Nr 61 Dicembre 2009

Transcript

Nr 61 Dicembre 2009
ORGANO DELLA
PASTORALE SANITARIA
DELLA DIOCESI
DI ROMA
POSTE ITALIANE S.P.A.
SPEDIZIONE ABB. POSTALE
DL 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46)
ART. 1 COMMA 2 DCB ROMA
N. 61 dicembre 2009
N. 61 dicembre 2009
SOMMARIO
Organo
della Pastorale
Sanitaria
della Diocesi
di Roma
Direzione, Redazione
e Amministrazione
Vicariato di Roma
P.zza S. Giovanni in Laterano, 6/a
00184 Roma
Tel. 06/69886227 - Fax 06/69886182
E-mail:
[email protected]
Sito: www.vicariatusurbis.org/sanita
Direttore:
Armando Brambilla
Direttore Responsabile:
Angelo Zema
Coordinamento Redazionale:
Dr. Sergio Mancinelli
Comitato di Redazione:
Don Sergio Mangiavacchi,
Padre Carmelo Vitrugno,
Elide Rosati
Maria Adelaide Fioravanti
Amministrazione:
Dr. Vincenzo Galizia
Nel buio due notti di luce
3
PAG
Luce di una notte
4
Bello è Dio
La festa della serenità
5
Cantico di San Giuseppe
E Dio creò il padre
6
Torna anche oggi – Anagogia
La vita... che vita!
Gesù fa che mi chiami mamma
7
Poesie di Natale – Aprimi fratello!
8
Il segreto del nonno
9
La gioia cristiana
10
Don Gnocchi, pellegrino della carità
11
Una bella domenica
12
Volontariato AVO all’ospedale C.T.O.
13
Insieme, si può
14
Notizie su Alcolisti Anonimi
15
Il Vescovo della Pastorale Sanitaria
visto da un medico
17
Romano Guardini e le “tribolazioni umane”
19
Per una rilettura della “Salvifici Doloris”
a 25 anni dalla pubblicazione
21
Inserto
Quando guarire dal cancro è rinascere
nello spirito
24
Editore:
Diocesi di Roma
Piazza S. Giovanni in Laterano, 6/a
00184 Roma
Tel. 06/69886227 - FAX 06/69886182
La parola di Dio che risuona dentro di noi
27
Versamenti sul conto corrente postale
n. 31232002
Specificando la causale:
“Pastorale Sanitaria 54-5-6”
“Norlevo” e farmacisti: 10 domande e risposte 37
Periodico Trimestrale Registrato
al Tribunale di Roma
Reg. Stampa n. 200 del 12.4.95
Unzione degli infermi
Cronaca nera nel deserto, così l’altro ci chiama 29
Il dolore umano e il silenzio dell’abbandono
Il diritto e il dovere del farmacista cattolico
38
Dialoghi con Roberto
40
Comunicato della Consulta
per la Pastorale Sanitaria
L’ospedale dei mendicanti a S. Sisto
42
ABBONAMENTO ANNUO:
Socio sostenitore:
É 51,00
Comunità o Istituti: É 26,00
Ordinario:
É 16,00
Finito di stampare il 27 novembre 2009
per i tipi della PrimeGraf s.r.l.
Tel. 062428352 (r.a.) - Fax 062411356
E-mail: [email protected]
31
Sono sottoscrivibili abbonamenti cumulativi.
2
Nel buio
due notti
di luce
N
ella notte del solstizio d’inverno viviamo il grande evento della nascita di
Gesù, Verbo di Dio.
Nella notte della primavera celebriamo
la Veglia di Pasqua di risurrezione.
Due mistiche notti che ritmano il tempo della vita cristiana. Due notti che
sono come due facce della stessa medaglia che porta l’impronta dell’amore
di Dio per gli uomini.
La notte di Natale ci dona la primizia
della nostra salvezza. Gesù, redentore,
nasce nella nostra carne, assume la nostra debolezza per innalzarci alla sua
divinità;
la notte pasquale è il compimento dell’evento natalizio. Due grotte accolgono il figlio di Dio: una per la nascita,
nell’umile contesto di una povera famiglia emigrata, con la vicinanza degli ultimi, degli esclusi, dei pastori; e l’altra
per accogliere il corpo morto, donato
per la vita di tutti gli uomini, l’Agnello
pasquale morto ma che risorge e sconfigge la morte di tutti per nascere alla
vita eterna del cielo.
Sono due notti e due grotte, non buie,
ma piene di luci, perchè piene del Verbo, luce del mondo, che illumina anche la notte più oscura.
Ciò che nessuno ha mai visto, il Figlio
unigenito «luce da luce, Dio vero da
Dio vero, generato e non creato, della stessa sostanza del Padre», è venuto a rivelarci il mistero nascosto nei secoli.
Da Lui abbiamo ricevuto grazia su
grazia, cioè la pienezza di vita.
L’umanità rivelata in quel bambino,
nato a Betlemme, è più della luce: è la
gloria di Dio, manifestatasi nell’umiltà; è più della vita: è la pienezza di grazia e di verità.
Queste due notti, quella natalizia e
quella pasquale, costituiscono il cuore
della vita cristiana, perché, una annuncia la fine dell’attesa e l’inizio della
gioiosa presenza del figlio di Dio sulla
terra, che vive come noi la sua esperienza umana e annuncia la venuta del
Regno di Dio, guarisce le nostre infermità, si fa compagno di viaggio della
nostra vita segnata dalle sofferenze,
dalle infedeltà, dai tradimenti, dal peccato. L’altra annuncia la vittoria di Cristo sulla morte e apre alla vita nuova,
la vita eterna.
Il Verbo di Dio, generato prima dell’aurora del mondo, nel Santo Natale viene
a dimorare in una umile casa, povera
ma ricca di grazia e di amore. La Santa
famiglia di Nazareth, diviene per la
chiesa e per tutte le famiglie un modello di vita ed un esempio da imitare.
3
ri che giacevano nelle tenebre.
Chi si accosta alla grotta dove è nato il
«I pastori si avviarono in fretta e bambino Gesù, luce del mondo, viene
trovarono Maria e Giuseppe, e il tutto illuminato e diventa figlio della
luce e camminerà nella luce, in
Bambino deposto nella mangiaattesa di contemplare un
toia» (Lc 2,16).
giorno la luce del suo
Questi personaggi del
volto in paradiso.
presepe sono obbedienti
Il tema della luce
all’annuncio delha un’importanza
l’Angelo e senza
unica, sia nella
indugio vanno ficelebrazione nano a Betlemme
talizia che in
per vedere la luce
quella pasquale,
di Dio, che illuculmine di tutto
mina ogni uomo.
l’anno liturgico.
I pastori che Luce di una notte,
La solennità di
sembrano i meno notte più fulgida del giorno,
Natale è come
adatti, perché du- notte più splendida del sole,
l’annunzio,
il
ri di testa, essen- notte più candida della neve,
preludio di quella
do abituati a stare
più luminosa delle fiaccole,
pasquale.
con le bestie,
più dilettosa del Paradiso!
Dobbiamo
lafuori dalla città, Notte sgombra di tenebre!
sciarci illuminare
si rivelano i più notte che insegui il sonno,
dalla grotta di
capaci di riconoche insegni a vegliare con gli Angeli!
Betlemme per
scere Gesù. Ve- Notte terribile ai demoni,
poter vedere e
dono l’umiltà del notte desiderio di un anno!
giudicare la noDio fattosi uomo, Notte nuziale della Chiesa,
stra vita con quel
lo riconoscono e notte madre dei neo battezzati,
bagliore che illudiventano a loro notte in cui il demonio assopito viene
mina le situaziovolta evangelisti, disarmato!
elevano la pre- O notte in cui l'Erede introduce l’uomo ni, le scelte, gli
avvenimenti, anghiera di lode a Erede nell'eternità!
che tristi, per
Dio, e ritornando
guardare con ocal loro consueto Preghiera cristiana del mondo antico
chi diversi, con
lavoro cambiati
gli occhi di Dio,
nello stile di vita
e danno testimonianza delle meravi- le vicende della storia.
glie che Dio ha operato in loro e per Nel buio delle stanze e dei reparti dei
luoghi di cura possa entrare la luce del
loro.
«Il popolo, che camminava nelle te- santo Natale, luce di vita e di speranza,
nebre vide una grande luce; su colo- affinchè siano alleviate le lacrime e le
ro che abitavano in terra tenebrosa, sofferenze di tanti fratelli e sorelle.
Anche noi come Maria, siamo invitati
una luce rifulse».
«È venuta nel mondo la luce vera a «serbare tutte queste cose nel noquella che illumina ogni uomo» (Is. stro cuore, per meditarle» e per trar9,2) Dio creatore della luce, è Lui stes- ne vantaggio per il nostro vivere quotidiano.
so luce, che illumina la vita dei pastoGesù si rivela ai pastori
Luce di
una notte
4
Auguro a tutti che con la luce del Natale risplenda anche la gioia per il lieto annuncio della salvezza.
tuo Verbo fatto uomo, fa che risplenda nelle nostre opere il mistero della fede che rifulge nel nostro
spirito».
Preghiamo
Armando Brambilla
«O Signore, Dio onnipotente, che
ci avvolgi della nuova luce del
Bello è
Vescovo Ausiliare di Roma
Delegato per la Pastorale Sanitaria
Dio
Bello è Dio, Verbo presso Dio;
bello nel seno della Vergine,
dove non perdette la divinità
e assunse l'umanità;
bello il Verbo nato fanciullo, perché
mentre era fanciullo, mentre
succhiava il latte, mentre era portato
in braccio, i cieli hanno parlato, gli
angeli hanno cantato le sue lodi, la
stella ha diretto il cammino dei magi,
è stato adorato nel presepio,
cibo per i mansueti.
È bello dunque in cielo, bello in terra;
bello nel seno, bello nelle braccia dei
genitori: bello nei miracoli, bello nei
supplizi; bello nell'invitare alla vita,
bello nel non curarsi della morte,
bello nell'abbandonare la vita e bello
nel riprenderla; bello sulla croce,
bello nel sepolcro, bello nel cielo.
Ascoltate il cantico con intelligenza,
e la debolezza della carne non distolga
i vostri occhi dallo splendore della
sua bellezza.
Suprema e vera bellezza è la giustizia;
non lo vedrai bello,
se lo considererai ingiusto;
se ovunque è giusto, ovunque è bello".
“Mi avevi detto – osservò il bue – che
era la festa della serenità, della pace,
del riposo dell’animo”.
“Già – rispose l’asinello – una volta
era così...”.
“Ti ricordi – riprese il bue – quella
notte, a Betlemme, la capanna,
i pastori, quel bel bambino? Era freddo,
anche lì, eppure c’era una pace, una
soddisfazione. Come era diverso!”.
“È vero. E quelle zampogne lontane,
che si sentivano appena appena”.
“E sul tetto come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano”.
“Uccelli? Testone che non sei altro!
Erano angeli”.
“E la stella? Non ti ricordi che razza
di stella, proprio sopra la capanna?
Chissà che non ci sia ancora. Le stelle
di solito hanno vita lunga”.
Sant'Agostino
Dino Luzzati
La Festa della
Serenità
5
Cantico di
S. Giuseppe
In Maria, mia sposa, tua Vergine eletta
la carne hai preso dell'umana natura.
La radice di Jesse è fiorita al tuo cenno
il tuo Spirito Santo ha operato il prodigio.
Salvatore d'Israele e dei popoli tutti
re, sacerdote e profeta, regnerà in eterno.
Benedetto sei tu Signore Dio dei nostri padri
che ti sei rivelato ad Abramo, a Mosé,
ai Profeti tuoi servi.
A me, tuo umile servo che in Te sempre confida
hai affidato il Messia e la Madre sua santa.
Hai donato ad essi la tua luce e la tua grazia
per stabilire la tua santa alleanza.
Vigilante custode e padre amoroso
fedele e prudente la tua grazia mi renda.
Israele tuo popolo ti ha servito nei secoli
ha spianato la strada al Messia salvatore.
Con umile ossequio e trepida attesa
a Te canto, o mio Dio, mia forza e speranza.
Ogni giorno qui in terra e poi sempre nel cielo
canterò tra i santi la tua misericordia.
Ed ora o Signore, Tu hai rivelato al tuo servo
la discesa qui in terra del tuo Consacrato.
Gloria al Padre.
Ti benedico e Ti adoro, onnipotente mio Dio
perché i giusti di Israele sono stati esauditi.
Sac. G. B. Proja
bastanza piccole per poter
stringere nel palmo il suo visetto».
Dio stava creando i due più grossi piedi che
si fossero mai visti, quando l'angelo sbottò.
«Non è giusto. Credi davvero che queste
dite barcacce riuscirebbero a saltar fuori
dal letto la mattina presto quando il bebè
piange? O a passare fra un nugolo di
bambini che giocano, senza schiacciarne
per lo meno due?».
Dio sorrise e rispose: «Sta' tranquillo, andranno benissimo. Vedrai: serviranno a
tenere in bilico un bambino che vuol giocare a cavalluccio o a scacciare i topi nella casa di campagna oppure a sfoggiare
scarpe che non andrebbero bene a nessun altro».
Dio Lavorò tutta la notte dando al padre poche parole ma una voce ferma e autorevole:
occhi che vedevano tutto, eppure rimanevano calmi e tolleranti.
Infine, dopo essere rimasto un po' sovrappensiero, aggiunse un ultimo tocco: LE
LACRIME. Poi si volse all’angelo e domandò: «E adesso sei convinto che un padre possa amare quanto una madre?».
uando il buon Dio decise di creare il
padre cominciò con una struttura piuttosto alta e robusta.
Allora un angelo che era lì vicino gli chiese: «Ma che razza di padre è questo? Se i
bambini li farai alti come un soldo di cacio, perché hai fatto il padre così grande?
Non potrà giocare con le biglie senza
mettersi in ginocchio, rimboccare le coperte al suo bambino senza chinarsi e
nemmeno baciarlo senza quasi piegarsi
in due!».
Dio sorrise e rispose: «È vero, ma se lo
faccio piccolo come un bambino, i bambini non avranno nessuno su cui alzare lo
sguardo».
Quando poi fece le mani del padre, Dio le
modellò abbastanza grandi e muscolose.
L'angelo scosse la testa e disse: «Ma... mani così grandi non possono aprire e chiudere spille da balia, abbottonare e sbottonare bottoncini e nemmeno legare treccine o togliere una scheggia da un dito».
Dio sorrise e disse: «Lo so, ma sono abbastanza grandi per contenere tutto quello
che c'è nelle tasche di un bambino e ab-
Q
Erma Bombeck
6
Torna anche
oggi
Anagogia
Volgendo lo sguardo all’Invisibile
andando verso l’alto,
saremo in sintonia con il divino.
Con occhio limpido e sereno
leggeremo le vicende della vita
e troveremo,
nella purezza del cuore,
la felicità che Cristo ci ha promessa
Sergio
So che non ami / i freddi cieli lontani /
nei quali t'han chiuso / i nostri ciechi
sapienti.
So che ami la terra / la nostra povera
terra / bagnata da fatica e sudore.
So che un giorno percorresti / i nostri
impervi fangosi sentieri / segnati
dalle nostre sciagure e follie /
per essere il Dio-con-noi.
Torna anche oggi, ti prego. / Le strade
si sono allargate. / Vi troverai assiepati /
più ciechi e mendichi di allora, /
più malati e coperti di lebbra.
Non sanno il tuo nome. / Ma ti stanno
aspettando. / Io confuso tra loro /
schiacciato dal peso dei mali /
t'aspetto e ti chiamo. /
Per me e per tutti. /
Voglio fare con te la mia strada. /
Posso farla soltanto con te.
Celestino Vaiani
Gesù fa che mi
chiami mamma
D’Anime prette scese dal cielo
per coronarsi di veste mortale
come fiori d’amore in su lo stelo,
scegliesti me e ancor gioir m’assale;
La vita...
che vita!
Linfa dì vita, stille del mio seno
io gli donai giorno dopo giorno,
e dì lodar il cor fu sempre pieno
anche se il dramma mi correa d’intorno.
Vita... germoglio che sboccia
Sotto il gelo
Di un primo mattino!
Grido di vagito
Di un tenero bambino...
All'alba... del suo primo mattino!
Petali di rosa
Bagnati dalle lacrime
Di una giovane sposa...
All'alba... di una vita nuova!
Vita che nasce
Nel risorgere... di un'anima esultante
di gioia per una vita nuova!
Il sol che si levava ogni mattina
nell’anima struggea ogni speranza,
restava, alfine, la pietà divina
ma corre il tempo e verità s’avanza.
Mai una parola,
solo un muto sguardo,
ma nel mio cuor d’amor
c’è sempre fiamma,
trepida attesa... sol per questo ardo
che prima dì morir mi chiami:
“Mamma!”
Stefania Iannone
Dante Di Vaja
7
Aprimi Fratello!
POESIE DI NATALE
Ho bussato alla tua porta
ho bussato al tuo cuore
per avere un letto
per avere un fuoco.
