incredibili per qualità e quantità. Il sistema cooperativo
è tanto semplice quanto funzionale: ogni vignaiolo,
a seconda dell’annata, del posizionamento del
vigneto e dalla sanità delle uve, riceve un pagamento
proporzionale alla qualità del prodotto che fornisce alla
cantina. I parametri per giudicare le uve presentate dal
vignaiolo vengono decisi dai tecnici dell’azienda e dai
produttori, che divengono quindi garanti e controllori
di loro stessi, creando una sana competizione che
cerca in ogni stagione di incrementare la qualità della
materia prima, parametro che rappresenta la vera e
propria pietra angolare per la fattura del vino che
verrà. Nel titolo si leggeva così lontano così vicino, ed è
chiaro il significato di queste parole se si pensa all’Alto
Adige come regione italiana è quindi territorialmente
vicina, ma lontana per la realtà enologica che si è
sviluppata, assolutamente priva del rovinoso e deleterio
campanilismo che anima molte zone del panorama
produttivo della nostra penisola. Condivisione è la
parola che esprime al meglio lo spirito che anima le
persone di quei luoghi; la volontà di muoversi nella
stessa direzione, puntando sugli stessi sistemi di
coltivazione volti alla qualità, essendo ben consci che in
questa situazione l’unione tra le parti non rappresenta
solo la somma delle stesse, ma quel quid in più che
rende unico nel mondo questo territorio vitivinicolo. A
conferma di tutto ciò le verifiche sul campo non hanno
di Mario Vigna foto di Sham Shahrin
Avete presente il tipico aspirante
suicida sul cornicione, con la folla
sotto che lo prega di rinsavire e
tornare sui suoi passi? Beh, levategli
quell’aria spaurita da “la faccio finita”
e mettetegli una tuta, un paracadute
e condite il tutto con un bel po’ di
adrenalina da sport estremo: quello
che otterrete è un BASE Jumper.
che ti prende nel momento in cui sei in
caduta libera, quando nuoti nell’aria e
“l’infinito sembra ti circondi e colpisca
da tutte le direzioni” come dicono i
base jumper. Con il base jumping i
tempi sono ridottissimi rispetto ad un
lancio normale e “aprire la vela” al
momento giusto, come si dice in gergo,
è assolutamente fondamentale.
Il termine BASE dice già tutto, infatti è
un acronimo che sta per: B. Building
(Palazzo) - A. Antenna - S. Span
(Ponte) - E. Earth (Terra, Montagna),
ovvero tutti i punti fissi da cui si può
saltare, basta che siano ad un’altezza
superiore ai sessanta metri. Il termine
saltare poi forse è un po’ riduttivo,
un Base Jumper direbbe “trovare
una EXIT” ovvero un punto dal quale
spiccare un volo come fosse una
vera e propria uscita dal mondo.
Tecnicamente se nella vita si salta
da tutti e quattro i punti fissi della
parola base allora si è ammessi
nell’Olimpo di chi ha fatto un “base
number”: il Club degli Angeli. Alcuni
esponenti del Club degli Angeli, una
sorta di community internazionale
dei Base Jumpers, spiegano che il
Base Jumping può apparire ad una
prima occhiata come una specie di
mix tra paracadutismo e bungee
jumping, ma la realtà è molto diversa.
Sebbene ci siano delle ovvie affinità
ed avere un brevetto da paracadutista
è un requisito essenziale, la filosofia
del base jumper è sostanzialmente
focalizzata sulla ricerca delle EXIT.
Ognuno vuole trovare il proprio punto
di stacco e poi godersi quel volo a
duecentocinquanta orari fatto di paura,
adrenalina e pensiero che frulla in testa
per i circa 10-15 secondi tra il salto
e l’atterraggio. Bisogna tener conto
che per un salto spiccato tra i sessanta
e i novanta metri di quota, il tempo
dedicato alla caduta libera, ovvero
prima di aprire il paracadute, non può
andare oltre i due secondi, questo
sempre se si vuole evitare di diventare
dei budini. Il rischio dei più inesperti
è quello di venire colti da quella
smania di “non aprire il paracadute”
Ritornando ad aspetti meno tecnici
e più spirituali dicevamo che trovare
la propria EXIT è la maggiore
soddisfazione per un base jumper. E’
per questo motivo che essere il primo
a buttarsi da un determinato punto
non è come saltare per secondo. Il
volo è uguale ma è come entrare in
una città proibita dopo che qualcun
altro l’ha già violata: sarà per sempre
quest’ultimo che racconterà l’impresa e
quello che ha scoperto.
