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LA CORSA DELLA MORTE
Vissuto oggi, il dramma di Le Mans 1955, quando ottantuno spettatori ed un pilota persero
la vita nel modo più orrendo, sarebbe raccontato e amplificato con un’intensità ben
maggiore. Allora vi furono titoli sui giornali, le liste delle vittime e dei dispersi con scritto
soltanto “tipo inglese”, “tipo tedesco”, per l’impossibilità di procedere al riconoscimento, un
senso generale di disgusto per come il vincitore, Mike Hawthorn, pesantemente implicato
nell’incidente, avesse comunque avuto la faccia di brindare all’arrivo. Ma nulla più: e di
questo incidente, oggi, si è quasi persa anche la memoria. Perché anche allora, come
sicuramente accadrebbe oggi, l’importante era continuare lo spettacolo. Anche allora si
disse di doverlo fare per limitare il panico. E la corsa maledetta continuò, per le restanti
ventuno ore e mezza.
Per vari decenni la Ventiquattrore di Le Mans fu uno degli avvenimenti sportivi più
esaltanti. Nacque nel 1923 per iniziativa di Charles Faroux, figura di grande importanza
nell'automobilismo francese e mondiale. La sua idea era di organizzare un banco di prova
per testare l'affidabilità e la qualità delle macchine regolarmente prodotte: macchine
sportive, ma anche automobili di tutti i giorni. Non passò molto tempo e la gara si
trasformò in una ribalta per macchine speciali: vetture da Grand Prix su cui era adattata
una carrozzeria sport. Erano permessi prototipi, purché il costruttore si dichiarasse
disposto a costruirne un dato numero. Ecco perché alla stessa gara partecipavano
Mercedes, Ferrari e Jaguar, accanto a Panhard con motori da 745 cc.
Se questo era motivo di grande rischio per i piloti, costituiva però anche forte attrattiva sul
pubblico. Gli spettatori arrivavano con ogni mezzo, da tutto il mondo, e si sistemavano alla
bell'e meglio per la notte, trasformando la cittadina in una rutilante Las Vegas, piena di
luci, colori, suoni, chioschi, tende, ristoranti improvvisati. Una vera e propria città in
miniatura ("Le Village") sorgeva al centro del circuito. Lì si poteva fare di tutto: trovare un
birra, comprare un'automobile, farsi una doccia, mangiare. La stragrande maggioranza dei
trecentomila convenuti per l'edizione del 1955 confluì nel Village. E alcuni di loro se ne
andarono la domenica pomeriggio senza aver visto nulla della gara.
La corsa era iniziata regolarmente alle 16 di sabato 11 giugno, in piena estate francese.
Le Ferrari, le Jaguar, le Mercedes si erano date battaglia fin dal primo minuto. Sia
Hawthorn (Jaguar) sia Fangio (Mercedes) compivano il giro completo del circuito in poco
più di quattro minuti, seguiti da Castellotti, Maglioli, Kling, Levegh, Walters, Rolt, Beauman
e Musso. Sembrava più un Grand Prix che una corsa di durata. La stessa irruenza, la
stessa battaglia forsennata per il comando fin dai primi istanti, la stessa adrenalina.
Mercedes contro Jaguar: la gara era tutta lì: gli altri, le Austin Healey, le Nardi, le Frazer
Nash, le Cunningham, le Cooper, le Osca, le Lotus, non contavano niente. Stonava, nel
gruppo, una Mercedes, dello stesso modello delle altre, che già stava per essere doppiata.
Era quella guidata da Pierre Levegh.
Pierre Levegh, pilota volenteroso ma mediocre, era balzato alle luci della ribalta, una sola
volta nella vita, nell’edizione di Le Mans del 1952. Nipote del pioniere francese Veghle, ne
aveva assunto il nome anagrammandolo. Determinante per la sua vita fu l'assistere,
insieme ad altre centinaia di migliaia di persone, alla prima Le Mans, quella del 1923, vinta
dai due francesi André Lagache e René Leonard. Per tutti fu una giornata esaltante,
indimenticabile. Ma per il giovanissimo Pierre fu di più. Fu l'inizio della sua ossessione. Da
quel momento vincere a Le Mans diventò l'unico scopo della sua esistenza, la meta, il fine
ultimo di tutti i suoi pensieri e delle sue azioni. A Le Mans non smise mai di andare, come
spettatore: e la frequentò talmente da conoscerne il circuito quasi più intimamente di chi ci
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correva per davvero. Dovette però aspettare il 1938 per avere una possibilità. Quell'anno
Antoine Lago, il progettista della Talbot, cercava qualcuno da affiancare a Jean Trevoux.
