Giovanni Sollima violoncello Monika Leskovar violoncello

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Giovanni Sollima violoncello Monika Leskovar violoncello
STAGIONE
2008-09
Martedì
21 aprile 2009
ore 20.30
Sala Verdi
del Conservatorio
Giovanni Sollima violoncello
Monika Leskovar violoncello
Solistenensemble
Kaleidoskop
19
Consiglieri di turno
Direttore Artistico
Franca Cella
Lodovico Barassi
Paolo Arcà
Con il contributo di
Con il contributo di
Con la partecipazione di
Sponsor istituzionali
Con il patrocinio e il contributo di
Con il patrocinio di
È vietato prendere fotografie o fare registrazioni, audio o video, in sala
con qualsiasi apparecchio, anche cellulare.
Iniziato il concerto, si può entrare in sala solo dopo la fine di ogni composizione,
durante gli applausi.
Per assicurare agli artisti la migliore accoglienza e concentrazione e al pubblico
il clima più favorevole all’ascolto, si invita a:
• spegnere i telefoni cellulari e altri apparecchi con dispositivi acustici;
• limitare qualsiasi rumore, anche involontario (fruscio di programmi, tosse…);
• non lasciare la sala prima del congedo dell’artista.
Giovanni Sollima violoncello
Monika Leskovar violoncello
Solistenensemble Kaleidoskop
Giovanni Sollima
(Palermo 1962)
Wood Prelude per archi (3’)
L.B. Files (18’52’’)
Concerto
Igiul
Fandango del Signor Bouqueriny
(voce Hayat Nabata; testi Giacomo Casanova)
Boccherinero
(voce e testi Gilbert Diop Abdourahmane)
Violoncelles, vibrez! (10’42’’)
Intervallo
Yet Can I Hear per archi e sampler (3’45’’)
(voce e testi Patti Smith)
Tree Raga Song (13’52’’)
Alone (6’)
Commissione della Fondazione Dragoni dedicata a Gancarlo Barassi
When We Were Trees (21’24’’)
Resonance Wood (La foresta dei violini)
The Architect
Leaves Postcards
The dangerous prevalence of imagination
Nyagrodha
The Family Tree (Vivaldi)
Conversazione con Giovanni Sollima
Comincerei a ragionare con Lei sul carattere della sua musica, che in questi
anni ha riscosso un notevole successo sia tra i musicisti di formazione classica tradizionale, sia sul pubblico abituati ad altri generi di musica come il pop,
il jazz, la world music. I critici tendono a inserire il suo lavoro nel filone dai
contorni piuttosto sfumati del cosiddetto cross-over: Lei si riconosce in questo
genere di definizione?
Le etichette m’interessano poco. Il mio mestiere non è quello di individuarle o
di segnalarle, quindi accetto serenamente la visione degli altri sul mio lavoro.
Personalmente ritengo di pormi all’intersezione tra linguaggi provenienti da
molteplici stimoli, in un’intercapedine tra forme espressive di tipo diverso, non
solo per quanto riguarda la musica. È la curiosità che mi spinge a guardare le
cose da una sorta di osservatorio. Ogni tanto c’è la presenza maggiore di uno di
questi elementi, a seconda delle fasi e anche delle casualità della vita. A volte
un’improvvisa curiosità mi spinge ad affondare la mano in certe esperienze
musicali con maggior determinazione. Penso che il mio essere siciliano giochi un
ruolo in questo desiderio di incrociare stimoli provenienti da culture musicali
diverse. La Sicilia è qualcosa che ti porti dentro, anche quando vorresti allontanarti o liberarti dalle complesse contraddizioni di questa terra, spesso difficili da
spiegare e a volta addirittura inspiegabili a noi stessi.
Lei incarna una figura, quella del musicista interprete e compositore, un
tempo centrale nella musica occidentale diventata via via sempre più rara,
fino a scomparire quasi del tutto a favore di una netta divisione dei ruoli. Qual
è il rapporto tra il violoncello e il suo lavoro di compositore?