Legalmente parlando mentre negli
States il base jumper è vietato e si
possono addirittura rischiare accuse
che vanno da “spettacolo abusivo” sino
ad “istigazione al suicidio”, da noi
non c’è alcuna normativa che vieti di
per sé i salti, ovviamente nel rispetto
delle proprietà private e statali e del
necessario brevetto da paracadutista. Il
Colosseo è salvo per motivi di altezza
mentre la Madonnina del Duomo di
Milano, con i suoi 108 metri di altezza,
se non fosse per le navate sottostanti,
uno di questi giorni avrebbe già
potuto rischiare di trovarsi accanto un
tizio in tuta e paracute, un po’ come
è successo al Cristo Redentore nella
foto. Ironia a parte se non soffrite
di vertigini, se a teatro vi è sempre
piaciuta più la galleria che la platea
e se a volte le mura del vostro ufficio
vi sembra che si stiano comprimendo
sino a schiacciarvi allora state attenti:
il prossimo in tuta e paracadute, che
la folla ha scambiato per un aspirante
suicida e che in realtà ha trovato la
sua exit sul cornicione al 20 piano
dell’ufficio, potrebbe essere uno di
voi…Se invece non avete il brevetto
da paracadutista ricordate che la
fantasia resta il salto più bello che c’è
59
Legalmente parlando
negli States il base
jump è vietato e si
possono addirittura
rischiare accuse che
vanno da “spettacolo
abusivo” sino ad
“istigazione al
suicidio”
e già solo l’immaginare di lanciarsi
dalla Torre Eiffel come nei film di James
Bond…un brividino per la schiena lo fa
passare eccome!
Giuseppe “Bepi” Hoffer è uno dei più
famosi base jumper d’Italia. Ideando
e curando il sito www.baseitalia.com,
un vero e proprio vademecum per
chi si avvicini al mondo base jump,
Bepi Hoffer ha deciso di rendere
merito ai luoghi della sua terra, il
Trentino, rendendo partecipe la gente
della bellezza di montagne come il
Monte Brento che con il suo “becco
d’aquila” e la sua parete “vertigine” è il
trampolino ideale di ogni base jumper
che si rispetti. E lui con i suoi 25 anni
di paracadutismo e 10 di base jump è
una delle massime autorità del luogo.
Dopo vari tentativi abbiamo
raggiunto Giuseppe “Bepi” Hoffer
telefonicamente mentre si trovava in
mare al largo della Croazia, .su una
barca a vela
Mario Vigna - Non mi aspettavo di
trovarla su una barca, quanto piuttosto
su qualche cima pronto a saltare…
Bepi Hoffer - In realtà lo skipper
è un’altra cosa che mi piace fare,
soprattutto quando si unisce ad
un’iniziativa di solidarietà come quella
che porto avanti da qualche tempo:
fare navigare in barca a vela disabili e
malati psichici. Al momento siamo vicini
le coste della Croazia ma il prossimo
viaggio in programma è ripercorrere la
rotta che fece Cristoforo Colombo ed
arrivare sino a Cuba. Sarà una bella
esperienza per tutti.
M.V. - Complimenti, splendida iniziativa.
Immagino che ora abbia un po’ meno
tempo per buttarsi dal Monte Brento?
B.H. - E’ così, ma non appena trovo
l’ispirazione per un salto non me
la lascio sfuggire. Sarà sempre una
passione e sono anche lieto che in
questi anni il numero dei Base Jumper
sia progressivamente aumentato e
che molti paracadutisti si siano fatti
prendere dalla “filosofia della exit”.
Molti però, e ci tengo a sottolinearlo,
spesso tendono a confondere il termine
“estremo” con “privo di senno”. Bisogna
ricordarsi che se c’è l’estremo c’è
anche il rischio di perdere la pelle
quindi non ci si può improvvisare base
jumper.
M.V. - E’ per questo che ha proposto
insieme ad altri base jumper di
autoregolamentare l’attività di base
jump sul Monte Brento?
B.H. - Sì, chiaramente. Dopo aver visto
gente perdere la vita ed altri andarci
molto vicino io e gli altri paracadutisti
trentini abbiamo ritenuto doveroso
porre dei requisiti di sicurezza per
i salti, nonché definire una sorta
di albo degli istruttori dotati di
quell’autorevolezza per organizzare
i corsi ed accompagnare gli aspiranti
base jumper nei salti. Deve essere
chiaro che il base jumper non è uno
che prende e si butta da un palazzo
o una montagna senza valutare i molti
aspetti che coinvolgono il lancio come
ad esempio il clima e lo studio dei
tempi massimi per l’apertura della vela.
