poesie scelte - Cristina Campo
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poesie scelte - Cristina Campo
POESIE SCELTE ALEIANDRA PIZARNIK Tradotta da Florinda Fusco Madre di creature ferite 1. Costretta dietro reticoli d’ombre, incespica la pupilla che a stento tiene a distanza il morso, la bocca da cui la notte scivola (quale non era stata mai nel libro dei millenni, immensa, arrossata radice sull’arco inteso alla gelida eco dell’ultimo grido) – scivola, straripa, s’avanza a strappi nutrita di sogni in tutti i pori, marea danzante di acque che seminano spine rovi di brina per fingere parole – ha un sonaglio di alghe macerate sulla lingua e tra le labbra nomi naufragati, per ogni ora un’onda che cancella la tristezza e lenisce piaghe di abbandono – in cambio chiede respiri, carnali schegge d’alba una memoria inerte, spianata di ogni traccia, di ogni seme, ogni pensiero spento. Lontano, altri deserti accolgono il sangue disperso delle rose – intrecciano oasi per dare riparo a un’ala alla sua foce, dimore dove un chiarore accende desideri impensabili di vita tra simulacri di anime migranti nell’afasia dei giorni – muti, invisibili, inascoltati palpiti di mondo davanti a tavole imbandite, nel dormitorio che ci consola di diventare ciechi, esistere da morti appena nati. * Il cerebro mareggia nel nulla del crepuscolo ingrigia, fiamma, al suono che di specchio in specchio scorta la mano alle estasi del vino, all’ammasso lunare che attesta la nascita alberata della sera – una mano ancora aperta al baratro del sonno, con la sua ciotola il suo pane marcio di detriti arenati sulla soglia di un dolore cristallino (anche lo schermo soffre il segreto del suo occhio verdemare sempre acceso, la retina spezzata dall’onda che preme la mandibola, il respiro) – e di là il lutto, la predica imputridita in mille lingue, la benedizione oppressa di numeri, di cumuli di tempo, di morti assediati di colori. Il drappo che sventola sdrucito al sommo dalle nostre vite, è già domani – un mosaico di bave di gabbiani, l’arcobaleno lacerato da sguardi ammutoliti di clessidra, dalla moneta che fissa la paga di caronte prima dell’ultimo giro di giostra, poco prima del canto dell’ultima sorgente. E c’è chi risponde latrando accenti sterili di resa mentre il sale lentamente cresce come un rivolo di lava, e a fiotti intermittenti matura d’ombre quella fonte, scava ci abita, solidifica notti lungo il viso. * Non ricoprire di pietre l’immagine che dal respiro cresce, ricresce fino a tentare il sonno di un dio imbiancato di rughe e di tramonti, la sua ombra non mai coniugata di pianto (il paradiso lo scopri nel breve volo di un bambino senz’ali – lo vedi, beve dalla tua bocca anni sfioriti, frutto dell’incesto tra miseria e miseria) – un dio consacrato dalla sabbia che finge neve satura di pollini il chiarore di luminarie senza giorni, offerte votive di frutti e di stagioni le mani del carnefice – e già tutto il dolore è niente, il mondo è niente, è tutto ciò che avviene nella traccia ammuffita di voci e di alfabeti, un segno che aggiunge note a partiture di angeli malati, a geometrie di vuoto. Solo l’ora in attesa al limitare di un libro colmo di figure senza anagrafe, questo stormo inquieto di minuti cui sbarra la rotta un presagio di uragani e il cielo spinge a rovescio dell’ultimo orizzonte, recita il suo rosario di polvere e derive – un fragore sordo, un frangere di relitti contro lo scoglio della prima lacrima che reca in sorte immagini affrancate, memorie limpide di voci, di futuro. * La casa sul confine della sera ti fa cenni di saluto, accende lampade di addio nelle pupille nere del ricordo. Tua madre visita in silenzio angoli di cielo numerando le ombre una a una, raccogliendo macule di stelle dai capelli che conserva dentro il palmo (ieri sorpresa come una fontana nel gioco delle ore, si fermò orfana di giorni ad illustrarti i fiori del giardino, la morte in attesa in mille e mille petali di luce) – Tu