L`albatros n.2

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L`albatros n.2
2 ALBATROS
DIARIO DI BORDO
“Il primo studio dell’uomo che vuole essere poeta è la conoscenza di se stesso, intera: egli cerca la sua anima, la scruta, la mette alla prova, la impara.” (Rimbaud, Lettera a Paul Demeny)
Scrivere è come respirare, bagnarsi del mondo e di sé mno a perdersi, o trovarsi.
Imparare a scrivere è un atto di libertà, di volontà, è il grido alle viscere del mondo, non è solo il mondo. E’
l’uomo che si perde, non la perdizione, è l’uomo che cammina in una strada, non le indicazioni per raggiungere una meta.
Questa è la scrittura che conduce l’uomo alla vita, e la vita all’uomo , e l’uomo è più uomo.
Non si tratta di un esercizio di stile, ma di un esercizio di vita, della ricerca della forma della vita nella sua
concretezza più quotidiana, per noi: la scuola.
Questa è l’unica scrittura che ha senso di esistere.
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in questo numero
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Marzo 2012 N. 2
L’OPEN DAY: I Numeri della Bellezza
L’OPEN DAY: Le Fibre della Natura
L’OPEN DAY: L’Ordine e il Caos
FILOSOFANDO: Bugie e Borse Griffate
L’INTERVISTA A...: Francesco Amadori
L’INTERVISTA A...: Costantino Esposito
L’INTERVISTA A...: Paolo Lucchi
L’INTERVISTA A...: Franco Mescolini
L’INTERVISTA A...: Claudio Damiani
L’INTERVISTA A...: Alessandro D’Avenia
OSSERVANDO: La Chiesa di Santa Cristina
STORIE: E mentre tutto scorre io non me ne accorgo
STORIE: I Ragazzi e la Fatica
FILM: This must be the place
STORIE: Il Violinista nella Metro
STORIE: Io e il Teatro
STORIE: Samuel Modiano
STORIE: Eppure non mi sono mai sentito così libero...
LETTERANDO: L’Eleganza del Riccio
FATTI DI SCUOLA: Gita a Parigi
FATTI DI SCUOLA: Gita in Provenza
LO STAFF DI ALBATROS
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FATTI DI SCUOLA: open day 2011
I NUMERI DELLA BELLEZZA
Barbara Buccelli,Teresa Angeli, Giovanni Bravin, Chiara Casadei, Elisa Del Testa
Dicono di me.
Il 10 dicembre è stato fatto l’Open Day a scuola. L’introduzione dell’open day era un richiamo alla bellezza
antica sotto vari aspetti. I pittori la ritraevano, i poeti la cantavano, i musicisti la componevano e i mlosom la
studiavano. Abbiamo mostrato delle immagini di alcune opere antiche.e abbiamo fatto vedere anche un brano tratto dal mlm “Il genio ribelle” di Will Hunting dove i due personaggi principali discutono sull’esperienza
della bellezza, che nasce dal vedere un’opera con i propri occhi piuttosto che dallo studio sui libri.
Armonie di forma.
Quest’anno per l’open day ho contribuito alla realizzazione dell’aula di matematica e storia dell’arte, insieme ad altri studenti del biennio. L’argomento che ho trattato, dal titolo “armonie di forma”, consisteva nello
spiegare il concetto di “concinnitas”, ovvero l’armonia di una singola parte con il tutto, e come essa si manifesta nelle varie forme di arte. Nella scultura durante il periodo greco si manifestava attraverso le perfette
proporzioni di ogni singolo elemento; oppure nell’architettura si otteneva rapportando tutte le misure ad un
unico modulo. Ho deciso con i miei insegnanti di mostrare un video tratto dal mlm “Les choristes”, nel quale
un coro canta all’unisono, facendo da sottofondo a un solista. La voce del solista è resa più bella dal coro, e,
viceversa, il coro è reso bello dalla voce del solista, che è in armonia con tutto il resto. Grazie a questo video
ho capito che la concinnitas si può conseguire in ogni forma d’arte. Mi è piaciuto molto approfondire questo
tema, che già mi aveva colpito durante la prima ora di lezione di Storia dell’arte, e penso che abbiamo fatto
un buon lavoro.
Costruttori di Cattedrali
Nella terza sezione abbiamo spiegato come gli uomini nel tempo si sono ingegnati creando strutture architettoniche sempre più resistenti.
La prima costruzione dell’uomo è stato il trilite formato da tre elementi,du verticali e uno verticale orizzontale
denominato architrave. Questa costruzione ad esempio compare sia a Stonehenge che poi nel Partenone
nell’Acropoli di Atene.
I Romani introducono poi un nuovo sistema costruttivo, l’arco a tutto sesto, più resistente e stabile rispetto al
trilite. Questa invenzione statica ha consentito ai romani di costruire grandiosi monumenti quali ad esempio il
Colosseo a Roma, l’arena di Verona e il Pont du Gard (in Francia). Nella Basilica di Massenzio, abbiamo scoperto un nuovo elemento strutturale che è la volta a botte, ottenuta con la traslazione di un arco a tutto sesto
lungo un asse orizzontale.
L’arco a tutto sesto ha poi avuto delle evoluzioni nel corso dei secoli. Nella cattedrale di Notre Dame a Parigi,
si può notare infatti l’arco a sesto acuto, che rispetto al tutto sesto è più slanciato e più resistente perché
rispetto all’arco a tutto sesto la componete orizzontale del vettore forza è inferiore.
All’interno di Notre Dame abbiano poi scoperto un’evoluzione della volta a botte, la volta a crociera che si
ottiene intersecando ortogonalmente due volte a botte.
All’esterno di Notre Dame abbiamo poi ritrovato un altro tipo di arco, l’arco rampante, che contribuisce a
irrigidire gli alti muri delle cattedrali e a contrastare le spinte orizzontali delle volte a crociera della navata
principale
Inmne abbiamo studiato l’arco paraboloide utilizzato da Antonì Gaudì nella costruzione della Sagrada Familia. E’ un arco ancora più resistente dell’arco a sesto acuto perché la sua forma consente ai conci di pietra
dell’arco di essere sottoposti alla sola tensione di compressione. La pietra infatti ha un’elevata resistenza alla
compressione, e una resistenza inferiore agli sforzi laterali di taglio e trazione.
Gaudì e la sagrada familia.
Nella quarta sezione io e la mia compagna abbiamo parlato della Sagrada Familia, e il più grande capolavoro di Gaudì, che fu il massimo esponente del modernismo catalano. Egli nacque vicino a Barcellona nel
1852. La costruzione di questa chiesa è cominciata nel 1882, ma Gaudì non riuscì a terminare l’opera; ed
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fatti di scuola: open day 2011
infatti ancora oggi ci sono architetti che stanno proseguendo il suo lavoro. Gaudì si appassionò all’arte osservando la natura della terra in cui è vissuto. I numeri della bellezza che regolano la costruzione del tempio
espiatorio della Sagrada sono stati scoperti da Gaudì dall’attenta osservazione della natura. La spirale delle
conchiglie, gli l’archi paraboloidi dei modelli di catenarie e delle valli di montagna, gli alberi sono così diventati le scale nelle torri, gli archi della navata, i nodi dei pilastri e delle travi. Come se nelle cose ci fosse già
tutto e l’artista più che inventarsi chissà quale formula e forma, dovesse semplicemente svelare quello che
già c’è, tradurre in pietra quello che la natura presenta in forma organica. Guardando La Sagrada, rileggendo
in classe con il professore le parole di Gaudì, , abbiamo capito che amare le cose viene prima della conoscenza delle cose, che per conoscere bisogna prima amare e guardare.
La sezione aurea.
Nell’ultima sezione abbiamo affrontato il tema della sezione aurea che ha consistito nello scoprire di volta in
volta nelle varie civiltà come il suo utilizzo abbia portato in architettura e in scultura all’equilibrio, all’armonia e
alla perfezione
Nell’antico Egitto, dove non risulta che tale proporzione fosse esplicitamente conosciuta, l’uso della sezione
aurea appare il risultato inconscio di una necessità costruttiva.
Dalla civiltà ellenica, che invece conosceva la costruzione del numero d’oro, la proporzione venne utilizzata in quanto realizzazione dell’ideale di bellezza tramite il quale “si può giungere alla contemplazione della
verità.” (Platone)
Essa venne poi usata nel Medioevo ed in questo periodo la sezione aurea acquistò anche un valore simbolico e gli architetti la utilizzarono non solo per motivi estetici.
La sezione aurea la troviamo poi anche nel Novecento e persino ai giorni nostri, nel palazzo dell’Onu e nel
Pentagono per esempio.
Il numero aureo però, non appare solo nell’architettura e quindi nell’arte, ma è presente anche nelle costruzioni matematiche come nel rettangolo, nel pentagono e nella spirale aurea. Esso si trova anche nelle cose
naturali, è presente infatti ad esempio nella conchiglia del Nautilus e nella stella marina. Alla mne del percorso
delle cinque sezioni mi è stato chiaro quanto afferma Galilei che la natura è scritta con un linguaggio matematico, e come i numeri possano anche portare alla bellezza.
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FATTI DI SCUOLA: open day 2011
LE FIBRE DELLA NATURA
Maria Vittoria Bazzocchi
Quando arriva il momento di scegliere di cosa occuparsi per l’annuale open-day, chi sceglie una materia
scientimca quasi sempre si pone come obiettivo quello di riuscire in dieci minuti a spiegare esaurientemente
ciò che ha appreso in un trimestre di scuola e magari anche quello di appassionare i ragazzi più piccoli alla
scienza e alla msica, che detto sinceramente è molto difmcile. Noi ci abbiamo provato e abbiamo usato pure
gli effetti speciali.
L’obiettivo era di legare la spiegazione della riproduzione di una cellula (la base della vita) a quella di una
della più grandi scoperte tecnologiche dell’uomo negli ultimi 30 anni: le mbre ottiche.
Entrando nel dettaglio del nostro open day, siamo partiti dalla divisione di una cellula: una cellula madre deve
dividersi per perpetuarsi, e per farlo deve prima moltiplicare per due tutto ciò che ha (i suoi cromosomi), i
doppioni vengono poi separati da lunghi mlamenti (di morfologia simili a mbre ottiche) e la cellula madre si
separa dalla cellula mglia che è pronta per una nuova divisione.
Abbiamo voluto dare la possibilità ai ragazzi più piccoli di analizzare ogni fase della divisione mitotica tramite
vetrini di cellule vegetali in divisione, osservati al microscopio elettronico, per accompagnare le nostre parole
con qualcosa di reale e tangibile, e per fare in modo che ciò che dicevamo non rimanesse solo un discorso
astratto.
Prima di parlare dell’utilizzo delle mbre ottiche dobbiamo fare una premessa: le mbre ottiche sono tubicini di
vetro sottili quanto un capello, all’interno dei quali la luce entra da un capo ed esce da quello opposto senza
mai fuoriuscire dalle pareti del tubulo. Questo è possibile grazie a un fenomeno detto rinessione totale: un
raggio di luce colpisce una supermcie con un certo angolo, quando il raggio viene rifratto l’angolo cambia:
l’angolo limite di un raggio è l’angolo che ha un angolo rifratto di 90 gradi. Quando un raggio colpisce una
supermcie con l’angolo limite il raggio non viene rifratto bensì rinesso; quando questo processo avviene in un
sottile tubo, il fenomeno si ripete mno alla terminazione del tubo, ed è qui che la luce esce.
Le mbre ottiche portano informazioni con velocità signimcativamente superiore ai cavi in rame (una sola mbra
può trasportare 12.000 telefonate) e sono state una vera e propria svolta per la comunicazione e la medicina
che si è modernizzata utilizzandole per alcuni interventi.
Per spiegare e rendere più comprensibile il fenomeno durante l’Open Day abbiamo steso lungo il corridoio
e il vano scale del Liceo più di 100 mt di mbra ottica illuminandola a un capo con un laser. Con una bottiglia
d’acqua forata abbiamo poi mostrato che se si mette il laser dalla parte opposta della bottiglia rispetto al
foro, la luce seguirà lo zampillo d’acqua che risulterà colorato.
Davanti a un pubblico interessato a come funziona la vita di tutti i giorni (interna ed esterna al corpo) abbiamo cercato di spiegare la connessione tra questi due temi che non hanno apparentemente nulla in comune
se non che sono etichettati con il nome di “argomenti scientimci”.
Ebbene il punto cruciale è che tutto è un circolo, questi due elementi sono legati dal fatto che si aiutano ad
esistere. Il processo di riproduzione cellulare è la vita, ciò che permette all’uomo di essere, quindi di pensare
ed è pensando e ragionando (la ragione è ciò che distingue l’uomo dagli altri primati) che l’uomo può scoprire la verità. Così ad esempio l’uomo può applicare le proprie scoperte scientimche costruendo le mbre ottiche
che possono poi essere usate in medicina per fare operazioni fondamentali e meno invasive della chirurgia
tradizionale. Ho imparato che tutto parte da una sola cellula che si moltiplica inmnite volte e crea ciò che
siamo, crea la nostra mente che ha un funzionamento misterioso e meraviglioso e che permette all’uomo di
migliorare le proprie condizioni di vita.
Voglio dire insomma che la connessione tra i due argomenti non è da ricercare intrinsecamente ad essi ma
all’esterno: ciò che li lega è la passione dell’uomo per la scienza e la sua voglia di scoprire sempre più i misteri della natura e il misterio eterno dell’esser nostro….