A buttarsi da una montagna si può
passare da folli ma certo non da scemi.
M.V. – Lei è stato il primo a gettarsi da
un aereo ed atterrare “di precisione”
sul Monte Bianco e sul Cervino. Brividi
diversi rispetto al base jump?
B.H. - Abbastanza. Specie il Cervino è
uno dei miei ricordi più belli. Atterrare
su una cima di una montagna con
un paracadute è un qualcosa di
“estremamente estremo” se mi passa il
gioco di parole. Quando fai base dopo
pochi secondi devi aprire il paracadute
60
e diciamo che l’atterraggio è la
parte meno difficile, specie se sei
un paracadutista esperto. Quando
arrivi sulla cima del Cervino non puoi
sbagliare, pochi centimetri in là c’è il
vuoto e non hai un altro paracadute da
aprire. Per me che sono uno scalatore
nell’animo è stata un’emozione sfidare
la montagna dall’alto. Nel base jump
invece l’adrenalina è nel momento in cui
sei sulla exit. Ne ho visti tanti arrivare
in cima, guardare giù e riprendere
la strada da cui erano saliti senza
buttarsi.
M.V. - Il base jump è uno sport costoso
o alla portata di tutti?
B.H. - Bè, certo non è come giocare
a tennis o a calcio. Di per sé bisogna
avere una lunga serie di lanci col
paracadute alle spalle e questa già è
una bella spesa da mettere in conto.
Per quanto poi riguarda il base jump
in sé e per sé, la spesa, come in tutti
gli sport del resto, dipende da che
livello uno voglia praticare. Faccio un
esempio: quasi tutti all’inizio comprano
un paracadute monovela con imbraghi
e attrezzatura per i quali i costi si
possono contenere intorno ai 2.500
euro. Io che oramai faccio salti anche
da punti altissimi, con vari secondi tra il
salto e l’apertura della vela, utilizzo un
paracadute doppio ed una tuta alare.
La spesa per tale attrezzatura è dai
6.000 euro in su.
M.V. - Un’ultima domanda. Cosa cerca
un base jumper?
B.H. - Le posso dire cosa cerco io:
precipitare a 200 km all’ora lungo la
facciata di una montagna, il sibilo del
corpo che cade nel vuoto, l’apertura
della vela al momento giusto, la natura
di cui posso godere mentre plano
lentamente e la conquista del vuoto
stesso. Adrenalina al mille per mille.
sottoscala
codice binario
di Roberta Casasole
L’interregionale Roma Termini-Ancona delle 16.14 è sempre in ritardo. Sempre.
Non vale manco lo sforzo statistico, la media dei ritardi tende a infinito. Chi,
come me, scende a Orte per prendere la Freccia dell’Alta Tuscia che fende
l’aria fino alla stazione di Viterbo è destinato a perdere sempre la coincidenza.
Sempre.
E se scrollandoti di dosso la perniciosa rassegnazione del pendolare, ti azzardi
a chiedere all’ufficio relazioni con il pubblico di Trenitalia perché la coincidenza
non aspetti l’arrivo degli unici passeggeri che la frequentano, l’addetto ti dà una
risposta dall’alto valore semiotico. Cioè che la parola “coincidenza” non esiste
più nei codici ferroviari, ora i treni sono tutti uguali e tutti, democraticamente,
indipendenti l’uno dall’altro.
Un mese fa codesta coraggiosa scelta liberale ha inspiegabilmente scatenato le
ire di viaggiatori nostalgici del ventennio in cui i treni non tardavano mai, tanto
che hanno presentato formale denuncia ai vertici dell’azienda monopolista.
Così un giorno accade l’incredibile. Appena salgo in carrozza sento che
qualcosa non va. Cos’è questo senso di libertà che mi invade? Cos’è questa
frizzante atmosfera che mi dà i brividi?
Non mi sembra vero, è l’aria condizionata!
Entro in uno scompartimento da sei e trovo un posto libero. Mi siedo e mi guardo
intorno. Ero circondata da cinque tipi gessatomuniti, precisi, sicuri, belli dentro.
Tanto da non sembrare diretti ad Ancona.
Comincio ad ascoltarne i discorsi per cercare di capire chi siano e cosa facciano
su questo torrido interregionale, ma non ci capisco niente. Parlano uno strano
gergo fatto di numeri e misure.
Poi l’illuminazione.