oggi nuoti nel guado assolato dei meriggi e nomini il sangue che ti germoglia in bocca parole senza suono – qui è il presente – dove un grido conficcato nel petto traduce in sillabe di fiamma il lontano dei mari immobili sotto il peso di vite a pelo d’onda. * Coscienza: quanto rimane al bivio tra dirupati alvei colmi di storia, crimini e macerie e l’urlo inudibile di comete dissolte dietro gli occhi – traccia di acque abrase che ancora si dura e in parte schiuma dove è giusto albeggiare ricoperti di schegge e al silenzio offrire quanto tra i vivi è ancora vita, neve fragrante in ceste di parole (il vuoto intorno cumula nidi di palude per l’ala che si cerca e nuda annaspa dopo il naufragio dell’ultima speranza) – Il fuoco spento, a misura degli sguardi rischiara ancora il cielo ai vincitori – le case, fatte di calce e cenere perdono vento in flutti salati di preghiera, confuse nell’ombra di una stella che porta inciso dentro il nome seme, l’attimo che ferocemente cerca luce. (Solo l’esilio resta agli ultimi abitatori delle sabbie – migrare ai chiostri dell’aurora, trascinando sul labbro il sogno di pianure senza notte – attraversare cammini di spine, tra simulacri di immagini mute rapprese dentro l’ambra, curvi presagi dell’era glaciale prossima a venire). Non lavare le mani alle mie rive, mormora l’alba ad ogni nuovo incontro, non ripulire il fango prima di ricamare croci sulla fronte – piuttosto addestra la tua polvere a essere voce che parla in altri segni, sbozzola i fossili fanne scorza di pane e vino – il pasto che conforta il dolore di un dio senza più figli, nel silenzio del suo mondo che va cieco. * Che tu sia maledetto in eterno signore degli eserciti dominatore di sabbie millenarie di regni appesi al cielo o chiusi a scrigno in cattedrali d’alba impastate di lacrime e di sangue pietra su pietra, luce su luce abisso azzurro di puttane e mercanti di stagioni di teste mozze, di acque di sorgenti deflorate di bambini immolati alla tua gloria di donne stuprate, di voci calpestate di occhi ridotti a squame dal fuoco che purifica e porta pace in terre di tormento – dio dei poeti che parlano in tuo nome di crociati armati di membri benedetti per inseminare il bene in moltitudini malate per scacciare il male alla radice dal midollo venduto pochi denari al chilo dalle vagine sventrate a colpi di preghiera di vergini infanti che partoriranno sale non più corpi di cani, di infedeli. Che tu sia maledetto, relitto osceno del diluvio idolo che si quieta nel furore, notte di notti, immagine di notti – maledetta la tua stirpe di ombre salmodianti di morti assiepati sotto le tue grasse insegne. Guardami – io che non so pregare, che non ho mai pregato io oggi prego non te, i tuoi feroci altari ma il respiro che parla nei sogni di mio figlio – il respiro della mano che al risveglio gli accarezza il viso mentre in silenzio depone un fiore nell’urna d’aria della luce – un fiore per non dimenticare i mille giorni e mille, tutti i mancati soli le voci assenti, recise sullo stelo dei suoi fratelli che non avranno nome. * Luminescenti segnali di festa in ogni strada – ai margini, come seguendo orme senza suono, il passo ampio di chi si impenna e vola dove il silenzio è madre, il dono di un’ora che si trascina fino a che il mondo emerge dalla sua pelle infetta e si abbandona al richiamo del lume che tace nel profondo (il papavero intanto assorbe nel colore i nomi in cui trapianta la sua sera, la nuda piaga delle spighe sradicate) – Declinare la cenere, coniugare gli occhi a immaginari residui di scintille, per dismisura di umano bruciare divise e bandiere dare fuoco ai giorni di dicembre procurarsi una lingua che parla il seme e il verbo del disgelo camminare di fianco all’angelo che recita i nomi degli assenti essere le sue gambe, l’acqua che porta alle sue labbra – e ancora urlare quanto negli occhi resta trapassando dal sonno alla veglia misericordiosa delle ali, portare la sua ombra stretta al dito