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fatti di scuola: open day 2011
L’ORDINE E IL CAOS
Francesca Fioretti
All’open day del nostro liceo, grande interesse ha suscitato il lavoro svolto nell’aula di matematica. Partendo
da argomenti studiati al Liceo, come le serie e le successioni dei numeri, sono stati illustrate diverse esperienze di come la matematica sia presente in natura, di come interagisca quotidianamente con la nostra vita
e di quanto sia in rado di creare modelli interpretativi della realtà. Dopo aver spiegato dal punto di vista matematico cosa si intende per serie e successione, ci si é soffermati ad analizzare la serie nota, con il nome
di “Serie di Fibonacci”. Essa è rappresentata dai numeri 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55..dove ciascun termine
é uguale alla somma dei due termini precedenti. In natura questa successione si presenta in diverse occasioni, ad esempio nella riproduzione dei conigli. Come si può notare nella tabella a lato riportata i conigli si
riproducono secondo la serie matematica di Fibonacci: premettendo che una coppia di conigli si riproduce
ogni mese, e che un coniglio appena nato diventa fertile dopo due mesi, il primo mese abbiamo una coppia
di conigli (1), il secondo mese la coppia di conigli resta sempre la stessa e concepiscono un coniglio piccolo (2), il terzo mese abbiamo la coppia di conigli iniziale, il piccolo del mese precedente che é cresciuto
diventando adulto e un nuovo coniglio appena nato (3), e così via. Un altro esempio che abbiamo analizzato
é la successione delle foglie e dei rami di Girasole. Essa ha una componente rotatoria, che con l’avanzamento verso l’alto traccia intorno al fusto un’elica immaginaria. Anche la disposizione delle foglie sul fusto
del girasole, detta Filotassi, è basata sui numeri di Fibonacci. Così pure le squame che rivestono la supermcie dell’ananas presentano una successione numerica di 5, 8, 13 o 21 spirali via via più ripide che altro non
sono che i numeri di Fibonacci.
É stato inoltre introdotto un altro concetto matematico: il Frattale, ossia quella mgura geometrica caratterizzata dal ripetersi all’inmnito di una stessa costruzione su scala sempre più ridotta o ingrandita. Il Frattale
presenta delle autosimilarità, infatti con una operazione di zoom, la parte che viene ingrandita riproduce
esattamente l’immagine iniziale del Frattale stesso. Trattando questo argomento non ci siamo soffermati solo
su esempi celebri ed esteticamente affascinanti e coinvolgenti,come di Frattale di Mandelbrot o l’Albero di
Pitagora, bensì abbiamo ricercato anche i Frattali in natura e li abbiamo identimcati per esempio nelle coste
della Cornovaglia, nei Fiordi norvegesi, nel mocco di neve e anche nel semplice ma intrigante Cavolo Romano. Questo é solo un piccolo esempio del lavoro svolto, che ha coinvolto noi ragazzi del triennio. É stato un
momento interessante perché ci ha permesso di studiare la matematica in maniera diversa, scoprendone
applicazioni inaspettate.
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Filosofando
BUGIE E BORSE GRIFFATE
Federica Pianese
Chi potrebbe mai pensare che in un pomeriggio di shopping, passando davanti ad uno dei tantissimi negozi
di articoli cosiddetti “taroccati” nel gergo comune, si possa intuire uno stretto legame fra l’economia di un
paese e i rapporti affettivi tra le persone?
Beh, è successo a me, una neo-diciassettenne che nei primi giorni di questo 2012 stava passeggiando per
Cesenatico con la sorella.
Guardando le vetrine dei negozi ho constatato quanto sia semplice comprare l’imitazione di un qualsiasi
oggetto di marca piuttosto che l’originale; insomma è necessario poco tempo e poco denaro, è una scelta
lampo che non implica alcuna fatica ….proprio come una bugia o una mezza verità.
Entrambe le cose sembrano ciò che non sono e alla lunga non portano mai al risultato ottimale che avevamo
preventivato: una bugia corrode lentamente un rapporto di mducia tanto quanto un “falso” svenduto logora e
compromette l’economia di un paese!
Per comprare un articolo griffato, invece, le forze in gioco sono ben diverse; bisogna innanzitutto guadagnare
in qualche modo i soldi necessari a coprire la somma da capogiro, poi verrà naturale ragionare e ponderare
attentamente la scelta.
Ma una volta acquistato, l’articolo non dà una illusoria e momentanea soddisfazione poiché dimostra con
fedeltà il suo valore a lungo termine, infatti vale quanto costa.
A chi non è mai successo di dover raccontare una verità piuttosto bollente che avrebbe preferito nascondere
nei meandri della coscienza?
Bene ... la verità, in un rapporto di qualsiasi tipo, in alcune situazioni è pesante da pagare quanto lo può essere il prezzo segnato sul cartellino di una borsa mrmato Prada, Gucci o Armani ma in qualche modo è anche
lo scontrino della felicità.
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filosofando
RIFLESSIONI (UN PO’ DISORDINATE) FATTE A PARTIRE DA ALTRE RIFLESSIONI
FATTE, QUESTE ULTIME, DURANTE LO SHOPPING A CESENATICO
Lorenzo Gianfelici
Cara Federica… è proprio vero, un articolo taroccato è una bugia facile da comprare e con le gambe corte.
Dura poco, non è “fedele”. Ho cassetti pieni di made in China tutti da buttare. Lo ammetto: sono proprio un
bugiardo, o almeno collaboro a questa bugia universale.
Però devo dire che, come testimoniano alcuni dei miei cassetti pieni di roba da buttare, l’inganno è ben
presto svelato. Basta indagare un po’, magari guardare l’etichetta, e la bugia si palesa per quello che è: una
bugia appunto. In più, si tratta di una bugia tragica, in quanto dietro di essa c’è la verità (questa sì che è
vera!) di lavoratori malpagati, con pochi diritti, in poche parole sfruttati.
La verità, invece, è più difmcile da scoprire. La borsa “griffata” è vera? Qui le cose si complicano un po’, non
credi? È vera perché è originale? Ma esiste in generale l’originalità? Essa stessa non è una copia, più o meno
fedele, di una borsa precedente, un’imitazione, una citazione di altre borse?
La stessa cosa vale per i quadri: i falsimcatori vengono punti dalla legge ed è giusto che sia così. Ma, andando più a fondo, esiste un quadro assolutamente originale, che non sia imitazione (geniale, sicuramente) di un
altro o almeno di alcuni stilemi artistici? Prendi il David di Michelangelo: è originale, ma al contempo è chiara
l’imitazione degli stilemi classici. Voglio dire che una statua assolutamente vera-originale potrebbe crearla
solo Dio, il quale, non a caso, secondo le Scritture, ha creato un’opera che non si era mai vista prima: l’universo e l’uomo. Tutto il resto è ripetizione (più o meno vicina all’originale, più o meno innovativa e rivoluzionaria). E diventa bugia se si considera come creazione assolutamente originale. Insomma, non si inventa nulla,
ma si ripete con più o meno onestà e impegno.
Ad ogni modo, scendiamo un po’. Non c’è bisogno di chiamare in causa Dio.
L’articolo di marca ha una speciale verità. La sua verità è il prezzo, e la chiamiamo valore. Ma, mi chiedo,
una verità che ha un prezzo non è in fondo una bugia?
Forse è vero che l’articolo originale “vale quanto costa”, ma basta questo per renderlo vero?
Non si dice sempre che la “verità non ha prezzo”? Il valore della borsa lo puoi misurare. Quello della verità
no.
Non c’è economia che tenga: l’amicizia, se vuole essere vera, deve abbattere la bugia del prezzo. Ed è vero
che “mi costa fatica” essere vero nell’amicizia ma è un prezzo che distruggerebbe l’amicizia stessa se mi
spingesse a chiederne il conto all’amico.
L’amicizia risponde alla logica gratuita del dono e non a quella economica dello scambio. Non ha valore,
perché non è misurabile. La Borsa sì, l’amicizia no.
Forse, allora, la verità, quella vera, sta proprio nella gratuità, nell’amare senza chiedere nulla in cambio..
nemmeno lo scontrino. Un dono è vero proprio perché non si scambia con nulla. Si tratta di donare, in tutte
le forme possibili, la vita all’altro. Questo non ha prezzo, per questo ha un valore inmnito, non misurabile da
nulla, tanto meno dal prezzo.
Insomma, o la borsa o la vita…
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l’intervista a...
FRANCESCO AMADORI
Francesca Brotto e Francesca Fioretti
Una delle più grandi aziende agroalimentari d’Europa: abbiamo qui a Cesena la sede di Amadori. Oggi
abbiamo avuto l’opportunità di incontrare il suo fondatore: Francesco Amadori, che ci riceve nel suo ufmcio
accogliendoci con un largo sorriso e mettendoci subito a nostro agio, vista la nostra emozione nell’incontrare
un personaggio così famoso e importante.
Ci può raccontare un po’ la sua storia?
Io ho iniziato a lavorare quando avevo 12-13 anni aiutando i miei genitori che andavano a vendere polli nei
mercati. Nel ‘45 ancora noi facevamo tutti i mercati. Poi nel ‘54-’55 sono nati i primi polli d’allevamento e abbiamo iniziato ad allevarli anche noi, mno al ‘64-’65, in batterie. Per batteria s’intendono i polli allevati in piani,
non come adesso che sono per terra. Dopo invece abbiamo iniziato ad allevarli a terra. E pensare che molti
ancora credono che i polli si allevino nelle gabbie, cosa che non è più così da molto tempo. Per il consumatore infatti è anche facile confondere le cose perché i media di solito fanno vedere una batteria di galline che
producono uova, e poi per il consumatore quelli sono i polli insomma.
E da quella volta che abbiamo iniziato a far l’allevamento, da 500 polli alla settimana siamo arrivati ad oggi,
con più di 2 milioni di polli alla settimana. Abbiamo sempre investito negli allevamenti, mno al ‘70-’75 diciamo
che gli allevamenti li abbiamo fatti in proprio, dopo invece abbiamo iniziato a creare una società d’allevamento. E pian piano abbiamo creato l’iniziativa a Cesena, abbiamo intrapreso anche un’iniziativa a Teramo, e
abbiamo realizzato una collaborazione anche con Brescia e con la Toscana. Nel 2005 poi abbiamo assorbito
la Pollo del Campo. E da qui è seguita tutta l’evoluzione che ci ha portato ad avere 5 stabilimenti di lavorazione rispettivamente a Brescia, a Cesena, a Santa Soma, a Siena e a Teramo, che impiegano in totale 6700
dipendenti.
A proposito di lavoro, sappiamo bene che questi ultimi tempi sono di crisi, e noi ragazzi, che ancora stiamo studiando, sentiamo dire che non c’è molto lavoro. Cosa dovremmo pensare secondo lei?
Cosa consiglierebbe, ripensando anche al suo cammino, a noi giovani che ci stiamo per approcciare a
questo mondo?
Secondo me il lavoro è anche, credo, quello che uno crea e per il quale si dà da fare, perché c’è sempre
stata un po’ di crisi di lavoro, specialmente per i giovani. Quello che bisogna assolutamente fare è credere
nel proprio lavoro perché se non ci si crede allora si parte sviliti e poi non è facile raggiungere l’obbiettivo. Io
credo che voi dobbiate cercare di lavorare non cambiando tanti mestieri e investendo nel vostro lavoro, nella
vostra esperienza.
E al di là dell’azienda che interpretazioni dà lei della crisi di oggi?
Direi che la crisi di oggi è una crisi per la quale la gente ha paura di investire e di conseguenza si è fermato
un po’ tutto il ciclo produttivo o anche economico-mnanziario, e quindi questo è un problema. In più c’è la
pressione mediatica sulla crisi che porta alla paura, ovvero parlando sempre di crisi dopo tutto si amplimca. E
quindi la crisi la si sente anche di più, però un po’ di crisi c’è, ecco.
Ma lei nonostante questo suggerirebbe ai giovani di investire sulle proprie idee, sui propri sogni, e
comunque di contare sulle proprie capacità?
Io direi proprio di sì. Bisogna avere mducia nelle proprie capacità e idee e quando si lavora è utile cercare di
creare qualcosa. Insomma, bisogna cercare di impegnarsi nel lavoro senza dire “questo mi piace”, “questo
non mi piace”…
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l’intervista a...
Quindi avere un po’ di sano spirito di adattamento…
Certo, è necessario adattarsi. Bisogna rendersi disponibili a fare quello che si necessita, anche raccogliere
un pezzo di carta da terra.
E oltre al lavoro ha degli interessi, delle cose che la appassionano particolarmente?
Io ho sempre dedicato il mio tempo al lavoro, al lavoro fatto anche come un divertimento. In realtà di hobby
ne ho pochi. Mi piace guardare così ogni tanto qualche corsa di motociclette, dato che sono sempre stato un
po’ portato alla meccanica, inoltre mi piace anche il pugilato. Il mio tempo e il mio hobby è tutto dedicato al
lavoro insomma.
Al lavoro e anche alla famiglia perché sappiamo come Amadori abbia fondato la sua storia su questi
valori, che sono molto importanti per lei..
Sì, sicuramente alla famiglia ho sempre dato peso, però trascurandola anche un po’ delle volte, sempre per il
lavoro insomma.
Può dirsi comunque contento del suo percorso?
Io direi che sono abbastanza soddisfatto e poi se si guarda al passato qualche errore lo abbiam commesso
tutti, però sì, sono contento di quello che ho fatto, soprattutto perché ho ancora mducia per il futuro.
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l’intervista a...
COSTANTINO ESPOSITO
Luca Farneti, Federica Pianese, Lorenzo Gianfelici
Oltre ad essere autore del nostro Manuale di Filosoma, Costantino Esposito è professore di Storia della mlosoma
presso la Facoltà di Lettere e Filosoma dell’Università di Bari. Assieme ad altri giovani mlosom italiani cura la pubblicazione di una serie di Letture di mlosoma per un pubblico più vasto di quello accademico. I titoli mnora apparsi
(tutti presso le Edizioni di “Pagina”, Bari) sono Finito inmnito (2002, 20042), Bellezza e realtà (2003, 20042), Felicità
e desiderio (2004), Errare è umano (2005), Il potere della libertà (2008).
