Natura - ScuolaZoo

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LA NATURA NEL MONDO
DELL’ARTE
O natura, o natura, perché non rendi poi quel che
prometti allor? Perché di tanto inganni i figli tuoi?
Giacomo Leopardi
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Indice
Italiano: Giacomo Leopardi
Inglese: William Wordsworth
Bilogia: Charles Darwin
Storia: Decolonizzazione
Scienze della Terra: Tsunami e fulmini
Latino: Naturalis historiae
Arte: Van Gogh e Monet
Fisica: La moderna teoria dei fulmini
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Fin dalle origini, l’uomo si è interrogato sulla Natura e sul rapporto che intercorre fra sé e
quest’ultima. Le visioni e le concezioni di questo rapporto si sono dimostrate essere molteplici,
alcune contraddittorie, altre incapaci di giungere ad una sintesi. Ciò che accomuna tutti gli uomini,
comunque, è il desiderio di comprendere se la Natura possa essere considerata madre o matrigna.
Essa è indispensabile per l’uomo, poiché è la sua generatrice e la sua nutrice ma, allo stesso tempo,
spesso lo tradisce e lo fa soffrire. A mio parere, la Natura può essere raffigurata come una donna
seducente ma infedele: l’innamorato non può farne a meno, nonostante i suoi continui tradimenti e
le continue delusioni e sofferenze da essa generate.
Parlando di Natura particolarmente rilevante è la concezione del poeta italiano Giacomo Leopardi
(1798 – 1937). Nella prima fase del suo pensiero, che va sotto il nome di pessimismo storico, il
Leopardi concepisce la Natura come madre benigna e provvidenziale poiché è attenta al bene delle
sue creature, è conscia dell’infelicità dell’uomo e pertanto offre un rimedio: l’immaginazione e
l’illusione. Per tale ragione, gli uomini primitivi, più vicini alla Natura, erano felici; il progresso
della civiltà ha allontanato l’uomo da quella condizione privilegiata. La colpa dell’infelicità
presente è dunque attribuita alla storia, poiché essa si è rivelata un progressivo sottrarsi degli uomini
alle leggi della Natura, pietosa e amorevole madre. Con l'evoluzione del suo pensiero filosofico,
però, Leopardi, in seguito, dal pessimismo storico approda al cosiddetto pessimismo cosmico.
Infatti, superato il momento dell’esaltazione della Natura quale madre benevola, ispiratrice di
grandi ideali, di generose illusioni che nascondevano i limiti dell’esistenza, giunge alla concezione
opposta della Natura matrigna, che nega all’uomo ogni possibile felicità, coinvolgendolo nel suo
moto inesorabile e incomprensibile di trasformazione della materia. La Ragione, rifiutando poco per
volta le “consolazioni” dei miti e della religione e rivelando la nullità di ogni cosa, conduce il poeta
verso una lucida e disincantata disperazione. La persuasione dell’infelicità radicale di tutti gli esseri
viventi fa apparire inutile e vano ogni sforzo volto a migliorare la sorte degli uomini.
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Leopardi, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, riprende il tema della nascita dolorosa
e faticosa e del bambino che deve essere consolato per il fatto stesso di essere nato. Una delle
lontane radici del pessimismo leopardiano può essere ritrovata nel pensiero e nell'opera del poeta
latino Lucrezio; Leopardi, del resto, conosceva bene la letteratura classica. Tra i due si possono
evidenziare delle somiglianze: entrambi denunciano la mortalità del tutto, irridono il progresso
dell’umanità, rilevano la sostanziale infelicità del genere umano, contrapposta all’apparente serenità
degli animali, esaltano la ragione come unico strumento dato all’uomo per elevarsi in dignità. Per
Leopardi la ragione, oltre ad essere motivo di grandezza è anche causa d’infelicità dal momento che
spinge l’uomo a porsi domande a cui non sa dare risposta. Se quindi Leopardi conclude, nella
Ginestra, con l’incoraggiare la solidarietà tra gli uomini per vincere l’ostilità della natura, Lucrezio
invece vuole insegnare all’uomo a non averne paura e a non ribellarsi ad essa.
