La liberalità versi sciolti attribuibili a Vincenzo Gioberti
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La liberalità versi sciolti attribuibili a Vincenzo Gioberti
ISSN: 2038-7296 POLIS Working Papers [Online] Istituto di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive – POLIS Institute of Public Policy and Public Choice – POLIS POLIS Working Papers n. 231 December 2015 La liberalità versi sciolti attribuibili a Vincenzo Gioberti Guido Napolitano and Francesco Ingravalle UNIVERSITA’ DEL PIEMONTE ORIENTALE “Amedeo Avogadro” ALESSANDRIA Periodico mensile on-line "POLIS Working Papers" - Iscrizione n.591 del 12/05/2006 - Tribunale di Alessandria La liberalità versi sciolti attribuibili a Vincenzo Gioberti Edizione a cura di Guido Napolitano Premessa e post-fazione di Francesco Ingravalle 1 Indice 1. F. Ingravalle Premessa 2.G. Napolitano, Prefazione 3. V. Gioberti, La liberalità 4. F. Ingravalle, La liberalità. Versi sciolti attribuiti a Vincenzo Gioberti 2 Abstract The first edition of the unknown Lyric On liberality of Vincenzo Gioberti, philosopher of italian “Risorgimento”, maybe dated back to 1833-1834 years, with a shortly commentary on the texture of ideas upon richness and poverty (according to classical and Modern sources) connected with the christian View of the World and society of the catholic Liberalism in the middle of XIX Century. 3 Premessa Il presente Working Paper contiene l’edizione e il commento del componimento poetico attribuibile a Vincenzo Gioberti e intitolato La liberalità. Scriviamo “attribuibile” per cautela critica, ma molti sono gli elementi formali e sostanziali che militano a favore dell’attribuzione al filosofo torinese. Potrà sembrare curiosa la scelta di pubblicare in una collana di Teoria Politica un testo che potremmo definire “etico-religioso”; al di là del rilievo di un inedito come quello qui pubblicato, rilievo dovuto alla personalità dell’autore e al peso che egli ha avuto nello sviluppo della vicenda risorgimentale, le grandi questioni dell’etica e dei suoi nessi con la religione, sono tutt’altro che estranee alla Teoria Politica; non era noto alcun particolare interesse nutrito da Gioberti per il problema della povertà considerato dal lato eticoreligioso; la pubblicazione di questo componimento obbliga a riconsiderare il pensiero etico-politico dell’abate torinese da un angolo visuale inconsueto per gli studi fin qui dedicati alla sua figura. Francesco Ingravalle Per un orientamento sulla bibliografia di Gioberti e su Gioberti, cfr. M. Mustè, La scienza ideale. Filosofia e politica in Vincenzo Gioberti, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000; G. Riconda-G. Cuozzo (a cura di), Giornata giobertiana, Torino, Trauben, 200; G. Rumi, Gioberti, Bologna, Il Mulino, 2000; F. Traniello, Gioberti Vincenzo in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 55 (2001), Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana; T. C. Carena, La pneumatologia teologico-estetica di Vincenzo Gioberti, con prefazione di V. Mathieu, Milano, Mimesis, 2009; T.C. Carena-F. Ingravalle, Gioberti politico, Torino, Lazzaretti, 2011. 4 Prefazione E' con orgoglio che racconto, brevemente, la storia della scoperta del manoscritto inedito autografo di Gioberti. La vicenda si intreccia, infatti, con la mia passione per il collezionismo cartaceo, nata qualche anno fa dopo aver acquistato il primo autografo d'epoca: la firma di Vittorio Emanuele II, apposta in calce ad un documento coevo. Il mio interesse per il più ampio settore del collezionismo cartaceo si è, poi, concentrato sui documenti manoscritti, in quanto gli stessi presentano la caratteristica dell'unicità: due firme (così come due parole manoscritte), per quanto simili, non potranno mai essere uguali tra loro. Così, nell'ambito delle ricerche condotte tra librerie antiquarie, collezionisti, mercatini, studi bibliografici, mi è pervenuta, da una nota Fondazione, la segnalazione del nominativo di