Si precipitò Levegh, ma l'illusione durò poco: la macchina dovette ritirarsi per guai
meccanici, ancora prima che egli potesse assumerne la guida.
Per dieci anni la guerra paralizzò Le Mans: la prima edizione successiva a quella del 1938
si corse nel 1949. Ma nessuno offrì una guida a Levegh, né quell'anno, né in quello
successivo. Nel 1951 però la Talbot gli offrì nuovamente una possibilità. Eccola,
l'occasione della sua vita. A quarantasei anni, dopo ventotto d'attesa, finalmente arrivava.
Con René Marchand, ottenne un soddisfacente quarto posto.
Soddisfacente? Forse per altri, non per lui. Lui, Pierre Levegh, poteva fare molto di più.
Ma ci voleva la macchina giusta, magari preparata dalle sue stesse mani. Sapeva cosa
occorreva per affrontare Le Mans. Denaro, innanzi tutto: quello occorrente per comprarsi
una macchina, e prepararla. Acquistò una Talbot, finendo per spendere (di denaro suo)
più di quanto avrebbe guadagnato anche avesse vinto la corsa. E finalmente arrivò
l'edizione del 1952.Il copione era perfetto: giornata soleggiata, cinquantasette vetture alla
partenza, tra cui la Lago Talbot di Levegh, Charles Faroux che abbassa la bandiera del
via. Vi erano Ferrari, Mercedes, Cunningham, Gordini, Jaguar. Dopo appena cinque ore di
corsa, alle nove di sera, già diciassette vetture si erano ritirate. Primo, il francese Robert
Manzon, su una Gordini. Secondo, sorprendentemente, Pierre Levegh. Due francesi alla
guida: la folla era in estasi. Al momento del cambio con René Marchand, Levegh allontanò
il compagno di squadra con un gesto. Non ancora. E' la mia gara. E' la mia macchina. Non
ancora.
Alle quattro meno un quarto di notte, la Gordini ebbe un improvviso problema ai freni e
dovette ritirarsi. Levegh prese il comando. Guidava ormai da dodici ore consecutive. Al
box, la moglie di Levegh, i meccanici, Marchand, continuavano a vedersi passare davanti,
sfrecciando, la Talbot. Tutti lo pensavano, qualcuno cominciò a dirlo: l'ostinazione assoluta
di Levegh era stupida. Stava rischiando la vittoria. Doveva fermarsi, almeno per un'ora o
due. Ma Levegh era irremovibile. Non ancora, non ancora. Allora la moglie pensò ad un
trucco. La prossima fermata ai box gli avrebbe proposto di scendere un momento soltanto
per prendersi una spremuta d'arancia. Marchand sarebbe stato pronto, lì dietro, già
vestito; avrebbe approfittato dell'istante e sarebbe ripartito al suo posto. Levegh arrivò per
il rifornimento di benzina. La moglie si avvicinò, premurosa, implorante, disperata. Ma
Levegh disse quello che tutti avevano paura che dicesse: "Non scenderò. Non smetterò.
Voglio guidare io, soltanto io. E' la mia corsa. E' la mia macchina". E ripartì.
Nonostante l'immane stanchezza che non poteva non provare, guidava come non aveva
mai guidato. Se nessuno conosceva il suo nome alla partenza, ora era un unico scandire
"Levegh...Levegh". Era diventato in poche ore un eroe nazionale, tale da impensierire lo
squadrone Mercedes, costretto ad inseguirlo.
A metà mattina tornò al box per il rifornimento, ridotto ad un robot. Prese un sorso d'acqua
minerale, ma lo sputò per timore che fosse avvelenato. Marchand tentò di salire sulla
vettura con la forza. E Levegh, attingendo energia Dio solo sa da dove, riuscì a
respingerlo rabbiosamente, a ripartire, a mantenere il vantaggio sulle Mercedes.
A mezzogiorno, quattro ore soltanto alla fine della gara, solo diciannove vetture erano
rimaste a lottare. Quando Levegh arrivò ai box per il consueto rifornimento, la moglie
scoppiò in pianto. Non riusciva più a parlare, né a riconoscere alcuno. Solo una cosa gli
era chiara: avrebbe continuato. E riprese la corsa. Ad una velocità, tra l'altro, persino
superiore al necessario. Poteva prendersi il lusso di rallentare mantenendo il vantaggio.
Glielo segnalarono dallo stand, ma inutilmente. Non lesse, forse non poté leggere. Ormai
le sue azioni erano un seguito di riflessi automatici.