“Natura. Tu mostri non aver posto mente che la vita di quest'universo è un perpetuo circuito di
produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve
continuamente all'altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre che cessasse o l'una o
l'altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in
lui cosa alcuna libera da patimento”.
“ Natura. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fatto per causa vostra? Ora sappi che nelle
fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l'intenzione a
tutt'altro che alla felicità degli uomini o all'infelicità. Quando io vi offendo in qualunque modo e
con qual si sia mezzo, io non me n'avveggo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io vi
diletto o vi benefico, io non lo so; e non ho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non fo quelle
tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la
vostra specie, io non me ne avvedrei”.
(Operette morali, “Dialogo della Natura e di un Islandese”)
L’idea pessimistica di Leopardi della natura non fu condivisa dal poeta inglese William
Wordsworth (1770 – 1850). Leopardi ci insegna come siamo deboli di fronte alla natura tiranna,
Wordsworth invece come siamo uguali rispetto alla natura benefica.
La capacità di Wordsworth di trarre ispirazione dagli oggetti e dalla vita di ogni giorno lo conduce
ad una sorta di mistica credenza,secondo cui l’uomo e la Natura sono differenti ma parte
inseparabili dell’intero universo,un totale progetto creato da Dio. Egli affermava che la Natura,
lontana dall’essere un decorativo sfondo o semplicemente lo specchio di un particolare modo, aveva
una vita propria ed era presente non solo nelle piante e negli animali, ma in oggetti inanimati, come
pietre e montagne.
Quindi ,diventava una viva presenza che parlava a tutti quelli che erano capaci di entrare nella
profonda relazione con lei e che erano in grado di capire il suo linguaggio.
Wordsworth attraverso una fusione con la natura ed una contemplazione della sua bellezza,fa
riscoprire all’uomo l’immagine di Dio e lo rende cosciente della propria vita interiore. L’uomo e la
natura si univano insieme perfettamente come parti di un grande animo. La natura, infatti, era
un’amica e consolatrice dell’uomo, la sola grande insegnante dalla quale l’uomo poteva imparare
virtù e saggezza attraverso la sua essenza divina. La missione del poeta quindi era aprire le anime
degli uomini alla realtà interiore della natura e alla quiete, e alla gioia meditativa che può offrirci.
Wordsworth's poetry is usually associated with "nature". He lived near the Lake District and the
natural landscape of this region appealed strongly to his personality, and he always enjoyed close
contact with nature and countryside. Nature aroused him strong emotions and his poetic
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composition took place from the recollection in tranquillity of these emotions. Wordsworth gave
great importance to childhood, too. In his opinion children are closer to their divine origins as they
live in an uncorrupted state.
This idea the poet expressed in an efficacious way in the poem:
Daffodils
Wandered lonely as a cloud
That floats on high o'er vales and hills,
When all at once I saw a crowd,
A host, of golden daffodils;
Beside the lake, beneath the trees,
Fluttering and dancing in the breeze.
Continuous as the stars that shine
And twinkle on the milky way,
They stretched in never-ending line
Along the margin of a bay:
Ten thousand saw I at a glance,
Tossing their heads in sprightly dance.
The waves beside them danced; but they
Out-did the sparkling waves in glee:
A poet could not but be gay,
In such a jocund company:
I gazed--and gazed--but little thought
What wealth the show to me had brought:
For oft, when on my couch I lie
In vacant or in pensive mood,
They flash upon that inward eye
Which is the bliss of solitude;
And then my heart with pleasure fills,
And dances with the daffodils.