una persona (imparentata con una famiglia nobile toscana) che offriva in vendita alcuni manoscritti ed autografi d'epoca risorgimentale (oltre ad una bellissima lettera del Vate). L'esame dei documenti offerti in vendita ha subito attirato la mia attenzione su un manoscritto contenente una lirica, molto fitto e con grafia aulica, senza firma, ma con la dizione "autografo di Gioberti" riportata sull'estremità superiore della prima facciata, con grafia ed inchiostro evidentemente d'epoca. Il manoscritto era conservato, piegato, all'interno del libretto "Programma della Edizione Nazionale delle Opere Edite ed Inedite di Vincenzo Gioberti promossa dalla Società Filosofica Italiana e dalla Confederazione Fascista dei Professionisti ed Artisti diretta da Enrico Castelli - Arti Grafiche Bertarelli - Roma Milano, 1935, XIII" e presentava lo stato di conservazione tipico dei documenti (quasi) mai consultati, ossia con facciate interne più chiare di quelle esterne. Ipotizzando che l'attestazione dell'autografia di Gioberti fosse stata apposta da personaggio all'epoca molto vicino al Filosofo (presumibilmente un segretario) ho proceduto all'acquisto della lirica, unitamente ad altri lotti, riservando un successivo esame analitico comparativo della grafia avvalendomi di manoscritti certi autografi del Gioberti. Tale operazione mi è stata possibile grazie alla microfilmatura dei preziosi (e numerosissimi) manoscritti autografi conservata presso la Sezione Manoscritti della Biblioteca Civica di Torino (Fondo Vincenzo Gioberti) che mi è stata fatta gentilmente consultare e della quale ho estratto in parte copia, sì da poter condurre un esame comparativo con la grafia della lirica in mio possesso. I documenti autografi giobertiani microfilmati sono stati di fondamentale aiuto in quanto mi hanno consentito di disporre della veste grafica utilizzata dal Filosofo allorquando componeva trattati, più "impostata" e "manierata" di quella, fluida, utilizzata nelle lettere. L'esame ha avuto inizio con la comparazione di tutte le lettere maiuscole della lirica con quelle presenti nei manoscritti autografi del Fondo, riscontrando tratti identici. Eseguita tale prima importante verifica, ho proseguito rintracciando, nell'ambito dell'ampia documentazione autografa disponibile, singoli termini utilizzati sia nella documentazione del Fondo che nella lirica, selezionandoli e comparandoli analiticamente. Ho avuto modo, così, di riscontrare che la grafia è assolutamente identica. A solo titolo esemplificativo, ho selezionato e riportato su una scheda alcuni termini rintracciati nel Fondo Gioberti (esattamente nel Manoscritto n. 10 - MIC 1/5, nelle pagine da 70 ad 80) che compaiono anche nella mia lirica (e, precisamente: "quando", "scherno", "inferme", "senza", "ognuno", "l'uomo", "il ricco" e "d'empietà") ravvisando perfetta identità 5 grafologica. Tutte le singole lettere che compongono le parole presentano caratteri riconducibili alla medesima mano e le parole si presentano con struttura identica. Al termine, quindi, di alcune giornate di analisi sono pervenuto alla conclusione che, a mio avviso senza alcuna ombra di dubbio, la lirica da me acquistata sia completamente autografa di Vincenzo Gioberti, ad eccezione della sola frase "autografo di Gioberti". All'esito della verifica ho ritenuto importante diffondere la scoperta, contattando la Dott.ssa Tiziana Carena, il cui nominativo mi è stato indicato dal Dott. Alberto Blandin Savoia della Sezione Manoscritti e Rari della Biblioteca Civica, quale studiosa del Filosofo. Sono lieto di poter offrire, in tal modo, un mio piccolo contributo alla conoscenza e diffusione del pensiero del Filosofo torinese. Guido Napolitano 6 Autografo di Gioberti La liberalità Versi sciolti Polinnia, che presiedi all’opre figlie Sol del pensiero, e non d’umana parte Saprai ben tu qual sia il comune grido, ch’intorno all’amicizia ognor si spande. 