Se non riesco a capire cosa dicano non possono altro che essere manager di
Trenitalia. Quelli imputati per concorso di colpa nel conio di espressioni tipo Treno
Trenitalia
attestato ad altro treno in sosta - per dire che il tuo treno si trova in fondo in
fondo al binario, dopo un altro parcheggiato sulla stessa corsia – Treno in ritardo
per guasto al materiale rotabile - per dire che il tuo treno ha una gomma bucata
(?) e non partirà. Quelli che hanno scelto Celentano per testimonial – affidabile
e rassicurante proprio come un treno – in una storica campagna ormai usata dai
docenti universitari di comunicazione come aneddotica da risveglio per studenti
annoiati.
I manager, dopo averla fatta accendere personalmente, stanno controllando che
l’aria condizionata nei vagoni sia stata accesa e, alzando indianamente il dito
indice al soffitto, convengono che lo è. Bugiardo d’un pendolare! Poi debbono
verificare che questo interregionale bistrattato da tutti arrivi in orario. Dopo
qualche minuto dalla partenza si accorgono che il treno è già in ritardo. Cosa
fare? Dare ragione al pendolare infingardo, scrivendo nel rapporto che pure
oggi la coincidenza salta, oppure agire per modificare la realtà come un buon
manager deve fare?
Uno dei cinque si alza. È il più prode. Va dal capotreno e dopo qualche minuto
torna dicendo che l’ha fatto mettere a 93. Il treno, of course.
Non so cosa significhi, ma un istante dopo vedo la velocità correre nei finestrini.
Siamo al galoppo, andiamo forte. Alle 16.59 spaccate siamo a Orte e la
coincidenza, linda e pinta, è lì che ci aspetta.
Questo per dire che la differenza fra il manager e il pendolare (e consimili) è
uguale alla differenza che passa tra 93 e 90. Misurabile sia in chilometri orari
che in gradi.
61
Cinema
a cura di Marisa Orlando
Il diavolo veste Prada (The devil wears Prada)
Regia: David Frankel
Cast: Alexie Gilmore, Suzanne dengel Seigner,
Colleen dengel Seigner, Valentino Carpio, Heidi Klum
Sceneggiatura: Aline Brosh mckenna
Data di uscita: Venerd ì 13 Ottobre 2006
Generi: Commedia, Drammatico
Distribuito da 20th Century Fox Italia
Il lungometraggio più atteso dai “fashionists” di tutto il mondo non poteva che nascere sotto il segno del pettegolezzo.
Sembrerebbe, infatti, che l’autrice del romanzo da cui è stato tratto il film (Lauren Weisberger) si sia ispirata alla sua ex datrice
di lavoro (Anna Wintour capo supremo di Vogue America), per il personaggio di Miranda Prestley la direttrice di un fashion
magazine, dispotica e capricciosa con la quale dovrà vedersela Andrea, giovane ragazza di provincia, aspirante scrittrice.
Tra vestiti di lusso, feste esclusive, cascate di flash e fiumi di champagne, il film sul ritratto dei vizi e le dissolutezze del mondo
della moda a New York, e non solo, sarà diretto da David Frankel, regista del celeberrimo serial televisivo Sex & the City.
Il cast quantomeno incuriosisce: la diabolica direttrice sarà interpretata da una sfavillante e grintosa Meryl Streep, la “Pretty
Princess” Anne Hathaway vestirà i panni della giovane assistente, lo stilista Valentino sarà se stesso...
Dvd in uscita
Milano / Mediateca di Santa Teresa
Meet the Media Guru: Golan Levin - 20 ottobre
MGM Digital Communication organizza un incontroperformance con Golan Levin, discepolo di John Maeda
all’Aesthetic and Computation Group del MIT Media Lab di
Boston. Levin è considerato uno dei più importanti esponenti
mondiali della media art, e presenterà il suo progetto di
manipolazione e sinestesie di suoni e immagini. Il progetto
è promosso da Forum Net Economy, Comune, Provincia e
Camera di Commercio di Milano.
www.meetthemediaguru.org
Ben Harper and the Innocent Criminals
Roma 13, Milano 15, Bologna 16 ottobre
Dato l’enorme successo - di pubblico e critica - del tour
italiano della scorsa estate, Ben Harper and The Innocent
Criminals tornano in Italia con tre date. Il cantante ha
promesso che presenterà i successi del nuovo album “Both
Side of the Gun” assieme agli indimenticabili brani che lo
hanno reso famoso.
Elisa
28 ottobre Roma, Auditorium Parco della Musica
L’impegno con l’Unicef, ma anche l’abbraccio della folla
durante la vigilia della notte bianca, dove ha ricordato a
tutti con il ritornello dei White Stripes chi fossero i campioni
del mondo di calcio: queste le premesse per il concerto nel
tempio della musica di Roma di Elisa.