The poem was composed in 1804 and was inspired by the sight of a field full of golden daffodils
waving in the wind. The key of the poem is joy, as we can see from the many words which express
pleasure and delight: in fact the daffodils are golden, waving in a sprightly dance and outdoing the
waves in glee: they provide a jocund company and the sight of them fills the poet’s heart with
pleasure. All nature appears wonderfully alive and happy in fact the cloud floats on high. The stars
shine and twinkle, the waves dance and sparkle in glee. The daffodils, too, are not static like in a
painting, but alive with motion. They are in fact fluttering and dancing in the breeze, and tossing
their heads in sprightly dance. The sight of the daffodils amazes the poet at first because of their
great number. In fact they are a crowd. Yet Wordsworth is not interested in the flowers as such, but
in the way they affect him. The sight of the flowers brings the poet delight but he doesn’t realize
that at the moment, but only later when memory brings back the scene. It is clear that the daffodils
have a metaphorical meaning. They may represent the voice of nature, which is a bit audible except
in solitude, the magic moment when our spirit develops a visionary power and we “return to the
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metaphoric unity with nature we knew in childhood. They may represent a living microcosm within
the larger macrocosm of nature.
To sum up, we can consider a Wordsworth’s sentence that is emblematic of his conception of
Nature. In fact, he wrote that Nature is
“The anchor of my purest thoughts, the nurse, the guide, the guardian of my heart, and soul of all
my moral being”
(“Tintern Abbey”, lines 108-111)
Also Giovanni Pascoli is linked with Wordsworth by the common light motive of the childhood.
Childhood becomes a metaphor of the human faculty to see into reality: the image of the child who
is “father of the man” can be found in Wordsworth’s poetry. The child can grasp the meaning of the
universe thanks to intuitive capacities and the reminiscence of the existence before birth, not yet
corrupted by reason.
Se Leopardi e Wordsworth diedero un’interpretazione filosofica a quelle che
erano le manifestazioni naturali, Charles Darwin (1809-1882) cercò di dare
un nuovo volto alla Natura attraverso una vera e propria rivoluzione
scientifica.
Darwin sin da giovane si dedicò alla natura cercando di scoprire le cause
profonde che muovevano il mondo animale. Nella sua opera fondamentale
L’origine della specie (1859) pubblicò le sue teorie sull’evoluzione basate sui
concetti di evoluzione biologica, in base alla quale Darwin affermava che tutte
le piante e gli animali viventi discendono da forme precedenti, dotate di
caratteristiche più primitive, e di selezione naturale secondo la quale tale evoluzione è dovuta al
meccanismo della lotta per la sopravvivenza, grazie alla quale chi è meglio adatto all’ambiente
continuerà a vivere e riprodursi. Prima dell’800 l’evoluzionismo seguiva una concezione fissista
basata sulla invariabilità delle specie vivente, poi subentrò la teoria di Lamarck seconda la quale
l’evoluzione delle specie avviene a causa degli stimoli dell’ambiente. Ma tutto ciò era ritenuto
insoddisfacente dall’inglese, perché non si spiegava in modo scientifico come tale evoluzione si
verificasse. Darwin perciò delineò il processo della selezione naturale. Soltanto chi si dimostra il
migliore riesce a sopravvivere e a trasmettere la vita alla propria discendenza portando avanti quella
che è la sua specie. In questo modo riuscì a spiegare come le migrazioni da un habitat all’altro,
come i mutamenti dell’ambiente fisico dovuti a fenomeni geologici, potevano essere all’origine del
processo di modificazione delle specie animali, le quali erano costrette a trasformarsi per adattarsi
al nuovo ambiente.
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Chi invece ebbe un rapporto diverso
con la Natura furono gli Stati coloniali.
Sia che fossero giapponesi o inglesi,
francesi, italiani o olandesi, spagnoli o
portoghesi l’atteggiamento era
pressoché lo stesso, dato che tutti
avevano i medesimi obiettivi: ricavare
dalle colonie materie prime a basso
costo – prodotti dell’agricoltura ma
soprattutto ricchezze minerarie – e
rifornirle di propri manufatti venduti ai prezzi da loro imposti. Il loro intento era ottenere il
massimo del risultato con il minimo sforzo. Infatti, per i colonizzatori il vantaggio economico del
sistema si reggeva sul fatto che il lavoro dei contadini e dei minatori veniva malamente o per niente
retribuito. I bianchi che si trasferivano in una colonia non lo facevano affatto per portare i vantaggi
della civiltà alle popolazioni primitive, ma per arricchirsi a spese di queste ultime e per godere degli
enormi privilegi garantiti dall’inuguaglianza: essere una minoranza protetta dalla legge, in un
ambiente in cui qualunque sopruso era autorizzato.