Perché ha scelto di dedicarsi alla ÀlosoÀa? Quale intima necessità l’ha spinta ad approfondire questa
“strana” disciplina?
Ciò che mi ha sempre colpito nello studio della mlosoma sin dal liceo è stata la possibilità che essa mi offriva
di scoprire momenti, e più ancora dimensioni della realtà – del mondo e di me stesso – che il più delle volte
guardiamo senza riuscire effettivamente a vedere. La realtà possiede una densità di signimcato e una potenza di valore che si può riconoscere solo se si educa lo sguardo. Certo, come diceva Cartesio all’inizio del
Discorso sul metodo, la bona mens, ossia l’intelligenza naturale di cui tutti gli uomini sono forniti, ha un’immediata capacità di cogliere il vero, cioè il senso ultimo delle cose; ma d’altra parte è esperienza altrettanto comune il fatto che questo primo sguardo dell’intelligenza assai facilmente si riduce all’abitudine, ai pregiudizi o
agli schemi impostici dalla cultura dominante. La mlosoma può – nei suoi casi migliori – aiutarci a guadagnare
un metodo per tenere aperto lo sguardo.
Quali suggerimenti darebbe ad uno studente che inizia a rapportarsi con questa nuova materia per
poterla apprezzare il più possibile?
Innanzitutto, sperando di non risultare impopolare in questa risposta, il mio suggerimento è quello di imparare a conoscere con disponibilità e umiltà critica le grandi esperienze di pensiero della storia della mlosoma,
perché è proprio scoprendo in che modo i grandi mlosom che ci hanno preceduto hanno preso sul serio le
domande della loro ragione, che possiamo a nostra volta imparare a porre correttamente le nostre domande.
La storia della mlosoma, infatti, è un aiuto utilissimo non tanto per accumulare nozioni sul passato (il che comunque ha un innegabile valore) ma nell’imparare a domandare, a parlare, ad argomentare. In una parola: a
“pensare”. Ma perché questo avvenga c’è bisogno che chi studia la storia della mlosoma abbia ben presente
l’esigenza di senso che caratterizza la nostra ragione. Insomma, per conoscere davvero Platone o Tommaso
o Hegel, devo esserci “io”, con tutta la forza delle mie domande.
Da sempre si insegna agli studenti che studiare è la via verso la conoscenza di se stessi. Lei quale
aspetto di sé ha scoperto dedicandosi alla ÀlosoÀa?
Per paradossale che possa sembrare, si conosce tanto più se stessi, quanto più si scopre che ciascuno di
noi è in rapporto con altro da sé. Questo rapporto non è solo una delle possibilità a nostra disposizione o
un’opzione comportamentale ma costituisce la stoffa del nostro stesso io.
E la scoperta più affascinante è che anche il mio io è in qualche modo altro rispetto a se stesso: “dato” da
altro e costitutivamente aperto o esposto al mondo.
La ÀlosoÀa antica è un percorso che tende a un sapere che mira alla trasformazione della vita di chi lo
compie. FilosoÀa e vita sono dunque strettamente collegati. La ÀlosoÀa ha modiÀcato il suo sguardo
sul mondo? Ha contribuito nell’aiutarla ad affrontare gli avvenimenti che la vita le ha posto innanzi?
Il bello ma anche il drammatico della mlosoma è che essa non costituisce automaticamente una soluzione ai
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l’intervista a...
problemi dell’uomo. Nel migliore dei casi essa, come già dicevo, essa non aiuta tanto nel processo di problem solving ma piuttosto in quello di question setting, cioè nel porre le vere domande. Come una volta ha
scritto Oscar Wilde, “A dare risposte son capaci tutti, mentre per porre le domande vere ci vuole un genio”.
Da questo punto di vista, la storia della mlosoma ci presenta una serie di geni che possono servire a risvegliare quella nostra genialità che ci permette di essere coscienti dell’essere. Ma è anche vero che la mlosoma
può in diversi casi complicare il percorso, offuscare lo sguardo con pregiudizi e ideologie. Il problema resta
apertissimo.
Nel primo volume del suo testo, “FilosoÀa antica e medievale”, Socrate viene deÀnito come a-topos,
dunque come colui che “è fuori luogo”, che non ha un posto nel mondo e che, proprio per questo,
riesce ad osservare la realtà da un altro punto di vista, mettendo in crisi abitudini e presunte certezze.
Che vuol dire, nel mondo a noi contemporaneo, essere a-topos? E inoltre, è possibile esserlo?
Il senso più interessante di questa a-topia è vivere l’ideale della realtà dentro la realtà stessa. D’altra parte,
lo stesso mondo ideale di Platone è scorrettamente inteso come un mondo semplicemente separato dall’esperienza. Al contrario, è il richiamo al senso e al valore ultimo delle cose che il mlosofo può guadagnare
attraverso le tracce che tale segno lascia nelle singole cose. E l’esempio più eloquente è quello della bellezza: quando una singola cosa o una singola persona ci colpiscono e ci attraggono per la loro bellezza, non è
forse questo un invito a cercare e a riconoscere la misteriosa origine del loro fascino?
14 ALBATROS
l’intervista a...
PAOLO LUCCHI
Luigia Bianchi
Lunedì 23 gennaio 2012 mi sono recata nel primo pomeriggio presso gli ufmci del comune di Cesena. Ad aspettarmi c’era il sindaco Paolo Lucchi, che avrei dovuto intervistare per il giornalino scolastico. La prima impressione è stata positiva: ero un po’ agitata ma il sindaco subito mi h messa a
mio agio. Il sindaco Lucchi, infatti, si è subito dimostrato una persona disponibile. Non sembrava
avere fretta. Tutt’altro. Pareva quasi che quell’intervista fosse importante anche per lui.
Ho pensato allora che fosse il caso di appromttare delle condizioni favorevoli e ho posto al sindaco
alcune domande che mi hanno consentito di comprendere quali siano le funzioni che un sindaco
debba svolgere e i motivi della sua candidatura.
Quando era piccolo, cosa sognava di diventare da grande?
Volevo fare il giornalista, ed è una cosa che avrei voluto fare. Ci ho pensato per molti anni. Poi quando ho iniziato il liceo, il mio professore del ginnasio mi disse che secondo lui scrivevo male. In realtà
io penso di scrivere abbastanza bene. Oltretutto alla mne sono diventato giornalista, però non è
diventata la mia professione come speravo quando ero ragazzino.
Quando ha deciso di candidarsi? Dopo essersi diplomato?
No, mnito il liceo ho frequentato l’università ed ho iniziato a lavorare in quello che allora era il Partito
Comunista, per alcuni anni. A ventisette anni ho cambiato completamente lavoro: sono andato a
fare l’impiegato alla Confesercenti e nel giro di dieci anni sono diventato il Segretario Generale. Solo
dopo altri quattro anni mi sono candidato al Consiglio Regionale e successivamente come sindaco.
Per molti anni non ho fatto politica. Ho deciso di candidarmi perché ho una grande passione per la
politica che mi ha sempre incuriosito e interessato sin da ragazzino. Ai tempi del liceo, infatti, ero nel
Consiglio d’Istituto.
Che compiti ha un sindaco?
È una domanda che mi fanno anche i miei mgli, spesso. Il sindaco si occupa di tutto ciò che riguarda l’amministrazione e la gestione della città, dai problemi più piccoli, che in realtà piccoli non
sono, che riguardano l’organizzazione per esempio delle scuole, dei trasporti pubblici, sino al piano
regolatore e al volto della città. Sostanzialmente tutta la rete dei servizi che ci accompagnano da
che nasciamo a che diventiamo anziani, è gestita più o meno dal Comune. Noi abbiamo molti servizi
fatti con principio di sussidiarietà, ma nella gran parte dei casi sono gestiti direttamente dal Comune. È più difmcile pensare ad una cosa che il comune non fa e della quale il sindaco non si occupa,
che trovare cose di cui si occupa, poiché si occupa di tutto. Anche di questioni di ordine pubblico,
che per legge non sono di competenza del Comune, ciò nonostante al Comune tocca fare la propria
parte.
Le piace il suo lavoro?
Essere sindaco è per me un grande onore, è la cosa più bella che mi sia capitata dal punto di vista
sia professionale sia personale, ed è un’esperienza che fa crescere moltissimo come uomo, in questo caso. Per questo forse non mi sono mai alzato dal letto la mattina pensando di non essere felice
della giornata che stavo affrontando.
ALBATROS 15
l’intervista a...
Che scuole ha frequentato?
Ho fatto le elementari un po’ all’Oltre Savio e un po’ alla Fiorita perché i miei genitori abitavano in
una casa in afmtto e ogni tanto cambiavamo casa. Le medie le ho fatte alla n°4, alla Plauto, poi ho
fatto il Liceo classico Monti e poi l’Università a Bologna.
Quali sono le iniziative del Comune di Cesena per gli studenti delle scuole superiori?
Per i ragazzi delle superiori facciamo soprattutto delle giornate di informazione e di orientamento.
Una è, hai fatto bene a citarla, la Giornata della Memoria. Organizziamo diversi incontri anche in
occasione del 25 aprile e del 22 ottobre, giornata della liberazione di Cesena. E poi, per fortuna,
negli ultimi anni sono aumentate le adesioni per il 2 giugno, festa della Repubblica. Nel 2011 abbiamo fatto un numero altissimo di iniziative collegate al 150° anniversario dell’Unità d’Italia rivolta alle
scuole.
Mentre tornavo a casa e ripensavo ai minuti trascorsi in quel’ufmcio, mi sono chiesta se un giorno
sarei potuta diventare sindaco e se sarei riuscita a sopportare il peso di tutte quelle responsabilità.
Non ho saputo darmi una risposta e forse non saprei farlo neppure ora. Certo è che il sindaco riveste un ruolo impegnativo e di grande responsabilità, per il quale sono necessari carisma, motivazione e voglia di lavorare bene per migliorare la città in cui viviamo.
16 ALBATROS
l’intervista a...
FRANCO MESCOLINI
Tommaso Faedi
Durante il pomeriggio del 13 febbraio mi sono recato a casa del noto attore e regista di teatro Franco Mescolini, nonchè mio attuale insegnante, per proporgli alcune domande su come sia nata questa grande passione
per l’arte, in particolare per l’arte drammaturgica. Di seguito ho trascritto fedelmente le risposte, in forma
‘parlata’, per non perdere la schiettezza delle sue rinessioni..
Com’è iniziata l’esperienza con il teatro?
Direi che il teatro ha sempre accompagnato la mia esistenza, perchè mn da bambino io ho cercato in questo
magnimco gioco che è appunto il teatro,... ho cercato tutte le cose che non riuscivo a trovare nella realtà, non
riuscivo a trovarle a portata di mano..., e tutto quello che la fantasia mi suggeriva io non riuscivo a trovarlo
accanto a me. Così il teatro è stato per me un grande veicolo di rapporto con un mondo magico e un mondo
sconosciuto, con... l’isola che non c’è, e questo..., questo ha fatto sì che io lo curassi, lo seguissi, lo amassi, e
quindi mn da bambino ho fatto teatro giocando con gli altri bambini. Io giocavo col teatro.
... E invece il cinema?
Nella mia vita professionale prima c’è stato il teatro... poi più tardi quand’ero grande il cinema, e il cinema è
indubbiamente una cosa totalmente diversa per certi aspetti, perchè il cinema è una realtà tecnica, realizzata con una cinepresa che ti riprende, tutto è assolutamente possibile, ma tutto è assolutamente costruito,
irreale... non sei in rapporto diretto col pubblico, sei in rapporto diretto con una camera: con una camera nel
senso di cinepresa che ti riprende, e tu devi assolutamente attraverso il volto, l’espressione degli occhi, devi
saper raccontare. Certamente per un attore è molto... molto interessante e molto piacevole. Quindi il cinema
io l’ho vissuto come un arricchimento interiore a quello che era il gioco del teatro.
ALBATROS 17
l’intervista a...
A forza di giocare con la Ànzione non è che a un certo punto ti sei perso in quel mondo tanto da non
capire più la differenza tra reale e irreale?
Ma no la realtà è comunque realtà ed è con la realtà che ahimè sbattiamo il grugno quando è il momento...
no, no la mnzione è un rapporto artistico della realtà col sogno insomma... e quindi tu sei cosciente di questo
nel momento in cui mngi e sai che mngere ti deve portare alla creazione di qualcosa che non esiste ma che
da quel momento in cui fai l’atto creativo, artistico diventa reale, diventa una cosa... come la realtà, ecco! E
questa è appunto l’arte, l’arte del mngere, del mngere teatralmente, cinematogramcamente: quando più sei
credibile più sei artista.
C’è qualche spettacolo in programma, Franco?
Allora progetti futuri..., c’è uno spettacolo grosso per quest’estate “Se mai avrò vita”, invece adesso per il
prossimo maggio ho lo spettacolo al teatro Bonci con i ragazzi del laboratorio che ormai è una tradizione per
il “teatro ragazzi”, è uno spettacolo che parla appunto dei ragazzi, dei loro problemi, della loro..., della loro
difmcoltà nell’inserirsi nella realtà, perchè è un’età critica, difmcile, e perchè vivono tante contraddizioni..., e
perchè non sono poi purtroppo molto aiutati, il mondo degli adulti è un po’ distratto, o se è presente lo è in
maniera non adeguata, perchè nessuno in effetti ci aiuta a... essere adulti, capaci di seguire delle creature
che stanno crescendo.
Le risposte riportate dimostrano come Franco sia riuscito nella sua vita a partecipare a moltissimi progetti
che un po’ alla volta gli hanno consentito di diventare l’uomo che è oggi. Anch’io un giorno spero di seguire
le orme del mio maestro e di raggiungere,almeno in parte, i suoi stessi risultati!