5 Né sia ch’il nieghi la tua accorta lingua, Che te seguendo un Young, un Cicerone Di scritti prezïosi tante carte Coperte ci lasciar, che mente ignara Affatto ne rimanga invan può dirsi. 10 E se da tali genti in se raccolte Della madre natura meditando Le più arcane, e più remote cose Coi pensieri d’un’alma eroica, e grande, Aggiuntale formar cotante lodi 15 Sopra dell’amicizia il gran sostegno, 7 Non sia, che sol tu neghittosa, e lenta A me tai voti, e laudi non ispiri Sì che arrossir non debba in umil parte, E chinar per vergogna a terra i lumi, 20 Quindi ritrarli per la propria imago Pinta nel fiume, che mi scorre avanti U’l’onda bebbi già al tuo stuol sacrata. Se già per tanto amor celebri furo, Teseo, Piritoo, Patroclo, e Achille, 25 Pilade fido, e il forsennato Oreste Damon con Pizia, e che ne’ nostri tempi Che solo sia l’armonioso lira Suoni di quegli antichi, e arrechi solo Vetusti sì, ma non moderni esempli, 30 O se pur questi arrecar voglia finga Amicizie dell’arte quali furo Quelle celebri del Boccacci, e Ariosto Di Ruggiero, e Leon, Gisippo, e Tito Già non va questo, e i desiati frutti 35 Esempi tai non recano, che poco Credonsi i fatti favolosi, e misti Di quegli error ne’ quai cadette il volgo Ne’ di longevi ben per lungo tempo, E che occasion dier di riempier più carte 40 Ad Omero, Virgilio, Ovidio, Stazio; Come se un per dar modello certo Di fede coniugal Laodamia Recasse, che morì veggendo l’ombra 8 Del morto sposo a lei apparso in sogno. 45 Chi il crederia? Chi ‘n prenderebbe esempio? Forse un idiota di buon senno privo Od un fanciul alla nutrice in braccio. Seguendo dunque il mio proposto scopo Non trovandosi or più chiariti esempi 50 D’un’illustre amicizia, ad altra parte Musa, volgi la cetra: ‘e già non lascio L’intrapreso argomento, in questo solo Quello voglio cercar, che a’ giorni nostri, Benché difficilmente, ancor si trova. 55 L’esser io tratto liberale, e molto Ciò come vedi all’amicizia attiene, E al vizio opposto, che vicino a morte, Secondo al dir de’ favolosi carmi, Condusse il sciocco, e temerario Mida. 60 Ne’ troppo essa giammai lodisi, e esalti, Che i di lei pregi come dessi andrebbe Ad esaltar un spirito sublime Che ad opra grande, grande spirto vuolsi. Oh ben felice liberalitate 65 Se te seguisse ognuno sempre, e ognuno Agli amici, e congiunti un tal amore Insinuar nell’animo cercasse! Società, società, sì che tu allora Sì, che faresti tua figura in pompa; 70 Né si vedrebbe più su porte o strade Gemere il poverel, l’orfano afflitto 9 Piangere amaramente, e abbandonata La vedova in sospir, e in pianto immersa. Oh secol d’oro, che sarebbe novo 75 Re di nostre contrade, ed i ricetti U‘giacion miserabili e languenti Uomini d’ogni etate, e condizione Porrebbe in bando non per crudo, e rio Ma per più umano e generoso core. 80 Ma chi or resista? Alla mattina il ricco Presso al meriggio sonnacchioso e lento Dall’letto s’alza, e a lauta mensa assiso Siede, e l’esempio d’Opulon rinnova. Dopo il gran cibo i vasi d’oro appresta. 85 Al saziato labbro, e fin che regge Satollo pasce la sua ingorda gola. Quindi fumante nelle tazze prende O il Thè di Londra, od il caffè Mocchese E i molli membri su gradite piume 90 Stesi si dona a vergognoso sonno, Finché entra il servo a lo svegliar gli dice, Signor, è giunta del passeggio l’ora. Allora dal letto torpide le braccia Le gambe getta, e più fiate stende 95 Il corpo, ed abbajando appena riapre Gli occhi ancor mezzo chiusi, ed infiammati Pel troppo sonno, ed in tal guisa lento Al passeggio sii reca sino all’ora Che giunto a casa, alla conversazione 10 100 Dona principio, e a mormorar si mette Or di costui, or di colui, e scherno Si fa dei vecchi, e le persone inferme, Che tutte vide lungo la giornata. Quindi assisosi a cena in quella guisa 105 Che di Baltazuar fu l’ultima cena Alla gola consente ed in lascivie I lubrichi desir, e il corpo sfama Ed in tal modo dal gran vino oppresso E pieno di libidine si getta 110 Sul letto u’ trova a’ suoi desiri albergo. E chi or mai regga? Ed ammalato, e stanco Prima