Perché mi respingi?
ALLA MADONNA
Madonnina tutta bianca che sorridi
dall'altare a te
sale dolcemente la mia piccola
preghiera.
A Te accanto questa sera voglio
mettere un bel fiore,
un bel fiore alto e gentile
che accompagni il tuo candore.
Aprimi, fratello!...
Perché mi domandi
se vengo dall’Africa
se vengo dall’America
se vengo dall’Asia
se vengo dall’Europa?
NOTTE DI NATALE
Aprimi, fratello!...
Suonate, squillate campane beate del
Santo Natale!
È tutta splendente di luce divina la
stella d'oriente.
Cammina, cammina s'appressano a
frotte, cantando i pastori.
La gelida notte è tutta splendori.
Perché mi domandi
la lunghezza del mio naso
lo spessore delle mie labbra
il colore della mia pelle
ed il nome delle mie divinità?
Aprimi, fratello!...
Non sono un negro
non sono un rosso
non sono un giallo
non sono un bianco
sono solo un uomo.
GESÙ BAMBINO
Quando nascesti Tu, Gesu' Bambino
non avevi neppure un camicino!
Sulla paglia ti mise la Tua mamma e
un angelo canto' la ninna nanna.
Eri povero sì, ma il Tuo sorriso aveva
lo splendor del Paradiso!.
Aprimi, fratello!...
Aprimi la tua porta
aprimi il tuo cuore
perché sono un uomo:
l’uomo di tutti i tempi
l’uomo di tutti i cieli
l’uomo che ti assomiglia.
Francesco Carotenuto
Tel. T.O. Genio Artificieri
ISTITUTO ROMANO
SAN MICHELE
René Philombe
poeta del Cameroun
8
IL SEGRETO
DEL NONNO
e
ra un inverno di tanti anni fa, l’estate
con i suoi fiori e colori era ormai un
ricordo lontano.
La terra, fredda e desolata, era triste in
attesa dei tre mesi più difficili dell'anno.
Ma fortunatamente arrivava a grandi
passi il Natale e il nonno, che veniva a
trascorrerlo a casa nostra, con i suoi
racconti riusciva a trasformare l’inverno nella stagione più felice dell'anno.
«Nonno – chiedeva insistentemente
mia sorella – tu che sei così vecchio,
hai conosciuto Gesù Bambino?».
«Sì che l’ho conosciuto! E anche Giuseppe e Maria! Ascoltatemi un po’:
mi è accaduto una notte di Natale,
quando andavamo alla Messa di
mezzanotte... ero ancora bambino e
abitavamo a qualche chilometro dal
villaggio di “Testa della Balena”.
Eravamo sulla slitta trainata dal nostro cavallo, Ercole: andava baldanzoso al trotto, facendo risuonare gioiosamente i suoi campanelli.
M
a ecco che improvvisamente la neve
comincia a cadere sempre più fitta,
più insidiosa: arrivava al petto del
nostro povero Ercole, che a fatica
riusciva ad andare avanti. Non riusciva a vedere neppure la strada...».
«Oh! Oh!» – gridò impaurito mio padre al cavallo.
Ma troppo tardi: noi eravamo già affossati in una valanga di neve. Allora mio
padre, guardando verso mia madre, ci
disse: «Preghiamo tutti San Giuseppe!». E lui stesso, ad occhi chiusi, cominciò sommessamente a pregare:
«San Giuseppe, è Natale: dacci una
mano ... aiutaci ad uscire da questo
fosso!». Improvvisamente, come per
miracolo, tutto intorno si fece un gran
silenzio, il vento cambiò direzione, le
nubi si dissolsero e si videro brillare
nel profondo blu del cielo le stelle ...
mentre dal folto bosco si stava avvicinando a noi un uomo alto e forte, sorridente e sicuro di sé. Si accostò al nostro desolato Ercole e accarezzandolo
teneramente gli mormorò qualcosa nell’orecchio. Così il cavallo, incoraggiato, dette un forte colpo di reni e con decisione ci trascinò fuori dal fosso.
C
i mettemmo a battere tutti felici le mani: eravamo di nuovo sulla strada giusta
e quando mio padre si girò indietro per
manifestare la sua gratitudine allo sconosciuto, costui era già scomparso...
Chi era quell’uomo? San Giuseppe, sì,
San Giuseppe in persona! E, poco dopo,
quella notte, in chiesa, passando davanti alla grotte del presepio, e lo giuro,
non ho sognato... San Giuseppe mi ha
fatto l’occhiolino!
9
L
a vera vita del cristiano non ha
nulla di austero, mesto o malinconico, perché in essa domina
l'amore che si manifesta con la gioia di
aver posto la propria fiducia in Dio. S.
Giovanni Crisostomo ammoniva infatti: «godere in ogni occasione è cosa
possibile. Chi ha posto la propria fiducia in Dio possiede il principio della felicità e la fonte di ogni gioia». Al
contrario, la tristezza è frutto delle passioni, dell'avarizia, dell'egoismo, dell'orgoglio. Bisogna respingere la tristezza e vincerla con l'ottimismo che
può essere concepito solo dalla mente
di Dio. «Dio ama chi dona con gioia»
(Cor 9,7). La vita per il cristiano
ha il significato di una
festa, perché prelude
a quella del cielo.
«Il cristiano è un
seminatore
di
gioia ed è per questo che fa grandi cose. La gioia è una
delle più irresistibili forze del mondo: calma, disarma, conquista, trascina. Una anima piena di gioia è di
per sè un apostolo: attira a Dio gli
uomini manifestando loro quel che
produce in essa la presenza di Dio»
(R.P. Bernadot). Ma nella dimensione
relazionale del cristiano, un altro atteggiamento che assume il significato di
un valore è l'umorismo, che esprimendo un nuovo modo di essere e di sentire «converte il pessimismo in audacia, il disprezzo in pietà, l'insofferenza in feconda accettazione».
Parlando dell'umorismo, lo abbiamo
fatto assurgere all’importanza di valore
perché chi lo pratica deve poter disporre «di una certa saggezza umana,
frutto di esperienza, e di una notevole capacità di osservazione sugli altri
e su se stessi». Sull'umorismo i Santi
hanno lasciato testimonianza perché
sapevano sorridere. Ne sono fulgidi
esempi: S. Teresa d'Avila, S. Francesco
di Sales, S. Filippo Neri. Infatti la dove
l'umorismo dei Santi citati e dei grandi
cotemporanei come papa Giovanni é
benevolo, compassionevole e indulgente, perché nasce dalla conoscenza
delle umane povertà; l'ironia di un Voltaire, privo di senso di trascendenza,
aggredisce e ferisce e a volte distrugge.
Lo stesso Ionesco, celebrato drammaturgo, afferma che «il rifugiarsi nell'umorismo consente di sfuggire alla
infelicità della sofferenza e della
morte». Cristianamente inteso, l'umorismo è la chiave che apre alla serenità
che, in quanto partecipe della saggezza, è dono dello Spirito Santo. Anche
secondo Kierkegaard cristianesimo
e umorismo in un
certo senso coincidono, perché avvicinano l'uomo al
senso religioso. Infatti Dio ha creato i
suoi figli per la gioia,
ha fatto ogni cosa
perché vivano nella gioia. Con l'incarnazione, secondo quanto leggiamo nel
Gaudium et spes (n. 22), Dio si è unito
ad ogni uomo, assumendone la stessa
natura, ma in contrasto con lo smarrimento dell'uomo, Dio sembra «divertirsi» esprimendo un amore senza limiti, incomprensibile, al di la di ogni misura. In questo contrasto spicca l'umorismo divino che predilige scelte apparentemente sconcertanti: ciò che é
«stolto», per confondere i sapienti; ciò
che è «debole», per confondere i forti;
ciò che è «ignobile» e «disprezzato» e
ciò che è «nulla», per ridurre a nulla le
cose che sono (I Corinzi, 1,28). Cristianamente inteso l'umorismo non giudica, ma tuttavia scopre le stoltezze di
noi mortali «e demitizza se e gli altri»
così che il senso dell'humour rappresenta la valvola di sicurezza per le nostre presunzioni di grandezza o per la
costatazione delle nostre miserie.
Dallo sguardo del Signore, che è amo-
LA GIOIA
cristiana
10
revole, comprensivo e disposto al perdono, apprenderemo il significato di
«un umorismo divino» che accompagna l'opera della salvezza e ci insegna
la speranza che è fonte di gioia «poiché
ci fa guardare alla vita eterna, gioia
suprema per la quale siamo creati; ci
educa ad un nuovo modo di essere
che trasforma il pessimismo in audacia, il disprezzo in pietà, l'insofferenza dei limiti in feconda accettazione».
È così che i nostri occhi sapranno vedere la relatività delle cose e riconquisteremo la giusta prospettiva: «Al colmo
della sofferenza guardati ogni tanto
con humour, onde sfuggire al veleno
che essa distilla...» (Henri-Marie Lubac). Essere triste quando Dio esiste,
quando Dio è la gioia, sarebbe mancare
d'amore per Dio. La vita cristiana è un
cantico di gioia che si comunica e si diffonde come un balsamo, è gioia che
esplode e che canta. Lo spirito cristiano
è uno spirito di gioia. La vita cristiana
imita la vita di Cristo, il sapere che Dio
esiste è la gioia perfetta, immutabile ed
eterna. Per il cristiano dotato di humour, comprendere e sorridere significa
possedere «l'intelligenza del relativo»
che «lo sposta sul terreno dell'assoluto; può così collocarsi al suo giusto
posto, in rapporto a un altro immensamente più grande di lui, che lo avvolge con benevola Provvidenza». Papa Benedetto XVI ci ha ricordato a
Lourdes che la Vergine Maria apparendo a Bernadette le ha sorriso, come a
volerle indicare che il sorriso è una
«porta d'accesso» al mistero del divino
e quindi della redenzione e al mistero
della santissima Trinità. Il sorriso sottolinea tre aspetti qualificanti di Dio: verità, belta e bontà. Il sorriso esprime
gioia, una gioia che «strappa l'anima
dalle miserie della povera vita umana
per elevarla alle più alte vette e farla
entrare nella vita intima dell'adorabile Trinità» (R.P.Bernadot).
Dr. Sergio Mancinelli
Don Gnocchi
pellegrino della carità
Nato il 25 ottobre 1902
a S. Colombano al Lambro - Lodi
Morto nel 1956
D’
ell’Anno Sacerdotale, tempo
di grazia indetto da Benedetto XVI e
consegnato nel giugno scorso, alla
Chiesa universale, uno dei primi frutti
eccellenti è la canonizzazione di don
Carlo Gnocchi. Un prete ambrosiano
vissuto nel secolo scorso, che ha trovato sulle nostre strade la via della santità. Non è un eroe straordinario, ma un
testimone della carità quotidiana. Per
la sua opera e le sue convinzioni è stato detto «padre dei mutilatini» e teorico-teologo del «dolore innocente».
Nel 1956 scrive come suo testamento
spirituale Pedagogia del dolore innocente che anticipa la riflessione cristiana, profondamente spirituale, dell’enciclica del 1984 Salvifici doloris di
Giovanni Paolo II. Nella tragica ritirata di Russia, lungo la valle del Don,
dove migliaia di ragazzi italiani persero la vita, don Carlo che per seguire gli
studenti universitari, di cui era assistente, si era fatto cappellano militare,
fu chiamato a consolare centinaia e
11
centinaia di feriti gravi e moribondi.
Le sue parole di solidarietà estrema
erano: «Andrò a trovare la tua famiglia, mi prenderò cura dei tuoi bambini». Ci si accorse poi che non erano
solo parole di circostanza, ma impegni
testamentari, voti di fedeltà che segnarono per sempre il prete milanese reduce della grande disfatta.
Andò pellegrino di carità per le città
distrutte, in una Italia prostrata e depressa, sfigurata dai bombardamenti e
imbarbarita dalla guerra civile. Di casa
in casa, di famiglia in famiglia raccolse gli orfani, i mutilatini e poi i poliomelitici e i portatori di handicap.
L’unico requisito per entrare nelle sue
strutture sanitarie, nella sua famiglia
del dolore, la povertà e la sofferenza. Il
problema si dilatava con il moltiplicarsi dei suoi viaggi. Per farsi aiutare sviluppò il senso manageriale meneghino, attivò la fantasia e promosse eventi che sulle ali dei mass media resero la
sua opera famosa nel mondo. Il raid
motociclistico Freccia rossa da Milano raggiunse i popoli scandinavi portando il messaggio e la richiesta di aiuti per i bambini (erano allora 15 mila),
vittime innocenti del conflitto; la trasvolata atlantica Milano-Buenos Aires
con un velivolo da turismo di 120 cavalli, battezzato dai giornali argentini
«El Angel de los ninos», fu un trionfo
mondiale. Gli italiani dell’estero, commossi e coinvolti, parteciparono generosi alla causa dei mutilatini. Tra questi, il maestro Arturo Toscanini che
organizzò vari concerti di beneficenza,
dal Canada agli Usa, dall’Argentina al
Brasile.
Don Carlo pensava a questi benefattori
sul suo letto di morte, quando aveva già
disposto di cedere le sue cornee a due
bambini ciechi (anticipando la legge
che renderà legale il trapianto di organi
in Italia) e per questo disse, convinto di
aver fatto tutto il bene possibile: «Amis,
ve racumandi la mia baracca!».
...
Q
uando il cuore è colmo dell’amore di Gesù, si vuole comunicare agli altri il dono ricevuto.
Così in un bel mattino di domenica,
S.E. Mons. Brambilla è tra i nonniospiti della nostra casa di riposo “Villa
Primavera”, zona Ottavia – Roma.
Già prima della celebrazione Eucaristica, Sua Eccellenza incontra cordialmente tante persone e con il suo entusiasmo accoglie, incoraggia e prepara
per l’Eucaristia.
La celebrazione è alle 10,30 e la cappella è troppo piccola per accogliere
tutti, anche i vicini.
Che bello! Monsignor Brambilla ha il
dono di aggiungere festa alla festa.
Durante l’omelia ci fa penetrare nel
cuore la Parola ascoltata e dà nuovo
slancio e amore per accogliere Gesù il
pane di vita che ci sta donando nella
celebrazione Eucaristica.
Negli occhi di tutti si notano gioia,
commozione e consolazione spirituale.
Grazie, Eccellenza! Dopo la celebrazione il Vescovo si reca nella vicina
Clinica «Salus Infirmorum» a far visita ad alcune Suore malate. Ritorna
poi a Villa Primavera dove si trattiene
paternamente con i nonni durante il
pranzo, proprio come un padre buono.
Un momento di preghiera con la recita
dell’Angelus e del Magnificat e poi a
tavola con noi Suore e i due Sacerdoti
studenti-cappellani di Villa Primavera.
Il pasto è ancor più gustoso perché allietato dal nostro caro Monsignor
Brambilla.
Grazie, Eccellenza! Ci ha fatto proprio
un bel dono.
Suor Beniamina
Suore "Ancelle dell'incarnazione"
Villa Primavera Roma
12
Volontariato AVO
all'ospedale
CTO
ono Claudia, responsabile dell’associazione volontari ospedalieri (AVO)
del Centro Traumatologico Ospedaliero CTO di Roma e scrivo queste poche righe per dare una testimonianza
dell’operato quotidiano del meraviglioso gruppo di cui faccio parte.
Il nostro gruppo AVO è infatti presente da 14 anni nelle corsie del CTO ed è
cresciuto nel tempo fino a raggiungere
il numero di 40 volontari, cosicché oggi possiamo coprire molteplici reparti:
da ortopedia a radiologia, dal pronto
soccorso all’unità spinale etc.
Il nostro impegno è quello di portare un
sorriso dove manca, di tenere compagnia a chi è solo, di aiutare a mangiare
e a camminare chi da solo non ce la fa:
gesti semplici che assumono però un
immenso valore se compiuti con l’entusiasmo e l’amore che ci animano. A
volte non è facile mantenere il sorriso di
fronte al dolore, ma un volontario è tale in quanto sente il desiderio di portare
conforto e gioia a chi vive un momento
difficile. È per questo che non esiste un
«compito» nel nostro gruppo, ma esiste
la consapevolezza che dare amore a chi
soffre è la più grande fonte di gioia che
abbiamo a disposizione.
S
I volontari sono un valore aggiunto
all’assistenza ospedaliera.
Così, oltre alla nostra quotidiana presenza in corsia, ci teniamo a festeggiare le occasioni speciali, come abbiamo
fatto per i 18 anni di un ragazzo tetraplegico al quale siamo riusciti a non
far mancare il calore e la gioia degni di
un tale giorno e come facciamo per
ogni Natale, Pasqua o Carnevale: perché chi è in ospedale non deve sentirsi
fuori dal mondo!