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Negli ultimi soprassalti di coscienza, cambiò marcia dalla quarta alla terza, ma sbagliò,
infilò la seconda...e ruppe il motore. Mancava un'ora e mezza alla fine della gara.
La Mercedes di Lang vinse la Ventiquattrore. Una vettura ufficiale raccolse Levegh, più
morto che vivo, ai bordi della strada tra Arnage e la Maison Blanche. Fu condotto al suo
box in un silenzio ostile: la folla, che fino ad un momento prima lo osannava proprio per la
sua impresa senza speranza, ora lo disprezzava per aver buttato al vento una vittoria
francese già in tasca, per pura ostinazione.
L'unico a rimanere impressionato fu Alfred Neubauer. Si affacciò al box Talbot e gli disse:
"La prossima volta che la Mercedes parteciperà a Le Mans, tu guiderai una delle nostre
macchine".
La Mercedes si astenne da Le Mans sia nel 1953 sia nel 1954. Ma nel 1955 arrivarono le
magnifiche 300SLR. La squadra piloti era altrettanto formidabile: Fangio e Moss come
prime guide, André Simon, John Fitch, Karl Kling, ossia un argentino, un britannico, un
francese, un americano, un tedesco. Ma Neubauer non era uomo da dimenticarsi una
promessa, e così si decise di contattare anche Pierre Levegh, facendolo diventare il
simbolo di un'operazione di pubbliche relazioni davvero ben studiata: al francese che
aveva quasi vinto Le Mans era offerta una macchina proprio dalla marca che si era
avvantaggiata del suo ritiro per vincere.
Per Levegh, un'altra possibilità, e di quel tipo, a cinquant'anni, sulla macchina più
competitiva del mondo...Ma proprio qui stava il punto: la macchina. Fin dalle prime prove,
fu chiaro che Levegh ne era intimorito: era il più lento di tutta la squadra. E la situazione
non migliorava con il passare dei giorni. Levegh era terrorizzato, e l'intero staff Mercedes
ne era consapevole. Ma nessuno voleva rimangiarsi una promessa, e si contava sulla
spontanea decisione del francese di lasciar perdere. La macchina era troppo al di sopra
delle sue possibilità. Non si era tenuto però conto della sua immensa ostinazione, del suo
orgoglio smisurato, o meglio, della sua ossessione...
E si arrivò al giorno della gara, senza da parte di Levegh il minimo segnale di volersi
ritirare.
Quando Levegh si rese conto che il suo compagno di squadra Fangio stava già per
doppiarlo, gli fece un segno dalla macchina con la mano, che voleva dire: "Non qui, non
davanti agli stand, dove mi vede il pubblico. Dammi requie, passami un po' più in là". E
Fangio capì. La successione dei piloti vedeva Hawthorn al comando, ormai prossimo a
doppiare Macklin su Austin Healey. Dietro l'inglese, Levegh, seguito da Fangio. A
Hawthorn già da due giri avevano sbandierato il segnale del rifornimento; secondo le
istruzioni dello stand, al terzo giro avrebbe dovuto fermarsi. Macklin accostò sulla destra,
per lasciar spazio a Hawthorn. Ormai i piloti si trovavano nello stretto rettilineo davanti ai
box, di fronte alle tribune. Hawthorn superò Macklin ma con grande sorpresa di
quest’ultimo, strinse immediatamente sulla destra. Macklin ebbe la sensazione
angosciante che Hawthorn non stesse calcolando esattamente la velocità della sua Austin.
O forse voleva farsi da parte per lasciar passare Fangio, con cui si era alternato fino a quel
momento al comando. Certo non voleva fermarsi al proprio box: perché superarlo, allora, a
così breve distanza? Ma nello stesso istante Macklin vide accendersi le luci degli stop:
stava frenando, a pochi metri davanti a lui! Non c'era alternativa: doveva aggrapparsi
anch’egli ai suoi freni, per evitare di centrarlo in pieno. Ma il potere frenante della Jaguar
era infinitamente più potente della Austin, e Macklin, sempre in quel brevissimo spazio di
secondi, si rese conto che frenare non bastava: gli sarebbe arrivato dentro comunque.