Per me il violoncello è un elemento essenziale per esplorare non solo la musica
strumentale, ma anche la vocalità. Questo vale anche per indagare la musica del
passato, infatti suono molto spesso la musica del Barocco. Il violoncello ha una
natura essenzialmente vocale, quindi per il mio modo di comporre è uno strumento indispensabile. Inoltre usare il violoncello nel processo creativo mi
costringe a mantenere un rapporto molto fisico con la musica che scrivo, cosa
che a me piace molto. Il lavoro squisitamente compositivo, la parte razionale
della scrittura, arriva in un secondo momento. La composizione della forma, dell’architettura di un pezzo viene dopo aver sperimentato a fondo nel vivo del
suono del violoncello il materiale musicale di base. Per me questo rapporto personale con lo strumento è indispensabile. Se mi togliessero il violoncello non
scriverei più, viceversa, se mi togliessero la composizione, continuerei a suonare il violoncello. Alone, per esempio, un lavoro scritto nel 1999 per la terza edizione del Concorso Internazionale “Caruana” (1999), organizzato a Milano dalla
Fondazione Dragoni e vinto proprio da Monika Leskovar, esprime bene questo
rapporto con lo strumento.
Lei ha cominciato a scrivere lavori così poco ortodossi in un’epoca nella quale
questo genere di musica era assolutamente marginale e sperimentale, forse
anche soffrendo i pregiudizi dell’ambiente tradizionale. Qual è stato il processo di formazione del suo stile compositivo?
In realtà è stata sempre un’esplorazione molto solitaria. Quand’ero bambino
avevo già lo stesso atteggiamento. Appena mio padre usciva di casa, invece di
studiare le scale, mi gettavo a compiere scorribande incredibili sul violoncello,
improvvisando tutto quel che mi veniva in mente. Mi piaceva enormemente
esplorare i margini dello strumento, vedere fin dove potevo arrivare suonando.
M’interessava capire come risuonava la cassa, come vibrava il puntale mettendolo sul pavimento in un certo modo piuttosto che in un altro. Insomma, per me
il violoncello è sempre stato un tavolo di laboratorio dove scomporre e ricomporre svariati elementi per raggiungere un determinato risultato, un po’ come si
lavorava una volta in camera oscura con la fotografia, dove si poteva ritoccare
un particolare durante il processo di sviluppo del negativo. È un lavoro se
vogliamo di tipo artigianale, che procede all’inizio come un patch-work e in un
secondo tempo per sottrazione, per arrivare a una sintesi. Per certi versi non mi
sento neppure un compositore, ma piuttosto un manipolatore di suoni che raccolgo.
La scrittura musicale che posto occupa nel suo lavoro?
Ho un rapporto abbastanza rilassato con la scrittura, nel senso che non ho mai
creduto nel segno come valore assoluto. Il segno autentico per me è quello
impresso dal corpo del musicista mentre suona. È un’idea antica, simile per certi
versi all’approccio dei musicisti dell’epoca barocca. Le mie partiture sono bianche come un brano del Settecento, nel senso che i musicisti consegnavano all’incisore un materiale che corrispondeva solo in parte all’effettiva idea sonora. La
scrittura indicava le linee essenziali del lavoro, che veniva integrato al momento dell’esecuzione dall’estro dell’interprete, nella maggior parte dei casi anche il
compositore del pezzo. Esistevano codici molto sofisticati, un po’ come avviene
nel jazz, conosciuti dai musicisti e che variavano da scuola a scuola. Il basso continuo si realizzava magari a Venezia con la tiorba e a Napoli con il calascione. Le
mie partiture non sono scritte in modo pedante, ma cercano di descrivere piuttosto l’anatomia del suono per così dire. Quando la musica si scriveva ancora a
mano, non ho seguito il grafismo dell’avanguardia, o meglio lo seguivo a modo
mio, con una scrittura di valore anche visivo. Adesso, nell’era del computer, scrivo più o meno come si usa nella musica rock o pop, dove si stendono alcune idee
disposte in maniera tale da sintetizzare non solo l’idea musicale, ma anche il tipo
di suono che si ha in mente. Dove è necessario, naturalmente, fornisco tutte le
informazioni indispensabili all’interprete, comprese le arcate e la diteggiatura.