E per lo stesso motivo cerchiamo sempre di comunicare con i pazienti, anche quelli chiusi e meno disposti a parlare, alla ricerca di un argomento che li
possa far sentire attivi o di un piccolo
desiderio da soddisfare, come un fiore
o un giornale. L’armonia che regna nel
nostro gruppo è anche merito di un
ambiente così cordiale ed accogliente
come quello che il personale del CTO
ci ha sempre riservato e all’interno del
quale speriamo di continuare a fare del
nostro meglio.
Claudia Muccioli
13
I
Insieme, si Può
«Per non sentirsi soli» che partirà entro l’anno, grazie al contributo della
Regione Lazio. Il saluto del Vescovo
del Centro della Pastorale Sanitaria,
S.E. Armando Brambilla, è stato riportato da Mons. Telesforo, così come il
saluto del presidente Canali della
Commissione Salute del Consiglio regionale, è stato riportato dal suo portavoce, Dott. Colavolpe. A questi interventi
è seguita la lettura dei
messaggi del Presidente della Repubblica Italiana, Sen. Giorgio Napolitano, del
Presidente della Regione Lazio, Dott.
Piero Marrazzo, dell’Assessore comunale, Dott.ssa Sveva
Belviso e quindi la
parola è passata al
Prof. Carlo Caltagirone della Fondazione
S. Lucia che ha introdotto il tema della prima sessione dedicata
agli interventi del Ministero della Salute in materia di Alzheimer, ai farmaci di nuovo impiego
ed all’utilizzo dei farmaci nelle diverse fasi della malattia. Hanno preso la
parola la Dott.ssa Teresa Di Fiandra
del Ministero della Salute, il Prof. Vincenzo Marigliano del Policlinico Umberto I, Clinica Scienze dell’Invecchiamento ed il Dott. Nicola Vanacore
dell’Istituto Superiore di Sanità.
Ha concluso la sessione il prof. Francesco Negro che è stato chiamato a rappresentare la possibile cura dei pazienti attraverso la medicina allopatica in
combinata con quella omeopatica, nel-
l 21 settembre scorso, in occasione
della Giornata Mondiale dell’Alzheimer, si è tenuto, presso la Sala Tirreno della Regione Lazio, il Convegno
nazionale «Emergenza Alzheimer:
verso una migliore assistenza ai malati». Il convegno ha goduto dei patrocini del Senato della Repubblica, della
Camera dei Deputati, del Ministero
della Salute, della Regione Lazio, del Comune di Roma, Ass.to
Servizi Sociali, della
Provincia di Roma e
del Centro per la Pastorale Sanitaria del
Vicariato di Roma.
L’incontro di informazione e di approfondimento è stato moderato dal Prof. Giuseppe
Titti, che ha dato la
parola al presidente
dell’Associazione
SOS Alzheimer onlus,
Dott.ssa Maria Grazia
Giordano, la quale ha
ringraziato gli intervenuti ed ha descritto le
attività dell’associazione a favore dei
malati e delle loro famiglie. Supporti
informativi di carattere legale, fiscale,
consigli su come relazionarsi con il paziente, indicazioni per visite mediche e
specialistiche e poi l’iniziativa dello
portello «Insieme, si può» con in più
il supporto psicologico per i familiari,
l’iniziativa del Salotto Alzheimer della
Capitale, il luogo di incontro di pazienti, familiari, medici ed operatori
OMA, il corso di formazione per
O.M.A., Operatore per i malati di Alzheimer e per le demenze ed infine, il
progetto di assistenza domiciliare
14
dalla Dott.ssa Francesca Allegrucci
dell’ANUCSS. Infine le risposte da dare ai familiari sui tanti interrogativi sulla malattia, sulle strutture presenti sul
territorio, sui servizi, attraverso lo
Sportello «Insieme, si può» dell’associazione SOS Alzheimer, del quale ha
parlato la Dott.ssa Alessandra Italia,
psicologa del Centro Diurno Tre Fontane, in Roma.
Il Prof. Titti ha concluso il convegno,
riassumendone i punti principali e gli
importanti temi trattati, salutando e ringraziando i presenti convenuti, pur in
una giornata di lutto nazionale per
l’Italia.
l’ottica di un approccio globale e più
completo del paziente stesso.
Il Prof. Marigliano ha poi introdotto gli
interventi della seconda sessione, dedicata alle co-terapie. La Prof. Anna Damiani dell’Università Roma Tre ha descritto l’esperienza dei suoi corsisti in
Arti Terapie presso il Salotto Alzheimer, chiamando a testimoniare l’efficacia del trattamento su pazienti nelle prime fasi della demenza, uno dei tirocinanti, Giordano Novielli. Quindi la parola è passata alla PET THERAPY,
l’utilizzo del cane per assistere e stimolare i pazienti con deficit cognitivi. Le
esperienze del caso sono state riportate
N
Notizie su Alcolisti Anonimi
Tutto ha origine col libro «La varietà
dell'esperienza religiosa» del noto psicologo e filosofo William James e con il
dottor Jung che (esiste un carteggio tra
Jung e Bill) ha l'intuizione di usare
«Spiritus contra spiritum» e, per primo, afferma che solo una forte esperienza spirituale può opporsi all'ossessione
mentale della dipendenza alcolica. Questo messaggio giunse così in America fino a un alcolista, un agente di Borsa ormai ridotto sul lastrico, Bill Wilson. Costui cercò di applicare a se stesso questa
cura e – come primo passo della sua rinascita spirituale – si impegnò ad aiutare altri alcolisti; il giorno in cui il secondo alcolista, il dott. Bob Smith, smise di
bere (era il 10 giugno 1935) era nata Alcolisti Anonimi, la prima grande associazione di autoaiuto, che avrebbe reso
famoso il «Programma dei Dodici
Passi», oggi attuato in diverse modalità
da ben ventotto associazioni che si occupano del recupero da molte forme di
disturbi comportamentali cronici quali
la dipendenza da cocaina, da droghe, dal
sesso, dal gioco, ecc.
on è così facile per un alcolista parlare del nostro metodo. È difficile, perché
ciascuno di noi ha una sua storia, ha vissuto il proprio ingresso in Alcolisti Anonimi a suo modo, ha smesso di bere per
i motivi più disparati, vive una propria
esperienza di recupero individuale e di
crescita spirituale. Eppure, tutto questo
accade alla maggior parte degli alcolisti
che, per varie ragioni e seguendo diverse strade, arrivano ad Alcolisti Anonimi;
quindi, qualcosa c'è, un qualche cosa che
accade a tutti gli alcolisti, che provoca
quelle conseguenze che accomunano
tutti noi. E questo qualcosa è il nostro
metodo. Sembra strano parlare di metodo in un'associazione che rifiuta qualsiasi definizione, qualsiasi regola, qualunque gerarchia, qualunque professionalità
nel recupero. Non ci sono tra noi, se non
a titolo personale, medici, psicologi, sacerdoti, assistenti sociali, infermieri. Eppure, un metodo c'è. Qualcosa che funziona in Alcolisti Anonimi in tutto il
mondo e che molti altri, che pure mettono tutto il loro amore nel cercare di aiutare alcolisti attivi, non hanno.
15
I
bri è il rovesciamento della tavola, vedere e amare gli altri, stare con loro, lavorare con loro. Questo è il fondamento del risveglio spirituale che si può ottenere in A. A. e che tiene lontano l'alcolista da tremende ricadute, spesso
per tutta la vita.
Dunque, quali sono gli elementi fondanti del nostro metodo? L'autoaiuto
che si realizza nel gruppo, la responsabilizzazione dell'individuo, la condivisione delle esperienze, l'identificazione negli altri, il rovesciamento
dei valori ponendo gli altri al centro
del mondo, il vivere dando senza
chiedere nulla in cambio, la rinunzia
a qualsiasi aspettativa nei confronti
degli altri, il vivere qui e ora e non più
in un fumoso passato o in un inaffidabile futuro. La Helper Therapy, cambiare ruolo diventando uno che dà aiuto, aiutare per aiutarsi, per avere più
autocoscienza e consapevolezza. La
spiritualità da vivere giorno per giorno,
la rinascita di valori più importanti dei
singoli avvenimenti.
Questi sono gli elementi fondamentali:
del nostro metodo che permette a milioni di persone, in tutto il mondo, di vivere ogni giorno una vita non più da alcolisti ghettizzati ma da uomini consapevoli e perfettamente integrati nel mondo in cui vivono e cui appartengono.
Alcolisti Anonimi
l Programma di A. A. fu costruito dai
primi alcolisti recuperati con l'aiuto di
noti psicologi, medici e religiosi, basandosi sull'esperienza che man mano veniva acquisita e prendendo come modello
di riferimento la spiritualità di San Francesco e della sua Preghiera Semplice.
Tre sono i fattori fondamentali su cui
si basa il recupero che si attua in Alcolisti Anonimi: un risveglio spirituale
che si cerca attraverso il Programma, il
«cambiare ruolo» nel gioco dell'alcolizzato (cfr. Berne), lasciando quello
della vittima per assumere le vesti del
salvatore portando il messaggio agli
altri alcolisti, la forza del Gruppo di
autoaiuto in cui l'identificazione negli
altri, la condivisione delle esperienze,
l'amore reciproco danno quella forza
che nessuno di noi possiede individualmente.
Quando Bill portò il suo messaggio di
speranza a Bob aveva bene a mente due
cose: la propria necessità di condividere la propria esperienza con un altro
(Helper Therapy) e la necessità di un recupero, una esperienza spirituale. Quello che Jung non aveva detto e che Bill
avrebbe solo scoperto con l'esperienza
il terzo elemento fondamentale del
«metodo A. A.»: l'autoterapia di gruppo. Nasceva allora l'autoaiuto, questa
esperienza unica che così tanta diffusione ha avuto nel mondo in questi ultimi
cinquant'anni.
Quello che A. A. propone ai suoi memGRUPPO A. A.
c/o Chiesa SS. Patorni
TRIONFALE - c/o Parrocchia S. Giuseppe
VALLE
VILLA GORDIANI - c/o Sdd. SG. L.A.S.T.
BATTISTINI - c/o Parr. S. Giuseppe all’Aurelio
S. Silvia al Portuenese - c/o Parr. S. Silvia
LINGUA INGLESE
c/o Chiesa SS. Patroni
c/o Chiesa Anglicana
c/o Chiesa S. Andrea
LINGUA POLACCA
Area Lazio Comitato
per l'Informazione Pubblica
INDIRIZZO
Circ.ne Gianicolense, 12 - 00152 Roma
Via Giovanni Bovio, 44 - 00195 Roma
Via del Teatro Valle, 27 - 00186 Roma
Via della Venezia Giulia, 77 - 00177 Roma
Via G. Marello, 5 (angolo V. Boccea) - 00166 Roma
P.zza Augusto Lorenzini - 00149 Roma
Circ.ne Gianicolense, 12 - 00152 Roma
Via Napoli, 56 - 00184 Roma
Via XX Settembre, 7 - 00187 Roma
Via delle Botteghe Oscure, 16 - 00185 Roma
16
TELEFONO
3343963906
3343957068
3343963938
3343952581
3343957823
IL VESCOVO DELLA PASTORALE
SANITARIA VISTO DA UN MEDICO
L
della solidarietà verso i fratelli meno
dotati, che allontana dal proprio tessuto sociale le categorie incolpevolmente improduttive assimilandole a modelli di turbativa e di disagio per le coscienze intorpidite dal benessere, che
respinge insomma tutti coloro i quali
per motivi diversi, non sono più in grado di esercitare la loro competitività
nel mondo del lavoro e pertanto assumono il significato di un peso sociale
a consegna che Gesù lasciò agli Apostoli fu di evangelizzare. Da allora per
sequela ininterrotta, i Vescovi, successori degli Apostoli, predicano la verità,
portando a tutti gli uomini di buona
volontà il Verbo, anche cercando di ripetere e compiere, nel ricordo storico
del transito terreno di Gesù, i suoi gesti e le sue azioni. Come Gesù Buon
Pastore, il Vescovo impone le mani sui
sofferenti per liberarli, sollevare i cuori afflitti, mitigare il dolore (partecipazione emotiva), curare la psiche sollevando l’anima (conforto empatico e
capacità terapeutica nel risvegliare una
fede posta in ombra dalla sofferenza),
essere solidali con chi versa in stato di
difficoltà sia fisica che spirituale è, ed
è sempre stato, il carisma primario richiesto dalla Chiesa, come loro disposizione e preoccupazione, ai suoi Pastori. Il Vescovo con la sua sollecitudine ispirata dalla solidarietà cristiana,
raggiunge nella sua mission, quotidianamente cercando di colmarlo, il vuoto nel sociale, perché sempre particolarmente e paternamente attento alle
problematiche socio-sanitarie che sono espressione delle fasce più deboli e
meno protette. È compito pastorale,
ma anche predisposizione evangelica
del Vescovo e non solo della Pastorale
Sanitaria, visitare gli anziani soli e indigenti, i tossico dipendenti, gli affetti
da AIDS, i senzatetto, i migrantes e i
nuovi poveri e tutte quelle categorie
che appartengono a quella parte dell’umanità non accolta, negletta, indesiderata e respinta. In un mondo che tende a dimenticare i valori cristiani dell’amore verso il prossimo, e quindi
La sofferenza apre il cuore al cuore.
insopportabile, il Vescovo, simbolo significativo e superlativo della accoglienza di Cristo, é colui che prende su
di se i dolori dei fratelli e con empatia
incoraggia qualsiasi iniziativa capace
di portare sollievo e tentare di risolvere i tanti problemi, a volte drammatici,
che assillano tanta parte della umanità,
anche considerato l’allungamento della vita media. Il Vescovo, promuove e
incentiva l’avanzamento morale, materiale e sociale di quei fratelli che vivono momenti di particolare difficoltà
conseguente alle loro condizioni psico-fisiche e socio-economiche, con
opportuni e generosi interventi, così da
17
restituire loro serenità e integrazione
partecipativa sociale. Il Vescovo è colui che da; voce a chi non la ha, allo
scopo di veder ricosciuti diritti conculcati e soddisfatte aspettative legittime.
Questi pensieri ora espressi ci portano
ad una considerazione conclusiva: il
Vescovo, quale pastore, è per sua stessa natura e vocazione volto alla visione dello Spirito e alla meditazione
evangelica dell’amore verso il prossimo e quindi della solidarietà e della
carità. Certo egli non può formulare
opinioni che riconoscano significati e
realtà tecnico-amministrative, ne improvvisarsi manager; ad altri, così specifica incombenza e professionalità,
perché si realizzino oneste, sane e efficienti Istituzioni ed iniziative che, ispirandosi ai principi e agli ideali della
assistenza sociale e della sussidiarietà
per offrire ausilio a chi tanto ne necessita. Se per le evenienze anzidette, il
Vescovo non è, ed è giusto che non sia
abilitato; certo lo è per offrire tutta la
sua partecipazione e la sua assistenza
spirituale con convinta adesione e sincero animo per spronare al bene operare. Il Vescovo, che è testimone del Cristo risorto, è stato scelto dal Signore
attraverso il Successore di Pietro il Papa. Il suo è un ministero, cioè un servizio che si rivolge a Cristo e alla Chiesa e ancora all’intera umanità, in particolare il Vescovo delegato per la Pa-
Ogni letto di Ospedale è un luogo d’incontro.
storale Sanitaria, che è diretto alla speciale cura delle membra sofferenti,
cioè dei malati e a coloro che ad essi si
dedicano. Nello svolgersi della celebrazione liturgica il rito prevede la
«consacrazione» con la quale il Vescovo entra nella sequela ininterrotta
dei successori degli Apostoli, fondamento su cui è costruita la Chiesa di
Roma. Poi il consacrando riceverà «il
libro del Vangelo» che gli sarà imposto aperto sul capo e lo farà annunciatore della Parola; al suo dito sarà infilato «l’anello episcopale» che nella
pienezza del sacerdozio lo farà sposo
della Chiesa, quindi la consegna del
«pastorale», che assume il significato
di guida e di governo del popolo che
gli è stato affidatole ultima l’imposizione della «mitra» simbolo di chiamata alla santità. Ogni Vescovo allorché consacrato, può ripetere le parole
che abbiamo appreso dal Vangelo di
Giovanni: «Non voi avete scelto me,
ma io ho scelto voi» (Gv 15,15). Ma
proprio per questa opzione e in forza
di questa consacrazione, il presule diventa ancor più debitore verso Dio e
verso tutti gli uomini, in particolare il
Vescovo della Pastorale della Salute
che per il suo specifico impegno pastorale ha il compito di umanizzare e cristificare di carità i luoghi del dolore.
Ora mi sia concessa la libertà di esprimere una visuale strettamente profes-
La carezza
del Vescovo
è la carezza
di Cristo.