Roma / Teatro sala Umberto
La Baita degli Spettri - dal 26 settembre al 22 ottobre
Lillo e Greg, dopo le esperienze televisive e il programma
radiofonico di Radio2 “seiunozero”, tornano a teatro con
una commedia a metà tra il giallo e l’horror. Giocano con
gli stereotipi, e mettono in scena alla fine dello spettacolo i
“contenuti extra” come fosse un dvd di presunti errori e scene
tagliate dallo spettacolo.
Placebo
9 ottobre Milano, 25 novembre, 26 novembre Bologna
Dopo aver festeggiato i primi dieci anni del loro primo,
omonimo, album i Placebo suoneranno in Italia presentando
alcuni brani del loro ultimo lavoro, “meds”. A giugno i
Placebo annullarono due concerti italiani per l’infortunio del
batterista della band.
Milano / Teatro della Luna
Jesus Christ Superstar - dal 19 ottobre al 5 novembre
Sacro e profano. La parabola della musica rock che diventa
la storia di Cristo e viceversa. Oltre due milioni di persone
lo hanno già visto in tutto il mondo. Ora il capolavoro di
Andrew Lloyd Webber sarà messo in scena interamente
tradotto in italiano dalla Compagnia della Rancia. La regia
sarà affidata a Fabrizio Angelici.
Luciano Ligabue
Dal 03 ottobre a Verona al 09 dicembre a Livorno
Il rocker di Correggio continua il suo lungo tour – “nome e
cognome tour/2006” – che, diviso in tre parti, ha già più
volte attraversato l’Italia. Dopo i club e gli stadi, questi nuovi
24 concerti saranno tutti organizzati nei teatri.
Roma / Auditorium
The Andersen Project - dal 27 al 29 ottobre
Nell’ambito del Romaeuropa festival, l’eclettico artista Robert
Lepade porta a Roma una straordinaria lettura dello scrittore
Hans Christian Andersen: due ore di intrattenimento che
utilizza luci, suoni e le (ri)letture da La Driade e L’Ombra.
www.ticketone.it
www.greenticket.it
www.blueskypromotion.it
62
Radio America
Regia: Robert Altman
Produzione: U.S.A. – 2006 Commedia/Musicale
Durata: 100’
Cast: Garrison Keillor, Woody Harrelson, L. Q. Jones, Tommy
Lee Jones, Kevin Kline, Lindsay Lohan, Virginia Madsen, Jonathan
Mankuta, John C. Reilly, Maya Rudolph, Tim Russell, Sue Scott, Meryl
Streep, Lily Tomlin
Sceneggiatura: Garrison Keillor
L’ultimo giorno di vita del glorioso programma “La voce amica della prateria”, istituzione radiofonica statunitense, è solo il
pretesto per raccontare uno spaccato dell’America che non c’è più: quella degli slogan ingenui che propongono caramelle al
rabarbaro e fagioli in scatola, della musica country che racconta storie d’amore e di fede, di cantanti vestiti da cowboy che
scandalizzano il pubblico con battute scurrili. Robert Altman, massimo esponente del cinema corale, offre questo film come un
delicato dedalo di generi (drammatico, sentimentale, giallo, western, supernatural movie) e se in The Company raccoglieva
la sfida di filmare la danza, con Radio America scatena il paradosso del mezzo cinematografico che si sovrappone a quello
radiofonico: del film che racconta la radio nel cui solco vive un vespaio di passioni come disturbi di frequenza alla messa in onda.
Dvd da riscoprire
Il Re e la Regina
Regia: Arnaud Desplechin
Produzione: Francia – 2004Drammatico/Commedia
Durata: 150’
Interpreti: Emmanuelle Devos, Mathieu Almaric, Cathrine
Deneuve, Maurice Garrel
Sceneggiatura: Roger Bohbot – Arnaud Desplechin
Arnaud Despechin, autore di straordinario spessore, in Rois e Reine, opera presentata alla rassegna veneziana del 2004,
miscela strizzando l’occhio a Truffaut registri differenti (cinema, teatro, televisione, filmati di repertorio) mantenendo sempre
equilibrio e tensione ammirevoli. Questo lungometraggio (denso e intenso) si sviluppa lungo due canali conduttori, due storie
che seguono percorsi differenti, nella forma e nella sostanza. Le lacrime e i sorrisi, i dolori e le gioie, rotolano come sassi lungo
il sentiero; a unire, a dare senso all’esistenza, solo il passato, nascosto e apparentemente dimenticato dietro morbidi sguardi.