Fino alla Prima guerra mondiale la maggior parte degli europei aveva creduto, più o meno in buona
fede, nella propria “missione” moderatrice e civilizzatrice e aveva nutrito un pregiudizio razzista
privo di sensi di colpa. La Grande Guerra aveva inferto un colpo decisivo a questa supremazia
intellettuale e morale del mondo occidentale, poiché aveva incrinato la compattezza del fronte dei
colonizzatori. Che diritto avevano gli europei di governare il mondo se poi i loro grandi ideali
morali e politici di libertà e democrazia avevano prodotto la più spaventosa carneficina di tutti i
tempi? La Seconda guerra mondiale dimostrò definitivamente l’abisso morale in cui era caduto il
mondo dei
colonizzatori e
nello stesso
tempo la sua
fragilità. Era
diventato difficile
soprattutto per le
potenze coloniali
come
l’Inghilterra e la
Francia negare in
via di principio ai
popoli colonizzati
quella liberà in
nome della quale
avevano
combattuto
contro le potenze
dell’Asse. Per
questo motivo
dopo secoli di
sfruttamento di
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risorse e popoli dei territori colonizzati si avviò il processo di decolonizzazione. Questo porterà alla
fine della colonizzazione e quindi all’indipendenza di tutte le ex-colonie.
I fattori della decolonizzazione.
1) La Seconda guerra mondiale aveva lasciato le potenze coloniali europee, anche quelle
vittoriose, in uno stato di prostrazione che non consentiva loro di impegnarsi a fondo della
difesa o riconquista dei vecchi imperi coloniali.
2) Dopo una forte crescita economica che interessò l’Europa occidentale, l’opinione pubblica
considerava la difesa delle colonie superflua ai fini del raggiungimento di un maggior
benessere. Inoltre erano riconosciute legittime le richieste d’indipendenza avanzate dai
colonizzati.
3) Nelle regioni tropicali l’inferiorità numerica dei bianchi rispetto alla popolazione indigena
era schiacciante e questo rendeva fragili le loro posizioni di dominio.
4) Élites educate ai valori politici della tradizione europea, secondo lo storico inglese Erich
Hobsbawm, cercavano di imitare i modelli sperimentati in Occidente per instaurare forme di
governo autonome.
L’emancipazione delle ex-colonie avvenne dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni ’60’70 del XX sec. Alcune la ottennero pacificamente altre attraverso una dura guerra di liberazione.
Nel 1954 con la sconfitta di DIEN BIEN PHU i Francesi furono costretti ad abbandonare l’Indocina
e nel 1962, dopo una guerra sanguinosa furono costretti a concedere l’indipendenza all’Algeria.
Negli anni’70 una guerra di liberazione delle colonie portoghesi africane portò all’indipendenza
dell’Angola e del Mozambico. La Gran Bretagna concesse, invece, l’indipendenza a tutte le sue
colonie in Africa, in Asia e in America centrale e meridionale.
Cartina politica dell’Africa negli anni ‘30
Uno tsunami si forma quando si sposta una grande massa
d'acqua. Al momento si ritiene che uno tsunami possa essere
causato da: un forte sisma sottomarino, almeno di magnitudo
7 della scala Richter o superiore; un brusco innalzamento o
abbassamento del fondale marino; uno scivolamento del
terreno costiero o sottomarino; un impatto di una meteorite. È
da notare che un forte sisma non causa necessariamente uno
tsunami: tutto dipende dal modo in cui si modifica il fondale
oceanico nei dintorni della faglia. Lo spostamento dell'acqua
si propaga progressivamente e crea onde lunghe generalmente
di qualche centinaia di chilometri e di grande durata, qualche
decina di minuti. La velocità di uno tsunami può
arrivare a 500-1000 km/h in pieno oceano fino a
ridursi a circa 90 km/h in prossimità delle coste.