18 ALBATROS
l’intervista a...
CLAUDIO DAMIANI
Veronica Batani
“Se la poetica é qualcosa che sta prima del testo, io non ho nessuna poetica”.
Di Claudio Damiani (San Giovanni Rotondo, 1957) è uscito nel 2010, per l’Editore Fazi, un libro antologico
(Poesie) che, come chiamando a raccolta tutta la sua precedente produzione poetica, rappresenta un momento di sintesi e rinessione, e certo anche un nuovo punto di partenza. Damiani è un poeta importante nel
panorama della poesia italiana contemporanea, la sua poesia è sorgiva, generativa, viva, diremmo piena di
vento. Per questo abbiamo deciso di rivolgere a lui qualche domanda sulla poesia, sulla scrittura. Ed ecco le
risposte, ecco le sue parole. Profonde, talora davvero sorprendenti.
Claudio, quando hai iniziato a scrivere? In che occasione?
Ho iniziato a scrivere intorno ai diciassette anni, non c’é stata un’occasione precisa, o comunque non me la
ricordo. Ho cominciato a leggere poesia e nello stesso tempo a scrivere.
Usi il computer o carta e penna? Perché?
Uso dei quaderni e scrivo a penna, poi ricopio al computer. Nei quaderni scrivo qualsiasi cosa, molto liberamente, non penso in particolare alla poesia. Non penso a niente. E’ vero, non penso proprio a niente. Spesso
scrivo in quello stato di semicoscienza che precede il sonno. Direttamente al computer scrivo generalmente
la prosa, quella poca che scrivo. In questo periodo sto mnendo di scrivere una prosa poetica sulla mia infanzia passata in un villaggio minerario da tanto abbandonato nel sud d’Italia. E’ un libro abbastanza strano, un
misto di prosa e poesia. Devo mnire poi un testo teatrale. Devo dire peró che dove mi sento più vicino alla mia
natura é in quella scrittura a penna e a sprazzi, senza un piano o un intento, senza disegni preordinati, su
quei miei quaderni. Torno a rileggere quello che ho scritto dopo qualche giorno, e qualche volta trovo quello
che potrebbe assomigliare a una poesia, e allora lo ricopio al computer.
Perché scrivi? Che senso ha scrivere?
Scrivere per me non è tanto qualcosa che ha o che non ha senso, quanto qualcosa che lo ricerca, il senso. E’
un andare, un po’ a tentoni, guidato forse da una mano invisibile, verso un senso. E’ un po’ come il pescatore, butti l’amo e vedi se riesci a pescare qualcosa. La poesia è come un pesce che esiste tutto intero e nuota
liberamente nel mare. Non è qualcosa che crei tu, o inventi. Anzi io credo che sia sempre qualcosa che non ti
aspetti.
Di solito a scuola quando si studia un autore, si studia la sua poetica, e spesso si studia più quella che
i suoi testi. Allora ti chiediamo: qual è la tua poetica...?
Se la poetica é qualcosa che sta prima del testo, io non ho nessuna poetica. Prima del testo, caso mai, c’è la
lingua, che è un po’ come il mare di cui parlavo prima. Penso che il poeta debba avere molta conmdenza con
la lingua, la debba conoscere in lungo e in largo, debba essere un tutt’uno con essa. Io credo che il poeta sia
un pezzo di lei, un suo strumento, un suo emissario in terra. Dico questo perché penso che la lingua abbia
qualcosa di celeste, ossia sia imparentata con la lingua delle cose, la grammatica dell’universo, intendo. La
logica o la msica, chiamiamola come vogliamo. Per lo stesso motivo penso che arte e scienza siano tutt’altro
che lontane, anzi vicinissime. Si riferiscono tutte e due a qualcosa non di soggettivo, ma di oggettivo, qualcosa che c’é veramente, qualcosa di cui anche noi stessi siamo fatti.
Che cosa stai facendo ora?
Ora sto rispondendo alle domande che mi hai inviato, e sono arrivato all’ultima. Mentre scrivo il mio mglio più
piccolo, di nove anni, sta giocando col suo amichetto. Mi hanno strappato più volte tutti e due il computer per
vedere delle immagini di auto da corsa, hanno giocato col gatto e l’amichetto é stato grafmato a una mano,
per la qual cosa l’ho disinfettato con un po’ di acqua ossigenata. Mentre scrivevo la seconda o terza risposta
mi sono alzato a preparargli la merenda. Adesso stanno giocando con delle macchinine. Un altro mio mglio,
ALBATROS 19
l’intervista a...
che ne ha diciassette, è entrato nella mia stanza per comunicarmi che gli erano riusciti tutti gli esercizi di
matematica, e abbiamo battuto il cinque. Ero contento, ma insieme preoccupato, perché so che poi diventeranno sempre più difmcili, e spero che riuscirà anche allora a risolverli.
Quali autori leggevi quando hai iniziato a scrivere? E quali ora?
Allora leggevo principalmente classici latini, greci, italiani e cinesi, in particolare di poesia. Molta anche prosa
morale, tipo Seneca, Senofonte, Epitteto, Confucio, Lao Tze, Bibbia, Petrarca delle Familiari, prose di Pascoli. Adesso riscopro anche qualche moderno e contemporaneo, leggo anche un po’ più di narrativa e libri di
scienza, geologia, msica, biologia. Ma quando mi ricapita in mano che so, Orazio, o Omero, o Boiardo, sono
sempre gli stessi brividi.
Quale classico e quale contemporaneo consiglieresti a chi voglia iniziare a conoscere davvero la poesia?
Consiglierei il Cantico dei cantici nella traduzione del padre Dalmazio Colombo, gli Inni Omerici nella traduzione di Filippo Cassola, Iliade e Odissea nelle traduzioni di Monti e Pindemonte, Le trecento poesie T’ang
nella traduzione di Martin Benedikter, Holderlin nella traduzione di Giorgio Vigolo, e poi i poeti italiani ovviamente, specialmente quelli tra il trecento e il cinquecento, dove la nostra lingua ha raggiunto vertici altissimi,
ma anche Foscolo e Leopardi, D’Annunzio e Pascoli, e i poeti del novecento ovviamente. Tra i contemporanei italiani consiglierei Beppe Salvia, Davide Rondoni, Umberto Fiori per dirne solo tre, ma ce ne sono molti
altri davvero bravi, é un momento buono questo per la nostra poesia, o anche poeti dialettali come il grande
Franco Loi.
20 ALBATROS
l’intervista a...
ALESSANDRO D’AVENIA
Teresa Angeli
Ciao Teresa,
scusami per l’attesa. E’ un periodo pienissimo.
Ecco le risposte. Grazie ancora per aver pensato a me.
Un caro saluto,
A.
Quando è nata la sua passione per l’insegnamento?
Al liceo. Guardando un mlm: L’attimo fuggente. Guardando un uomo, anzi due: il mio professore di
lettere, Mario Franchina, e il mio professore di religione: padre Pino Puglisi.
C’è una cosa nella sua vita alla quale non potrebbe rinunciare?
Dio.
E’ più affezionato al personaggio di Leo o a quello di Margherita?
Come si fa a non amare i miei primi due mgli, ciascuno come fosse l’unico?
Chi sono le persone che lei ritiene essere i suoi punti di riferimento? Perchè?
I miei genitori: un amore fedele da 46 anni e due vite spese al servizio dei mgli, siamo sei mgli, e degli altri.
Padre Puglisi: il sacrimcio di un uomo che ha cambiato, nel silenzio, una città, una scuola, un alunno.
Il mio prof di lettere: che amava il suo lavoro e lo faceva come si deve, andando aldilà del dovuto.
I miei autori preferiti: Dante, Omero, Shakespeare, Dostoevskij.
ALBATROS 21
OSSERVANDO
Tesori nascosti a Cesena:
LA CHIESA DI SANTA CRISTINA, perla di Giuseppe Valadier.
Teresa Consalici
Nonostante il suo recente restauro, la chiesa di Santa Cristina rimane nascosta agli occhi di tanti.
La sua storia è piuttosto antica: le sue origini si perdono nel Medioevo, quando a Cesena esisteva un convento dedicato alla santa.
Nel 1470 il piccolo edimcio sottostava all’attuale parrocchia di S. Bartolo; soltanto nel 1612 Santa Cristina
diventò essa stessa parrocchia e, nello stesso anno fu approvata la costruzione di una nuova chiesa: il locale
era di aspetto semplice, un piccolo spazio ad unica navata. La chiesa subì un ulteriore rinnovamento, condotto nel 1740, dall’architetto Giovanni Zondini, incaricato di decorare l’ambiente. Al termine dei lavori la
chiesa contava tre altari ed un campaniletto dotato di una sola campana.
Nel 1806 il governo francese che amministrava Cesena decise di sopprimere la parrocchia di Santa Cristina
che diventò così succursale di Santa Maria di Boccaquattro. Nella primavera del 1814, il papa cesenate Pio
VII, durante il suo viaggio di ritorno dalla deportazione in Francia, decise di fare tappa nella sua città natale;
e fu proprio durante questo breve soggiorno che si gettarono le basi per un nuovo cantiere. Venne stabilito
di afmdare i nuovi lavori agli architetti cesenati Brunelli e Barbieri per la “riedimcazione” della parrocchia di
Santa Cristina; difatti il 21 marzo del 1815, a palazzo Chiaramonti, si decise “di far demolire per intiero, e sino
al piano dei volti ad uso di cantina, la chiesa, e casa parrocchiale per appalto”
Numerose sono le interruzioni a partire dal 1817: Giuseppe Cedrini, depositario delle somme di denaro
destinate al pontemce sosteneva, infatti, che non ci fossero abbastanza fondi per poter portare a termine un
progetto di così grande valore. Nel contempo, l’arcinoto architetto Giuseppe Valadier, che mno a pochi anni
prima aveva progettato la ristrutturazione del Pantheon a Roma, propose (sotto la richiesta di Pio VII) un disegno per una nuova Santa Cristina: un luogo puro, semplice e dignitoso. I lavori dunque abbandonarono il
progetto Brunelli-Barbieri e proseguirono secondo quello valadieriano.
Il giorno 8 aprile 1816 cominciarono i lavori di costruzione della fabbrica di Santa Cristina su progetto dell’architetto romano Giuseppe Valadier. Il 17 luglio 1925, dopo nove lunghi anni di lavori e dopo la morte di Pio
VII, mnalmente la chiesa veniva consacrata.
Rafmnato esempio di architettura neoclassica, la facciata dell’edimcio si presenta come un fronte articolato
dalle linee essenziali. Gli ordini sono in pietra bianca calcarea mentre i fondi in mattoni. Due massicce colonne con capitello dorico proteggono l’ingresso; la facciata
è coronata da un cornicione lapideo decorato con dentelli. L’architettura interna della chiesa ruota intorno alla
modesta aula a pianta centrale sormontata da una magnimca e luminosa cupola a lacunari. Quello di Valadier è
un vero e proprio progetto di luce: i fusti delle colonne e
le pareti sono decorate a marmorino tirato a ferro, i capitelli a stucco bianco di gesso. Una volta entrati si viene
così abbracciati dal dolce candore e dalla delicatezza
dell’edimcio.
Tanti sono i dettagli presenti: semplici parole non bastano
per descriverli tutti.
Un occhio curioso e assetato di bellezza rimarrebbe
colpito dalla “nobile semplicità e quieta grandezza” di
questa chiesa, per usare le parole del teorico del neoclassicismo Johann Joachim Winckelmann.
Il mio dunque è un invito a scoprirla e a farne tesoro perché è l’arte che, attraverso le cose belle, sa educare
l’uomo ad essere più vero nella vita. E per chi volesse seguire il mio consiglio, questa perla di Valadier dedicata a Santa Cristina si trova in Via Chiaramonti…
1 Cesena, Archivio privato Chiaramonti d’Ottaviano; Libro degli atti, lettere, ed altro riguardante la Deposizione per la nuova fabbrica della Chiesa di Santa Cristina, 1816;
22 ALBATROS
storie
E MENTRE TUTTO SCORRE IO NON ME NE ACCORGO
Beatrice Serra
“La vita ce l’ha con me”. Questo è quello che mi sono ripetuta per tre anni. Tre lunghi anni in cui non sono
stata più io, perché quello che rimaneva di me era soltanto l’etichetta che gli altri avevano associato e incollato alla mia persona: Anoressia Nervosa.
Questo terribile demone mi ha rapita e mi ha portato dentro il suo inferno all’interno del quale ancora mi trovo
intrappolata. Lo ammetto, questa terribile malattia fa parte di me.
Avevo 15 anni quando un giorno per scherzo, per colpa di una professoressa che non mi reputava brillante
nella sua materia, ho deciso di mangiare meno. Si tratta di un motivo futile, ma per me fu l’ultimo decisivo
pretesto per iniziare la mia battaglia contro me stessa. In quel preciso momento una mina è penetrata dentro
di me ed è esplosa proprio lì, lì dove erano concentrate tutte le mie più grandi insicurezze, i miei dubbi, e le
mie paure riguardo alla vita.
Avevo tanti progetti in testa, tanti sogni.. i sogni di una ragazzina di soli 15 anni. Quel giorno, però, ho deciso che avrei smesso piano piano di mangiare, di esaurire le mie forze e di lasciarmi morire lentamente. Non
tolleravo la mia vita, eppure avevo buoni risultati a scuola, ma non riuscivo ad essere soddisfatta di ciò che
facevo. Non ero mai sazia di questa vita che sembrava non appagarmi mai.
Ho cominciato ad informarmi su come si potesse fare per dimagrire, consultando siti pro-ana (così chiamati
dalle teenager che vogliono condurre le proprie coetanee verso lo stesso cammino distruttivo) e così è iniziato tutto per scherzo, sebbene sapessi che avrei dovuto lottare contro me stessa e, quel che è peggio, contro
le persone che si prendevano cura di me e dicevano di volermi bene.