Dove la follia sembra insinuarsi senza pietà, i ricordi percorrono leggeri la quotidianità in disgregazione, per poi tornare
prepotentemente nel presente con la forza travolgente della vita di un uomo e una donna uniti dall’inspiegabile destino di
essere, loro e solo loro insieme, il Re e la Regina.
63
a cura di Francesca Pispisa
a cura di Krasnapolsky, con la collaborazione di Alessandro D’Ottavi
slint
spiderland
Casa discografica: Touch and Go Records, 1991
Antianti
il tappeto dava un tono all’ambiente
Casa discografica: Metatron Records, 2006
1991. Folle crescenti di giovani rockers iniziano ad agitarsi
sulle note di Smells Like Teen Spirit, inseguiti da discografici
pronti ad azzannare il fenomeno Grunge. Da un’altra
parte, 4 ragazzi del Kentucky pubblicano nella generale
indifferenza il loro secondo e ultimo disco, destinato negli
anni a lasciare sul sentiero del rock una traccia non meno
importante, per quanto assai meno segnalata dalle guide,
di quella prodotta dal terremoto di Seattle.
Gli Slint prendono l’hardcore di fine anni ’80, lo
contaminano con la New Wave più decadente, ne
frammentano le strutture ritmiche e armoniche, ne svuotano
l’irruenza in un gioco di tensioni contrastanti, e approdano
a un nuovo mondo sonoro, che qualcuno avrebbe poi
battezzato post-rock. Spiderland contribuisce in maniera
decisiva a fissare i canoni del genere, tra sospensioni
catatoniche e furiose esplosioni. Le 6 canzoni, ripetono
in gran parte un analogo schema compositivo, fondato
sull’incedere di scarni e ossessivi accordi di chitarra, su
arpeggi melodici e improvvise dissonanze, su controtempi
e crescendo emozionali che sfociano in rabbiose
deflagrazioni chitarristiche, per poi tornare circolarmente
all’iniziale, malinconica e paranoica quiete.
La voce sta al gioco, recitando in un sussurro testi visionari
e laceranti, e sprofondando in drammatiche urla di dolore,
fino al conclusivo grido I Miss You che chiude l’ultimo brano
e la parabola degli Slint.
Il tappeto dava un tono all’ambiente è il primo disco solista
di Dade, bassista dei Linea 77, qui nascosto dietro lo
pseudonimo di antianti. Solista è però definizione bizzarra
per un’opera collettiva che rappresenta in un certo senso
un esempio di produzione musicale open source.
Nato 3 anni fa nella solitudine di un granaio, sviluppatosi
attorno a spunti melodici e ritmici buttati giù da Dade
nelle pause del lavoro con i Linea 77, il progetto ha vissuto
la sua fase decisiva con la scelta di coinvolgere amici e
conoscenti, spedendo loro quegli abbozzi di canzone.
Con un’attitudine tipica della scena elettronica inglese e
dell’hip hop americano, ma meno comune nel panorama
italiano, Dade ha vestito gli abiti dell’autore-produttore,
raccogliendo attorno a sé (ma con contatti prevalentemente
telematici) Samuel e i Cor Veleno, Fabri Fibra e Miss
Violetta Beauregarde, Caparezza e Gionata dei Super
Elastic Bubble Plastic. Tutti chiamati a sviluppare, con testi e
voce, il codice sorgente di Dade, e a rispedirlo modificato
al mittente per il lavoro finale di arrangiamento e il
missaggio.
I molti ospiti hanno senz’altro aiutato Dade a dare forma
a una ricca ed eterogenea ispirazione musicale. Il risultato
è un disco capace di unire violenza hardcore e intimismo
folk, invettiva hip hop e schitarrate surf, beats elettronici
e aperture pop, con un approccio volutamente lo-fi e
sperimentale che rappresenta il vero filo conduttore
dell’album, e con un gusto fortemente giocoso e ironico che
trova sfogo nei molti intermezzi parlati.
Ultima nota di merito per il titolo, che cita l’indimenticabile
capolavoro dei fratelli Cohen
“Il Grande Lebovsky”.