del sol dal letto alza le membra Il poverel, e ad adorare Iddio Porta alla Chiesa il piede, dove assiste 115 Al Divin Sacrosanto sacrificio. Quindi da questa uscito ei dà principio Con mille stenti, e con sudor continuo Fino al meriggio al lavorar, e in questo Lasso ormai col denar, che la mattina 120 Guadagnò col travaglio un piccol pane E poche noci accatasi, e sedendo Su duro scanno qui si ciba, e l’acqua Soddisfa alla sua sete, e poi ripreso Il suo lavoro sino a notte oscura 125 Non lo tralascia, e dal mal lento, e passo Va a casa u’ con pan nero si ristora Nel crudo Inverno senza foco, e in mezzo 11 I più fessure pe’ quai passa l’aria Si distende tutto egro, e sì dolente 130 Sul pagliariccio, che dormir non puote, E passa una gran parte della notte In penosa vigilia i crudi guai Si rammentando, che gli è stretto il core. E chi a questo resiste? Oh umanitate, 135 Quanto discorde sei: più duro il core Hai ricco, d’una pietra, e la passione Dell’avarizia con orgoglio giunta Ti spinge in tal così inumano abisso. Ah quando mai avrà regno nel mondo, 140 Quando mai regnerà quella sì cara, Ma poco nota liberalitate? Che tanto render può l’uomo felice Non sol nell’altra vita; anco in questa. Ed a che amar in questa vita tanto 145 Gli agi, gli onori, e le ricchezze quando Stranier siam noi, e viaggiator soltanto, E questa vita è un sol notturno albergo? Ricchi che tanto le ricchezze amate Sapete ben quel che sarà di voi 150 O morte eterna, o pur eterna vita. E se è ver che così voi l’oro amate Porgeten tosto al poverel che geme Che questo ancor voi porterete in Cielo, E non quel che spendete in cose solo 155 Di questo mondo ai comodi, ed agli agi 12 O quel che sol per vagheggiar lasciate Dentro dei vostri ben ferrati scrigni. Quando giunta sarà quell’ultim’ora Sconvolto il ciel, e pallide le nubi 160 Tinta la luna di sanguigne macchie Suonando il Ciel di strepitanti squilli L’aere assordante con feral rimbombo, Cadrà giù l’empia degli avari schiatta, E tosto a tormentarli un folto nembo 165 Di demoni verrà, oh terribil vista! Anguicrinite, e insanguinate larve Lacero tosto a quegli avari il core Lascieran, e di più? Di più veggendo Di su nel Ciel a celebrar le lodi 170 Attorno al Trono del divino agnello Vedran chi liberale oprò nel mondo; vista tal il lor tormento, e pena Accrescerà con un terribil strazio In faccia tutti trionfando bella. 175 La liberalità dal Divo Padre Di corona immortal là coronata. La numerazione è stata aggiunta dal curatore 13 La liberalità. Versi sciolti attribuiti a Vincenzo Gioberti Francesco Ingravalle 1. Le discipline filologiche –vale a dire le discipline che si propongono l’interpretazione storico-critica dei testi – appartengono, sotto il profilo della statuto epistemologico – alle scienze ipoteticodeduttive. Tale appartenenza, generalmente riconosciuta, è particolarmente evidente per le questioni di attribuzione di testi pervenuti anonimi, oppure la cui attribuzione risulta incerta e nelle questioni di costituzione di un testo sulla base del confronto tra più manoscritti, naturalmente in assenza dell’originale redatto dall’autore, ove si tratta di raggiungere quello che, con la maggiore probabilità, era il testo com’esso era uscito di penna all’autore ( è il caso della filologia classica, oppure della filologia dantesca, per fare soltanto due esempi)1. Il lavoro storico-critico non può aspirare che a conseguire un certo livello di probabilità, tanto nelle attribuzioni di testi anonimi o di cui sia incerta la paternità, quanto nella costituzione di un testo. Tale livello di probabilità è il risultato della formulazione di ipotesi costruite in seguito a ricerche semantiche, stilistiche, relative alla storia esterna del testo, a eventuali citazioni da parte di altri autori; esso consiste di ipotesi la cui solidità va sottoposta ai tentativi più radicali di falsificazione2 che la fantasia dell’interprete e dei suoi recensori e critici possono suggerire. Non a caso, Friedrich Nietzsche, già filologo classico prima di essere filosofo, scriveva nel 1888: “Mettiamo che avessi battezzato il mio Zarathustra con il nome di un altro, per esempio quello di Richard Wagner; ebbene, l’acume di due millenni non sarebbe bastato per indovinare che l’autore di «Umano, troppo umano» è anche il visionario di Zarathustra…” Un modo, certamente, paradossale, ma, altrettanto certamente, realistico di considerare la fondamentale incertezza degli esiti del lavoro filologico3. 