Per tre lunghi anni mi sono sbattuta tra vomito, lassativi, digiuni, calcoli, dimagrimenti e lacerazioni di cui
ancora oggi porto le ferite. Volevo raggiungere quel “peso ideale”, quella situazione che io sola credevo di
benessere. La mia vita era legata ad un numero, alla bilancia, anzi a quelle maledette bilance che ormai sognavo anche di notte. Non stavo bene con me stessa, è evidente.
Non mi accettavo, odiavo il mio corpo, le amiche non mi capivano e mngevano di starmi vicine, i genitori mi
stavano sempre troppo addosso. È stato quello il momento in cui ho deciso che, se non potevo controllare
nulla, allora avrei almeno controllato il mio corpo. Piano piano ho perso sempre più peso, nonostante seguissi
delle diete per ricercare un equilibrio alimentare, che forse, inconsciamente, non accettavo. Il problema, infatti, non era il cibo in sé, ma la mia collocazione in un mondo che sembrava non volermi riconoscere. Volevo
essere LA malata, ma non mi accorgevo del tempo che passava e del fatto che questa maledetta ossessione, lentamente e inconsciamente, mi stava togliendo tutta la mia adolescenza, mno a quando un giorno mi
sono ritrovata, nel Natale del 2010, in un letto di ospedale, sola, triste e senza più speranze. Pesavo 33 chili.
Pensavo fosse la mne e forse speravo davvero di poter essere giunta al capolinea di quella vita che non prospettava niente di buono per me. Dormivo tutto il giorno, mi riempivano di psicofarmaci, ero continuamente
circondata da camici bianchi e torturata da aghi nella pelle. Non ne potevo più. Così dopo un mese di ospedale ho deciso di dare una svolta alla mia vita e ho cercato un po’ di luce in fondo ad un tunnel che sembrava inmnito. È come se ad un tratto mi fossi svegliata e avessi capito che nessuno poteva costringermi a fare
ciò che non volevo, a stare in ospedale controvoglia e a soffrire inutilmente. Volevo davvero tornare a vivere o
ero semplicemente stanca di essere trattata da malata?
Tutte le attenzioni che avevo sempre ricercato con il mio disagio, ora le avevo, ma ne ero satura. Forse volevo invece solamente uscire da quelle quattro mura e svincolarmi dagli ordini dei medici, per ritornare mnalmente a riascoltare quella vocina cattiva, l’Anoressia, che da qualche tempo avevo “trascurato”.
Sono uscita dall’ospedale, avendo acquistato 3 miseri chili e un po’ più di voglia di mangiare. I medici erano
positivi e credevano nei miglioramenti, mi davano mducia, ma io li ingannavo, facendo loro credere di voler
guarire. Pian piano, infatti, la situazione peggiorò. Quei chili “di troppo” sulla bilancia mi davano fastidio,
avevo ricominciato ad odiare il cibo e tutto quello che volevo era di nuovo dimagrire, annullare me stessa
dietro un numero. Tornai quindi allo start, come nel “gioco dell’oca”. Dovevo ricominciare tutto da capo.
Non riuscivo più a frequentare la scuola, mi mancava il sostegno degli amici, passavo le mie giornate in
casa, sentendomi inutile per tutto e tutti.
ALBATROS 23
storie
Fu così che a mne febbraio del 2011 chiamai un noto
professore di Bologna, un certo Dottor F. il quale,
soltanto dopo avermi sentito parlare per telefono, si
impegnò a trovarmi un posto nel reparto DCA (Disturbi del Comportamento Alimentare) a Bologna presso
il S. Orsola. L’attesa fu abbastanza lunga, ma verso la
mne di marzo riuscii ad entrare all’ospedale di Bologna, dove, dopo un certo periodo, mi permisero di
prendere lezioni per non perdere l’anno scolastico.
Volevo guarire, questo era il mio scopo, e forse questa volta non era una bugia. Volevo uscire da quella
malattia che mi aveva portato via gli anni migliori e
che non mi fa assaporare la bellezza della vita. Ma
le cose sono sempre più facili a dirsi che a farsi. Una
volta entrata a Bologna, cominciarono subito a farmi
nebo e dopo neanche un mese, con il mio parere
contrario ma con l’approvazione dei miei genitori, i
medici mi costrinsero ad una alimentazione forzata
tramite il sondino naso - gastrico poiché continuavo
a perdere peso. Io non potevo più decidere. Mi trovavo in una situazione in cui non potevo più scegliere cosa
fare della mia vita, tutto era in mano agli altri e per me il sondino rappresentò una grande sconmtta, per me, che
pensavo di potercela fare da sola. Il dolore msico fu immenso, ma quello che provavo dentro nessuno può capirlo.
Mi sentivo tradita da tutti, anche dai miei genitori, e non avevo più quel controllo che tanto desideravo. Cercavo
di compensare l’incapacità di gestirmi con lunghissime camminate dentro ai corridoi dell’ospedale e centinaia
di addominali eseguiti sempre di nascosto, sopra un letto vecchio e arrugginito che produceva un cigolio prolungato, quasi volesse lamentarsi dei miei inutili sforzi. Ebbene anche il Dottor F. era riuscito a spaventarmi con il
suo tono austero e dittatoriale ed io, con le mie false promesse, mi rinchiudevo sempre di più nella mia malattia.
Forse e di nuovo non ero più così convinta di voler guarire. Quel posto mi opprimeva. Supplicavo i miei genitori di
portarmi via e più volte ho tentato il suicidio.
Dopo cinque lunghi mesi trascorsi in clinica, con piacevoli e al contempo spiacevoli incontri, sono uscita più forte, più
combattiva e avevo “imparato” a mangiare, come succede ai bambini. Ma la battaglia iniziava solo in quel momento,
la montagna era ancora tutta da scalare. Infatti tra alti e bassi ora sono qui. Ho cambiato permno scuola poiché nella
precedente non ho trovato persone in grado di capirmi e di accettarmi per quello che sono. Il 2011 è un anno che
vorrei dimenticare, ma so che sarà difmcile riuscirci. È stato l’anno in cui ho rinunciato alle cose che più amavo fare,
come uscire con gli amici, suonare il pianoforte, andare a scuola. Ora ho cercato di mettere un punto e di andare a
capo, di ricominciare a combattere, questa volta sul serio. Purtroppo questa malattia mi è talvolta nemica talvolta amica
e mi fa oscillare tra momenti di intenso dolore e di gioia. A volte basta una semplice frase come “stai bene”, detta da
qualche conoscente, per far precipitare la giornata e il mio umore. È davvero possibile che una frase tanto paradossale
e apparentemente inoffensiva, se non addirittura cordiale, possa turbare il mio animo? Certo, perché il mio più grande
problema è il giudizio degli altri che, spesso, si ferma soltanto all’apparenza, quell’apparenza che, il più delle volte, non
mostra il dolore dell’anima. Quell’apparenza che ha portato le persone a giudicarmi per quello che sono diventata, non
per quello che sono realmente.
L’anoressia è una malattia che, dopo tanto tempo, non sono più in grado di controllare. A volte mi capita di chiedermi se, dopo questa esperienza, la vita possa riservarmi qualcosa di migliore, di “normale”. Io credo di aver
già scontato la mia “pena”, se mai ne abbia meritata una. La sofferenza mi ha accompagnato per tanti anni. Ora
è tempo di sorridere alla vita.
24 ALBATROS
storie
“I RAGAZZI E LA FATICA:
PERCHE’ I RAGAZZI SOFFRONO IN SILENZIO?”
Tommaso Faedi
Il testo è stato pensato in modo da alternare battute diverse che diano voce a due punti di vista differenti: il mio
e quello dei miei coetanei.
- Luca, parliamone! Non ti sembra una decisione troppo affrettata?-Marco, perché lo fai? Sono sicuro che insieme troveremo la soluzione migliore!Stoltezza.
Solo stoltezza pensare che queste parole avrebbero fatto ricredere i miei due vecchi compagni di classe, che
pochi mesi fa hanno cambiato scuola.
CAUSA: non voler mettersi in gioco, non voler impegnarsi, non voler provare, non voler sopportare, non voler
affrontare la vita per quello che è, con le sue gratimcazioni e le sue grandi difmcoltà.
Le mie sarebbero state parole vane, quelle parole che non sono neppure mai riuscito a pronunciare, perché
non c’è stato tempo, perché non c’è stata l’opportunità.
I miei due compagni se ne sono andati e io non ho neppure avuto il tempo di accorgermene, di salutarli come
avrei voluto.
CAUSA: la fretta, la fretta di cambiare, la fretta di abbandonare, la fretta di voltare pagina senza neanche averla
cominciata, la fretta di chi non sa aspettare, di chi non sa giudicare, di chi non sa assumersi le proprie responsabilità, di chi non vuole fare fatica e di chi non vede l’ora di intraprendere una nuova strada che sembra garantire felicità e non richiedere alcuno sforzo.
Siamo ragazzi, siamo giovani, perché soffrire?
Perché affrontare le difmcoltà se possono essere evitate?
Perché affaticarsi quando ci sono i genitori, pronti in qualsiasi circostanza a intervenire per rendere la nostra vita
meno faticosa, meno impegnativa?
Perché chiedere scusa per un torto commesso, quando mamma e papà “in primis” ci giustimcano ad ogni costo
in nome della nostra felicità?
Perché affrontare la fatica, se i modelli che ci vengono proposti insegnano che si può fare diversamente?
Perché sacrimcare le nostre giornate sui libri quando c’è chi ottiene ottimi risultati con poco sforzo?
Perché soffrire per una relazione, affrontare le difmcoltà di un rapporto, comprendere e capire chi ci sta vicino
quando è sufmciente voltare pagina al primo ostacolo e cercare la compagnia di un’altra persona?
Perché?
Perché?
Perché?
...
Sembra proprio che i ragazzi oggi non vogliano più soffrire.
C’è qualcuno che si domanda il motivo? Qualcuno intenzionato a scavare nel profondo e comprendere perché
i ragazzi siano diventati così apparentemente pigri, svogliati, incapaci di apprezzare le belle gratimcazioni che
ricompensano i periodi di intensa fatica?
Non potrebbe trattarsi di una maschera, un comportamento che consente di anticipare e evitare le delusioni e
che nasconde in realtà una profonda fragilità e incapacità di affrontare gli ostacoli?
Un voto insufmciente a scuola, un litigio in famiglia, un’incomprensione con un insegnante: a volte è sufmciente
uno solo di questi motivi per portare un adolescente ad abbandonare i suoi progetti, a lasciar perdere, a cambiare strada o, ancor peggio, a disprezzare la vita.
Non è vero, le cose non stanno come qualcuno crede: noi ragazzi soffriamo e anche tanto. Il problema è che lo
facciamo in silenzio, senza chiedere l’aiuto di nessuno, senza gridare il nostro dolore. Gli ostacoli ci spaventano, le delusioni ancora di più. Per questo a volte cerchiamo di evitarle, di scegliere una strada diversa da quella
intrapresa all’inizio, che ci faccia fare bella mgura e ci consenta di sentirci apprezzati da chi ci accompagna
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storie
lungo quel percorso.
Nessuno sa però che in fondo al nostro cuore una scelta di questo tipo rappresenta una sconmtta personale con
cui ogni giorno dovremo fare i conti. Nessuno sa che preferiamo soffrire in silenzio e rischiare di essere considerati degli sfaticati piuttosto che palesare il nostro dolore, piuttosto che essere considerati dei falliti.
Con gli amici dobbiamo sempre avere la battuta pronta, essere sfrontati e “giusti” in ogni situazione; i genitori
pretendono da noi i migliori risultati a scuola e non sono consentite le difmcoltà, i periodi di stanchezza o di crisi.
Dobbiamo sempre essere bravi e buoni, comportarci bene, costruire il nostro futuro e pretendere il meglio per
noi. E quando tutto ciò non è possibile? Quando non riusciamo a essere all’altezza di tutte queste richieste?
Quando la fatica è superiore alle nostre forze? Quando è grande la paura di deludere prima di tutti noi stessi e
poi gli altri? Quando accade tutto ciò, è inevitabile lasciare la presa e arrendersi.
Io non voglio ritrovarmi tra trent’anni a fare i conti con una vita che non mi rispecchia a causa delle scelte sbagliate fatte quando ero giovane. Voglio essere un giorno vicino alla mia famiglia, vicino a mia moglie e ai miei
mgli. Questo è il mio DESIDERIO!
Un desiderio che a volte non si realizza perché davanti agli ostacoli ci arrendiamo subito e preferiamo scegliere
la strada più semplice, la strada del non far niente, la strada del piacere, quella strada che sembra portare la
felicità quando si è giovani, ma che lascia con un pugno di cenere in mano quando si è adulti.
Marco Lodoli in un suo articolo, “Se i nostri ragazzi non sanno più soffrire” del 2004, diceva che: “la sofferenza
non può mai essere debellata totalmente perché le prepotenze sociali restano, perché la morte alla mne arriva,
perché la vita è comunque dura. E soprattutto non si può cancellare la fatica che ognuno deve fare per dare
una forma alla propria esistenza”.
La sofferenza non può essere evitata, Marco Lodoli in questo ha ragione.
Non puoi, ragazzo, scegliere per tutta la vita la strada più semplice, perché un giorno ti troverai davanti solo
quella difmcile e percorrerla sarà così complicato che dovrai utilizzare tutte le tue forze.
Sarai in grado di farcela?
Quel giorno avrai solo due opzioni:
PRIMA: rinunciare, rinunciare anche a quell’ultima possibilità che la vita ti offrirà.
SECONDA: accettare, accettare quell’ultima possibilità che la vita ti offrirà... e farcela!