Tuttavia la mia musica non è mai congelata in una forma definitiva, ma vuol
rimanere un cantiere sempre aperto, pronto ad accogliere anche ipotesi nuove
provenienti da altri musicisti. Mi è capitato molte volte di rimettere mano a un
brano musicale, per chiarire delle cose che mi sembravano ancora da definire o
che sentivo non funzionare più.
Prendiamo il caso concreto di una musica suonata da molti altri musicisti
come Violoncelles, vibrez!, scritta in ricordo del suo maestro Antonio Janigro.
Cosa succede quando non è lei stesso a interpretare il lavoro?
I miei pezzi sono un po’ come le versioni aggiornate di un software e anche
Violoncelles, vibrez! mantiene questo aspetto di work in progress. Si tratta di
una musica abbastanza definita nella sua scrittura, ma se ci ragioniamo un attimo si noterebbe che una vera e propria melodia non esiste, perché si tratta di un
gioco tra due violoncelli che suonano come in simbiosi. Solo l’intreccio tra le loro
parti forma una linea melodica. Il blocco armonico ha una trasparenza che lo
rende in sostanza una sorta di flusso. Un interprete interviene sulla velocità, sul
carattere, sulla dinamica del flusso, in rapporto allo stile espressivo che gli è
proprio, scegliendo se ancorare il pezzo a una dimensione siderale oppure,
all’opposto, portarlo a una temperatura emotiva elevatissima. Nella mia versione cerco di far convivere entrambe le dimensioni, però seguo soprattutto l’idea
del flusso, della morbidezza, della cantabilità naturale del violoncello. Qualche
mese fa, per esempio, l’abbiamo suonato con Yo-Yo Ma e durante l’esecuzione ho
deciso di aprire un varco, mettendomi a improvvisare durante la cadenza, trasformando quella versione di Violoncelles, vibrez! nella più lunga della storia!
L.B. Files è un lavoro che potrebbe illustrare qual è per Lei il rapporto tra antico e moderno. L.B. sta per Luigi Boccherini e mi chiedo in che modo la musica di Boccherini abbia influito sulla sua.
Boccherini è un musicista che adoro, perché è stato un grande visionario ed è
stato il primo a esplorare per davvero le tecniche del violoncello, stimolando gli
stessi liutai a costruire strumenti di tipo nuovo. Per esempio, le sue ricerche
sulle posizioni acute hanno indotto i costruttori ad allungare la tastiera per rendere sfruttabile il registro superiore, ma si potrebbero menzionare anche i suoni
armonici, il repertorio di suoni onomatopeici eccetera. Boccherini tra l’altro
usava anche il violoncello a cinque corde, che aveva un suono particolare, una
miscela di timbri acidi e dolci. L’immagine di Boccherini legata alla leziosità di
un minuetto è quanto di più lontano possa esserci dalla realtà della sua vita e
della sua scrittura musicale, che ha dei risvolti profondamente cupi e sempre
problematici. I suoi concerti, con il loro carattere vivace e sempre alla ricerca di
novità, rappresentano un momento emblematico di dialogo tra culture differen-
ti. Insomma è un personaggio che mi affascina molto e ho voluto raccontarlo in
L.B. Files con una serie di storie di mia immaginazione, dove non c’è nulla naturalmente della musica di Boccherini, tranne una minima citazione della linea di
basso di un fandango. Mi serviva per costruire sopra un disegno che prende
spunto da lui, ma completamente diverso.
Dalle sue parole risulta chiaro che per Lei la musica ha anche un carattere
narrativo. C’è una storia anche in un lavoro come Yet we Can Hear?