18
sionale. Al di la dell’intervento del
divino mediato dalla preghiera evocativa del Vescovo, che pur è nella
costatazione nei fatti (Lourdes); a
noi medici è ben noto il concetto psicosomatico della «regressione riorganizzatrice», che consentirebbe
l’attivazione di un processo di guarigione per alcune patologie. Secondo
P. Marty «certe manifestazioni religiose (in particolare la pratica individuale e collettiva della preghiera) favoriscono regressioni di
questo tipo e quindi una migliore
mentalizzazione delle eccitazioni
pulsionali, con evidenti effetti terapeutici». È certo che anche su base sperimentale (USA Medical Center-Università di Pittsburg) l’incidenza della fede sui processi di guarigione è forte, tant’è che «ciascun
individuo anche se agnostico o indifferente ad impostazioni eticoreligiose, è stimolato da riferimenti di tipo trascendente che ricordino una presenza superiore cui fare
riferimento». Letto in chiave psicodinamica, chi più di un Vescovo, con
la sua sacralità gestuale densa di richiami al soprannaturale può attivare una tale fenomenologica?
La scienza, in cui crediamo, per noi
medici, che siamo tutti figli putativi
di Ippocrate, assume significato e
valore di grande speranza per le possibilità che ci riserva la ricerca presente e futura. Ma noi medici, che
siamo anche credenti nel nostro Dio
personale e suoi figli nello Spirito,
resta fermo l’insegnamento evangelico del Cristo medico che chiede ai
sofferenti che accorrono e lo invocano, di credere. Con i suoi interventi
taumaturgici, Egli ci dice che «Dio
ha visitato il Suo popolo» (Lc. 7,I6)
.
Dott. Sergio Mancinelli
Romano Guardini
e le “tribolazioni
umane”
A
d appena due anni di distanza dalla fine del secondo conflitto mondiale
così si esprimeva, in una conferenza
Romano Guardini, scomparso nel 1968.
Il testo, pubblicato due anni dopo essere stato pronunciato, è stato riproposto
in lingua italiana con il titolo «Il diritto
alla vita prima della nascita» nel volume Scritti politici (Brescia, Morcelliana, 2005).
La vita nascente e vita sofferente o al
termine, ci dice Guardini, come occasioni per ribadire ciò che rende l’uomo
inviolabile e richiamare direttamente la
responsabilità del medico. «Un uomo è
inviolabile – scrive il teologo – non già
perché vive e ha quindi diritto alla vita. Un simile diritto l’avrebbe anche
l’animale, poiché anch’esso vive (...)
ma la vita dell’uomo non può essere
violata perché l’uomo è persona». E
poco oltre continua affermando che «la
persona non è un che di natura psicologica, bensì esistenziale. Non dipende
fondamentalmente da età o condizioni psico-fisiche o doti naturali, bensì
dall’anima spirituale che è in ogni uomo». Di fronte a ciò il medico è chiamato secondo Guardini a farsi difensore in
ogni caso della dignità intrinseca di ogni
essere umano dal concepimento fino alla morte e, quasi come l’educatore che
«rappresenta il senso della gioventù
di fronte alle pretese autoritarie della
società», il medico «rappresenta il diritto dell’uomo malato di fronte alla
brutalità dei sani (...) e il diritto dell’uomo in divenire di fronte all’egoi-
19
già allora spesso versava l’agire medico.
«Il singolo diviene irrilevante, il trattamento si fa schematico, le prescrizioni divengono burocratiche (...) e
poi la tendenza a considerare ogni sistema come autoreferenziale e a dimenticare che esso esiste in funzione
dei malati, solo per loro». È difficile
non vedere in quell’«oggi» di più di
mezzo secolo fa molti risvolti della nostra attuale situazione, nella quale ancora «il malato vuol sentire che la malattia è concepita come un processo di vita e che la guarigione è un atto che
aiuta a vivere e non la riparazione di
un guasto in una macchina», e nella
quale si riaffaccia sempre la tentazione
di mettere a punto raffinati strumenti per
misurare la «qualità della vita» che rischiano di oscurarne il valore intrinseco
insuperabile.
Quello del medico, si potrebbe concludere con Guardini, si profila come un
«compito non soltanto scientifico ma
anche etico», che deve manifestare la
disponibilità ad assumere nella propria
responsabilità la vita della persona dagli
albori al tramonto.
La posta in gioco è alta ed esige lo sviluppo di alcuni tratti essenziali di quella che l’autore definisce «la personalità
tipica del medico: la serietà della coscienza di responsabilità con cui vuol
servire il malato, l’acutezza vigile dell’attenzione, la trasparenza della dedizione personale, la forza di concentrazione. E insieme a questi anche
l’impegno dell’autoformazione». «Un
medico – afferma Guardini – non può
vivere a suo piacere». Solo così si può
imparare a conservare «nelle tribolazioni la visione della vita nella sua totalità, il sentimento di ciò che è essenziale e il senso delle distinzioni assolute» venerando «incontro alle tribolazioni umane».
smo degli adulti». «Qui occorre – continua – quell’incorruttibilità, che riposa su una chiara visione dell’essenza
dell’uomo», lontana da ogni utilitarismo e da ogni pretesa di possesso sugli
altri che, «specialmente quando si effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario».
A questo proposito ancora più incisive
risultano le parole di Guardini se lette
nella cornice storica nella quale furono
pronunciate: solo pochi anni prima in
Germania si era visto il lato pratico dello «spaventoso concetto di una vita
priva di valore vitale: prime vittime
furono i malati mentali e gli idioti, sarebbero seguiti gli incurabili – e, infatti, molti di essi vennero uccisi – e i vecchi e gli inabili al lavoro avrebbero
chiuso la serie».
Paradossalmente la società pare oscillare sempre sul baratro della tentazione di
sbarazzarsi dei più deboli, degli «inutili», non accorgendosi che così rischia di
eliminare se stessa: «Senza il contrappeso del carattere di persona proprio
di ogni uomo e della sua intangibilità
– afferma Guardini – le strutture del
potere sono destinate alla rovina di
per se stesse; se rettamente intesi, gli
ammalati, i minorati, gli sprovveduti
sono i difensori dei sani e li custodiscono dall’hybris e dalla crudeltà,
possibilità sempre presenti nella condizione di chi è sano e forte».
Di fronte alla denuncia della profonda
crisi nella quale «la figura e l’attività
del medico sembrano oggi trovarsi» –
crisi della quale, con straordinaria preveggenza, Guardini vede un sintomo nel
«fatto che da diverso tempo la figura
e la vita del medico sono diventati un
soggetto del romanzo e della cinematografia» – l’autore individua nella
«concezione fondamentale dell’uomo
in senso meccanicistico» una delle cause principali dello smarrimento in cui
F.C.
20
Per una rilettura della “Salvifici Doloris”
a 25 anni dalla pubblicazione
DECISIVA
DIO E IL MALE: DUE «DIVERSI» MISTERI
ESPERIENZA UMANA
Sia la protesta come l’esigenza di risposta davanti al dramma-tragedia della sofferenza umana manifestano – secondo la Salvifici doloris – la «profondità che è propria dell’uomo»
(nn. 2.3.29). Per queste la parabola del
Buon Samaritano, che essa ci propone
come icona emblematica, «esprime
una verità profondamente cristiana,
ma insieme quanto mai universalmente umana» (n. 29). «Buon Samaritano è ogni uomo che si ferma accanto alla sofferenza di un altro uomo, qualunque esso sia» (n. 28). In
questo senso risultano significative alcune indicazioni, emergenti fin dall’epoca neolitica, sull’uomo che diventa più uomo nella misura che scopre e accoglie il suo prossimo sofferente (cf X.Le Pichon, Alle radici dell’uomo. Dalla morte all’amore, Padova 2002).
Il nostro primo atteggiamento di homo patiens è quello di resistere e lottare contro il male e la sofferenza.
Tuttavia dobbiamo prendere atto che,
anche se possiamo limitare questa dura realtà, non siamo in grado di eliminarla (cf Spe salvi, n. 37). Sorge quindi dalla profondità dell’essere umano
l’interrogativo religioso: la domanda
sulla sua salvezza piena e definitiva,
sulla liberazione radicale dal male fisico e morale attraverso la comunione
con Dio che ci dona se stesso, la «vita
eterna» (nn.14.15; cf Spe Salvi,
nn.10; 12).
Davanti all’uomo ci sono due misteri,
due realtà che non possiamo comprendere fino in fondo. C’è il mistero – ovvero la incomprensibilità – del male e
della sua esperienza, che è la sofferenza. La sua caratteristica è l’eccesso, la
smisuratezza di una forza negativa che,
con la sua violenza, grava sulla limitatezza di tutte le creature anche innocenti (nn.10-13; cf Deus caritas est, n. 38).
C’è il Mistero di Dio: il suo Essere incomprensibile, in quanto pienezza costitutiva inesauribile di positività, infinita sovrabbondanza «trinitaria» di
Amore, che «trabocca» gratuitamente e
liberamente nella creazione.
La Salvifici doloris riconosce esplicitamente che la universale esperienza
del male e della sofferenza «rimane
sempre un mistero» per ogni uomo,
credente o no, poichè «siamo consapevoli dell’insufficienza e inadeguatezza delle nostre spiegazioni» (n. 13;2).
Questa incomprensibilità si dissolverà
solo alla fine, nella piena luce dell’incontro «faccia a faccia» con Dio (1
Cor 13,12): nel riposo del «Sabato»
definitivo (Catechismo della Chiesa
Cattolica, n. 314). Ma fino ad allora
nel nostro cammino terreno, in «stato
di via», essa non viene abolita ma solo
illuminata dalla fede nel Mistero di
Dio, rivelato in Cristo e comunicato nel
dono dello Spirito. La kenosis (Fil 2,7)
di Dio, il suo effondersi e donarsi a noi
in Cristo e nello Spirito, ci rivela che
l’Assoluto divino è Pienezza trinitaria
21
La Croce illumina la sofferenza.
aiuto a chi soffre (n. 30); anche di coloro che «pur senza la fede in Cristo»
testimoniano la verità, la giustizia,
l’amore. In sintesi, Egli vive e cresce in
tutti coloro in cui si va attuando la parabola umana e cristiana del Buon Samaritano e si vanno compiendo le
«sconvolgenti» parole di Gesù nel giudizio finale (n. 30).
LA SOFFERENZA NON VIENE DA DIO.
EGLI «COM-PATISCE»
Il Mistero (positivo) di Dio, rivelato in
Cristo come Amore, ci vieta nel modo
più assoluto di interpretare il mistero
(negativo) della sofferenza come castigo o prova inflitte da Dio. «Non è vero
che ogni sofferenza sia conseguenza
della colpa o abbia carattere di punizione» (n.11). C’è infatti la sofferenza
innocente, come insegna senza ombra
di dubbio il libro di Giobbe (nn.10-12).
E, anche «se alla base delle umane
sofferenze vi è un multiforme coinvolgimento nel peccato» (n.15; cf
n.26), va decisamente superato il pregiudizio (teologicamente «sadico»)
che la sofferenza umana e cosmica sia
castigo o prova che viene da Dio. Il rispetto per il mistero del male e delle,
sofferenza, che colpisce tutte le creature – anche oltre misura – ci impedisce
di «razionalizzare» tale mistero con la
pretesa di spiegarlo in modo adeguato
(cf n.13). Non ci sembra giusto fare ricorso ad una indebita utilizzazione di
alcuni testi biblici o ecclesiali, riguardanti – per esempio – il peccato originale e il demonio, ai quali peraltro la
Salvifici doloris fa riferimento con
esemplare sobrietà interpretativa (nn.
l5. 26). Sono testi in cui le «immagini»
vanno interpretate «parlando (amichevolmente) al cuore di Gerusalemme» (cf Is 40,2), senza oscurare il primato assoluto di Dio «più grande del
di «umile» Amore che suscita condivisione e comunione. È questo un tema
teologico-esistenziale su cui troviamo
oggi un’ampia e profonda convergenza
ecumenica (cf. Piero Coda, Il Logos e
il Nulla. Trinità religioni mistica, Roma 2003).
GUARDANDO VERSO
IL
CRISTO
Al centro della Salvifici doloris c’è il
messaggio sul «valore salvifico», ovvero sul «senso cristiano», della sofferenza. C’è la «sofferenza vinta dall’amore» in Gesù Cristo (nn.14-18).
Uniti a Cristo ci sono tutti gli uomini in
quanto «partecipi delle sofferenze di
Cristo» (nn. l9-24). Gesù Cristo è il
«massimo» della protesta umana davanti alla sofferenza ed insieme il
«massimo» della concreta risposta di
Dio (n.18). Nella sua morte e risurrezione si esprime fino all’estremo la
«forza» attiva dell’amore, dono dello
Spirito di Amore che salva attraverso la
«debolezza» (n. 23). La nostra sofferenza, vinta e trasformata dal di dentro
mediante l’amore, ci fa partecipare al
mistero pasquale di Cristo, «completando» in noi la crescita del suo Corpo
(nn. 25-30). Cristo è presente sia nel
«bisogno» di colui che soffre e riceve
aiuto, come nell’«amore» di chi dona
22
Cattolica, introducendo il discorso sulla Provvidenza di Dio e il male (nn.
302.1045-1047). Alla base di tutta la
problematica del male, fisico e morale,
c’è la condizione di non compiutezza,
di «non maturità» ontologica e storica della creazione, che è ancora in
«stato di via», ovvero in stato di «genesi». Come affermava S. Ireneo – il
fondatore della teologia cristiana (tra,
il II e III secolo) – la esistenza di Adamo e di ogni uomo è essenzialmente
un cammino di maturazione. Noi diremmo: un cammino di «gestazione»
che coinvolge misteriosamente la creatura e il Creatore, il quale ci genera, ci
partorisce come suoi figli nel Figlio effondendo lo Spirito.
Noi siamo soggetti alla sofferenza perchè siamo ancora infantes – come dice
S. Ireneo – cioè siamo «immaturi»,
non pienamente generati. Per questo
Dio manifesta la sua perfezione di
Amore «facendosi infante con l’uomo
a causa dell’infanzia dell’uomo»
(coinfantiatum est homini ...propter
hominis infantiam) (Adversus Haereses 1V, 38, 2). A nostro avviso, per cogliere fino in fondo il senso cristiano
della sofferenza è importante aprirci a
questa visione di Dio, della creazione e
della Incarnazione. Dinnanzi alla nostra
fragilità creaturale e alle sue implicazioni tragiche Dio non rimane indifferente, insensibile: trascendente e
immutabile in modo apatico. Egli si fa
realmente compassibilis. Viene a vincere il male non evitandolo e facendolo
evitare a noi con la sua onnipotenza
(come noi la immaginiamo): ma condivide solo liberamente per amore e suscitando in noi fraterna condivisione
salvifica. Poiché la vera onnipotenza di
Dio è la vittoriosa onnipotente debolezza di un umile Amore infinito.
nostro cuore», rivelato in Gesù Cristo
(cf 1 Gv 3,20; Rn 8,31-35).
Il principio-chiave di ogni autentica ermeneutica cristiana – stabilito alla luce
delle indicazioni del Vaticano I (cf Dei
Filius IV, DS 3016) e del Vaticano II
(cf Unitatis redintegratio, 11) – va
collocato nel mistero di Cristo, che troviamo al centro della Salvifici doloris.
Mistero cristologico che ha la sua radice ultima nello stesso mistero trinitario.
Il fine ultimo della Incarnazione salvifica del Verbo di Dio è infatti la nostra
partecipazione creativo-salvifica all’Amore trinitario che «trabocca in noi»
(cf nn. 5,5). Il Verbo non è venuto a
placare l’ira e la giustizia di Dio che ci
infliggono castighi o prove. «Egli si è
fatto uomo per poter compatire con
l’uomo, in modo molto reale, in carne e sangue» (Spe salvi, n. 39, citando
San Bernardo). La «compassione» di
Cristo Buon Samaritano, di cui parla la
Salvifici doloris, è in radice lo stesso
Spirito trinitario di condivisione e comunione, che anima nel profondo la vita intima di Dio, e che ci viene donato
trasformando la nostra sofferenza con
la forza dell’amore: «completando» e
facendo crescere il Corpo di Cristo (nn.
l. 24.27; Col 1,24).
LA SOFFERENZA: LE «DOGLIE DEL PARTO»
Per cogliere il valore salvifico della
sofferenza nel suo senso positivo e costruttivo va posta in primo piano la visione della vita cristiana come cammino di maturazione verso la piena nascita a figli di Dio. Al culmine della Salvifici doloris potremmo mettere il celebre testo di Paolo, al quale essa allude al suo inizio (n. 2): «Tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle
doglie del parto...» (Rn 8, 18-27). In
questa direzione infatti ci invita a
guardare il Catechismo della Chiesa
Don Carmelo Nigro
23
U
Quando
guarire
dal cancro
è rinascere nello spirito
n mondo quello della sofferenza, variegato a tinte forti, dove gli ammalati di cancro divengono, loro malgrado, i protagonisti, perché anche se supportati, accolti e compresi, devono aiutarsi a guarire.
Il calvario della malattia è caratterizzato da sofferenze fisiche e psichiche; una
vera e propria via crucis tra viaggi della speranza, ospedali e cure mediche.