I genitori sono i primi che devono aiutare i mgli a crescere, che devono insegnare loro a vivere, che devono far
capire loro che il bene che li lega è immenso e indescrivibile, ma purtroppo spesso scontato.
Forza! Non abbiate paura. Non avete ancora capito che i vostri mgli preferiscono un sincero ”ti voglio bene” a
tanti regali che non racchiudono alcun sentimento? I ragazzi hanno solo bisogno di essere guidati, di trovare
punti di riferimento e modelli diversi da quelli efmmeri e
inconsistenti proposti dalla televisioni. I ragazzi hanno bisogno di essere capiti quando soffrono, quando
credono di non poter essere all’altezza della situazione.
Compito dei genitori è quello di fortimcare i mgli e di
insegnare loro che nella vita tutto va guadagnato con
grande impegno e fatica perché solo in questo modo
si otterranno quelle gratimcazioni che ripagano anche i
momenti più impegnativi. Compito dei genitori è insegnare ai mgli che le delusioni fanno parte della vita e
che per questo non vanno evitate, ma vinte e superate.
E noi, ragazzi, affrontiamo le nostre paure e sofferenze
insieme e non nell’incavo più profondo di noi stessi.
Solo così riusciremo a superarle più facilmente!
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FILM
THIS MUST BE THE PLACE
Simone Pracucci
Titolo: This must be the place
Regia: Paolo Sorrentino
Anno: 2011
“This must be the place”, letteralmente “questo dovrebbe essere
il posto”: di che cosa si sta parlando? Qual è il “posto” a cui si fa
riferimento? Questa è la domanda a cui lo spettatore deve cercare
di dare risposta guardando il mlm… E’ probabile che una visione
distratta o affrettata non riesca a risolvere questo interrogativo,
anzi, in questo caso lo spettatore potrebbe risultare deluso da un
mlm bizzarro, apparentemente senza né capo né coda. E in effetti
Cheyenne, il protagonista, è un personaggio contraddittorio e fuori
dal comune: rockstar del passato ormai ritirata dalla scena, non
ha però perso le abitudini di gioventù e continua a vestirsi e truccarsi come quando era il leader dei “Fellows”. Tuttavia, nonostante
questa apparenza aggressiva, nulla gli è rimasto della originale
esuberanza: vive in maniera agiata in una dimora lussuosa a
Dublino, senza preoccupazioni, ma è irrimediabilmente depresso,
triste, apatico. Si trascina attraverso le sue giornate distrattamente, come se nulla potesse più risvegliare il suo interesse e questo
suo stato è ulteriormente aggravato dai rimorsi che lo tormentano,
in particolare rimpiange di non essere mai stato amato dal padre,
con cui non ha rapporti da tanti anni, a causa della sua scelta
di vita. Ma un avvenimento inaspettato interviene a sancire una
svolta nella vita del protagonista: quando è costretto a recarsi a New York a causa della morte del genitore,
scopre che questi aveva trascorso svariati anni della sua vita a dare la caccia all’ufmciale nazista che, durante la seconda guerra mondiale, lo aveva umiliato in un campo di concentramento. Inizia quindi per Cheyenne
un affascinante viaggio per le strade d’America sulle tracce del criminale che suo padre non è mai riuscito a
trovare, animato dal desiderio di realizzare la volontà del genitore. E’ proprio questo il cuore del mlm: costellato di incontri, episodi, parole, sullo sfondo magnimco e malinconico dell’America più nascosta, lontana dalle
luci e dalla frenesia delle grandi metropoli, il viaggio si traduce per Cheyenne in una ricerca interiore, in una
riscoperta di sé, dei propri desideri, e di qualcosa per cui la vita possa acquistare di nuovo un signimcato. E
la domanda di fondo si fa sempre più insistente, ed assume un carattere universale, grafmando la coscienza
dello spettatore: che cosa cerchiamo nella vita? Abbiamo un ideale, un desiderio per cui valga la pena lottare? Cheyenne l’ha trovato e la sua vita è cambiata radicalmente, indipendentemente dal raggiungimento del
suo obiettivo. Nonostante ciò, egli riesce in conclusione a scovare il nascondiglio dell’ufmciale, mgura emblematica della generazione di giovani tedeschi che vissero da protagonisti la dittatura nazista, al quale riserva
lo stesso trattamento che suo padre era stato costretto a subire, senza tuttavia ucciderlo come si era premssato di fare. In demnitiva, dunque, una scia di redenzione accompagna le fasi mnali del mlm: il protagonista
non solo riesce a perdonare l’ufmciale, ma più in generale rivaluta il rapporto con le altre persone e l’importanza del tempo che ha a disposizione. Grazie a questo cambiamento, la vita di Cheyenne non è più la stessa,
è più piena, più consapevole, più felice. Il suo sorriso, con cui la scena mnale si chiude, ne è testimone, ed è
un’ultima provocazione allo spettatore: la felicità non è più irraggiungibile.
ALBATROS 27
storie
IL VIOLINISTA NELLA METRO
Un uomo era seduto in una stazione della metropolitana di Washington DC e iniziò a suonare il violino, era un freddo mattino di gennaio. Suonò sei pezzi di Bach per circa 45 minuti. Durante questo lasso di
tempo, poiché era l’ora di punta, è stato calcolato che 1.100 persone sarebbero passate per la stazione, la
maggior parte di loro sull‘ intento di andare a lavorare. Passarono tre minuti e un uomo di mezza età notò che
c’era un musicista che suonava. Rallentò il passo, si fermò per alcuni secondi, e poi si affrettò per riprendere
il tempo perso. Un minuto dopo il violinista ricevette il primo dollaro di mancia: una donna lanciò il denaro
nella cassettina e, senza neanche fermarsi, continuò a camminare.
Pochi minuti dopo qualcuno si appoggiò al muro per ascoltarlo, ma poi guardò l’orologio e ricominciò
a camminare. Chiaramente era in ritardo per il lavoro. Quello che prestò maggior attenzione fu un bambino
di 3 anni. Sua madre lo invitava a sbrigarsi, ma il ragazzino si fermò a guardare il violinista. Inmne la madre lo
trascinò via ma il bambino continuò a camminare girando la testa tutto il tempo. Questo comportamento fu
ripetuto da diversi altri bambini. Tutti i genitori, senza eccezione, li forzarono a muoversi. Nei 45 minuti che il
musicista suonò, solo 6 persone si fermarono e rimasero un po ‘. Circa 20 gli diedero dei soldi, ma continuarono a camminare normalmente. Tirò su $ 32. Quando mnì di suonare e tornò il silenzio, nessuno se ne accorse. Nessuno applaudì, né ci fu alcun riconoscimento.
Nessuno lo sapeva ma il violinista era Joshua Bell, uno dei musicisti più talentuosi del mondo. Aveva
appena eseguito uno dei pezzi più complessi mai scritti, su un violino del valore di $ 3.5 milioni di dollari. Due
giorni prima che suonasse nella metro, Joshua Bell fece il tutto esaurito al teatro di Boston, dove i post in media costavano $ 100. Questa è una storia vera. Joshua Bell era in incognito nella stazione della metro, il tutto
organizzato dal quotidiano Washington Post come parte di un esperimento sociale sulla percezione, il gusto
e le priorità delle persone. La prova era se in un ambiente comune ad un’ora inappropriata: percepiamo la
bellezza? Ci fermiamo ad apprezzarla? Riconosciamo il talento in un contesto inaspettato?
Una delle possibili conclusioni di questa esperienza potrebbe essere: se non abbiamo un momento per fermarci ed ascoltare uno dei migliori musicisti al mondo suonare la miglior musica mai scritta, quante altre cose
ci stiamo perdendo ?
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storie
IO E IL TEATRO
Tommaso Faedi
Vi siete mai domandati se nella vita c’è qualcosa che vorreste fare più di ogni altra?
Io me lo sono chiesto e la mia risposta è stata: IL TEATRO.
Il teatro non è altro che un gioco, al quale tutti possiamo partecipare.
Come in tutti i giochi anche in questo vi sono delle regole: la prima è che ognuno di noi è protagonista, anche
se ricopre il ruolo di una semplice comparsa, e la seconda, la più importante, è che il teatro consente di
essere liberi.
Infatti sul palcoscenico possiamo fare quello che nella vita non faremmo mai o per paura o, forse, per vergogna: nel teatro non ci sono limiti.
Possiamo essere un permdo pirata che solca gli oceani sul dorso di una balena gialla, uno gnomo innamorato
di un more, una principessa che sogna di diventare una strega o semplicemente un ragazzo che desidera
volare … insomma, quasi per magia, possiamo diventare quello che preferiamo essere!
La passione per il teatro è nata mn da piccolo, quando insieme a mio padre tutte le sere mi sedevo sul divano
con un pacchetto di patatine e accendevo la televisione. Non ci staccavamo un secondo e, come ipnotizzati,
ci “sciroppavamo” un mlm dopo l’altro mnché, stanchi, non crollavamo.
Ho cominciato presto a partecipare a qualche rappresentazione insieme ad amici di scuola poi un giorno i
miei genitori hanno deciso di iscrivermi a quello che sarebbe stato il mio primo corso di teatro.
Ero felice, anzi felicissimo.
Mi restava ancora però un grande sogno: quello di recitare nel teatro più importante di Cesena, il teatro Bonci. Esattamente un anno fa il mio sogno si è avverato! Ho debuttato da protagonista in uno spettacolo intitolato “Elia e il Signor Maccaroni Jett”.
In quell’occasione ho interpretato Elia, un personaggio a me molto afmne per carattere e sentimenti: si tratta di
un ragazzo dei nostri tempi che si trova a dover fare i conti con difmcoltà ormai purtroppo “di casa” al mondo
d’oggi come il divorzio dei genitori, l’essere incompreso, la povertà... tutte caratteristiche che mi hanno consentito di calarmi al meglio nella parte.
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storie
Questa esperienza farà parte dei miei più preziosi ricordi per tutta la vita anche perché mi ha permesso di
conoscere Franco Mescolini, il mio attuale insegnante di teatro.
Sono molto legato a Franco e oggi per me è come un nonno con il quale parlo spesso nei momenti di
bisogno perché lui si è sempre dimostrato disponibile e pronto a darmi una mano.
Insieme a lui ho incontrato anche tantissime altre persone con le quali ho instaurato un grande rapporto
di amicizia.
Questo è stato l’inizio di un lungo anno: il 2011, nel quale ho partecipato a altre rappresentazioni come
il musical “The Sound of Music” (la versione inglese di “Tutti insieme appassionatamente”) insieme alle
“vecchie” 3A e 3B della scuola secondaria di primo grado Sacro Cuore di Cesena, in cui interpretavo il
capitano Georg Von Trapp, padre di sette mgli; lo spettacolo estivo “Cani” insieme al mio maestro Franco
e alla “Bottega del Teatro”: qui ero invece Dirchi, un ingegnoso e furbo ragazzino mandato dal cielo per
salvare alcuni poveri matti dal maligno.
Insomma le avventure sono state tante mno ad ora, ed altre ancora mi attendono.
Consiglio a tutti voi di inseguire i vostri sogni perché solo così un giorno potranno diventare realtà.
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storie
7 Marzo 2012 - Cesena, Aula Magna di Psicologia
SAMUEL MODIANO
Andrea Garaffoni
Due ore di assoluto silenzio accompagnano lo sconvolgente racconto di Samuel Modiano davanti agli studenti delle scuole superiori della città, in un incontro carico di commozione, scandito dal ritmo coinvolgente
dalle parole di uno dei pochissimi sopravvissuti alla Shoah.
Davanti ad una platea di solito chiassosa e distratta ed invece, in questo caso, straordinariamente attenta e
partecipe, Modiano ha offerto a quelli che hanno avuto la possibilità e la fortuna di ascoltarlo (proprio a causa del grande interesse che la sua presenza ha suscitato non è stato possibile soddisfare tutte le richieste di
partecipazione) una preziosissima testimonianza che si è impressa a fuoco nella memoria degli astanti.
La testimonianza di un uomo semplice, che non teme e non esita a demnirsi ignorante, che da anni con coraggio ed abnegazione porta avanti il suo messaggio di pace senza artimci retorici, ma con passione sincera:
con la consapevolezza che si tratta, per lui, di un compito a cui non può sottrarsi, proprio a vantaggio delle
future generazioni.
Nato nel 1930 nell’isola di Rodi, che si trovava all’epoca sotto il dominio italiano (come ribadisce lui stesso,
professandosi orgogliosamente ebreo italiano), Samuel Modiano ha subito in prima persona l’entrata in vigore
della legge razziale, che ha signimcato anzitutto l’immediata espulsione dalla scuola quando frequentava la
terza elementare.
Quando nel ’43 Rodi cade in mano ai nazisti venne organizzata la deportazione dell’intera comunità ebraica
dell’isola nei campi di sterminio di Birkenau e Auschwitz. Una deportazione già drammatica per le sue terribili
modalità: uomini, donne e bambini ammassati dentro malconci battelli per carico di bestiame e, dal Pireo in
poi, stipati nei famigerati treni della morte, dove Samuel viaggiò insieme al padre e alla sorella in indescrivibili
condizioni igieniche: e soprattutto con il presentimento opprimente di avviarsi verso la morte.
Dopo un mese estenuante di viaggio si apre l’inferno di Birkenau, in cui venne separato dalla amatissima sorella: qui ebbe la fortuna di essere selezionato per i lavori forzati, salvandosi dunque temporaneamente dalle
camere a gas.
Ciò che lo aspettava era, però, forse peggiore: l’impietosa e tremenda violenza delle ‘bestie’ naziste, le
continue umiliazioni, il durissimo lavoro in condizioni disumane, la fame che annebbia la vista: inmne dovette
affrontare lo shock della morte del padre, che, estenuato, cessa di combattere per salvarsi, abbandonando a
se stesso il mglio solo tredicenne, la cui speranza si attenua giorno dopo giorno in una disperazione sempre
più cupa.