In qualche modo sì, molto fragile e delicata. Quel pezzo è una sorta di notturno,
di piccola canzone dilatata e tendente al buio. Come una sospensione del racconto, in attesa di riaprirlo più tardi. Nell’arco del concerto rappresenta un momento di stasi, dove emerge il rapporto con la natura. Vorrei sottolineare che non ha
nulla a che spartire con un’idea contemplativa new age di natura, ma piuttosto
con la sua dimensione interiore. Joseph Beuys diceva che l’albero sta dentro di
noi. Abbiamo un rapporto con l’organismo vivente che è molto simile, con la differenza che l’albero è un essere che ha memoria ma è estremamente indifeso,
non può comunicarci nulla. M’interessava la forma, la struttura a cerchi concentrici dell’albero. Gli alberi crescono sviluppandosi un po’ a spirale e questo tipo
di struttura m’interessava per il progetto nel suo insieme. Infatti tutti i brani
conservano qualcosa di questa circolarità. Il tema di questa canzone, per esempio, è un motivo che si ritrova anche in When We Were Trees, soltanto che è celato, come se fosse ancora in una fase embrionale. Patti Smith, che ha collaborato
al disco e che in concerto è presente in maniera virtuale con la sua voce, ha semplicemente improvvisato delle parole su un testo abbozzato, immaginando cosa
direbbe un albero se potesse parlare.
Abbiamo visto come il suo concerto nasca nel seno di un progetto discografico.
Questo mi sembra che possa spiegare bene alcuni aspetti peculiari del suo lavoro. Nell’ambito della musica pop o rock, per esempio, il suono viene sviluppato fondamentalmente all’interno dello studio di registrazione e nella fase di
post-produzione, mentre nel mondo della musica classica il problema è esattamente l’opposto, ovvero cercare di far assomigliare il più possibile il suono
della registrazione a quello di una sala da concerto ideale. Nel suo caso cosa
avviene?
Nell’ambito del pop, in realtà, i brani vengono addirittura composti in sala di
registrazione. Un prodotto discografico è il frutto di mesi di lavoro in studio
degli artisti. Io invece disegno il progetto a priori e preparo tutto in anticipo,
cercando di mettere a punto i dettagli facendo delle prove prima di entrare in
sala di registrazione. Se possibile, tengo anche qualche concerto, anche in forma
privata, per sondare le reazioni e per rendermi conto in concreto di come funziona il progetto. Cerco di registrare il più possibile in simultanea, senza usare
sovraincisioni o tagli, perché questi interventi creano delle rigidità nel flusso
temporale e nella temperatura espressiva. La vera differenza consiste nel fatto
che tutto quello che noi suoniamo viene emesso da strumenti acustici, mentre
nel pop l’aspetto sonoro è il risultato di un cesello di suoni che si possono ottenere soltanto in studio e non in un concerto normale. L’unico elemento che dobbiamo riconfigurare ogni volta, quando arriviamo in una nuova sala da concerto,
è il rapporto tra gli strumenti e le voci campionate, che ovviamente non sono
flessibili come i musicisti in carne e ossa.
Prima ha spiegato molto chiaramente come l’albero sia per Lei una buona
metafora del rapporto tra l’uomo e il far musica, un tema ripreso anche in
When We Were Trees, che allude anche al titolo del disco, We Were Trees. Ma
ci sono anche altre figure culturali archetipiche, come quelle evocate dalla
musica indiana di un lavoro come Tree Raga Song. Che cosa le interessa in
quel tipo di musica?
In realtà quel che m’interessava non era tanto il mondo della musica indiana,
quanto la forma. Il raga è un tipo di struttura musicale dilatata che può essere
estremamente complessa, ma anche molto semplice. È il rapporto che si può
avere con una nota sola, un bordone, che sprigiona una serie di armonici in verticale, quindi dà l’impressione di avere una serie di vibrazioni espressive. I musicisti indiani lavorano su pochi elementi armonici, pochissimi. Se devono cambiare armonia devono accordare di nuovo gli strumenti, una fase che può durare
addirittura qualche ora a volte. In questo caso è come se fosse una sorta di raga
liofilizzato, compresso nella durata, ma legato all’aspetto del ritmo, in un processo di accumulazione che coinvolge gli esecutori, ma anche la stessa scrittura, che
rimane imprigionata in questo vortice. Ma questa è una caratteristica anche di
altri miei pezzi in realtà. È come lanciare un oggetto e vederlo volteggiare,
dipende dal tipo di azione in levare, il lancio determina il ritmo. In Tree Raga
Song da una parte c’è l’elemento geometrico della canzone, che è una struttura
simmetrica e sempre molto mobile dal punto di vista armonico, dall’altra la
dimensione immobile del raga, dove ci sono queste tre stazioni dove le note convergono verso un unico centro, un unica nota, che sprigiona una serie di reazioni a catena.