reggere grani e vento, farsi sete. Farsi sete – cercare il ristoro di ogni fonte abbeverarsi all’eco dell’altro che reca in mano la voce ferita che ci salva, l’alfabeto dell’unico cielo che ripara. * Nota I testi di Madre di creature ferite sono tratti da Hairesis (2004-2005), E-book, Milano, Biagio Cepollaro Edizioni, 2007. Figlia del vento Sono venuti. Invadono il sangue. Profumano a piume, A mancanza, a pianto. Però tu alimenti la paura e la solitudine come due animali piccoli perduti nel deserto. Son venuti ad incendiare l’età del sogno. Un addio è la tua vita. Però tu ti abbracci come la serpe pazza del movimento che solo ritrova se stessa poiché non c’è nessuno. Tu piangi sotto il pianto, tu apri il baule dei tuoi desideri e sei più ricca della notte. Però c’è tanta solitudine che le parole si suicidano. * Il silenzio il silenzio io mi unisco al silenzio io mi sono unita al silenzio e mi lascio fare e mi lascio bere e mi lascio dire * i naufraghi dietro l’ombra abbracciarono quella che si suicidò con il silenzio del suo sangue la notte bevve vino e ballò nuda tra le ossa della nebbia * animale lanciato dietro la sua traccia più lontana oppure ragazza nuda seduta sull’oblio mentre la sua testa rotta vaga piangendo alla ricerca di un corpo più puro (*) * Dopo quando saranno morti io ballerò persa nella luce del vino e nell’amante di mezzanotte * viaggiatrice dal cuore d’uccello nero tua è la solitudine a mezzanotte tuoi gli animali saggi che popolano il tuo sogno nell’attesa della parola antica tuo è l’amore ed il suo suono a vento spezzato * Io canto. Non è invocazione. Soltanto nomi che ritornano. * Il silenzio è luce il canto sapiente dell’infelicità emana un tempo primitivo: io cercavo la pietra e non il pane un inno innocente e non le maledizioni, la conoscenza dei miei nomi per dimenticarli e dimenticarmi; però quello che non cercai è l’esilio e neppure mi raccontai bugie non adorai il sole ma non mi aspettavo questa luce nera al filo del mezzogiorno * Come dita girando con premeditazione Come dita di morto toccando la sola corda di un’arpa Come ali pesanti quando sogno che dormo ad occhi aperti Come il sole che si oscura nel mio sguardo Come l’oscurità disunita in tutta la notte della mia vita Come i cani nella mia ombra. * colei che aspetta insonne trema sulla pagina bianca lancia sale agli occhi dell’assassino ed è un mondo bianco e senza te NOTTURNO DI CHOPIN PER UN PIANISTA DI QUATTRO ANNI La sua musica mi porta ad una scogliera con un uccello che gioca a sentirsi cantare. La sua musica mi illumina nella pioggia per dove andiamo io ed una gabbia vuota. La notte So poco della notte ma la notte sembra sapere di me, e in più, mi cura come se mi amasse, mi copre la coscienza con le sue stelle. Forse la notte è la vita e il sole la morte. Forse la notte è niente e le congetture sopra di lei niente e gli esseri che la vivono niente. Forse le parole sono l’unica cosa che esiste nell’enorme vuoto dei secoli che ci graffiano l’anima con i loro ricordi. Ma la notte deve conoscere la miseria che beve dal nostro sangue e dalle nostre idee. Deve scaraventare odio sui nostri sguardi sapendoli pieni di interessi, di non incontri. Ma accade che ascolto la notte piangere nelle mie ossa. La sua lacrima immensa delira e grida che qualcosa se n’è andato per sempre. Un giorno torneremo ad essere. * La danza immobile Messaggeri nella notte annunciarono quello che non ascoltammo. Cercammo sotto l’ululato della luce. Arrestammo l’avanzamento di mani inguantate che strangolavano l’innocenza. Ma se si nascosero nella dimora del mio sangue, perché non mi trascino fino all’amato che muore dietro la mia tenerezza? Perché non fuggo e mi inseguo con coltelli e deliro? Di morte si è tessuto ogni istante. Io divoro la furia come un angelo idiota invaso di erbacce che impediscono di ricordare il colore del cielo. Ma loro ed io sappiamo che il cielo ha il colore dell’infanzia morta. * La luce caduta