1 Si rinvia, per una rapida informazione in merito, alla celeberrima voce dell’Enciclopedia Italiana redatta nel 1932 da G. Pasquali, Edizione critica, oltre alla sua celebre Storia della tradizione e critica del testo, e, per esempi tratti dalla filologia romanza, a E. Auerbach, Introduzione alla filologia romanza, tr. it. Torino, Einaudi, 1973. Per apprezzare il valore esemplare della filologia classica per la formazione delle altre filologie (filologia romanza, germanica, slava, semitica ecc.), può essere opportuna la lettura di R. Pfeiffer, Storia della filologia classica dalle origini alla fine dell’età ellenistica, tr. it. Napoli, Macchiaroli, 1973, nonché di L. D. Reynolds e N. G. Wilson, Copisti e filologi. La tradizione dei classici dall’antichità ai tempi moderni, tr. it. Padova, Antenore, 1969, terza edizione, ivi, 1987; per la prospettiva della filologia italiana cfr. G. Contini, Breviario di ecdotica, Torino, Einaudi, 1990 (prima edizione 1986) e G. Inglese, Come si legge un’edizione critica. Elementi di filologia italiana, Roma, Carocci, 20003. Il lavoro filologico non può prescindere dal sussidio di un’altra disciplina, la semantica, sulla quale cfr. T. De Mauro, Introduzione alla semantica, Bari, Laterza, 1965 e G. Mounin, Guida alla semantica, tr. it. Milano, Feltrinelli, 1981, oltre al celebre A. Pagliaro, La parola e l’immagine, Napoli, 1957. 2 Ci si riferisce qui alla metodologia di controllo delle ipotesi elaborata per le scienze della natura da K. R. Popper, Logica della ricerca scientifica (1934), tr. it. Torino, Einaudi, 1974. 3 Cfr. F. Nietzsche, Opere, volume VI, tomo III, Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, L’anticristo, Ecce Homo, Nietzsche contra Wagner, versioni di F. Masini e R. Calasso, Milano, Adelphi, 1975, p. 296. Ma di Nietzsche va ricordata anche la nota prefazione a Aurora nella quale è contenuto una sorta di manifesto ‘deontologico’ della filologia, cfr. F. 14 I testi scritti sono condizionati non soltanto, com’è noto, dal tempo e dal luogo (conosciuti o plausibilmente asseribili) della loro produzione , ma anche dalle modalità con le quali essi ci sono trasmesse: modalità spesso contorte, intricate, labirintiche, fortunose, tali, cioè, da far conseguire al filologo risultati sempre discutibili, per quanto plausibili essi siano. Lo si constata con le discussioni su numerosi falsi letterari, discussioni spesso secolari, con gli studi sulla letteratura pseudoepigrafa: non è molto frequente il caso in cui si possa diagnosticare la falsità di un documento con i mezzi di cui si era valso Lorenzo Valla nel 1444 a proposito della Donazione di Costantino, la diagnosi di autenticità presenta difficoltà anche maggiori: la “cerca” degli errori, degli anacronismi è meno disagevole che non l’indagine per cui un’opera va attribuita a un certo autore. Quanto precede valga come premessa di cautela. Esistono, certamente, buone ragioni grafologiche per attribuire i versi sciolti La liberalità, documentate ampiamente dallo scopritore del testo avv. Guido Napolitano; esistono ragioni non meno solide, sotto il profilo contenutistico, come vedremo, per non escludere la paternità giobertiana; ma il fatto, strano, che essi siano sfuggiti alle raccolte delle opere del “gran filosofo” torinese, getta un’ombra, non spessa, ma pur sempre un’ombra, solleva interrogativi. Ma vi è un’altra ombra: all’inizio del componimento la musa Polinnia è così apostrofata: «Polinnia, che presiedi all’opre figlie / Sol