Alcuni tsunami riescono a propagarsi per migliaia di
chilometri. Questi tsunami di grande lunghezza sono
generalmente di origine tettonica, poiché gli
scivolamenti del terreno in acqua e le esplosioni
vulcaniche causano di solito onde di minore lunghezza che si dileguano velocemente. Alcuni
tsunami riescono a propagarsi per migliaia di chilometri. La forza distruttiva di uno tsunami è data
dall'altezza della colonna d'acqua sollevata, perciò un terremoto in pieno oceano può essere
estremamente pericoloso, perché può essere in grado di sollevare e spostare tutta l'acqua presente al
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di sopra del fondale marino, anche se solo di pochi centimetri. Questa enorme massa d'acqua
spostandosi in prossimità delle coste trova un fondale marino sempre più basso e perciò tende a
sollevarsi ulteriormente. Nessuna barriera portuale è in grado di contrastare un'onda di questo tipo,
che appunto i giapponesi chiamano onda di porto. Le onde create dal vento, invece, muovono solo
le masse d'acqua superficiali, senza coinvolgere i fondali, e si infrangono sulle barriere portuali.
Ecco perché anche onde alte diversi metri, perfino una decina di metri, numerose sulle coste del
Pacifico, provocate dal vento, non trasportano abbastanza acqua da penetrare nell'entroterra.
Viceversa, uno tsunami alto uno o due metri può rivelarsi devastante, perché la quantità d'acqua che
trasporta gli permette di riversarsi fino a centinaia di metri nell'entroterra se la superficie è piana e
senza ostacoli artificiali o naturali come gli alberi. Lo tsunami con la massima altezza raggiunta da
un'onda si è verificato in Alaska il 7 luglio del 1958: l'onda raggiunse la mostruosa altezza di 525
metri. Tuttavia l'onda non è riuscita a scavalcare le montagne che circondano quella baia e per
questo non può essere considerata l'onda più distruttiva mai registrata. Invece lo tsunami
verificatosi nel 2004 nell'oceano Indiano aveva un'altezza piuttosto minore ma una forza molto
superiore. Infatti, causò centinaia di migliaia di morti, feriti e senzatetto.
Uno degli scrittori che nell’antichità parlò della natura in maniera approfondita
fu Plinio il Vecchio (23-79 d. C.). Visse durante il regno dell’imperatore Tito,
fu uno scienziato e un grande studioso.
L’unica opera pervenutaci è la Naturalis historia, in 37 libri. Si tratta di
un’enciclopedia vastissima che contiene, come l’autore stesso afferma 20.000
notizie desunte da 2.000 volumi di ben 100 autori diversi, frutto delle sue
frenetiche letture. Gli argomenti trattati vanno dall’astronomia alla geografia e
all’etnologia, dall’antropologia alla fisiologia umana e alla zoologia, dalla
botanica alla medicina e alle piante medicinali, dalla mineralogia alla gemmologia, all’arte e alla
storia dell’arte antica.
Egli afferma nella prefazione:
“Praeterea iter est non trita auctoribus via nec qua peregrinari animus expetat. Nemo apud nos qui
idem temptaverit, nemo apud Graecos, qui unus omnia ea tractaverit”
“Inoltre il percorso non è una via battuta da autori e l’animo non aspira a percorrerla. Non c’è
stato nessuno presso di noi Romani che abbia tentato una simile impresa, e nessuno neppure tra i
Greci che abbia trattato da solo tutti questi argomenti”
(Prefatio 14)
L’opera è una miniera di dati e di notizie, ma appare indubbiamente disorganica, scritta più per
soddisfare superficiali curiosità scientifico-erudite che non per redigere un’enciclopedia rigorosa e
sistematica. Evidente è l’interesse di Plinio per gli aspetti misteriosi e prodigiosi della natura,
ravvisabile nei numerosi mirabilia (“fatti straordinari”) riportati nell’opera, insieme con un gran
numero di curiosità o paradossi.