Oreste Bossini
GIOVANNI SOLLIMA violoncello
Violoncellista e compositore, Giovanni Sollima si diploma in violoncello con
Giovanni Perriera e in composizione con il padre Eliodoro Sollima, perfezionandosi al Mozarteum di Salisburgo e alla Musikhochschule di Stoccarda con
Antonio Janigro e Milko Kelemen. Intraprende giovanissimo una brillante
carriera internazionale collaborando con grandi musicisti come Giuseppe
Sinopoli, Bruno Canino, Jorg Demus e Martha Argerich. Parallelamente
all’attività di solista, la sua curiosità lo spinge ad esplorare nuove frontiere
nel campo della composizione, attraverso originali contaminazioni fra generi
diversi: rock, jazz, musica elettronica ed etnica dell’area mediterranea.
Fra i maggiori interpreti delle sue composizioni, eseguite in tutto il mondo, vi
sono Riccardo Muti con la Filarmonica della Scala, Gidon Kremer con la
Kremerata Baltica, Yuri Bashmet con I Solisti di Mosca, Yo-Yo Ma, Mario
Brunello e Bruno Canino.
Da anni, da solo o con la Giovanni Sollima Band da lui fondata a New York,
porta la sua musica presso sedi prestigiose, ma anche in ambiti alternativi,
vicini al pubblico più giovane e di confine.
Nel 2002 compone Ellis Island opera in due atti sul tema dell’emigrazione; nel
2004 compone ed esegue con la sua Band Songs From The Divine Comedy
basato sulle cantiche dantesche. Per il teatro collabora con Bob Wilson
(Imagining Prometheus), Peter Stein (Medea) e Alessandro Baricco (City
Reading Project e Iliade), per il cinema con Marco Tullio Giordana (I cento
Passi e La meglio gioventù) e Peter Greenaway (The Tulse Luper Suitcases,
Part III), Maurizio Zaccaro (Il Bell’Antonio) e Wim Wenders (Palermo shooting, 2008).
Fra i suoi CD si ricorda Aquilarco realizzato nel 1997 su invito di Philip
Glass, Violoncelles, vibrez! inciso nel 2001 da Gidon Kremer e la Kremerata
Baltica e, nel 2005, Works. Nella primavera 2008 è uscito per Sony/BMG il suo
nuovo album We Were Trees registrato a Berlino con Monika Leskovar e il
Solistenensemble Kaleidoskop.
È stato ospite della nostra Società il 1° maggio 2000 per Otto violoncelli per
Janigro.
MONIKA LESKOVAR violoncello
Nata nel 1981 a Kreuzthal in Germania, Monika Leskovar ha completato i
suoi studi a Berlino, alla scuola di David Geringas, diventando poi sua assistente. Durante gli studi in Germania, è stata premiata in importanti concorsi per violoncello tra i quali Concorso Janigro (1996), Concorso Rostropovich
(1997), Concorso Eurovisione di Vienna (1998). Nel 1999 ha vinto la terza edizione del concorso internazionale “Premio Stradivari” - Roberto Caruana
della Fondazione Dragoni oltre al premio speciale per l’interpretazione di
Alone di Giovanni Sollima, composto in ricordo di Giancarlo Barassi.
Ai concerti con orchestre di primo piano, affianca un’intensa attività cameristica in collaborazione con rinomati musicisti e compositori quali Giovanni
Sollima, Krzysztof Penderecki, Sofia Gubaidulina, Gidon Kremer, Julian
Rachlin, Yuri Bashmet, Tabea Zimmermann, Boris Berezovsky, Vassily
Lobanov e Richard Hyung-ki Joo. È spesso ospite della Zagreb Philharmonic
Orchestra diretta da Kazushi Ono o Valery Gergiev.
Pur avendo ricevuto riconoscimenti e premi da musicisti leggendari quali
Yehudi Menuhin e Mstislav Rostropovich, Monika Leskovar ci tiene a sottolineare che il premio più grande mai ricevuto è il violoncello del 1884 del liutaio
napoletano Vincenzo Postiglione, donatole dalla Città di Zagabria e dalla
Zagreb Philharmonic Orchestra.