Ascoltare l’ammalato, che ha combattuto e sconfitto il cancro, significa porsi all’ascolto di un dolore elaborato, di
una storia di vita tenace e coraggiosa,
vissuta con la forza di lottare per vivere e di farlo con uno sguardo positivo.
Il malato legge il suo dolore; gli permette di attraversare il ponte della nostra umana diffidenza; è questo che lo
rende più ricco nella sua umanità e più
forte.
Ci si chiede come sia possibile reagire
in modo positivo a un’esperienza così
difficile, ma che può anche rappresentare un momento di crescita umana e
spirituale per tutti coloro che ne sono
toccati.
«Dopo una normale visita di controllo e una biopsia la diagnosi è stata poco felice: cancro al seno. Ho dovuto fermarmi. In un istante tutto si
è capovolto. Quel male di cui spesso
si parla, e da cui mai avrei pensato
di essere colpita, era invece diventato il fulcro della mia esistenza».
Dice Gemma, iniziando a parlare del-
la sua esperienza di sofferenza e recupero dopo questo evento doloroso e
traumatizzante nella vita di una donna.
A seguito del quale Gemma, decise di
ricoverarsi presso il reparto di Oncologia del Policlinico Agostino Gemelli
di Roma, per sottoporsi ad un lungo,
ma risolutivo iter terapeutico.
La condizione di Gemma, dal momento del ricovero, comportava inevitabilmente la perdita di ogni certezza sul
suo futuro; e le imponeva una seria riflessione sulle sue risorse interiori cui
avrebbe dovuto attingere, per fronteggiare questa emergenza.
Quella violenta scossa emotiva la faceva precipitare vertiginosamente negli
abissi del proprio io, dove ricercare faticosamente la propria vera essenza.
Dove il senso del limite e dell’ineluttabile portano ad un rapporto di assoluta
autenticità con la vita, aprendo uno
spazio di riflessione sul senso del vivere, del soffrire e del morire; riconducibile ad un disegno divino dalla logica
incomprensibile all’uomo.
«Per superare il dramma è stato fondamentale il supporto della mia famiglia. Mi sono sempre confidata
con mio marito, in lui ho trovato
tanto amore, sostegno morale, fisico
e psicologico. Abbiamo condiviso
ogni paura, ogni ansia, in modo che
io fossi consapevole di quello che
stavo vivendo. A volte comunicavamo guardandoci negli occhi, leggen24
ce; non si sentiva sola nella sua sofferenza. Quella croce portata dal Cristo e
patita da Lui a cui Gemma, sofferente,
si univa.
La luce della sua fede rischiarava quei
momenti bui; elevava il suo spirito dando senso alla sofferenza; senza eliminarle il dolore.
La fede le faceva accettare il suo dolore; consapevole che nella malattia Dio
incontra l’uomo; si china su di lui e si
prende cura di lui.
Ignara del suo destino; Gemma pregando quotidianamente, dialogava intimamente con il Signore.
Fiduciosa nell’amore del Signore, si affidava completamente a Lui; creando
un legame inscindibile fonte di amore e
di pace; che rende l’uomo «riserva
d’amore».
Un soffio di eternità insieme ad uno stato di grazia, che la spingeva ad andare
oltre: questo era l’amore di Cristo trasfuso in Gemma attraverso la preghiera.
Che cosa ha significato per lei superare i pregiudizi nei confronti della malattia?
Accettare la malattia, accettare gli
effetti delle cure, accettare la mia
condizione come un aspetto della vita. Non come passiva rassegnazione,
ma al contrario come accettazione
cosciente e intelligente. È la prima
mossa per il dominio di se stessi e
delle proprie paure.
Come ha influito nel decorso clinico il
contesto umano e professionale del reparto di Oncologia?
Oltre ai farmaci e alle terapie, quanto mai provvidenziali, ciò che ha
particolarmente contribuito al buon
esito delle cure, è stata la professionalità e l’umanità dell’équipe del reparto di Oncologia; dove i medici e
gli infermieri si prendono cura degli
ammalati in un modo speciale.
Quando gli ammalati si sottopongo-
do l’espressione dei nostri volti. I silenzi, le manifestazioni d’affetto valevano e valgono più della relazione
verbale; abbiamo così rafforzato ancora di più quel legame che ci univa», prosegue Gemma.
Aldilà del necessario supporto affettivo familiare che incute sicurezza e serenità, sono comunque la personalità e
le risorse psicologiche e spirituali del
malato che, messe a dura prova, giocano un ruolo cruciale nel superamento
di questa prima difficile fase. Il malato
da protagonista, deve cominciare sin
da quel momento ad adottare una
«strategia di cambiamento»; coltivando dentro se stesso la consapevolezza di dover far crescere la volontà
di vivere; prendere in mano il proprio
destino e osare con uno spirito nuovo.
Con quale spirito bisognerebbe affrontare la malattia?
Con uno spirito, fiducioso e combattivo. Come un percorso verso la guarigione.
Come ha fatto a vincere l’angoscia la
solitudine e il dolore?
Ho pregato ogni giorno, fissando lo
sguardo del Cristo sulla croce.
Nella mente di Gemma si era consolidata l’idea, che la sua, era una prova.
Confortata dal Cristo che si è fatto cro-
La fede rischiara i momenti bui della sofferenza.
25
no alle terapie; sono abbastanza se- Che cosa si sentirebbe di dire agli amreni e si sentono davvero curati.
malati di cancro?
Il valore della centralità del malato, se- Bisogna cercare di vivere, combattecondo una visione antropologica cri- re e sperare, senza arrendersi. La ristiana, pone attenzione al malato in cerca ha fatto grandi passi avanti.
quanto persona; nella sua unità psico-fi- Dal cancro si può guarire. Più del
sica; nella sua sofferenza nel corpo e 50% degli ammalati si salva. Non binell’anima: creando le condizioni psi- sogna mollare perché anche un giorcologiche perché si instauri un’alleanza no in più, è un giorno di vita e va visterapeutica tra medico e paziente, fina- suto con la massima dignità.
lizzata al recupero completo del pazien- Oggi Gemma è guarita. Ha un sorriso
te stesso.
luminoso e una vitalità contagiosa. Ha
Qual’è stato il momento più complesso ripreso la sua attività professionale di
del suo iter terapeutico?
Insegnante. Appare intraprendente e
Il ciclo di Chemioterapia. Mio marito orientata al futuro. Guardandola, nasce
e le mie due figlie accusavano un cedi- spontanea la domanda:
mento psicologiCome ha cambiaco dovuto anche
to la sua vita queal forte coinvolsta esperienza?
gimento affettivo
È stata un’occaed emotivo. Ho
sione per scopridovuto trovare le
re quella mediciparole giuste per
na ancor più efrenderli partecificace chiamata
pi senza però alAmore, che non
larmarli; ho parè semplicemente
lato loro cercanun sentimento,
do di controllare
ma è qualcosa di
le mie emozioni; La malattia un’occasione per scoprire l’amore. più profondo:
non è stato seml’amore di Dio è
plice. Ho cercato di infondere loro fi- più grande e più forte della morte.
ducia. Ho dovuto trovare la forza di Ho conquistato un nuovo equilibrio.
convincere mio marito e le mie.figlie, Ho steso una nuova gerarchia di vaprima di me stessa. Solo l’amore che lori; ho imparato a godere di ogni atprovavo mi ha dato tanta forza. Ho timo bello che mi offre la vita. Da alaffrontato la chemioterapia con forza lora i momenti belli sono molti di più
e determinazione; anche se i risvolti di quanto siano stati prima. Il rapfisici e psicologici non sono mancati.
porto con i miei affetti è più maturo,
Le parole di Gemma rivelavano il suo più consapevole e più felice.
intimo desiderio di volersi e di doversi La testimonianza umana e spirituale di
riappropriare pienamente del suo ruolo Gemma oltre ad offrire un valido
di moglie e di madre. Quell’amore e spunto di riflessione sul senso dell’esquella forza vitale che aveva dentro, sere nella sofferenza, apre uno spiracostituivano l’appiglio invisibile a cui glio di speranza: «Il miracolo della
aggrapparsi, che la induceva a voler ri- vita in Cristo». Una vita trasformata e
costruire una vita apparentemente in- rinnovata.
terrotta.
Angela G. Colicchio
26
E
riore. Cerchiamo di guardare dentro le
persone e i fatti. I comportamenti ci fanno risalire agli atteggiamenti interiori,
ai sentimenti profondi del cuore.
Scene di un cammino: La scena che stiamo guardando va vissuta come un particolare momento, una tappa con le sue luci e ombre di un duplice cammino. Quello del cuore umano verso Dio, anche inconsapevolmente: con una infinita sete
di amore e la esperienza della propria fragilità. E quello del cuore di Dio verso
l’uomo: di Dio che, per primo ci ama, ci
cerca e si vuole incontrare con noi.
Il centro del duplice cammino: Il duplice cammino ha come punto di incontro e centro la persona e il «lieto
messaggio» («evangelo») di Gesù Cristo. In lui Dio Amore «più grande del
cco alcuni cenni alquanto schematici
su un modo di interpretare, meditare e
vivere la Parola di Dio, che non sia disumanizzato da una eccessiva attenzione all’aspetto erudito dei testi biblici. È
un metodo che può aiutare a scoprire
meglio la contemporaneità interiore,
spirituale, esistenziale della Parola di
Dio intesa come «parabola» «simbolo»
della nostra vita. È una via meditativa
e interpretativa in certo modo accessibile a tutti, ma non superficiale. Peraltro può essere approfondita anche a livello teologico, seguendo le indicazioni del documento «L’interpretazione
della Bibbia nella Chiesa» della Pontificia Commissione Biblica del 1993
(al n.3: «approcci attraverso le scienze umane»). Approfondimento ampia-
La Parola di Dio
che risuona dentro di noi
Alla luce dell’iniziativa diocesana della Lectio Divina
nostro cuore» (1 Gv 3, 20) si è rivelato facendosi «carne», morendo e risorgendo per farci dono dello Spirito di
Amore. La umanità di Cristo è in tutto
come la nostra, eccetto il peccato.
Dentro il nostro cuore: Per cogliere il
significato della pagina o «scena» biblica per la nostra vita e per quella di
ogni uomo guardiamo con attenzione in
profondità dentro di noi immedesimiamoci nella scena. Guardiamo ai sentimenti che sperimentiamo nel cammino
verso il traguardo ultimo dei nostri desideri, superando le nostre paure. Sono
sentimenti simili a quelli di ogni uomo,
anche se espressi in forme assai diverse. E ci accorgiamo che sono simili a
quelli che esprimono, a loro modo, le
persone delle scena biblica.
«Tenendo fisso lo sguardo su Gesù»:
(Eb 12,2): Mentre guardiamo dentro di
noi, rivolgiamo lo sguardo verso Gesù
mente presente, pur in modo talvolta discutibile, nel teologo Eugen Drewermann (Psicologia del profondo e esegesi, vv.1-2, Queriniana, Brescia 1996).
Alcune indicazioni orientative
In preghiera: Accostiamoci alla Parola di Dio, diventando veri e trasparenti,
nel raccoglimento silenzioso davanti a
Dio. Dio che ha parlato nel passato desidera parlare con noi oggi: dall’interno del nostro cuore, condividendo con
noi la nostra storia.
Una «scena» da guardare: Guardiamo
con attenzione la pagina biblica che abbiamo davanti, che stiamo leggendo e
meditando. I fatti e i discorsi sono come rappresentati in una scena, in un
quadro di vita vissuta. Ci sono persone
come noi: che vivono, parlano, agiscono mossi da vari sentimenti. Non fermiamoci all’aspetto superficiale ed este27
13,12). Al centro di tutta la storia della
salvezza c’è la radicale, definitiva rivelazione di Dio come Amore in Cristo
«Parola di Dio fatta carne» (Gv 1,14).
Ed è alla luce di questo centro «rivelato» – e del «nostro» desiderio di amore infinito – che vanno rischiarate le immagini delle parole bibliche: rivedendo
e interpretando ciò che esse attribuiscono a Dio. Niente deve oscurare e soprattutto contraddire il primato assoluto di Dio-Amore in Gesù Cristo (cf Rm
8, 31-39). Quando meditiamo la Parola
di Dio noi incontriamo i
limiti, i condizionamenti che umanamente la
caratterizzano, «le cose imperfette e temporanee» contenute
nei libri biblici (cf Dei
Verbum 15: sull’Antico Testamento). Ma è
proprio la nostra meditazione, sotto la guida dello Spirito, che ci
fa crescere nella comprensione della inesauribile ricchezza di Cristo, Parola incarnata di Dio che illumina ogni
altra parola della Scrittura.
Risonanza interiore e verità «sinfonica»: La nostra personale «risonanza»
interiore dinnanzi alla Parola di Dio è
come una «nota» o «tonalità» originale e insostituibile, che viene completata e arricchita dalla risonanza interiore
degli altri fratelli. L’accordo delle diverse note e tonalità è la Verità «sinfonica» (direbbe von Balthasar) della comunione ecclesiale e della universale
storia della salvezza. E la sinfonia della universale «ricapitolazione» in Cristo, realizzata dallo Spirito di Amore,
che «procede» dal Padre, dal Figlio e
dai figli «nel Figlio».
Don Carmelo Nigro
Cristo. In lui ci viene rivelato pienamente chi è Dio e chi siamo noi. «Dio
è Amore» (1 Gv 4, 8-16): noi «desiderio» di lui. E il nostro cuore è inquieto
finché non riposa nel Padre che ci dona
lo Spirito che, unendoci a Cristo, ci rende suoi figli e fratelli tra noi.
Specchio e «parabola» della nostra
vita: Meditando la scena biblica che abbiamo davanti, ci rendiamo conto che
essa è come specchio, immagine, parabola, simbolo della nostra vita e di quella di ogni uomo. La Parabola di Dio ci
illumina per capire la nostra vita, la storia della nostra anima. La nostra
storia vista dal di dentro, a sua
volta, ci introduce alla comprensione della Parola di Dio.
Una storia che continua:
L’incontro tra Dio e l’uomo,
avvenuto nel passato e rappresentato – in un particolare momento nella scena
biblica –, continua oggi
nella nostra storia. È spiritualmente contemporaneo a noi. Il cuore dell’uomo, di ogni tempo e luogo, è
il «dove» più vero del nostro incontro
con Dio che avviene nella storia, in quella di ogni giorno. I fatti esteriori di questa storia quotidiana possono essere diversi da quelli descritti nel racconto biblico: senza aspetti straordinari e miracolistici. L’incontro con Dio non li cambia direttamente dall’esterno, ma può trasformarli dall’interno, realizzando giorno dopo giorno il «miracolo» della carità, probabilmente senza clamore come
il «crescere in sapienza, età e grazia»
di Gesù nei 30 anni di Nazaret (Lc 12,
40.52). È, in fondo, la carità supercarisma celebrato da Paolo in 1 Cor 13.
Il limite della Parola di Dio: Nelle parole della Bibbia noi non vediamo Dio
«faccia a faccia» ma «in modo confuso come in uno specchio» (1 Cor
Cappellano Ospedale S. Lucia
28
l’attesa del miracolo, però, l’esperienza
della sofferenza attraverso il sacramento diventa esperienza di comunione con
il Signore, nella sofferenza che egli ha
affrontato per la nostra salvezza.
Il dolore dell’uomo suscita anche nel
credente interrogativi che restano senza risposta. Ma nella comunione con
Cristo il dolore non resta privo di senso: è l’abbandono di sé nell’amore di
Dio che lo rende vivibile. Di questa grazia il sacramento dell’Unzione è il segno e lo strumento.
Quali sono gli effetti del Sacramento
dell’Unzione degli infermi?
Esso conferisce un grazia particolare,
che unisce più intimamente il malato alla passione di Cristo, per il suo bene e
per quello di tutta la Chiesa, donandogli conforto, pace, coraggio, e anche il
perdono dei peccati, se il malato non ha
potuto confessarsi. Questo sacramento
consente talvolta, se Dio lo vuole, anche il recupero della salute fisica. In ogni
caso, questa Unzione prepara il malato
al passaggio nella casa del Padre.
Il sacramento dell’Unzione dei malati
non deve essere celebrato solo in vista
della morte: il suo contenuto è anche la
grazia di vivere la malattia sotto il segno
della speranza, quella speranza in Dio
che va oltre la morte. Anche della speranza di guarire, quindi, perché Dio fa
anche miracoli e Gesù ci ha sempre esortato a domandare qualsiasi cosa al Padre, con filiale confidenza. Al di là del-
Che cos’è il viatico?
È l’Eucaristia ricevuta da coloro che
stanno per lasciare la vita terrena e si
preparano al passaggio alla vita eterna. Ricevuta al momento del passaggio da questo mondo al Padre, la Comunione al corpo e al sangue di Cristo morto e risorto è seme di vita eterna e potenza di risurrezione.