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La natura ha ispirato tanti artisti.
Il pittore francese Claude Monet dipinse nel 1886 il quadro Scogli a Belle-ìle Egli stesso in una
lettera all’amica Berthe Morisot dichiara che sta esplorando la costa frastagliata, battuta dai venti di
un paese terribile, cupo, ma molto bello. Monet usa dei blu intensi, picchiettati di bianchi per
realizzare il mare corposo e agitato che si frange sulle scogliere scurissime, le cui formazioni
rocciose friabili, dalle alte pareti, riescono a stento a contrastare l’ira del mare spumeggiante. Il
punto di vista della veduta è realizzato e il pittore sceglie di rendere visibile solo una piccola
porzione di cielo, una breve striscia all’orizzonte. Le rocce punteggiano il mare e paiono far
emergere a fatica le loro sommità dalle acque. Il colore è infatti denso e corposo, le pennellate sono
distinguibili in superficie e l’uso dei contrasti è volutamente calibrato sul tono emotivo che il
dipinto si propone di rendere. Dalla tela emerge un sentimento d’inquietudine ben rappresentato da
questo scorcio di natura.
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Vincent Van Gogh dipinse Notte stellata nel 1898 cercando sempre il contatto diretto con la realtà
naturale senza creare “astrazioni”. Ammetteva, però, di trovarsi in grande difficoltà, volendo
rappresentare il cielo notturno. Non rassegnandosi all’idea di riprodurre in studio ciò che non aveva
più davanti agli occhi, l’artista escogitò un sistema bizzarro quanto ingegnoso: fissò delle candele
accese alla sommità del suo cappello e dipinse così la prima veduta notturna en plein air della
storia. Nonostante avesse lavorato dal vivo, il risultato è tutt’altro che realistico. La potente
immaginazione di Vincent trasformò la veduta notturna in una specie di evento cosmico; il cielo
appare rischiarato da una moltitudine di comete, che girano vorticosamente, creando una serie di
gorghi luminosi e il villaggio di Arles risulta immerso in un’ atmosfera soprannaturale.
Il dipinto, forte e vibrante, è attentamente costruito e l’apparenza impetuosa è sorprendentemente
sorretta da una composizione salda. La linea diagonale delle montagne, sottolineata da una serie di
onde gialle, attraversa la tela in lunghezza. Le pennellate tonde o a spirale che formano gli astri
ritornano negli alberi disseminati fra le case, mentre il lungo tetto appuntito del campanile rima con
la forma del solitario cipresso, la cui sagoma scura, viva, chiude la scena in primo piano. Emerge lo
di stupore di Van Gogh di fronte all’immensità di questa notte stellata.
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La moderna teoria sui fulmini
Oggi è noto che i fulmini sono una scarica elettrica tra nube e nube, tra nube e cielo o tra nube e
terra che si sviluppa a seguito dell'accumulo di cariche elettriche in zone relativamente circoscritte
dell'atmosfera. Il
meccanismo che
produce questi
accumuli di carica
non è ancora del
tutto noto e, molto
probabilmente, ne
esistono diversi che
sono più o meno
efficienti a seconda
della particolare
condizione
meteorologica nella
quale hanno luogo.