della notte spargi sfinge il tuo pianto sul mio delirio cresci cosparsa di fiori nella mia attesa perché la salvezza celebra l’abbondanza del nulla spargi sfinge la pace dei tuoi capelli di pietra sul mio sangue rabbioso io non capisco la musica dell’ultimo abisso io non so del sermone del braccio di edera ma voglio appartenere all’uccello innamorato che trascina le ragazze ebbre di mistero amo l’uccello sapiente in amore l’unico libero I testi proposti sono stati scelti dal traduttore tra quelli non raccolti in libro. Traduzione dallo spagnolo di Alessandro Prusso AAA * La danza immobile Messaggeri nella notte annunciarono quello che non ascoltammo. Cercammo sotto l’ululato della luce. Arrestammo l’avanzamento di mani inguantate che strangolavano l’innocenza. Ma se si nascosero nella dimora del mio sangue, perché non mi trascino fino all’amato che muore dietro la mia tenerezza? Perché non fuggo e mi inseguo con coltelli e deliro? Di morte si è tessuto ogni istante. Io divoro la furia come un angelo idiota invaso di erbacce che impediscono di ricordare il colore del cielo. Ma loro ed io sappiamo che il cielo ha il colore dell’infanzia morta. * ALTRE POESIE * Anillos de ceniza (a Cristina Campo) Son mis voces cantando para que no canten ellos, los amordazados grismente en el alba, los vestidos de pájaro desolado en la lluvia. Hay, en la espera, un rumor a lila rompiéndose. Y hay, cuando vien el día, una partición del sol en pequeños soles negros. Y cuando es de noche, siempre, una tribu de palabras mutiladas busca asilo en mi garganta, para que non canten ellos, los funestos, los dueños del silencio. Anelli di cenere (a Cristina Campo) Sono le mie voci che cantano affinché non cantino loro, gli imbavagliati grigi nell’alba, i vestiti di un uccello devastato nella pioggia. C’è, nell’attesa, un rumore di lillà che si rompe. E c’è, quando arriva il giorno, una partizione del sole in piccoli soli neri. E quando è notte, sempre, una tribù di parole mutilate cerca asilo nella mia gola, perché non cantino loro, i funesti, i padroni del silenzio. * * Resti. Per noi rimangono le ossa degli animali e degli uomini. Dove una volta un ragazzo e una ragazza facevano l’amore, ci sono ceneri] e macchie di sangue e pezzettini di unghie e ricci pubici e una vela piegata che usarono con fini oscuri e macchie di sperma sopra il fango e teste di gallo e una casa diroccata disegnata sulla sabbia, e] pezzetti di fogli profumati che furono lettere d’amore e la rotta sfe-] ra di vetro di una veggente e lillà appassiti e teste tagliate su guan-] ciali come anime impotenti tra asfodeli e tavole crepate e scarpe vecchie e vestiti sul fango e gatti malati e occhi incrostati in una mano che scivola verso il silenzio e mani con anelli e schiuma nera che schizza su uno specchio che nulla riflette e una bambina che dormendo asfissia la sua colomba preferita e monetine di oro nero risuonanti come zingari di dolore che suonano i loro violini a conchiglie del mar Morto e un cuore che batte per ingannare e una rosa] che si apre per tradire e un bambino che piange di fronte a un corvo che gracchia e l’ispiratrice si maschera per eseguire una melodia che nessuno capisce sotto una pioggia che calma il mio male. Nessuno ci ascolta, per questo pronunciamo preghiere, ma guarda! Lo zingaro più giovane sta decapitando con i suoi occhi di saracco la bambina della colomba. Io ero predestinata a nominare le cose con nomi essenziali. Io non esisto più e lo so; quello che non so è che cosa vive al posto mio. Perdo la ragione se parlo, perdo gli anni se sto in silenzio. Un vento violento distrusse tutto. E non aver potuto parlare per tutti quelli che dimenticarono il canto. Per un minuto di vita breve per un minuto vedere nel cervello piccoli fiori che danzano come parole sulla bocca di un muto Lei si spoglia nel paradiso della sua memoria lei non conosce il destino feroce delle sue visioni lei ha paura di non saper nominare ciò che non