Poi il miracolo: Samuel viene salvato da quelli che demnisce come due angeli custodi mentre, durante il trasferimento a piedi da Auschwitz a Birkeau, era caduto a terra esausto. Il 27 gennaio 1945 viene quindi liberato dall’arrivo dei russi.
Eppure il suo ‘calvario’ non era ancora terminato: il sentore ossessivo della morte, il suo aleggiare costante
sul suo animo devastato viene sostituito da un ingiusto senso di colpa per essere sopravvissuto al padre e
alla sorella. Una sensazione così intensa che annulla qualsiasi felicità per la salvezza conquistata e lo precipita in una crisi esistenziale da cui riuscirà ad uscire solo molti anni più tardi.
Interrogativi incalzanti lo tormentano: Samuel, infatti, non può fare a meno di domandarsi perché proprio lui si
era salvato, mentre tanti altri, più forti e robusti di lui (e magari anche più meritevoli), non ce l’hanno fatta.
Solo molto tempo dopo ed in seguito ad un cammino costellato di sofferenza, questo ‘ebreo italiano’ ha trovato una risposta: egli vive unicamente per testimoniare quell’inferno a chi non l’ha sperimentato afmnché una
simile tragedia non si ripeta mai più.
Malgrado il lancinante dolore che ancora oggi, a distanza di sessantacinque anni, Sami, come ama essere chiamato, prova nel richiamare alla memoria quell’orrore, egli è consapevole di essere portatore di una
missione non abdicabile: quella di non cessare di comunicare e trasmettere instancabilmente le voci dei suoi
amici e parenti (e di tutti gli ebrei) morti nei campi di sterminio.
Egli, ora, riconosce il suo posto nel mondo e la funzione cui l’ha destinato il suo essere superstite dell’Olocausto: fare in modo che tutti conoscano ciò che lui non può cancellare dalla memoria, così come il numero
tatuato sul suo braccio dai nazisti nel campo, B7456.
E il pubblico, attonito e sgomento, che l’ascolta con autentico rapimento, comprova come la sua faticosa
ALBATROS 31
storie
testimonianza sia feconda e porti frutto: nessuno dei presenti potrà mai dimenticare quel vecchietto apparentemente così gracile e debole ma la cui statura umana si eleva altissima a monito ed insegnamento per
tutti contro la barbarie in cui può precipitare il genere umano quando ignora Dio.
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storie
EPPURE NON MI SONO MAI SENTITO COSI’ LIBERO…
Elena Belluzzi e Agnese Faberi
“E’ un viaggio, una specie di mlm di fantascienza. C’è un uomo che viene scaraventato in questo pianeta e
vede tutte le cose per la prima volta, tutto prende luce. È una smda ovviamente”.
Sono queste le parole con le quali lo stesso Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti, ha spiegato l’intento del suo
concerto, l’Ora tour.
Ed è proprio così che noi ci siamo sentite: come qualcuno che vede tutte le cose per la prima volta, quindi
stupito, sorpreso e desideroso di scoprire...e noi la smda l’abbiamo accettata.
Abbiamo partecipato ad una festa: due ore e mezza di musica bella, positiva e vitale.
Si vedeva questa carica in ogni gesto di Lorenzo: ballava scatenato, cantava e dava tutto se stesso.
Questa contentezza ed energia che si sprigionavano, non solo da lui, ma da tutta l’atmosfera e dagli altri che
come noi erano lì, sono il motivo per cui a noi piace Jovanotti e la sua musica, perché riesce sempre a trovare un aspetto di speranza e di bellezza nella realtà. Questo non vuol dire che le sue siano canzonette per
illusi che raccontano di un mondo tutto rose e mori; anche Jovanotti è convinto che tante cose nel mondo non
vanno, ma bisogna muoversi per cambiarle, come dice nella canzone ‘Fango’: “un mondo vecchio che sta
insieme solo grazie a quelli che hanno ancora il coraggio di innamorarsi e una musica che pompa sangue
nelle vene e che fa venire voglia di svegliarsi e di alzarsi e di smettere di lamentarsi”.
Bisogna avere coraggio.
Non solo il concerto, ma tutta la vita è una smda.
Si può vivere distrattamente, lagnandosi di tutto quello che va male, in fondo è la posizione più comoda e il
rischio che tutti corriamo sempre: “l’unico pericolo che senti veramente è quello di non riuscire più a sentire
niente”.
Se si accetta la smda, invece, si deve fare la fatica di essere sempre attenti a tutte le cose, anche le più piccole, ma in cambio si può scorgere la bellezza che si nasconde in esse.
È proprio questo il nostro desiderio e ci sembra anche quello di Jovanotti. Le cose belle che lui vede e che
racconta a tutti quanti, sono le più semplici e concrete: “il profumo dei mori, l’odore della città, il suono dei
motorini, il sapore della pizza, le lacrime di una mamma, le idee di uno studente, gli incroci possibili in una
piazza e stare con le antenne alzate verso il cielo, io lo so che non sono solo”.
Nella vita ci vuole coraggio, coraggio di usare la propria libertà, quando tutti intorno ti dicono che non sei
libero o che lo puoi essere solo in un certo modo, quello che ti impongono; dice Jovanotti: “ci impongono
censure sulle cose da sapere, ci danno indicazioni sulle fonti di piacere, ci dicon cosa bere, ci copiano lo
stile, ci giudicano in base a quale zona uno vive. Eppure non mi sono mai sentito così libero, perché io danzo
sulla frontiera”, o ancora: “dicono che è vero che ad ogni entusiasmo corrisponde stessa quantità di frustrazione, dicono che è vero, sì, ma anche fosse vero non sarebbe giustimcazione per non farlo più ora”.
Jovanotti non si stanca mai di ripetere nelle sue canzoni che possiamo essere liberi, perché siamo nati liberi,
e quindi se non usiamo la nostra libertà siamo degli stupidi: “non c’è montagna più alta di quella che non
scalerò ora. Non c’è scommessa più persa di quella che non giocherò, ora”.
Un’altra cosa che ci ha fatto scoprire Jovanotti è che non è scontato neanche il fatto che noi ci siamo, la nostra presenza non è scontata; infatti durante il concerto ci ha detto: “Celebriamo la vita, celebriamo il fatto di
essere qui, di esserci ora”.
Queste cose le abbiamo scritte per raccontarvi un’esperienza bella che noi abbiamo vissuto e che può essere bella anche per voi. È nello stile di Jovanotti comunicare a tutti la bellezza della vita!
(Mentre scrivevamo l’articolo pensavamo che sarebbe stato troppo bello farvi ascoltare la canzone ‘Fango’,
che è quella che più delle altre ci ha fatto scoprire delle verità; essendo questo impossibile vi chiediamo, per
voi, di investire 4 minuti e 38 secondi della vostra giornata per ascoltarla).
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storie
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LETTERANDO
L’ELEGANZA DEL RICCIO
Elena Belluzzi
Il romanzo, scritto da Muriel Barbery nel 2006, è ambientato in un elegante
quartiere del centro parigino.
“La vera novità è ciò che non invecchia nonostante lo scorrere del tempo”.
Ed è proprio la ricerca di qualcosa che non invecchia e che non smorisce
mai ad accomunare le due protagoniste, Renée e Paloma, che si alternano
nel racconto di se stesse, attraverso le pagine del loro diario
“Mi chiamo Renée. Ho cinquantaquattro anni. Da ventisette sono la portinaia al numero 7 di rue de Grenelle, un bel palazzo privato con cortile e
giardino interni, suddiviso in otto appartamenti di gran lusso, tutti abitati,
tutti enormi. Sono vedova, bassa, brutta, grassottella, ho i capelli ai piedi
e, se penso a certe mattine autolesionistiche, l’alito di un mammut. Non ho
studiato, sono sempre stata povera, discreta e insignimcante”.
Renée, dalla sua guardiola, assiste allo scorrere vacuo della lussuosa
vita del palazzo e ne prende le distanze in un modo originale: costruisce
un’apparenza di sé in tutto conforme all’idea che il mondo ha della portinaia: sciatta, teledipendente e stupida. Ma nel segreto della sua casa,
ella è se stessa, a tutti sconosciuta: una colta autodidatta, appassionata di
mlosoma, musica e letteratura, studia Husserl, ascolta Purcell e il suo gatto
si chiama Lev, in omaggio a Tolstoj.
“Io ho dodici anni, abito al numero 7 di rue de Grenelle in un appartamento
da ricchi. I miei genitori sono ricchi, la mia famiglia è ricca, e di conseguenza mia sorella e io siamo virtualmente ricche(…). Nonostante ciò, nonostante tutta questa fortuna e tutta questa ricchezza, da molto tempo
so che la meta mnale è la boccia dei pesci”.
Paloma Josse, mglia di un deputato, ex ministro, è una dodicenne superdotata “di un’ intelligenza addirittura
eccezionale”, “così portata per lo studio, così diversa dagli altri e così superiore ai più”, da sentirsi fuori luogo
nel mondo in cui vive. Cresciuta prematuramente, Paloma guarda il mondo con sagacia e freddezza, rinette su tutto e annota sul suo quaderno i suoi pensieri profondi: “se nulla ha un senso, la mente deve almeno
potersi mettere alla prova, non è vero?”.
Ha scoperto che la vita non è quello che le raccontano i grandi e che “la gente crede di inseguire le stelle e
mnisce come un pesce rosso in una boccia”.
Così, tormentata dall’ insensatezza dell’esistenza e infastidita dalla supermcialità delle persone che la circondano, Paloma decide di uccidersi il giorno del suo tredicesimo compleanno.
Nell’alternarsi delle rinessioni di Renée e Paloma, emerge la specularità dei sentimenti e la somiglianza tra i
due personaggi.
Nello stesso palazzo, due anime in incognito sentono la realtà estranea alla propria sensibilità e vivono interiormente un mondo tutto diverso da quello che fanno apparire, cercando di dissimulare e simulare: Renée
nasconde i libri tra le sportine della spesa e tiene la televisione sempre accesa mentre ascolta Mahler, e
Paloma si da da fare per sembrare meno intelligente e non essere la prima della classe.
Alla ricerca di rapporti umani veri e profondi, l’una troverà una fedele alleata e compagna nell’altra, grazie
all’incontro di un nuovo ricco e affascinante condomino giapponese, Monsieur Kakuro Ozu.
Questi saprà ‘smascherare’ Renée e il suo antico, doloroso segreto, portando alla luce i sentimenti del suo
cuore, mno a quel momento mai condivisi con nessuno. Allo stesso modo, stupirà Paloma facendole cogliere
un modo diverso di guardare la vita e di coglierne la bellezza; con lei scoprirà l’eleganza del riccio: “Madame Michel ha l’eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto
che dentro sia semplice e rafmnata come i ricci, animaletti mntamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti”.
ALBATROS 35
Fatti di scuola
GITA A PARIGI
Lorenzo Gianfelici
“Siam rimasti soli prof”. Sono queste le ultime parole, condite con forte accento romagnolo, che ricordo della gita di V di quest’anno a Parigi. Parigi la conoscevo già, c’ero stato da turista e per un anno era
anche stata la mia casa. Ripensandoci sembra passata una vita, ma non è stato poi tanto tempo fa. In mezzo
però si sono succeduti tanti eventi, incontri, nuove esperienze e, la vita, se non ti impegni a trattenerla anche
nei suoi dettagli, mnisce che se ne va, ti rimangono delle sensazioni confuse, dei volti un po’ sbiaditi, delle
stanze che non rivedrai mai più. E allora sei preda della malinconia, perché ti rendi conto che, come tutte
le cose, anche l’esperienza più intensa, se non te
ne prendi cura, se non la
proteggi dalla marea degli
attimi che si succedono, se
insomma sei tutto preso dal
presente, rischia di perdersi. Non dico che sparisca,
ma rimane nascosta, come
in una sorta di schiena o
rovescio del tempo… Servono altre esperienze per
ridestarla, altri incontri per
richiamarla, e anche altre
orecchie a cui, in qualche modo e come meglio
puoi, raccontarla. Succede
questo di miracoloso nell’incontrarsi: l’altro è come uno
specchio che, se c’è buona
luce, rinette parti di te che
credevi perdute, con la sua
sola presenza fa risorgere
interi continenti sommersi.
La gita di V è stato
questo per me: un ritornare
sui miei passi con altri passi
e altri occhi. Nelle angosce
di alcuni studenti alle prese,
per la prima volta, con un
viaggio in aereo, ho rivisto
la mia angoscia nel prendere i bagagli e salutare i
miei affetti più cari che non
avrei rivisto se non dopo
molti mesi. Nello stupore
degli studenti di fronte alla
Tour Eiffel illuminata di notte,
ho rivissuto l’emozione nel
capire, per la prima volta,
di vivere in una città che mi
avrebbe dato tanto. Osservandoli minuscoli sotto
l’immensa Grande Arche mi
sono tornati in mente tanti
pomeriggi passati in quegli
stessi luoghi, il senso di
spaesamento di fronte alla
grandezza impersonale dei
grattaceli della moderna
zona commerciale di Parigi. E poi il Louvre, il museo
d’Orsay, Montmartre, Notre
Dame e il Centre Pompidou,
salire su mno in cima, e vedere dall’alto una città che non ti aspetti, immobile, tranquilla, senza rumore.