Quello che oggi è
assodato è che tutti
questi meccanismi
necessitano di
intensi moti
verticali delle masse
d'aria. Questo è il motivo per cui i fulmini sono più frequenti durante il periodo estivo piuttosto che
in quello invernale; infatti è in estate che i bassi strati dell'atmosfera si riscaldano maggiormente,
dando origine ai temporali che sono essenzialmente degli intensi moti verticali d'aria, la quale,
sollevandosi, si espande, si raffredda e, condensando, dà origine alle nubi e alle precipitazioni. Un
altro aspetto assodato riguarda l'importanza del ruolo assunto dalle precipitazioni, siano esse
costituite da gocce d'acqua o da particelle di ghiaccio, per la separazione delle cariche. Secondo una
delle teorie attualmente più promettenti il fenomeno del fulmine avrebbe luogo quando una grossa
particella di ghiaccio (un graupel, embrione di grandine) si trova immersa in un ambiente ricco di
goccioline d'acqua sovrafusa (acqua a temperatura inferiore allo 0 °C ma ancora allo stato liquido),
di vapore acqueo e di piccoli cristalli di ghiaccio, tutti sostenuti da una corrente ascendente. In
questo caso, i piccoli cristalli di ghiaccio che urtano contro il graupel cedono ad esso una piccola
carica negativa, diventando, in seguito a questa cessione, leggermente positivi. I piccoli cristalli di
ghiaccio, portati in alto dalla corrente ascendente, portano all'accumulo di cariche positive nella
parte alta delle nubi mentre i graupel, cadendo verso il suolo perché più pesanti, accumulano la
carica negativa negli strati inferiori delle nubi. Questo meccanismo è stato riprodotto con successo
in laboratorio; inoltre nelle nubi temporalesche è stata spesso osservata la stratificazione della
cariche positive in quota e negative vicino al suolo. A sostegno di questa teoria c'è anche il fatto che
nelle nubi estive si ha molto spesso la convivenza di acqua liquida e ghiaccio a temperature anche
di 10°C, rendendo l'ambiente particolarmente favorevole al meccanismo stesso. Uno degli svantaggi
di questo modello esplicativo è che, pur se fondato su un meccanismo effettivamente riproducibile
in laboratorio, non è stato ancora integrato in una teoria generale e coerente e non si sa se è
abbastanza efficiente da rendere conto delle grandi quantità di carica elettrica che si liberano in un
temporale. Molto lavoro resta da fare ma le strade imboccate sembrano promettenti e i mezzi
attualmente a disposizione sono molto migliori di quelli su cui potevano contare gli illustri
scienziati che ci hanno preceduto.
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Il comportamento dei fulmini
Se i meccanismi che portano alla separazione delle cariche non sono ancora del tutto chiari, quasi
compresa appieno è invece la struttura e l'evoluzione del fulmine stesso. Già nella metà del 1900,
infatti, le tecniche di fotografia erano abbastanza sviluppate da permettere di riprendere la sua
struttura e la sua evoluzione. Il fulmine, grazie a quelle tecniche fotografiche che si basano su
pellicole mobili, rivela chiaramente la sua natura di fenomeno articolato che avviene secondo una
successione di fasi distinte che giungono a compimento in pochi millesimi di secondo. Quando a
causa della repulsione elettrostatica la carica in una zona della nube è tale da non essere più
sostenuta, da lì inizia a svilupparsi
un canale di ionizzazione. Questo
canale si sviluppa a scatti,
allungandosi di una cinquantina
di metri a ogni passo, lungo la
direzione che offre minor
resistenza al passaggio della
corrente. Questo canale non è
ancora il fulmine che noi
conosciamo; infatti questa prima
fase non è direttamente
osservabile ad occhio nudo
poiché ogni "scatto" avviene in
una piccola frazione di secondo:
troppo poco per i nostri occhi.
Mano a mano che questo canale
si avvicina alla terra o ad un'altra
porzione di nube, la terra o la
porzione di nube iniziano a sentire l'attrazione elettrostatica delle cariche e un analogo canale inizia
a svilupparsi da questo punto incontro al canale principale. Quando questi due canali si
congiungono allora il "circuito si chiude" e ha inizio il fulmine come lo si conosce, cioè la scarica
elettrica vera e propria. Alle volte, se l'accumulo di carica che ha dato origine al fulmine è
particolarmente grande, ci possono essere più scariche in rapida successione. Queste scariche
multiple sono all'origine del bagliore che si osserva nei fulmini più grandi, i quali, alla vista, danno
l'impressione di affievolirsi e poi velocemente di riprendere vigore, cosa che effettivamente accade.
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