Sergio Caputo,
Ne approfitto per fare un pò di musica (Live),
Casa discografica: Warner, 1987
Chi l’ha detto che il Jazz debba essere una musica seriosa,
complicata, zeppa di assoli, intellettuale e snob (sic)? La
“Black Classical Music”, come amava chiamarla Nina
Simome, nasce come musica di intrattenimento popolare,
come musica leggera, divertente (!) e, soprattutto, come
musica da ballare. Per quanto Arrigo Polillo possa alzare
compulsivamente il sopracciglio, il disco di Sergio Caputo
ha il pieno diritto di essere trattato in questa sede. Per
fortuna il primo gesto di incoraggiamento arriva da
GraceNote® CDDB che senza esitazione alcuna classifica
Ne approfitto per fare un pò di musica (Live) come disco
Jazz. D’altronde le frequentazioni di Sergio Caputo con
l’ambiente Jazz tolgono ulteriormente e definitivamente
ogni dubbio. In particolare, Ne approfitto per... suona
molto swing, be-bop e latin, con delle – poi non tanto
– sporadiche accellerate di swing da farvi credere per un
attimo che qualcuno a vostra insaputa abbia cambiato il CD
nel lettore. Il risultato è un piccolo capolavoro di musica,
poesia e vitalità che ha il merito assoluto di ricordare che il
Jazz è musica da godere, e basta.
64
Saggio sulla lucidità, di José Saramago
Einaudi, pag. 290
Una città anonima in un Paese anonimo, uguale in tutto a
qualunque città, di qualunque Paese, in Occidente. La città
è una Capitale sonnecchiante e mediocre che sbandiera
stancamente vassalli polverosi di libertà e democrazia.
Un giorno qualunque di un’elezione qualunque succede
l’impensabile: la popolazione intera si sveglia unita, forte e
silenziosa.
Un passa parola muto produce il più incredibile dei
boicottaggi; è inaudito, folle, inconcepibile: è la paralisi.
Il Governo è impietrito di fronte all’incalcolabile,
imprevedibile rivoluzione: un diritto fondamentale nell’istante
in cui è esercitato unanimemente annulla di fatto qualunque
diritto. Il panico si impossessa della classe politica intera, che
si cimenta dunque nelle arti sopite ma per secoli allenate,
esercitate e mai scordate: repressione, spionaggio, fuga.
La popolazione sembra rimanere impassibile, composta,
discreta, di una normalità fuorviante.
Il paradosso si fa giallo, una donna misteriosa, una forza
positiva innaturale. La storia rimanda al passato, quattro
anni prima, una malattia diversa eppure così simile si era già
impossessata di quella stessa città.
La dirigenza deve capire, e deve colpire. La mente è
articolata, è reale ed è malata, il braccio è quello di
sempre, un commissario, un ispettore, un agente. Questi
ultimi vorrebbero capire, vorrebbero dipanare il mistero,
vorrebbero fare la cosa giusta, vorrebbero davvero non
essere solo braccio.
Il finale ci lascia senza fiato perché avremmo davvero
sognato di svegliarci, in un giorno qualunque di un’elezione
qualunque, tutti così. Ma basta un pizzico dell’esasperante
lucidità di questo libro per sapere che il finale sarebbe
comunque quello, in ogni caso, con ogni mente e con ogni
braccio.
La scrittura di Saramago, Premio Nobel per la Letteratura
nel 1998, è intensa, travolgente, virtuosa. Restiamo incollati
alle pagine di questo romanzo-thriller straordinario e l’invito
a riflettere si fa imperativo.
Rwanda. La notte delle stelle cadute,
di Roberto Mauri.
Edizioni dell’Arco, pag. 85
Questo piccolo libro è un invito a ricordare quello che è
sempre così facile scordare, un invito a conoscere quello che
è sempre così facile non sapere.
Non è difficile ricordare il Ruanda, la follia omicida che
attraversò questo piccolo Paese dilaniandolo e arrivando
fino ai nostri telegiornali nella primavera del 1994: 100
giorni e quasi un milione di morti. Un genocidio annunciato
cui vollero restare indifferenti tutti, governi francese e belga,
Nazioni Unite sollecitate disperatamente, il mondo intero.
Ma il Ruanda esisteva prima di quel 6 aprile in cui dal cielo
caddero tutte le stelle. Il Ruanda viveva prima di quell’inferno
che ne ha per sempre devastato la storia.
Di quel Ruanda ci racconta Roberto Mauri, di quel prima,
accompagnando un bambino per un breve tratto.
Clément ha poco più di otto anni e guarda il suo mondo, la
sua casa, la mamma che vorrebbe e che non ha, la scuola,
con gli occhi di un bambino qualunque. Un bambino africano
però, che vive quindi, fin dalla più tenera infanzia, un’assurda
combinazione di innocenza e maturità. Clément ama giocare
come qualunque bambino, conosce e riconosce il dolore
come qualunque adulto, inghiotte ingiustizia e impotenza
come qualunque africano.
E’ bello Clément, con i suoi amici Ziadi e Fils e Juste-de-Dieu,
mentre fanno il tifo perché una zanzara non vinca e non si
porti via Jasmine. Conosce la morte Clément.