Cronaca nera nel deserto,
così l'altro ci chiama
te le tue forze» e «Amerai il prossimo come te
stesso». Il dialogo ha, però, una
svolta nell'ulteriore replica dello scriba:
«Chi è mai il mio prossimo?». Gesù ricorre a una parabola (Luca 10, 25-37)
che alla fine ha un interrogativo rilanciato allo scriba: «Chi ha agito come
prossimo?». Il ribaltamento è evidente: invece di interessarsi «oggettivamente» alla definizione del prossimo,
Gesù invita a comportarsi «soggettivamente» da prossimo nei confronti di chi
è nella necessità. Un viandante sta percorrendo quella strada che si snoda tra
i monti del deserto di Giuda. All'improvviso, si ha un assalto di briganti che
D
avanti a Gesù si presenta un dottore della legge che gli pone un quesito: «Maestro, che devo fare per
ereditare la vita eterna?». Gli impegni
dell'ebreo osservante erano stati codificati dalla tradizione rabbinica in 613 precetti estratti dalla Bibbia, 365 negativi
(quanti sono i giorni dell'anno) e 248 positivi, tanti quante erano le ossa del corpo umano secondo l'antica fisiologia.
Gesù risponde citando due passi biblici, entrambi legati all'«amare»: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo
cuore, con tutta la tua anima, con tut-
29
le spese successive con due denari. Il
suo è un amore personale, sottolineato
nell'originale dalla ripetizione del pronome greco autós: «passò vicino a lui,
gli fasciò le ferite, lo caricò sul suo giumento, lo condusse alla locanda e si
prese cura di lui... Prenditi cura di
lui!». Il sacerdote e il levita incarnano
la rigida sacralità che separa dal prossimo; il samaritano rappresenta la vera
santità che si unisce al dolore per salvarlo. L'impatto che doveva avere la parabola sull'uditorio di Gesù è ben reso
da un esegeta moderno: «Immagina tu,
bianco razzista e magari affiliato al
Ku Klux Klan, tu che fai chiasso se in
un locale entra un negro e non perdi
l'occasione per manifestare il tuo disprezzo e la tua avversione, immagina di trovarti coinvolto in un incidente
stradale su una via poco frequentata
e di star lì a morire dissanguato, mentre qualche rara auto con un bianco
alla guida passa e non si ferma. Immagina che ad un certo punto si trovi a passare un medico di colore e si
fermi per soccorrerti...». Certo è che
nella parabola appare in tutto il suo
splendore il messaggio cristiano dell'amore. Lo scrittore Luigi Santucci nel suo
racconto Samaritano apocrifo ha ricordato la presenza del personaggio evangelico sui vestiboli dei lazzaretti e dei
luoghi pii, mentre il musicista Benjamin Britten ne ha riproposto la figura
nell'intensa Cantata misericordium op.
69, composta nel 1963 per il centenario
della Croce Rossa. Ma il Buon Samaritano va oltre ogni filantropia, celebrando un amore assoluto e religioso, intrecciato con quello di Dio e per Dio.
Nell'apocrifo Vangelo di Tommaso Gesù ripete: «Ama il tuo fratello come
l'anima tua. Proteggilo come la pupilla dei tuoi occhi. Amalo come Dio
ti ama e vuole essere amato».
Mons. Gianfranco Ravasi
«lo spogliano, lo coprono di percosse
e se ne fuggono lasciandolo mezzo
morto». Ancora nel 1931 il Vescovo anglicano di Gerusalemme era stato ucciso da un gruppo di predoni proprio mentre stava recandosi su questa strada da
Gerusalemme a Gerico e non è da escludere che Gesù abbia preso spunto da un
fatto contemporaneo di cronaca nera. Un
corpo insanguinato, il silenzio del deserto, l'attesa di un passaggio. Ecco, finalmente, da lontano un sacerdote... Ma
subito la delusione: «Passò oltre dall'altra parte» della strada. Ecco un altro passaggio, un levita. Di nuovo la delusione: anch'egli «Passò oltre dall'altra parte». Ecco, però, un terzo viandante, un «eretico» samaritano appartenente a una comunità che nella Bibbia
è chiamata «lo stupido popolo che abita in Sichem», anzi, «neppure un popolo» (Siracide 50,25-26). Eppure è solo lui che si accosta e si piega sull'ebreo
ferito, suo nemico religioso e politico,
per aiutarlo. Gesù non si perde nei particolari per i primi due, cercando spiegazioni per il loro atto di omissione, motivato forse da ragioni rituali (il sangue
e la morte rendevano impuri chi vi entrasse in contatto) È curioso notare che
nel Talmud si affronta il caso inverso di
un ebreo che trova per strada un samaritano e un pagano feriti: naturalmente
non è tenuto a prestare soccorso (Abodah Zara' 26). Gesù si ferma, invece,
sulla figura-modello del samaritano; egli
si fa ed è prossimo del sofferente senza
interrogarsi su chi è questo prossimo da
aiutare. «Si fa vicino», le sue viscere si
commuovono, il suo amore è operoso:
fascia le ferite, vi versa vino e olio secondo i metodi del pronto soccorso antico, carica la vittima sulla sua cavalcatura, la depone solo quando giunge al
caravanserraglio che funge anche da albergo, per due volte si ripete il verbo
«prende cura», contribuisce anche al30
Il discorso del patriarca di Venezia
per la festa del Santissimo Redentore
IL Dolore Umano E IL
SILENZIO DELL’ABBANDONO
F
ar memoria, dopo più di quattro secoli,
dei benefici ricevuti dai nostri padri, liberati dalla peste che aveva colpito la
nostra città verso la fine dell’estate del
1576, è più che mai ragionevole. Ha lo
spessore del bisogno di liberazione particolarmente sentito, quest’anno, dal nostro popolo. In questi ultimi mesi, infatti, siamo stati ripetutamente e duramente colpiti da eventi che ci hanno costretto a guardare in faccia la realtà del
dolore e della sofferenza. La loro presa
feroce ha provocato profondi strappi nella spessa coltre di distrazione e di evasione con cui sovente attutiamo l’urto
della realtà: dalla vicenda di Eluana Englaro, al violento terremoto negli Abruzzi, alla recente sciagura di Viareggio.
Per non parlare delle conseguenze, a livello planetario, della crisi economica,
del tremendo carico di sofferenze e di
morte causato da guerre, terrorismo e
repressione, dalle contraddizioni legate ai processi migratori, dalle calamità
spesso connesse col degrado ecologico... Ma nessuno di questi mali morde
la carne come quelli in cui ci imbattiamo direttamente, quando il dolore e la
sofferenza ci sorprendono nella malattia e nella morte dei nostri cari e ancor
più di noi stessi.
Personalmente sono stato provocato a
mettere a tema del Discorso del Redentore il dolore e la sofferenza durante la Visita Pastorale, incontrando nelle
loro case alcuni ammalati gravi o gravissimi. La questione si è fatta per me
più urgente, direi indilazionabile, a partire dai volti, dagli sguardi e dalle pa31
role, poche ma radicali, che mi sono state rivolte da loro e dai loro cari.
(...) Vogliamo qui limitarci a riflettere
un poco sull’immenso travaglio di dolore e di sofferenza che l’umanità nel
suo insieme, ma sempre nella carne dei
singoli, deve sopportare. Se – come diceva Agostino – ogni uomo quanto tale è «una grande domanda» («magna
quaestio»), al cuore della domanda-uomo sta l’interrogativo su sofferenza e
sul dolore.
Gli scaffali della farmacia umana
Con questa colorita espressione Balthasar descrive i principali tentativi umani
di affrontare l’angoscioso interrogativo
del dolore e della sofferenza. Nella sua
analisi prende anzitutto in esame due
categorie apparentemente opposte, ma
in realtà accomunate dallo stesso atteggiamento rinunciatario: il «disfattismo»
e la «ribellione». Vorrei dire una parola su queste posizioni, chiarendo subito che intendo limitarmi a coglierne la
radice antropologica senza esprimere
giudizi sulle singole persone.
Il «disfattismo» è obiettivamente alla
base della tentazione del suicidio, sia esso attuato in prima persona o «assistito», come si dice a proposito di talune
pratiche di eutanasia. Si tratta di una vera e propria «resa davanti ad un eccesso
di sofferenza, pensando così di liberarsene» (Balthasar). Il cuore dell’uomo percepisce immediatamente l’estrema fragilità di tale posizione. Anche nel
caso, talora richiamato, del suicidio di
dalo), perché svelano il permanere di
una marcata impotenza di fronte alla
violenza di certi mali. Rispuntano insicurezza, paura e angoscia. (...)
certi stoici, esso resta, come diceva Wittgenstein, «il peccato per eccellenza».
Nel suicidio, quando è compiuto in libertà e con premeditazione non si offre
la vita. La si sottrae a se stessi. Inoltre
una simile soluzione è viziata da un esasperato individualismo che non mette in
conto la sofferenza arrecata ad altri.
La seconda posizione, la «ribellione»,
è autocontraddittoria. Per finire non
identifica nessuna persona contro cui ribellarsi. Anche se di volta in volta può
chiamare in causa Dio, l’umanità o il
male radicale, in realtà si riduce ad una
rivolta per la rivolta, estrema quanto velleitaria sfida contro il dolore, nell’illusione di farlo tacere.
Altra è la posizione di chi non si ferma
sul soggetto che soffre, ma si impegna
per una riduzione progressiva del dolore nell’orizzonte di un più generale progetto di miglioramento del mondo: un
nuovo umanesimo in grado di riconciliare l’uomo con la natura (Marx), il passaggio dal nulla all’essere (Bloch), dalla bestialità alla vera umanità (Teilhard
de Chardin). Un caso particolare è quello di Nietzsche per il quale il dolore esalta la «natura bellicosa dell’uomo» preparando il superuomo.
Ma la battaglia contro il male, così concepita, quanta sofferenza del singolo richiede?
Oggi però prende sempre più peso un
atteggiamento molto pragmatico che intende aggredire frontalmente il dolore
e la sofferenza nel tentativo di eliminarli. Nasce dal potere scientifico e tecnologico che, soprattutto nel campo della medicina, sembra rendere l’uomo padrone della salute e della vita nella convinzione che, in un futuro neppure tanto lontano, il dolore e la sofferenza potranno essere sconfitti.
In questa prospettiva tragedie come
quelle dell’Aquila e di Viareggio diventano una pietra di inciampo (scan-
La sofferenza radicale di Gesù
(...) La Sacra Scrittura illumina aspetti
importanti per la comprensione del dolore del mondo (Capitoli 2 e 3 del Libro
della Genesi) senza però preoccuparsi
di fornire una teoria risolutiva al riguardo. Si limita per lo più a descrivere in
vario modo l’esperienza che il credente
vive come una prova ultimamente permessa dalla bontà di Dio per la purificazione della propria fede. «Ringraziamo il Signore, nostro Dio, che ci mette alla prova, come ha già fatto con i
nostri padri. Ricordatevi quanto ha
fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco e quanto è avvenuto a Giacobbe in Mesopotamia di
Siria, quando pascolava le greggi di
Làbano suo zio materno». Così il Libro di Giuditta (8, 25-27). Anche il Nuovo Testamento, in modo più essenziale,
sostiene che Dio fa passare dal crogiolo del dolore e della sofferenza coloro
che gli stanno vicini. Così nella Prima
Lettera di Pietro (I, 7), in quella agli
Ebrei (12, 6) e nell’Apocalisse (13, 19).
Ma all’uomo che sperimenta il male radicale (Kant), il male ingiustificabile
(Nabert), il male innocente (don Gnocchi) la tesi della permissione del male
da parte di Dio può bastare?
Gesù Cristo non ha elaborato alcuna teoria per spiegare l’esistenza del dolore e
della sofferenza nel mondo. Egli ha imparato «l’obbedienza dalle cose che
patì e, reso perfetto» (Lettera agli
Ebrei 5, 8-9) ha attuato un’opera di redenzione in forza della quale ogni sofferenza riceve luce. Per questo «la risposta cristiana al Mistero della sofferenza non è una spiegazione, ma una
32
presenza» (Cicely Saunders).
Nell’opus Dei di Gesù Cristo, il Figlio
fattosi uomo per noi, Colui che poteva
non morire, morendo ha inchiodato tutto il male assumendolo direttamente su
di sé. Non ha sperimentato solamente
atroci sofferenze di ordine fisico, ma
consegnandosi liberamente alla morte
di croce ha fatto un’esperienza irrepetibile di dolore morale: l’abbandono da
parte del Padre.
Il grido del Salmo 22 – «Dio mio, Dio
mio, perché mi hai abbandonato?»
(Marco 15, 34) – è quello del Figlio, cui
il Padre era ben noto. Legato al Padre
nel vincolo dello Spirito, Gesù accettò
tuttavia di sperimentare nella sua persona il dolore radicale della separazione,
apparentemente definitiva, dal Suo
Amore. San Paolo scrivendo ai Corinzi usa parole estreme: «Colui che non
aveva conosciuto peccato, Dio lo
trattò da peccato in nostro favore»
(Seconda lettera ai Corinzi 5, 21). Che
significa questo? Può voler dire soltanto che Gesù fece l’esperienza del dolore e della sofferenza più radicale: la perdita dell’Amore. Il peccato infatti separa, annulla ogni relazione.
Si intravvede l’abisso del misterioso dialogo tra la domanda angosciata del Figlio abbandonato sulla croce e la risposta del Padre, fatta di silenzio. Lo
Spirito Santo però, presente sul Golgota, garantisce il simultaneo «allontanarsi silente come il silente riavvicinarsi» dei Due (Balthasar). Ora «nel
silenzio del Padre di fronte alla domanda del Figlio si trova il luogo proprio della sofferenza». Di ogni umana
sofferenza.
Gesù ha vissuto questa esperienza liberamente – sponte, dice sant’Anselmo –.
La Sua missione, in obbedienza alla volontà del Padre, non fu solo la scelta della solidarietà di Dio con l’umanità sofferente, ma anche una scelta compiuta
al nostro posto. Non solo con noi, ma
per noi (sostituzione vicaria). Le sofferenze, la morte e la risurrezione di Gesù hanno la forza di espiare tutti i peccati del mondo. Siamo di fronte al mistero insondabile del dolore umano del
Figlio di Dio, al dolore abbracciato dalla libertà umana della Persona divina
del Verbo. Niente era più contrario all’innocenza di Gesù quanto l’espiare
(purificare, come si evince dalla sua radice etimologica ex-pius) per i peccati
che non aveva commesso, ma proprio
perché è il «Puro» in assoluto, bevendo il calice della sofferenza come antidoto della morte, vince la morte e il peccato in nostro favore.
Ci aiuta a comprenderlo qualche dato di
esperienza: per l’uomo è impossibile
compiere imprese encomiabili di qualsiasi tipo senza una dose elevata di sofferenza; nella vita di ogni uomo non esiste genuina fecondità senza dolore; soprattutto, l’uomo che compie ingiustizia
viene restaurato nella sua dignità tramite l’espiazione che lo riconduce nella verità. (Da qui scaturiscono importanti conseguenze per il sistema penitenziario. La pena infligge una sofferenza il cui scopo non può essere la vendetta, ma il medicinale recupero nella
verità del condannato).
Il Redentore, morendo sulla croce al nostro posto, svela tutta la fecondità del
dolore.
La fecondità dell’umana sofferenza
(...) «Perché mi hai abbandonato?»:
una domanda filiale che ha come risposta il silenzio paterno. Non una domanda senza risposta, perché anche il
silenzio è una risposta. Non è forse l’esperienza preponderante che ciascuno
di noi fa di fronte alla sofferenza altrui? Il restare zitti, il non sapere cosa
dire.
33
(...) Il Redentore non ha cercato di cancellare il dolore attraverso una teoria più
brillante delle altre, ma ha compiuto
un’opera di totale immedesimazione
nella sofferenza, illuminandone il significato profondo: la collaborazione
alla Sua redenzione del mondo. Per
quanto parlare di espiazione delle colpe del mondo possa infastidire la nostra
sensibilità post-moderna, non possiamo
negare questa realtà. Don Gnocchi, che
sarà fra poco proclamato Beato, condividendo lungo tutta la sua vita il dolore e, soprattutto il dolore innocente –
quello che più ci tenta di ribellione contro Dio, in un celebre scritto, racconta
come i suoi mutilatini, una volta resi
partecipi di questa prospettiva, trovassero energia quasi sovrumana di sopportazione del dolore. In tal modo il dolore da condanna diventa merito, da limite espressione di gloria sovrabbondante, da morte risurrezione.
La sofferenza di Cristo è, quindi, inclusiva, cioè consente l’accesso alle altre sofferenze, che possono, in unione
con la sua, espiare in modo vicario. San
Paolo osa scrivere ai cristiani di Colossi: «Ora io sono lieto nelle sofferenze
che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo,
manca nella mia carne a favore del
suo corpo che è la Chiesa» (Lettera ai
Colossesi I, 24).
Qualche settimana fa un padre, parlando
del figlio dodicenne appena morto in un
incidente stradale, poteva dire: «Non è
vero che Dio dà e toglie; Dio dona
sempre». Qui siamo scesi in profondità,
ben oltre la tesi della pura permissione
del male.