Insegnare, in classe e fuori, vuole dire, in fondo, questo: ripercorrere a ritroso il proprio cammino, accompagnando gli studenti sui tuoi stessi sentieri, impegnarti afmnché nessuno si perda per strada, far sì che
vedano quella bellezza che anche tu un giorno, per poco e dopo mille fatiche, hai visto, e lasciarti coinvolgere nei loro sguardi, in modo che ti aiutino a vedere cose che magari ti erano sfuggite. Un panino al foie gras e
tartufo in un ristorante vicino Place de la Concorde che non avevi mai assaggiato, una passeggiata alla Sorbona insieme al sogno di una studentessa che vorrebbe andarci a studiare, l’emozione di fronte ad un quadro di Caravaggio al Louvre che non ricordavi nemmeno di aver visto, l’impegno di aspiranti ingegneri che
cercano, senza gran successo, di spiegare il meccanismo delle luci intermittenti della tour Eiffel. E vengono
fuori domande che non ti eri mai fatto, che ti spiazzano, a cui non sai rispondere, e risposte ad altre domande che invece sei contento di poter dare dopo che anche tu le avevi fatte e altri ti avevano risposto. In classe
e fuori, per esempio a Parigi, si coglie bene cosa signimchi eredità, e come anche quest’ultima possa morire
se non c’è qualche domanda che di nuovo la interpelli, rivitalizzandola, dandole nuova forma nel presente.
Tutto questo penso voglia dire vivere e rivivere, e scoprire che se non riesci sempre ad aver cura della
tua vita passata, può capitare di incontrare dei ragazzi e delle ragazze di 18 anni che, anche non volendo, ti
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Fatti di scuola
insegnano come fare.
Si tratta di istanti fuggevoli, che tocca afferrare prima che scompaiono e conservare mnché non giunga qualcuno che li risvegli se nel frattempo si sono assopiti. È un compito urgente perché la gita prima o poi
mnisce…
Ritornati all’aeroporto di Bologna, le porte del gate si aprono; i genitori, dopo cinque giorni, riabbracciano i mgli. Io rimango in disparte, in un angolo, da dietro sento insinuarsi la voce di Belluzzi che, anche lui in
disparte, mi dice, tra l’ironico e il malinconico: “Siam rimasti soli, eh prof?!”.
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Fatti di scuola
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Fatti di scuola
GITA IN PROVENZA
Teresa Angeli
Mercoledì 22 febbraio. Ore 5. Un pullman di ragazzi felici e un po’ stanchi parte dalla stazione di Cesena,
diretto a Nizza, Francia. Siamo tutti carichi di aspettative e di curiosità! Dopo sei ore di viaggio arriviamo a
Nizza: c’è il sole e pranziamo seduti in un prato. Dopo un po’ di riposo, visitiamo il museo di Chagall, rimanendo incantati dai colori vivaci e dalle spiegazioni dettagliate del professor Di Camillo. Poi decidiamo di
passeggiare per la città, invasa dai carri di Carnevale, che ci divertiamo ad ammirare. Andiamo sulla spiaggia e ci bagniamo i piedi nell’acqua del mare: lo studio è l’ultimo dei nostri pensieri e per un attimo, ci illudiamo che sia arrivata l’estate… Risaliamo sul pullman per raggiungere Avignone, dove si trova il nostro albergo. Dopo alcune ore, ci sistemiamo nelle camere e ceniamo, facendo una prima passeggiata nella città per
arrivare al fast food. Dopo cena passeggiamo per la città e andiamo in un pub a divertirci, senza fare troppo
tardi poiché sappiamo che ci aspetta una giornata intensa l’indomani. Giovedì 23, infatti, ci alziamo presto
e andiamo a vedere il Pont du Gard, imponente acquedotto romano. Rimaniamo molto colpiti dalla bellezza
del ponte e decidiamo di farci una foto di gruppo davanti ad esso. Poi ci dirigiamo ad Orange per visitare la
città, in particolare il Théatre antique, un grande teatro romano di cui scopriamo alcune informazioni e curiosità. Dopo pranzo, visitiamo il Palais des Papes ad Avignone, ovvero il palazzo dei Papi nel periodo in cui la
sede del Papato era Avignone. Ci inoltriamo nelle enormi stanze decorate e ne impariamo le storie, attraverso
un simpatico francese che ci fa da guida. Poi abbiamo un po’ di tempo libero, che passiamo girando per la
città e per i negozi. Alla sera, dopo aver cenato nel solito posto, facciamo una passeggiata mno al pont Saint
Bènezet e poi torniamo nel pub, che ci era tanto piaciuto la sera precedente. Venerdì visitiamo Arles, dove
riconosciamo alcuni dei quadri più famosi di Van Gogh, girando per i parchi e per le strade della città. Visitiamo anche un antico cimitero, citato da Dante nella Divina Commedia. Dopo pranzo, ci spostiamo in Camargue e andiamo a Aigues Mortes e a Saintes Maries de-la-mer, dove stiamo in spiaggia a riposarci. Facciamo
molte fotograme, giochiamo a calcio e chiacchieriamo. Inmne, ceniamo e, come sempre, ci divertiamo un po’
nel solito pub, prima di tornare in albergo. Sabato 25, ultimo giorno, visitiamo Les Baux de Provence, un’antica città fortimcata. Osserviamo le catapulte e ciò che rimane del castello, “arrampicandoci” tra le rocce. Dopo
aver comprato alcuni souvenir, saliamo in pullman e ripartiamo per Cesena, contenti, sì, di tornare a casa, ma
con la consapevolezza che ben presto ci mancheranno la Francia e la bella atmosfera che si è creata!
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Istantanee dalla gita in Provenza
Foto di gruppo a Pount du Gard
Gigi al palazzo dei Papi
Antonio, Gianluca e José
Marchino e Agny
Le ragazze della III
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Il mitico Irish Pub!
Fede, Mavi e Megghi
Mavi e Fendy
Rita e Camilla
Tutti noi sulle mura!
Agny e Chagall
Prof. Bacchi
Maky, Megghy e Luca
Eli
Chagall
Pont du Gard
Ai se eu te pego !
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Eli, Tommi e Terri
Gigia
E’ questione di... testa!
José
Marchino
Mavi e Fra
Terri
Vittoria a St. Marie de la Mer... e tramonto sul mare
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Lo Staff di Albatros
Agnese Faberi
Elena Belluzzi
Francesca Brotto
Francesca Fioretti
12/01/1995
Le piace molto
la musica e spera prima o poi di
andare a un concerto dei Coldplay.
Ha molti amici con
cui condivide ogni
giorno di scuola
ma soprattutto ogni
momento libero.
Ama viaggiare e
vorrebbe conoscere
tutte le lingue. Per
Albatros si occupa
della rubrica “News
from the world”.
15/12/1995
Ha una sorella e un
fratello. Le piace
ballare e ascoltare
la musica di tutti i
generi. Il suo cantante preferito è
Jovanotti. E’ una
persona socievole,
solare ed estroversa, ha molti amici
con i quali studia ed
esce spesso. Per
Albatros si occupa
di En Plein Air, oltre
ad esserne la
segretaria.
09/05/1995
Nata a Vicenza,
frequenta la terza
liceo e suona la chitarra da nove anni.
Le piace la musica
rock, jazz, blues
e classica. Studia
giapponese da due
anni perchè appassionata dell’Oriente.
Fa disegno gramco
e le piace scrivere.
Fa infatti parte dei
gramci di Albatros
e cura la rubrica
“Attualità”.
01/07/1993
Gioca come alzatrice
a pallavolo nel Diegaro Volley. Le piace
stare con gli amici,
divertirsi e girare per
la città con la sua
macchina poiché
neo patentata.Ha
una passione particolare per le materie
scientimche, ed é
proprio per questo
che per Albatros si
occupa di Osservando oltre ad esserne il
direttore.
Tommaso Faedi
Luigia Bianchi
Margherita Casadei
Simone Pracucci
08/05/1997
Ha quindici anni
appena compiuti
e una sorella più
piccola. Il teatro è
la sua passione:
appartiene alla
compagnia “La
Bottega del Teatro”
di Franco Mescolini.
E’ solare, estroverso
e gli piace passare
le giornate in compagnia dei suoi
amici. Per Albatros
ha scritto sul teatro
e sullo studio.
19/01/1997
Le piace molto
ascoltare la musica. I suoi cantanti
preferiti sono Tiziano Ferro e Jessie J.
Le piace truccarsi,
ballare e passare
il tempo con le sue
amiche. Ha una
grande passione
per la moda, ed è
un’amante dello
shopping. Per Albatros ha intervistato
Paolo Lucchi.
26/10/1995
Frequenta la terza
liceo, ha due fratelli
più piccoli.
Pratica mt box, la sua
grande passione è la
musica, specialmente
quella rock: suona infatti il basso. Le piace
nuotare e fare sport,
in generale. E’ una
persona molto creativa. Per Albatros si
occupa della gramca e
dell’impaginazione.
9/12/1994
Nasce a Rimini.
Gli piace giocare a
basket e andare allo
stadio con gli amici.
Il cinema è una sua
passione: i suoi
registi preferiti sono
Guy Ritchie e i fratelli Coen. Ascolta
musica elettronica,
afro e hip pop.
Per Albatros ha
recensito “This must
be the place” di
Paolo Sorrentino.
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Teresa Angeli
Teresa Consalici
Veronica Batani
Maria Vittoria Bazzocchi
25/02/1997
Detta Terry, frequenta la prima liceo.
Ha un fratello più
piccolo che si chiama Giovanni e fa la
quinta elementare.
Ama la scuola e la
compagnia dei suoi
amici con i quali
passa molto del suo
tempo libero. Gioca
a pallavolo nel ruolo
di opposto.
Per Albatros ha
intervistato Alessandro d’Avenia.
27/09/1993
Ha un fratello più
piccolo che frequenta lo scientimco A.Righi. Nel
tempo libero le
piace disegnare,
fare shopping e
stare con gli amici!
Studia Giapponese
perché innamorata
del mondo orientale
ed è appassionata
di make-up.
Per Albatros si occupa della rubrica
“En Plein Air”.
04/01/1994
Ultima di tre fratelli,
inizia le elementari a
5 anni. Non mostra
particolari talenti
sportivi nonostante
non disprezzi la
pallavolo. Dal carattere tempestoso
e sensibile, solare
e malinconico, è
attratta da quella
proiezione degli
animi umani che è
la letteratura. Per
Albatros si occupa
di “Letterando”.
23/11/1995
E’ una persona aperta e
socievole. Le piace la musica, i suoi gruppi preferiti
sono i Coldplay, i Placebo
e i Panic at the Disco. Ama
comprare sempre un nuovo
paio di scarpe in ogni luogo
che visita dato che viaggia
spesso. Il suo sogno nel
cassetto è fare un corso di
tatuatrice. Ama stare con
gli amici e andare a ballare.
Per Albatros si occupa di
“Fatti di Scuola”.
Federica Pianese
Beatrice Serra
Marcello Barbarossa
Luca Farneti
20/05/1994
Nato in Colombia, da
quando è arrivato in Italia ad appena 3 mesi si
sente uno sradicato. Fa
Kickboxing, ama starsene per i fatti propri e
ha un carattere anticonformista. Molto solitario,
non apprezza la confusione né il frastuono.
Per Albatros, si occupa
della sezione “Filosofando” e quella di
“Musica.”
25/03/1995
E’ mglio unico e vive a
San Romano. Suona la
chitarra elettrica e ama
la musica. Vorrebbe
frequentare l’università di architettura per
intraprendere la carriera
di architetto. Gli piace la
montagna, in particolare
fare snowboard. E’ un
tifoso sfegatato del Milan, la sua squadra del
cuore. Per Albatros si
occupa di “Filosofando”.
13/07/1993
07/01/1995
Timida ma piena di
E’ una ragazza di 17
anni con molte passio- voglia di fare, è una ragazza sensibile e solare.
ni; fra queste il nuoto,
Suona il pianoforte da
che pratica a livello
undici anni e trova semagonistico da quando
pre un po’ di tempo per
aveva 7 anni. Ama la
lettura e divora qualsi- dilettarsi in tanti piccoli
asi genere di libro entri smziosi dolci.
in suo possesso. Il suo Sogna di frequentare l’università a Parigi e chissogno nel cassetto è
di andare a lavorare in sà.. magari di diventare
Australia come medico. una famosa pasticcera!
Per Albatros si occupa Per Albatros collabora
con le diverse rubriche.
di “Filosofando”.
Gramca e impaginazione a cura di Margherita Casadei e Francesca Brotto
Stamattina ho liberato la strada e i sentieri dietro casa
provato la consistenza della neve fresca
un’unica distesa, ghiaccio scintillante, e non cedeva, ‘gli sci’,
ho pensato, ‘non serve
nemmeno battere la pista’. Come un anno nella fonda,
dieci centimetri di ghiaccio e la paura di non fare
il curvone sotto l’acquedotto…
e ti spiego le leggi della neve, gli orari, i trucchi
di chi scia nei campi dietro casa e aspetta la neve tutto l’anno.
‘E di là dal mume c’è la primavera’, ti dico poi,
‘ne sento l’odore indemnito che sboccia ora
sui cristalli de la neve’. Una rondine non fa primavera
ma la neve di marzo sì, la neve di marzo geme
nell’aria tiepida del giorno e indurisce
nel ghiaccio leggero della notte, la neve di marzo
è la primavera, stagione di frontiera.
La vita annuncia sempre altro nelle cose
le cose sono cose
e sono altro, dici tu.
Tiziano Mariani
Ecco il bambino, si affaccia dagli occhi
dell’uomo che guarda la neve di casa
e ricorda come era bello sciare nella
fonda. Ma la nostalgia dolce e mesta
non resta sospesa. A un tratto come
parola necessaria, come saggezza
innata si sprigiona una musicalità
semplice e vera come le parole di un
nonno, quelle che nella neve sono nascoste da sempre. Una musica di suoni che porta il ritmo del vento che porta
gli odori, le cose rinate nella stagione
della lotta e quindi della vita. E inmne il
ritmo si dilata, si riposa e trova quiete
nelle parole vicine di una voce amata,
amante della vita e del suo segreto.
IL GRIDO DELL’ALBATROS