È stata ospite della nostra Società nel 2000.
SOLISTENENSEMBLE KALEIDOSKOP
Fondato nel 2005 dal violoncellista Michael Rauter e dal direttore d’orchestra
Julian Kuerti, il Solistenensemble Kaleidoskop riunisce giovani musicisti
berlinesi. La flessibilità, la varietà del repertorio e la passione per la musica
sono le fondamenta di tutti i loro concerti.
Il nucleo base dell’ensemble, composto da 15 musicisti, si espande con musicisti ospiti per completare il repertorio con brani a grande organico. I loro programmi prevedono una grande varietà di strumenti, e spaziano dalla musica
da camera a quella per orchestra, con o senza solisti. Il repertorio è molto
ampio e comprende oltre alla musica rinascimentale, barocca, classica e del
primo ‘900 anche opere di giovani compositori contemporanei.
Tengono ogni anno una loro serie di quattro concerti in collaborazione con la
sala da concerto berlinese Ballhaus Naunynstraße nei quali accostano compositori quali John Dowland, Henry Purcell e Josef Haydn a Arnold Schönberg,
Béla Bartók, John Adams. Ogni concerto è un insieme di arte, musica e intrattenimento che affascina ogni tipo di pubblico.
È per la prima volta ospite della nostra Società.
Lisa Immer, Paul Valikoski, Daniella Strasfogel, Mari Sawada,
Rebecca Schneider, Katharina Grossmann violini
Adam Römer, Johannes Pennetzdorfer viole
Michael Rauter, Boram Lie violoncelli
Kristjan Sigeurleifsson contrabbasso
Prossimi concerti:
martedì 5 maggio 2009, ore 20.30
Sala Verdi del Conservatorio
Kit Armstrong pianoforte
Alfred Brendel non ha mai amato insegnare musica, ma ha fatto un’eccezione
per Kit Armstrong. Il curriculum di questo pianista di appena sedici anni dimostra
del resto quanto la sua storia sia fuori dal comune. Senza bisogno di rispolverare
la trita definizione di “nuovo Mozart”, Armstrong desta una più che giustificata
curiosità, avendo già numerose composizioni nel suo catalogo, un’agenda di
concerti fitta d’impegni, studi universitari precocissimi. Il programma del suo
concerto d’esordio al Quartetto sembra un biglietto da visita degno della fama
che lo precede, spaziando in quasi due secoli di musica per la tastiera e
mostrando una versatilità stilistica da concertista maturo.
Programma (Discografia minima)
J.S. Bach
15 Invenzioni a due voci BWV 772-786
(Wolfgang Rubsam, Naxos 8.550960)
C. Debussy
Preludi, Libro I n. 1, 2 e 3
(Melvyn Tan, Deux-Elles)
W.A. Mozart
Sonata in re maggiore KV 576
(Alfred Brendel, Philips)
F. Mendelssohn
Variations Sérieuses in re minore op. 54
(Murray Perahia, Sony)
F. Chopin
Notturno in re bemolle maggiore
op. 27 n. 2
(Lang Lang, Deutsche Grammophon)
martedì 12 maggio 2009, ore 20.30
Sala Verdi del Conservatorio
Miklós Perényi violoncello
András Schiff pianoforte
Bach, Brahms, Beethoven
Società del Quartetto di Milano
via Durini 24 - 20122 Milano
tel. 02.795.393 – fax 02.7601.4281
www.quartettomilano.it
e-mail: [email protected]
STRESA FESTIVAL 2009
L’accordo preso fra la Società del Quartetto e il prestigioso Festival delle
Settimane Musicali di Stresa e del Lago Maggiore consentirà anche quest’anno
ai Soci di accedere a tutti i concerti del Festival con una riduzione del 30%.
Il Festival, giunto alla 48a edizione, si svolge quest’anno dal 2 al 17 maggio
(Pentagramma floreale), e dal 1° agosto al 5 settembre.
I biglietti ridotti devono essere prenotati preventivamente inviando via fax
(o per posta) copia della propria tessera della Società del Quartetto direttamente alla biglietteria del Festival.
Per informazioni: tel. 0323 31095 / 30459 - [email protected] - www.stresafestival.eu.