del pensiero,» (v. 1): Polinnia è, come ricorderemo più avanti, per la mitologia greca e romana, la Musa degli inni sacri, non del pensiero. Come Musa pensante (e quindi, ragionevolmente, come Musa tutrice del pensiero) essa è raffigurata in una statua scoperta soltanto nel 1927 nel corso degli scavi presso Villa Fiorelli, a Roma. Si potrebbe supporre, soltanto per questo, una falsificazione? O non potrebbe trattarsi di una libera interpretazione giobertiana che viene d’uno tratto a coincidere con una realtà documentata archeologicamente soltanto nel 1927? All’ombra e agli interrogativi cercheremo di portare luce e risposta con un tentativo di ricostruzione storico-semantica della figura concettuale celebrata nei versi che ci sono pervenuti, di portare in chiaro la costellazione concettuale che essi rivelano e, infine, di dare una risposta alla domanda circa l’epoca della vita di Gioberti cui potrebbero essere fatti risalire. 2. Una composizione poetica non è un teorema. Ma è, comunque, una forma di argomentazione, soprattutto se si tratta di una composizione poetica didascalica, che esorta a tenere un determinato comportamento, come è il caso del testo qui èdito. Un testo che si propone non tanto di informare, quanto di conformare certi comportamenti sociali. Un testo edificante. Un testo che ha come finalità la persuasione ad agire in un determinato modo. La poesia didascalica ha una lunga tradizione, che, in occidente, risale alle Opere e i giorni di Esiodo e che è fondamentalmente morta con lo sviluppo delle poetiche romantiche (pur continuando, per un certo tempo neppure breve, una sorta di umbratile persistenza). Ciò che rende poetico il testo qui èdito non è il fatto che esso sia scritto in versi. Già Aristotele osservava che a torto gli uomini chiamano «poeta» chiunque scriva in versi e notava che l’unica cosa che il poeta Omero e il filosofo Empedocle di Agrigento abbiano in comune è esclusivamente lo scrivere in versi4. Quando la poesia didascalica non è la trascrizione in versi di una esposizione di contenuti meramente scientifici (come, a esempio, i Fenomeni di Arato di Soli, vissuto fra il 315 circa e il 240 a. C. circa), ma di esortazioni morali, dobbiamo aspettarci che, essendo suoi scopi la persuasione e l’azione, essa sia strutturata secondo una certa qual «architettura persuasiva» il cui W. Nietzsche, Opere, volume V tomo I, Aurora e Frammenti postumi (1879-1881), tr. it. di F. Masini e M. Montinari, Milano, Adelphi, 1964, pp. 8-9. 4 Cfr. Aristotele, Poetica, 1, 1447 b 13-20. 15 obiettivo è consigliare un certo modo di agire. Il che farebbe rientrare un simile componimento, versi a parte, nel genere della oratoria deliberativa com’esso è stato definito da Aristotele5, un genere che consiglia in merito all’utile e al nocivo6. Che Aristotele parli, nei passi ora richiamati, di composizioni prosastiche non deve farci dimenticare che l’utilizzo del metro può rientrare, in determinate fasi della cultura, tra gli espedienti che facilitano la persuasione, la memorizzazione, il facile richiamo alla mente al momento dell’azione e in certe altre anche tra i mezzi che conferiscono solennità allo scrivere e ai contenuti che esso comunica. La liberalità ha una struttura assai nitida: 1) invocazione alla Musa che ispira gli inni religiosi (Polinnia) presentata come colei che presiede alle “opere del pensiero”; 2) invocazione della liberalità; 3) descrizione della sofferenza del povero; 4) descrizione degli agi e dei piaceri del ricco; 5) chiusa sul diverso destino post-mortem di chi è avido e di chi è ricco. Il primo elemento interessante è proprio l’invocazione a Polinnia. Come si è già accennato,la tradizione religiosa greca ci presenta Polinnia come ispiratrice di inni religiosi7, come dea tutelare dell’eloquenza. L’inno religioso rientra nella poesia che intende produrre la persuasione e comportamento conforme al rituale al quale esso si riferisce o che presuppone. Si tratta di persuadere la