esiste Salta con la camicia in fiamme da stella a stella, da ombra in ombra. Muore di morte lontana quella che ama il vento. Ora in quest'ora innocente io e colei che fui ci sediamo sulla soglia del mio sguardo ALEJANDRA PIZARNIK (E mi dò...come in pasto ai leoni nell'arena dei pensieri miei...) Alejandra Pizarnik Da Le opere e le notti Traduzione di Claudio Cinti Presenza la tua voce in questo non potersene uscire le cose dal mio sguardo mi spossessano fanno di me un vascello in un fiume di pietre se non è la tua voce pioggia sola nel mio silenzio di febbri tu mi liberi gli occhi e per favore parlami sempre Le opere e le notti per riconoscere nella sete il mio emblema per significare l'unico sogno per non aggrapparmi mai di nuovo all'amore sono stata tutta un'offerta un puro errare di lupa nel bosco nella notte dei corpi per dire la parola innocente *** Mendica voce E ancora mi azzardo ad amare il suono della luce in un'ora morta, il colore del tempo in un muro abbandonato. Nel mio sguardo ho perduto tutto. Chiedere è così lontano. Così vicino sapere che non c'è. Lei si spoglia Lei si spoglia nel paradiso della sua memoria lei ignora il destino feroce delle sue visioni lei ha paura di non saper nominare ciò che non esiste Solo la sete Solo la sete il silenzio nessun incontro guardati da me amor mio guardati dalla silenziosa nel deserto della viaggiatrice con il bicchiere vuoto e persino dall’ombra della sua ombra. Queste ossa Queste ossa che brillano la notte, queste parole che brillano come gemme nella gola viva di un uccello pietrificato, questo verde tanto amato, questo lillà caldo, questo cuore tanto misterioso. Chi illumina Quando mi guardi i miei occhi sono chiavi, il muro ha segreti, il mio timore parole, poesie. Solo tu fai della mia memoria una viaggiatrice affascinata, un fuoco incessante. Dove circonda l’avido Se verrà, i miei occhi brilleranno della luce di colui che compiango ma ora incoraggia un rumore di fuga nel cuore di tutte le cose. Trad S. Golisch Alejandra Pizarnik: poetessa nata a Buenos Aires, il 29 aprile 1936, da una famiglia di immigranti ebrei dell'Europa Orientale. Studiò lettere e filosofia nell'università di Buenos Aires e, più tardi, pittura con Juan Batlle Planas. Tra il 1960 e il 1964, la Pizarnik visse a Parigi dove lavorava per la rivista "Cuardernos" e per altre case editrici francesi, pubblicò poemi e critiche in diversi quotidiani, tradusse Antonin Artaud, Henri Michaux, Aimé Cesairé e Yves Bonnefoy, e studiò storia della religione e letteratura francese alla Sorbonne. Dopo il suo ritorno a Buenos Aires, pubblicò tre dei suoi principali volumi; I lavori e le notti, Estrazione della pietra della pazzia e L'inferno musicale, così come il suo lavoro in prosa La contessa crudele. Nel 1969 ricevette la borsa di studi Guggenheim, e nel 1971 quella Fullbright . Il 25 settembre del 1972, mentre trascorreva un fine settimana fuori dalla clinica psichiatrica in cui era internata, morì a causa di un'intenzionale sovradosaggio di secodal. Stefanie Golisch Nella sua "poesia" la Pizarnik è capace di miscelare e di restituire, in lampi di pura visionarietà, la dimensione del quotidiano del corpo e quella del mito, fino a farne sentieri di attraversamento degli spazi umani tra silenzio e parola. Vasti labirinti dove tutto si assomiglia. Alcuni sentieri si ripetono, altri no. Il futuro è lì, sotto gli occhi di tutti. Ma solo pochissimi, come Alejandra Pizarnik, riescono a scorgelo. In italiano, nel 2004 è stato pubblicato il libro, “La figlia dell’insonnia”, Crocetti Editore curato da Claudio Cinti, e Caminos del espejo (I sentieri dello specchio) (Tratto da: La extracción de la piedra de Locura, 1968), traduzione di Stefanie Golisch. Altri testi della Pizarnik sono stati pubblicati dalla rivista "Trame", nell’antologia curata e tradotta da Florinda Fusco. Possiamo ancora segnalare,"Testi in ombra e ultimi poemi" [1971-1972] nella traduzione di Samanta Catastini.