I bambini giocano nei bananeti mentre i padri bevono. Vanno
a scuola senza uniformi tentando di compiacere “Madame”.
Stanno a sentire diligentemente i dottori “Muzungu” senza
capire di che parlano. E ascoltano distrattamente una radio
gracchiante. E’ la “radio delle mille colline”, e sta dicendo che
bisognerà ammazzare tutti gli scarafaggi, sterminarli nelle
case, nelle scuole, nelle chiese.
Un vecchio saggio spiega a Clément che c’è da aver paura,
che gli scarafaggi sono in realtà tutti loro. Lo sapevano
anche in Europa, e nel palazzo di vetro a New York, ma
questo Clément non lo sa. E nel palazzo di vetro si è
guardato da un’altra parte e Clément ci ha pensato e
ripensato, ma come tutti noi? Si sono mai visti in Ruanda
bambini con la faccia da scarafaggio?
Work
ork in the city,
write in the city
Questo è il racconto che abbiamo scelto per
il numero autunnale di 7th Floor, dopo il bando
del concorso del settimo floorilegio.
Continuate a spedirci numerosi i vostri racconti
da 1 cartella a [email protected]
Tagli
agli indispensabili
C’è un odore stagnante qui dentro. Un misto di
cenere fredda, idee già avute da altri e scarsa
igiene personale. Sono solo le nove e mezza, ma
sono tutti già schierati davanti alla macchinetta
del caffè, il totem aziendale a cui sacrificare
vecchie segretarie e giovani stagisti.
Ci sono proprio tutti. Il manipolatore, il simpatico,
l’ex-giovane di belle speranze ora frustrato
di mezza età, il maniaco represso, l’antieroe.
Ognuno con il suo omologo femminile. Passo
sorridendo davanti a questa muraglia di finta
efficienza e vera perizia odontoiatrica. Un giorno
o l’altro mi devo decidere a chiedere il numero
del dentista a qualcuno di loro.
La scena è dominata da un enorme orologio,
l’occhio del ciclope a guardia delle solerti
attività che in quest’ufficio dovrebbero fervere.
Già, “perché questa è un’advertising company
e il nostro lavoro è tirar fuori il meglio dai nostri
clienti, per trasformarlo in pubblicità di successo”
– come ci ripetono i capi a ogni festa di Natale.
Magari mentre qualche collega manda giù la
sua ultima fetta di panettone aziendale, prima
di iniziare l’anno nuovo da disoccupato. “Scelte
dolorose, tagli indispensabili”, insistono i boss
roteando lo sguardo sulla platea inerme.
Tagli indispensabili. Ripeto queste parole tra
me e me, tastando il coltello che ho preso
stamattina in cucina, mentre mia madre cadeva
in letargia davanti alla tv. Lo tengo nella tasca
destra dei pantaloni, uno di quei modelli da
cacciatore urbano con 10 scomparti inutili. Tagli
indispensabili. Indispensabili per chi? “Per il bene
dell’azienda” – così mi ha risposto il caporeparto
annunciandomi che ho sei mesi per trovare un
altro lavoro. “Coraggio, ci sono passato anch’io.
L’importante è non abbattersi” – ha rincarato la
dose il caporeparto. E’ un figliodiputtana sui 50,
mani sudaticce, grumi bianchi ai lati della bocca
e un’oscena stempiatura aperta sulla fronte come
una scollatura su un seno avvizzito. Il bastardo
si ostina a mascherarla con un complicatissimo
riporto che parte dalla nuca per culminare in
una specie di tirabaci nerastro e viscido. Chissà
quanto ci metterà a farlo ricrescere dopo il mio
taglio. Indispensabile.
BeeDoll
I percorsi dell’innovazione
La Camera di commercio a Smau
imPRESE NELLA RETE
Da mercoledì 4 a
sabato 7 ottobre 2006,
dalle 9.30 alle 18.30.
A Rho - Pero, Padiglione 8
• Una mappa interattiva per scoprire le iniziative della
Camera di commercio di Milano sull’innovazione
• Palazzo dell’innovazione: un progetto per Milano al via
• www.impresalive.it: la tv per le imprese
• Presentazioni multimediali
• Due incontri:
venerdì 6 ottobre - ore 11.30-13.00:
“Innovazione come driver di crescita per le
imprese: i progetti sviluppati della Camera di
commercio di Milano”
sabato 7 ottobre – ore 15.30-17.30: “Il forum
della Net Economy: creatività e innovazione
a Milano e provincia”