divinità a comunicare il suo sapere che il poeta provvederà a mettere in forma di verso. Sono noti gli esempi di Omero, di Esiodo, di Parmenide8. L’autore sembra identificare la potenza divina che ispira gli inni sacri e il potere divino che presiede alle opere del pensiero (che non sono soltanto le composizioni poetiche sacre). Sacralità e pensiero vengono a convergere, sin dall’inizio del componimento, secondo una modalità ben testimoniata in Gioberti9. L’autore rileva come un “comune grido” si levi intorno all’amicizia e cita, a mero titolo di esempio, Cicerone e Young. Non suscita, di certo, meraviglia il nome di Cicerone, qui. Ma perché menzionarlo soltanto dopo avere menzionato Edward Young (dato che non sembrano esserci ragioni metriche valide a spiegare la disposizione dei nomi)? Edward Young, vissuto tra il 1683 e il 1765, cappellano di re Giorgio II d’Inghilterra, era noto soprattutto per l’elegia The Complaint: or Night-Thoughts on Life, Death and Immortality che era stata tradotta in lingua italiana nel 181910,mesta constatazione delle tristi condizioni del vivere umano («Dolce sonno…. Fedele a visitar que’ luoghi, dove sorride la fortuna, sorvola con ali rapide le abitazioni in cui ascolta gemiti e strida, e va a posarsi sopra occhi non bagnati di lagrime»); ma era assai conosciuto anche il suo Giudizio finale (Opere, tomo III) in cui egli descriveva la terribile sorte di chi, in vita, non aveva obbedito alla parola di Dio e al dovere della carità. In questa prospettiva, l’amicizia, scrive Young, è 5 Cfr. Aristotele, Retorica, I, 3, 1358 b 4-8. Cfr. Aristotele, Retorica, I, 3, 1358 b 21. 7 Cfr. Esiodo, Teogonia, v. 52; Cfr. Platone, Simposio, 187. 8 Per un esame di questo topos poetico e delle sue connessioni con la figura concettuale della persuasione cfr. a es. L. Ruggiu, Parmenide, Venezia, Marsilio, 1975. Nel 1927-28, durante gli scavi presso Villa Fiorelli, a Roma, nell’area degli Horti spei veteris, è stata scoperta una statua identificata come quella della musa Polinnia e denominata come «Polinnia pensosa» per la tipica postura del corpo. Si tratta di una copia romana del II secolo d. C. tratta da un’opera dello scultore Filisco di Rodi, II a. C. L’iconografia antica riconosceva, dunque, un certo nesso tra la divinità tutelare degli inni sacri e il pensiero. Cfr. A. Bottini (a cura di), Musa pensosa. L’immagine dell’intellettuale nell’antichità, Milano, 2008. 9 Si pensi non soltanto alla Teorica del sovrannaturale (1838), ma soprattutto alla monumentale Introduzione allo studio della filosofia, Brusselle, Dalle Stampe di Marcello Hayez, tre volumi, 1839-1840. 10 Cfr. Opere di Odoardo Young, in tre tomi, a cura di L. A. Loschi, per V. Crescini, Padova, 1819. 6 16 “il vino della vita” perché essa consola delle sofferenze che comporta l’essere nel mondo conseguente al peccato originale. L’amicizia addolcisce la vita che, di per sé, è terribile («Life is the desert, life is the solitude, death joins us to the great majority» si legge nell’Atto I di The Revenge). L’amicizia confina con la carità e con la solidarietà che è un obbligo preciso imposto all’uomo da Dio. Nel volume Del buono Gioberti avrebbe scritto, a interpretazione del volere di Dio: «Confòrmati all’ordine delle esistenze da me statuito, cooperando meco alla loro perfezione e secondando, per quanto sta in te, il mio atto creativo11.» Le indubbie convergenze fra il poeta e il filosofo non stupiscono: uomini di Dio entrambi, essi colgono l’amicizia in un modo assai diverso da quello ciceroniano (e aristotelico, per citare un’altra fonte relativa all’amicizia): non tanto lealtà fra componenti di un medesimo corpo politico (la pólis, la civitas), quanto addolcimento della condizione post-lapsaria dell’uomo e prescrizione divina. Peraltro, come nella prospettiva “pagana”, l’amicizia è il presupposto della solidarietà (che, dal punto di vista cristiano, non è soltanto l’amore per il concittadino, ma per il prossimo) che è il fondamento