Questa consapevolezza non rinuncia all’indefesso impegno teso a combattere
la sofferenza umana, ma – come mostrano le plurisecolari opere di carità cristiana – sprigiona una creatività non utopica.
Per una cura integrale
Vorrei ora lasciarmi condurre dalla logica dell’incarnazione propria della della fede cristiana a considerare il nostro
comportamento di fronte ad alcuni casi di sofferenza estrema. Spesso, davanti
a queste situazioni-limite, ci smarriamo
e sembriamo incapaci di un atteggiamento costruttivo. Non mi riferisco innanzitutto ad una fragilità personale nel
portarle, quanto piuttosto a una mancanza di chiarezza nel valutarle.
Sto parlando dei malati in stato vegetativo e di quelli terminali. Sollevano
questioni scottanti che sono, tra l’altro,
proprio in questi giorni, oggetto di dibattito parlamentare. Mi riferisco al disegno di legge sul fine-vita e a quello
sulle cure palliative.
Vista nel quadro delle considerazioni
svolte, l’esperienza dell’uomo provato
dalla malattia e dalla disabilità, con l’inevitabile carico di dolore e di sofferenza, getta luce anche sull’azione terapeutica della medicina. Questa è autentica solo se l’intervento lenitivo della sofferenza è proposto all’interno di
una visione integrale dell’uomo.
Infatti, nella salute e, specialmente, nella malattia («L’uomo nella prosperità
non comprende, è come un animale
che perisce» ci rammenta con crudezza il Salmo 48), benessere e dolore non
sono separabili, come si è visto, da una
domanda di significato.
La scienza medica è chiamata a tentare
con tutte le sue forze di far regredire il
più possibile i confini della malattia e
della morte, senza mai dimenticare che
anche le situazioni di sofferenza estrema, e perfino il morire, possiedono un
significato obiettivo nell’economia della vita umana.
Non pare falsificabile la convinzione,
maturata da molti esperti, che quello che
34
Secondo gli esperti un «caso» assai diverso è quello dei cosiddetti «malati
terminali», ad esempio quelli affetti da
sclerosi laterale amiotrofica (SLA). E
proprio questo l’ambito in cui si aprono gli interrogativi sui presunti accanimenti terapeutici e sulle pratiche di eutanasia.
Visitando taluni di questi ammalati, mi
è sorta una domanda: non siamo piuttosto noi sani a chiedere la «morte degna», mentre i malati chiedono una vita degna anche con la malattia, una vita
degna fino all’ultimo istante, fatta di
quello che caratterizza l’uomo: la capacità di amare e di essere amati? Essi hanno il problema del non abbandono, di
qualcuno che li accompagni nel percorso di cura in tutte le sue fasi e in tutti i
suoi aspetti. Raramente ho intuito la decisiva parte che hanno le relazioni amorose nella cura di un paziente terminale
come quando ho visto tre figli — di 8,
l0 e 11 anni — accudire un padre quarantottenne malato di SLA in grado di
comunicare solo con le palpebre.
Un esempio prezioso e concreto di cosa significhi prendersi cura di questi malati ci viene offerto dalle cure palliative. La moderna definizione di tali
cure, data dalla «European Association
for Palliative Care», recita: «Le cure
palliative sono la cura attiva e globale prestata al paziente quando la malattia non risponde più alle terapie
aventi come scopo la guarigione. Il
controllo del dolore e degli altri sintomi, dei problemi psicologici, sociali e spirituali assume importanza primaria... Le cure palliative rispettano
la vita e considerano il morire un processo naturale. Il loro scopo non è
quello di accelerare o differire la morte, ma quello di preservare la migliore qualità della vita possibile fino alla fine». «Inguaribile», infatti, non è
sinonimo di «incurabile».
comunemente si chiama «stato vegetativo» non sia una malattia, ma la più
grave delle disabilità. La vita di chi si trova in questa condizione non dipende dai
sempre più sofisticati strumenti della medicina tecnologica né da una particolare
terapia medica, ma da quello da cui noi
stessi dipendiamo per vivere: l’acqua, il
cibo, la mobilizzazione, l’igiene, la relazione e un ambiente disposto a sostenere le nostre fragilità. Lo stato vegetativo,
quindi, non ha bisogno di straordinarie
apparecchiature di supporto delle funzioni vitali, ma solo di vicariare le esigenze che il malato non è in grado di assolvere da solo: igiene, movimenti, deglutizione (quindi alimentazione e idratazione). Forse questa è la più misteriosa delle situazioni, di grande difficoltà
diagnostica, e interroga molto profondamente sulla dignità della persona umana
e sul mistero del suo essere.
Le tecniche della neuroradiologia funzionale mostrano, a detta dei suoi cultori, che la coscienza di colui che si trova in simile stato non è affatto spenta.
Inoltre gli esperti che hanno coniato il
termine «stato vegetativo» a proposito
della sua presunta irreversibilità affermano che questa categoria «non ha valore di certezza, ma è di tipo probabilistico». La cura della persona in
questo stato è, allora, una presa in carico semplice, a basso contenuto tecnologico, anche se a elevato impegno umano e assistenziale. Pur consapevole delle forti improbabilità di ripresa, sa
accompagnare sempre il paziente, senza mai cadere negli opposti eccessi di
un accanimento o di un abbandono.
La letteratura attesta che una simile cura integrale, in taluni casi, consente di
ottenere risultati sorprendenti e assolutamente inattesi come il recupero
stabile della coscienza e la capacità di
alimentarsi per via orale fino al rientro
al domicilio.
35
Questa definizione appare improntata
al più grande realismo. Di essa devono
tener particolare conto i curanti, dal momento che non pochi studi hanno mostrato che la domanda di eutanasia o suicidio assistito in pazienti in fase terminale dipende in modo significativo dall’atteggiamento degli operatori sanitari
e dei familiari nei confronti della vita,
della malattia e soprattutto dell’ammalato.
lore lieti» (cfr Seconda lettera ai Corinzi 6, io) e di poter così lenire le sofferenze dei nostri fratelli uomini. Per
questo ci vuole rispetto della vita, pazienza nell’accompagnamento, ma – soprattutto – educazione al gratuito, all’amore come dono totale di sé. Questa
è la testimonianza che da secoli i cristiani e gli uomini di buona volontà offrono al mondo. Ieri come oggi, migliaia di persone sono vicine ai malati,
ai moribondi, agli angosciati che hanno perso tutto, ai troppi provati dalla
miseria e dalla fame. L’oceano di carità che anche nelle nostre terre il popolo cristiano, con umiltà ed efficacia, offre a chi è nel dolore è il riverbero di
quell’eloquente silenzio che il Redentore non smette di offrirci come credibile risposta al nostro grido di desolazione.
Ma, soprattutto, sono l’offerta di sé e la
preghiera semplice (Santo Rosario) di
quanti sono vittime del dolore di qualunque genere ad indicarci la grande verità che la vita è fatta per essere donata
e non trattenuta. (...) In quest’ottica l’accettazione dei mali fisici e il pentimento per il male compiuto sono alla nostra
portata. Perfino la nostra stessa morte
può essere, come supplicava Rilke, personale, se fin dal tempo della prosperità
e del benessere la si guarda come autentico dono di sé. Lo sapevano bene i
nostri vecchi, usi a recitare la preghiera
dell’«Apparecchio alla buona morte».
Il mistero del dolore e della sofferenza
sta inesorabile davanti a ciascuno di noi,
ma il suo valore è già fin d’ora custodito
nel nucleo incandescente dell’amore trinitario. Per affrontarli ci è stata donata,
quindi, una strada luminosa. A condizione che la libertà di ognuno di noi li
assuma quotidianamente nell’orizzonte dell’autentico amore di Dio, degli altri e di se stesso.
Cardinale Angelo Scola
Leggi giuste
Tra i fattori che influenzano in modo
sostanziale le scelte della persona sia
perché impongono divieti e riconoscono
diritti, sia perché contribuiscono a formare una mentalità va annoverato il
contesto normativo di un Paese. Per
questo il legislatore deve riporre la massima cura nel fare leggi oggettivamente giuste.
A proposito della Dichiarazione anticipata di trattamento (DIT), sento la
responsabilità di invitare il legislatore a
garantire quei principi irrinunciabili più
volte richiamati dalla Conferenza episcopale italiana. Nello stesso tempo il
pronunciamento legislativo sulle cure
palliative deve essere al più presto attuato e dotato di tutti i mezzi finanziari
perché siano capillarmente praticabili
nel nostro Paese. Risorse economiche
adeguate vanno investite anche nella
normale terapia del dolore.
Nel dolore lieti
Dolore e sofferenza, nel loro carattere
misterioso consegnato alla libertà di ciascuno di noi, ci hanno portato al cuore
dell’amore trinitario che si è coinvolto
con questa condizione-limite dell’uomo. In Cristo Gesù siamo resi capaci
della paradossale ma umanissima esperienza vissuta da san Paolo: «Nel do36
“Norlevo” e farmacisti:
dieci domande e risposte
La questione della “pillola del giorno
dopo” (Norlevo) e della obiezione di coscienza dei farmacisti impone di rispondere con chiarezza a dieci domande.
1) Il farmacista appartiene o no al
“personale sanitario”?
Sì. Lo dice l’art. 99 del R.D. 27.7.1934
e l’art. 9 della L. 194/1978 garantisce
l’obiezione di coscienza a tutto il “personale sanitario”.
2) La ragione del riconoscimento dell’obiezione di coscienza è o no il rispetto della coscienza di chi non vuol
contribuire alla uccisione di un essere umano?
Sì, ovviamente.
3) La “pillola del giorno dopo” può o
no determinare la morte dell’embrione?
Sì, lo dicono il foglietto illustrativo del
“Norlevo”, e una parte ragguardevole
della scienza.
4) Nel caso di dubbio sull’effetto uccisivo di una determinata azione umana si deve rispettare o no il principio
della precauzione?
Sì, ovviamente.
5) Che l’assunzione della “pillola del
giorno dopo” possa determinare un
precocissimo aborto è o no affermazione ragionevole?
Sì, vedi la risposta al n. 3.
6) Nel caso di dubbio di fatto (ci sarà
stato o no il concepimento?) o teorico (la pillola può impedire l’annidamento o soltanto la fecondazione?) la
coscienza di chi non intende contribuire alla distruzione dell’embrione
deve o no essere tutelata?
Sì, ovviamente.
7) I1 riconoscimento legale della obiezione di coscienza sospende o no gli
obblighi giuridici derivanti dalle norme generali, in particolare il dovere
del farmacista di rifornire tutti i prodotti iscritti nella farmacopea ufficiale?
Sì, altrimenti non ci sarebbe bisogno
dell’eccezione costituita dalla obiezione di coscienza.
8) Poiché lo spirito dell’art. 9 della
legge 194 è, ovviamente, quello di garantire la libertà di coscienza del personale sanitario liberandolo dall’obbligo di concorrere alla distruzione
del concepito, è o no doverosa una
interpretazione analoga riguardo alla “pillola del giorno dopo”?
Sì, Gli strumenti di giurisprudenza quando si inseguono i metodi di interpretazione si ripete in latino ubi eadem legis
ratio, ibi eadem legis disposito.
9) È o no ingiustamente contrastante
con il principio di eguaglianza il fatto che la “clausola di coscienza” applicata ai medici non sia applicata ai
farmacisti?
Sì. Perché il medico obiettore può rifiutare di rilasciare il documento che autorizza una Interruzione di gravidanza
e al farmacista dovrebbe essere proibito di rilasciare la pillola che è qualcosa
di più di un “documento”?
10) Il riconoscimento della obiezione
di coscienza è o no un principio cardine della nostra Costituzione?
Sì, basta leggere la sentenza costituzionale 476/1991 e l’art. 18 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo.
37
Intervento del segretario generale della CEI il Vescovo Mons. Mariano Crociata
Il diritto e il dovere
del farmacista cattolico
vidanza, cioè ai due casi tipici che per la
loro radicalità permettono di mettere in
evidenza i referenti essenziali dell’obiezione stessa: «Sono casi emblematici
perché, pur nella loro diversità, appaiono entrambi legati direttamente al
fondamentale principio del non uccidere. In questo quadro si colloca anche
la questione del diritto-dovere dei farmacisti all’obiezione di coscienza, che
viene oggi in discussione sia di fronte
a taluni farmaci abortivi (come la
Ru486, per i farmacisti ospedalieri) o
potenzialmente abortivi – quale in concreto la cosiddetta pillola del giorno dopo – sia di fronte a taluni sviluppi (o
meglio involuzioni) che si profilano in
materia di fine vita, considerato che in
alcuni Paesi europei, come a esempio
in Belgio, risulta già in vendita nelle
farmacie un kit eutanasico».
In Italia – aggiunge monsignor Crociata
– il problema «è avvertito soprattutto
riguardo alla vendita della cosiddetta
pillola del giorno dopo. Infatti, sebbene l’autorizzazione ministeriale all’immissione in commercio della specialità medicinale Norlevo abbia qualificato tale prodotto come “contraccettivo d’emergenza”, in base alle evidenze scientifiche disponibili non
si può escludere la concreta possibilità
di un’azione post-fertilizzativa del
farmaco stesso nelle ipotesi in cui, essendosi già verificata la fecondazione
dell’ovulo e quindi la formazione
dell’embrione, viene impedito all’embrione stesso di iniziare l’impianto nella parete uterina, con evidente effetto
abortivo».
In tal senso – aggiunge – «si è pronun-
«L’obiezione di coscienza è anche un
diritto che deve essere riconosciuto ai
farmacisti permettendo loro di non collaborare direttamente o indirettamente alla fornitura di prodotti che
hanno per scopo scelte chiaramente
immorali come l’aborto e l’eutanasia».
È quanto ha affermato il segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), il Vescovo Mariano Crociata, intervenendo al convegno nazionale
dell’Unione Cattolica Farmacisti Italiana, dal titolo «L’obiezione di coscienza
del farmacista tra diritto e dovere».
La questione dell’obiezione di coscienza
– ricorda monsignor Crociata – nasce dal
conflitto interiore dell’uomo «posto di
fronte all’alternativa, a volte lacerante, fra il comando della legge, che imporrebbe una determinata azione, e
l’imperativo della propria coscienza –
rispondente a motivazioni religiose, ma
anche etiche o ideologiche – secondo
cui quella azione risulta inaccettabile.
Il riconoscimento della possibilità di
appellarsi alla “clausola di coscienza”
è diretto appunto a superare tale conflitto interiore tra coscienza individuale
e obbligo legale». L’obiettore, cercando
di evitare gli «esiti insanabili e gravissimi» che derivano da una legge ingiusta
di cui sia destinatario – spiega monsignor
Crociata citando il giurista Francesco
D’Agostino – «dicendo di no alla legge
intende dire di sì al diritto».
Tradizionalmente – ha continuato nel suo
intervento il segretario generale della CEI
la possibilità dell’obiezione di coscienza
è stata riconosciuta con riguardo al servizio di leva obbligatorio e agli interventi diretti all’interruzione volontaria di gra38
nuti della fede sono messi in questione
da casi limite emotivamente coinvolgenti, da forti interessi economici o da
una cultura edonista e nichilista è oggi particolarmente faticoso. Bisogna
perciò, come singoli farmacisti e come
associazione, attingere al patrimonio
morale e agli insegnamenti della Chiesa e coordinarsi con l’azione pastorale che essa esercita a tutela della vita e
a servizio dei malati. D’altra parte –
aggiunge monsignor Crociata rivolgendosi ai farmacisti – la riflessione ecclesiale che la Chiesa che è in Italia sta
portando avanti sul tema dell’educazione rappresenta anche la via per un
rilancio culturale della vostra professione, che spesso rischia di essere percepita e regolamentata come una pura
attività commerciale, svuotata della sua
dignità esposta a logiche economiche
di tipo unicamente mercantile. Invece,
educare le coscienze con la propria professione di farmacista è oggi una priorità per il bene comune e l’interesse di
tutti e una missione alta e certamente
impegnativa».
Per il farmacista cattolico – aggiunge
monsignor Crociata – aderire all’insegnamento della Chiesa sul rispetto della
vita e della dignità della persona umana,
che è di natura etica e morale, «rappresenta anzitutto un dovere, sicuramente difficile da adempiere in concreto ma
al quale non può rinunciare. I cristiani infatti sono chiamati a non prestare
la loro collaborazione a quelle pratiche
che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di
Dio». Tale cooperazione si verifica quando come si legge nell’enciclica Evangelium vitae (n.74) «l’azione compiuta, o
per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in
un concreto contesto, si qualifica come
partecipazione diretta a un atto contro
la vita umana innocente o come con-
ciato il Comitato nazionale di bioetica
nella Nota sulla contraccezione d’emergenza, approvata il 28 maggio
2004, nella quale, dopo aver rilevato
la diversità di opinioni emerse nel dibattito scientifico circa l’efficacia della “pillola del giorno dopo”, ha “ritenuta unanimemente da accogliersi la
possibilità per il medico di rifiutare la
prescrizione o la somministrazione”
del levonorgestrel (LNG, principio attivo del farmaco). Se una tale opzione è
correlata ai possibili effetti postfertilizzazione del farmaco, osserva il
Comitato, “il medico ha comunque il
diritto di appellarsi alla clausola di coscienza, dato il riconosciuto rango
costituzionale dello scopo di tutela del
concepito che motiva l’astensione”».