Sperò che Hawthorn si rendesse conto di come lo avesse stretto e rilasciasse i freni, ma la
distanza tra la sua macchina e quella davanti stava diminuendo vertiginosamente. In un
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tentativo disperato, spostò la macchina sulla sinistra. Toccare il volante a quella velocità e
in frenata causò uno slittamento che lo portò a perdere completamente il controllo. Si
trovava davanti alle tribune in mezzo al circuito, con una vettura impazzita, con ancora
abbastanza spazio sulla sinistra per essere superato. Ma nello stesso istante sentì un
colpo indescrivibile da dietro, la sua macchina compì un folle testa-coda per poi sbattere
contro gli stand, falciando un giornalista e un gendarme, ed essere rilanciata con violenza
dall'altra parte, a fracassarsi definitivamente contro il muro delle tribune. Nel momento
dell'urto, aveva ancora avuto la possibilità di vedere con la coda dell'occhio un'ombra
argentea passargli sopra la testa, e un'altra ombra argentea che gli filava accanto, sulla
destra.
Quando scese, scioccato, dalla sua vettura distrutta, non sapeva chiaro cosa fosse
successo. Non aveva capito che Levegh, al volante di quella tremenda, per lui, 300 SLR,
trovandosi di fronte la sua macchina l'aveva colpita in pieno, ad una tale velocità da
decollare, superarla per aria, schiantarsi sul pilone del tunnel pedonale a lato delle tribune,
e disintegrarsi con due esplosioni al di sopra di una folla di centinaia di persone. E questo
mentre Fangio, con millimetrica precisione, riusciva a trovare un varco tra la macchina di
Hawthorn, ferma al box della Cunningham (tre box più in la' del proprio), e quella di
Macklin.
Dove prima c'era un folla di persone in piedi, ora si vedevano soltanto persone abbattute a
terra, o inginocchiate vicino a porgere un primo disperato soccorso. Parecchi testimoni
furono concordi nel descrivere la scena come se fosse scoppiata una bomba. Decine e
decine di corpi falciati, nello spazio di un attimo, fatti letteralmente a pezzi. Il prato aveva
cambiato colore, ed era disseminato d'ogni sorta d'orrori. Quello che era stato un urlo
unisono, si spense in un silenzio profondissimo che durò qualche secondo. Quindi iniziò la
solita frenetica confusione di tutte le catastrofi: parenti e amici che premevano per arrivare
alla zona, nella speranza folle di scorgere i propri cari sopravvissuti; ambulanze, dottori
improvvisati, forze di polizia, giornalisti, infermieri, uomini dell'organizzazione. E in mezzo
al disumano dolore, alcuni meccanici della Mercedes che, con assoluta rapidità, nel giro di
dieci minuti dall'incidente avevano raccolto e portato via tutti i pezzi della macchina di
Levegh.
Solo con una certa lentezza si acquisì la consapevolezza del disastro. Di sicuro la ebbero
prima nel resto del mondo che negli altri punti del circuito. E intanto le autorità
affrontavano il solito, terribile dilemma. Sospendere la corsa o continuarla? Ammettere
l’enormità della tragedia o far finta di niente, nel timore che la gente, presa dal panico, si
accalcasse alle uscite, ostacolasse ancora di più di quanto già non fosse l’azione dei
soccorritori? Prevalse il solito, desolante “The show must go on”.
Nel box della Mercedes la concitazione era al massimo. Da Stoccarda arrivarono
telefonate molto chiare: ritirarsi! Neubauer e Uhlenhaut avevano delle riserve: Faroux li
implorava di continuare, ed essi stessi esitavano a sprecare una vittoria certa. Le
telefonate, tra l’altro difficilissime, visto che da tutte le parti della Francia si tentava di
comunicare con Le Mans e viceversa, si fecero convulse. A sette ore dall’incidente si
arrivò ad una decisione unanime: la macchina causa di morte per ottantuno persone era
una Mercedes, non si poteva continuare a correre. Quando la Mercedes avvertì lo stand
Jaguar della propria decisione, fu subito chiaro che non sarebbe stata seguita su questa
strada. L’unica che importasse alla Jaguar era quella della vittoria. La percorse fino in
fondo, tanto da finire addirittura con Hawthorn trionfante all’arrivo.
Di chi la colpa della strage? Di Levegh che, troppo vecchio, non abbastanza bravo, non
avrebbe mai dovuto gareggiare con quella macchina, in quel gruppo di piloti?
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Oppure di Macklin che, distratto dall’aver guardato nello specchio retrovisore, non si era
accorto
in
tempo
della
frenata
di
Hawthorn?
O di Hawthorn, che calcolò male la distanza che lo separava dal proprio stand, tanto da
trovarsi a frenare troppo bruscamente subito dopo il superamento di Macklin, finire lungo,
tre box più avanti, e farsi prendere da una crisi di isteria quando gli fu chiaro cosa era
successo (salvo superarla subito e riprendere a guidare)?