Del resto – aggiunge ancora monsignor
Crociata – appare abbastanza chiaro «che
l’intenzione di chi chiede o propone
l’uso di questa pillola o è finalizzata
direttamente all’interruzione di una
eventuale gravidanza, proprio come
nel caso dell’aborto, o perlomeno non
esclude e accetta questo possibile risultato, che verrebbe a realizzarsi al
di fuori delle rigorose prescrizioni e
procedure stabilite dalla legge 194/78».
Proprio i farmacisti – spiega dunque il segretario generale della CEI – sono chiamati a dare in questo ambito una chiara
testimonianza: «Il farmacista cattolico
è chiamato a cogliere questa opportunità per esercitare un autentico apostolato e un’opera di misericordia spirituale attraverso il suo lavoro. Per far
questo è importante coltivare la vita di
fede con la preghiera, i sacramenti e la
testimonianza di onestà e di carità. Altresì è necessaria al farmacista, come
a tutti gli operatori sanitari, quella speciale attenzione nella formazione della coscienza morale che si richiede per
essere accanto a chi soffre. Dare testimonianza evangelica laddove i conte39
Dialogare con la morte in un mese estivo all’interno di un hospice oncologico
è, innanzitutto, un’esperienza di fede e
di amore.
Di fede perché le promesse di una vita
eterna divengono realtà nella carne del
malato a cui la scienza nega la speranza,
a cui la medicina alza le mani, a cui il
mondo usa compassione.
Mai la teologia cristiana si incontra con
la verità come quando siede presso un capezzale di un uomo mentalmente lucido,
consapevole della propria fine, e spiritualmente pronto ad incontrarsi con Dio.
Roberto, mio fratello, è entrato a Villa
Speranza una tarda mattinata dei primi di
luglio della scorsa estate per uscirne un
mese dopo, pronto per la Resurrezione.
La sua grande paura al momento dell’ingresso è stata mitigata, con efficacia,
da Don Carlo, vero interprete di Gesù
che si fa toccare dai malati per essere accanto a loro e come loro.
divisione dell’intenzione immorale dell’agente principale».
In questa prospettiva – conclude monsignor Crociata – «l’obiezione di coscienza è anche un diritto che deve essere riconosciuto ai farmacisti, permettendo
loro di non collaborare direttamente o
indirettamente alla “fornitura di prodotti che hanno per scopo scelte chiaramente immorali, come per esempio
l’aborto e l’eutanasia” e di superare le
difficoltà di un contesto culturale che
tende, talvolta, a non favorire l’accettazione dell’esercizio di questo diritto,
in quanto elemento “destabilizzante”
del quietismo delle coscienze», come affermato dalla Pontificia Accademia per
la Vita (15 marzo 2007).
Il diritto-dovere all’obiezione di coscienza
non riguarda dunque solo i farmacisti cattolici ma tutti i farmacisti, perché, come
afferma ancora la Evangelium vitae (n.
101), «la questione della vita e della sua
difesa e promozione non è una prerogativa dei soli cristiani. Anche se dalla
fede riceve luce e forza straordinarie,
essa appartiene a ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e
pensosa per le sorti dell’umanità».
Il segretario generale della CEI ha infine rivolto un incitamento: «Desidero
quindi esortare voi tutti a essere testimoni coraggiosi nell’esercizio della
professione del valore inalienabile della vita umana, soprattutto quando è
più debole e indifesa. Seguire la propria coscienza non è sempre una via
facile e può comportare sacrifici e aggravi. Tuttavia, rimane necessario
“proclamare chiaramente che la via
dell’autentica espansione della persona umana passa per questa costante
fedeltà alla coscienza mantenuta nella rettitudine e nella verità”», come affermato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella Dichiarazione sull’aborto procurato del 1974.
La stanza di un colore azzurro cielo, l’aria condizionata, le mille cure del personale hanno reso la permanenza di un uomo, ancora giovane d’età e duramente
provato dal dolore, serena e coraggiosa,
indomita nella lotta per la vita e costante nella fede religiosa.
40
“Puoi mettere alle pareti della stanza
ciò che vuoi” e Roberto ha fatto collocare alcune poesie da lui scritte in tempi
non sospetti.
Una, in modo particolare, scritta nel 2001
è stata muta testimone del suo passaggio
da questa terra: la poesia dedicata alla
Madonna delle Tre Fontane.
“Madre celeste piena di luce, in questa grotta sei sempre presente, richiamo divino che a te conduce, coro e preghiere di tanta gente”.
La malattia, spesso, ha più bisogno di affetto e di carezze che non di farmaci ed
iniezioni. Soprattutto nei periodi che precedono la fine della vita umana la vicinanza al malato, i sorrisi, le parole di speranza e di incoraggiamento sono essenziali per chi non chiede altro.
“Tu che rischiari il buio maligno, tu
che accarezzi l’anima in pena, accogli
noi figli in questo scrigno, con un abbraccio di pietà serena”.
Assistenza, umanità e amore,
tre ingredienti necessari.
Foto: Angela
Era frequente vedere il malato dare incoraggiamento ai visitatori, tanto era il
distacco tra il mondo e le sue logiche e
l’universo religioso con le sue logiche.
“Tu che nel mondo accendi il tuo viso,
placa nell’uomo qualsiasi guerra, fa
che ogni lacrima diventi un sorriso, dona la pace su questa terra”.
La morte viene a cogliere l’uomo dopo
un percorso di preparazione durante il
quale non serve spendere molte parole
più o meno utili, dove i silenzi e gli sguardi amorevoli sono la via maestra per il
cammino. Personale sanitario e non sanitario, volontari, sacerdoti e religiosi
svolgono un’alta ed insostituibile funzione in queste strutture per malati terminali che noi ci ostiniamo a chiamare
hospice, ma che, invece, sono oasi di pace e di serenità per chi ne ha più bisogno.
Roberto ha scelto di morire domenica 9
agosto durante la Messa che avevo deciso di seguire nella cappella di Villa Speranza. Don Carlo aveva appena finito di
leggere il Vangelo. “In verità, in verità
io vi dico: chi crede ha la vita eterna...
Io sono il pane della vita io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il
pane che io darò è la mia carne per la
vita del mondo”.
La corsa accanto a lui, le parole tranquillizzanti anche dopo che aveva esalato l’ultimo respiro, la chiusura delle sue
palpebre, le preghiere e la benedizione.
“Tu che sorridi all’umano dolore, testimone eterna della Crocifissione,
splenda per noi il tuo grande amore,
Vergine della Rivelazione”.
Come un ulivo verdeggiante la vita
continua dopo la morte.
La fede ci dà il grande dono della serenità
e della gioia, perché Gesù è risorto ed è
accanto a noi. Le molte visite che Roberto ha ricevuto nei suoi ultimi trenta giorni denotavano solo i tratti umani della disperazione, dell’incredulità, dell’incomprensione della malattia e del dolore.
41
Comunicato della Consulta per la Pastorale Sanitaria
La Consulta per la Pastorale Sanitaria della Diocesi di Roma, nella seduta del 27 ottobre 2009 ha deciso all’unanimità di esprimere il seguente pressante appello alle Autorità Nazionali e Regionali preposte all’Assistenza Sanitaria, nonché alle singole Direzioni Generali e Sanitarie delle Aziende Ospedaliere.
Preso atto che
Si va progressivamente aggravando la condizione di precarietà in cui versa l’assistenza
per i continui tagli delle risorse con impoverimento dei fondi regionali disponibili e conseguente massiccia riduzione dei posti letto ospedalieri, i tempi sempre più protratti degli
accertamenti diagnostici, delle visite specialistiche e la progressiva riduzione dei tempi di
ricovero, con gravi danni per l’efficienza, l’efficacia e la qualità delle prestazioni erogate
con conseguente pericolosità per le condizioni psicofisiche del cittadino utente;
Invita
tutte le Autorità a disporre tutti quei provvedimenti necessari per risolvere tale deprecabile situazione, assumendosene in prosieguo di carenza ogni responsabilità di fronte all’opinione pubblica e ai singoli cittadini fruitori del Servizio Sanitario Nazionale.
Tutti noi, che come cristiani sentiamo necessaria la difesa dei più deboli, auspichiamo il
potenziamento dell’assistenza domiciliare, considerato che con i tagli alle strutture sanitarie i malati cronici a casa sono in aumento e in tale situazione sono in uno stato di forte debolezza. Avvertiamo inoltre prepotente l’idea dell’apertura al sociale auspicando la redistribuzione delle risorse senza prescindere dal diritto di ogni persona all’equità delle cure
che devono essere assicurate a tutti nella comunità. Al di là e al di sopra di ogni esigenza
economico-amministrativa e produttiva, va sempre operata una scelta a favore dell’uomo,
e di ogni uomo: le strutture devono essere per l’uomo e non l’uomo per le strutture. Confidiamo che tale appello sia accolto da tutti come un contributo a risolvere al più presto le
carenze strutturali e quelle quotidiane che i cittadini vivono ogni giorno sulla loro pelle.
La Consulta per la Pastorale Sanitaria della Diocesi di Roma
Antichi ospedali romani minori
L’OSPEDALE DEI MENDICANTI
A S. SISTO
ve n’erano – i confini fra l’una e l’altra
specialità. Fu Gregorio XIII (papa dal
1572 al 1585) a volere un ricovero per
i mendicanti, allora numerosissimi nell’Urbe, ed a scegliere proprio il convento di San Sisto per ospitarli. Il Fanucci, nel suo «Trattato di tutte le opere pie dell’Alma Città di Roma»
(1601), racconta di una impressionante
processione di oltre ottocentocinquan-
Un ospedale molto particolare, nel panorama della sanità romana fra Sei e
Settecento, fu quello di S. Sisto dei Mendicanti, sito presso la chiesa di S. Sisto
Vecchio, di fronte alle Terme di Caracalla. Come molte altre istituzioni consimili di cui abbiamo già parlato in precedenza, era nello stesso tempo ospedale e ospizio, costituendo così un unicum dove era difficile stabilire – se mai
42
sumere un’iniziativa tesa alla tutela dei
propri interessi e così «tutti uniti insieme stabilirono di fondare una compagnia, a similitudine dell’altre di Roma, di tutti li zoppi e ciechi della città
che vanno mendicando e altri poveri
dell’uno e dell’altro sesso». La compagnia, che si riuniva in una cappella
della chiesa di S. Sisto Vecchio, ottenne l’erezione canonica in Confraternita
il 27 settembre 1621 ponendosi sotto la
protezione di S. Elisabetta, madre del
Battista, con la denominazione di «Confraternita di S. Elisabetta e sua visitazione dei poveri ciechi e storpi».
Il sostentamento economico dell’istituzione fu assicurato dal governo che vi
destinò l’introito della gabella sulla legna e della tassa di bollo sulle carte da
gioco. Per un certo periodo, nel
Seicento, l’ospedale ricevette
anche parte delle gabelle su
carbone, neve (!), olio, frutta,
pietra e pozzolana. Coloro che
non erano impediti dalle malattie o dalla disabilità andavano a questuare in giro per la
città, ma molti erano pure quelli che non erano in grado di
provvedersi da sé e che quindi pesavano interamente sul
sodalizio. Per tal motivo, ogni
associato della Confraternita
doveva versare un «grosso» al
mese alle casse sociali appunto per sostentare i più infelici
fra i derelitti. Ma il numero di questi
crebbe talmente che il “grosso” mensile non bastò più a coprire le spese e
quindi ci si dovette ingegnare per reperire le risorse. Come? Nel modo più ovvio, cioè…..mendicando.
Nel suo «Vocabolario romanesco»
(1933) Filippo Chiappini riporta al riguardo un passo dall’opera del card.
Morichini sugli “Istituti di carità”:
«Eravi l’uso che le domeniche il “ca-
ta poveri tra maschi e femmine che, quasi trionfalmente, «salendo e calando il
Campidoglio giunsero al desiato porto [sic] di S. Sisto, ove furono ricevuti in gran carità e pietà».
In effetti, come si leggeva negli statuti
della confraternita di cui si dirà più avanti, coloro che venivano accolti e ricoverati nell’ospizio-ospedale erano «ciechi, assidrati [sic], zoppi, storpiati,
vecchi e vecchie cadenti, incurvati dagl’anni, monchi di piedi o di braccia,
sfigurati, sordi o malconci o dalle disgrazie o dalla natura, che sono impotenti a guadagnarsi il vivere….». Il
fenomeno della mendicità era tanto diffuso che spesso le autorità di polizia
emanavano provvedimenti tesi a contenere il numero di questuanti o, quanto
Achille Pinelli - San Sisto Vecchio (1834)
meno, a disciplinare le attività di questua. Ma ancor più pressante era il problema sanitario, atteso che – in tempi di
pestilenza o epidemie – i poveri accattoni venivano confinati in quarantena al
fine di evitare che il loro girovagare fosse causa d’una più veloce diffusione del
contagio.
Poiché vari e pur lodevoli interventi del
governo non risultavano troppo efficaci, furono gli stessi mendicanti ad as43
1715, infine, una nuova dispersione fra
l’ospizio del S. Michele a Ripa Grande
ed altri ospedali minori. La Confraternita, privata della sua missione istituzionale, non sopravvisse di molto e ben
presto si estinse.
Eppure il sodalizio era stato fra i più doviziosi di Roma. Si pensi che nel 1624
papa Urbano VIII dispose una «Visita
apostolica» (una sorta di ispezione amministrativa) per il controllo dello stato finanziario di tutti gli enti ecclesiastici di Roma. Dalla verifica emerse che
la Confraternita di S. Elisabetta – con i
suoi 14.000 scudi di entrata – risultava
al sesto posto assoluto, subito dopo i
18.000 scudi dell’Arcispedale di S. Giovanni e precedendo di poco, addirittura, i 13.000 scudi della basilica di S. Maria Maggiore.
Da tale rilevanza economica e dal presupposto che l’istituzione era certo senza fine di lucro, si ricava con facilità –
al di là del folclore ispirato dalla compagnia itinerante di questuanti e suonatori – che l’attenzione posta nell’assistenza ai più poveri fra i mendicanti e i
derelitti era davvero enorme, tanto da
impegnare risorse superiori perfino a
quelle ricavabili da una basilica patriarcale. Non è poi da dimenticare, pur
volendo esimerci da qualunque commento di tipo moralistico, che gran parte delle entrate era data dal bollo sulle
carte da gioco: forse il modo più lodevole per impiegare i proventi di un’attività ludica ed effimera. Potrebbe essere un’idea ancor oggi valida, visti i
trionfi del famoso Superenalotto.
Forse era minore come proporzioni fisiche, ma dal punto di vista della carità
e dell’assistenza ivi profuse l’ospedale
dei mendicanti era sicuramente fra i più
eminenti di Roma, e ancora una volta
per merito di una Confraternita.
merlengo” di questa compagnia, il
quale era uno storpio, e il “signore”
e il “guardiano”, che erano ciechi,
uscissero per la città […] accompagnati da due violini, da una viola e da
un poeta. Recando un bacile d’argento con dieci scudi per invitare l’altrui generosità e con una scatola d’argento piena di tabacco per offrirne ai
benefattori, visitavano le osterie, i
caffè e altri luoghi frequentati, improvvisando e cantando canzoni sacre. Il denaro così raccolto era portato con solennità al loro oratorio, e
prelevati cinque paoli pel poeta, tre
pei sonatori e tre per gli “ufficiali”
questuanti, il rimanente era riserbato per la festa titolare». Va però aggiunto, per completezza d’informazione, che altre fonti affermano che l’incasso netto andasse specificamente a favore dei mendicanti più indigenti e che
il bacile per le offerte fosse in realtà una
cassetta con feritoia chiusa a chiave, prudenzialmente, prima della partenza da
S. Sisto. Secondo la testimonianza dello stesso Chiappini, da questa colorita
usanza nacque un’espressione ironica,
usata dal popolo romano per secoli, per
definire la casuale adunanza di persone
notabili per difetti fisici o presunti tali:
appunto, la «compagnia de santa Lisabbetta».
L’ospedale di S. Sisto, appena pochi anni dopo la fondazione, era però divenuto del tutto inadeguato, sia per il numero ormai soverchiante dei ricoverati e
sia per la posizione in quella che allora
era una zona malarica e semipaludosa.
Gli ospiti vennero così trasferiti in parte all’ospedale S. Giovanni e in parte in
altre strutture. Sotto Sisto V (1585-1590)
venne allestita una nuova struttura in
prossimità di ponte Sisto, la quale mantenne la vecchia denominazione di «S.
Sisto dei mendicanti» ed era sempre
amministrata dalla Confraternita. Nel
Domenico Rotella
44