O della Mercedes, che aveva inserito nei telai due piccoli serbatoi di additivi illeciti, da cui il
pilota attingeva nei momenti in cui aveva bisogno di maggiore potenza tramite un
comando del cruscotto, e che furono la causa della doppia esplosione della vettura di
Levegh?
Partì un’inchiesta, per fare la massima chiarezza, nel più breve tempo possibile. Invece,
siamo ancora qui a farci le stesse domande di quarantacinque anni fa.
La maggior parte delle informazioni contenute in questo articolo sono tratte dal libro di
Mark Kahn “Death Race. Le Mans 1955”, Barrie & Jenkins, 1976, London
Ecco una descrizione del circuito come appariva nel 1955, costituito da strade
normalmente aperte al traffico e chiuse per la gara, nel Dipartimento francese della
Sarthe. La lunghezza complessiva é di 13 chilometri e mezzo. Il primo rettilineo che si
affronta é quello dalla curva di Tertre Rouge a quella di Mulsanne, che conduce ad una
collina che nasconde una curva a gomito sulla destra. Quindi é la volta del tratto chiamato
Indianapolis, a causa del rialzo al bordo esterno che una volta presentava. La curva
d'Arnage, piuttosto stretta, indirizza verso La Maison Blanche, con curve solo
apparentemente facili, in realtà insidiose. Superata la Maison Blanche, un tratto veloce
conduce alle tribune sulla sinistra, di fronte agli stands sulla destra. E' il più emozionante,
quello dove il pilota poteva sentire gli incitamenti della folla, leggere gli avvertimenti del
proprio stand, capire l'andamento della gara...Quindi si passa sotto il ponte Dunlop, un
piccolo rettilineo, una doppia curva prima a sinistra, poi bruscamente a destra, e ci si
ritrova sul rettilifilo di Mulsanne. Questo per ventiquattro, interminabili ore.
Uno sguardo ai box.
IL BOX MERCEDES
La Mercedes schierava tre formidabili 300 SLR color argento, prime macchine a correre a
Le Mans con iniezione di benzina. Avevano un punto debole: disponevano ancora di freni
a tamburo anziché a disco. Per ovviare all’ handicap, si era studiato un freno
aerodinamico, azionabile dal pilota tramite un flap di metallo da manovrare tramite una
leva. Poiché durante le prove alcuni piloti avevano protestato di averne la visione ostruita
durante le curve, la Mercedes inserì in questi "alettoni" dei tratti in plastica trasparente. I
piloti erano quanto di meglio il mondo automobilistico poteva offrire: l'argentino Juan
Manuel Fangio e il britannico Stirling Moss. Del terzo si sapeva solo il nome: Pierre
Levegh. Nello stand, a dirigere la squadra, il monumentale Alfred Neubauer, poi Rudolf
Uhlenhaut, pilota di prim'ordine e responsabile dello sviluppo e progettazione delle vetture,
e Arthur Keser, a capo delle Pubbliche Relazioni.
Il Box Jaguar
Le vetture erano tre D-Type. La guida n. 1 era Mike Hawthorn, alto, biondo, chiamato
"The Butterfly" per l'elegante e sfiziosa abitudine di portare il cravattino anche sotto la tuta.
A condividere la vettura era Ivor Bueb. La seconda coppia era costituita dai vincitori
dell'anno precedente, Rolt e Hamilton; la terza da Don Beauman e Norman Dewis. A
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dirigere la squadra Frank Raymond Wilton England, carattere formidabile, che a
quarantaquattro anni poteva dirsi uno dei direttori sportivi più preparati e determinati, con
un unico obiettivo in mente: vincere Le Mans.
Il box Austin Healey
La macchina schierata era una 100 S, di serie, di proprietà del progettista, Donald Healey,
ma iscritta a nome del pilota, Lance Macklin. Nell'edizione precedente la Austin si era
ritirata in segno di protesta per l'eccessivo numero di prototipi e di vetture speciali presenti
in gara, ben diverse dalla produzione di serie a cui invece la Austin Healey rigorosamente
si atteneva. Nel 1955 si ripresentò, ma per evitare polemiche con gli organizzatori si
preferì iscrivere la vettura nel nome del primo pilota, Macklin appunto, coadiuvato da Les
Leston.
Altri Box
Quello Ferrari, con Castellotti accanto alla sua 4500 cc. L'Aston Martin da 3000 cc, guidata
da Peter Collins e Paul Frère, e via via le altre vetture, in tutto sessanta, per arrivare alla
più piccola e bizzarra, la Nardi da 735 cc, costituita da due siluri appaiati: in uno sedeva il
pilota, nell'altro era sistemato il motore.
Donatella Biffignandi
Centro di Documentazione del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino
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