della liberalità celebrata nei versi attribuibili a Gioberti. Tutti fratelli in Adamo e in Gesù, gli uomini hanno nel loro prossimo il loro fratello nei confronti del quale l’amicizia è obbligo sacro e la liberalità è conseguenza necessaria dell’amicizia stessa. Entrambe fondate teologicamente, amicizia e liberalità rappresentano il nucleo delle “tante carte” lasciate da Young e da Cicerone (per quanto Cicerone fosse, e non potesse non essere, pagano). Il nostro testo prosegue in questi termini: se tu, o musa, hai dato modo a simili ingegni che indagarono con anima eroica e grande le più arcane e remote cose della madre natura di elogiare l’amicizia, dona anche a me l’ispirazione che mi permetta di non arrossire e di non abbassare gli occhi e di ritrarli subito perché vedo rispecchiata la mia immagine nell’acqua del fiume che mi scorre davanti, del fiume del quale ho bevuto l’onda che già era stata consacrata al tuo stuolo. L’indagine sui segreti della natura viene presentata brunianamente12 come opera di anime eroiche e grandi, l’amicizia viene, secondo l’indicazione di Young presentata come «gran sostegno»; anche l’autore si ritiene un’anima eroica perché dedita alla conoscenza filosofica (che raccoglie in sé i segreti di madre natura). Il riferimento alla «propria imago / pinta nel fiume, che mi scorre davanti( U’ l’onda bebbi già al tuo stuol sacrata» potrebbe contenere un riferimento autobiografico. Quale può essere il fiume la cui corrente è «già al tuo stuol [cioè alle nove Muse] sacrata» e nella quale l’autore si specchia ? Ammesso che l’autore sia Vincenzo Gioberti, e ammesso che l’immagine non sia pura fantasia, ma evochi un luogo concreto, il fiume potrebbe essere la Senne, corso d’acqua che attraversa Bruxelles, città nella quale Gioberti ha risieduto tra il dicembre 1834 e la fine del1845? Ma gli attributi a esso riferiti dall’autore male si adattano al piccolo fiume, non legato ad alcuna rilevante tradizione poetica. Potrebbe trattarsi, invece, molto più probabilmente, della Seine, la Senna, il fiume che attraversa Parigi. A Parigi, infatti, Gioberti ha risieduto dall’ottobre del 1833 alla fine del 1834, come esule politico13, poi dal 1845 all’aprile del 1848, e, infine, dal 1849 alla morte (25 ottobre 1852) come inviato straordinario del Regno di Sardegna. Al tempo dei tre periodi parigini di Gioberti, la città può dirsi «città delle Muse» e il suo fiume può ben essere detto, 11 Cfr. V. Gioberti, Del buono (1843) in Id., Scritti scelti a cura di A. Guzzo, Torino, UTET, 1954, p. 552 12 Si pensi ai dialoghi di Giordano Bruno De gli eroici furori Parigi, appresso Antonio Baio l’anno 1585, leggibile in G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Milano, Mondadori, 2000. 13 Cfr. T. C. Carena-F. Ingravalle, Gioberti politico, Torino, Lazzaretti, 2011. 17 aulicamente, l’acqua consacrata a esse14. Tanto un Gioberti fresco di studi teologici e di esperienze politiche come quella che sottostà alla Lettera di Demofilo alla «Giovane Italia», all’arresto e all’esilio, il Gioberti del 1833-1834, tanto un Gioberti che coglie il tempo nuovo maturato con l’elezione al soglio pontificio di papa Pio IX e con gli eventi del febbraio-marzo 1848, quanto un Gioberti disilluso (quale appare dalle pagine del Rinnovamento), il Gioberti del 1849-1852, possono essere autori del componimento. Nessuna delle ipotesi pare falsificabile con certezza, quindi, per evitare di entrare inavvertitamente nel genere della ‘vita romanzata’ in cui la fantasia colma i vuoti di documentazione, è meglio fermarsi qui. Riservandoci, di saggiare più oltre, brevemente, la plausibilità delle possibili collocazioni cronologiche. Il poeta lamenta, poi, che gli esempi di amicizia solitamente addotti, sono antichi (Teseo, Piritoo, Patroclo, Achille, Pilade, Oreste, Damone e Pizia), oppure sono invenzioni letterarie (come quelle, create da Boccaccio e da Ariosto, tra Ruggiero, Leone, Gisippo e Tito15); proprio perché troppo antichi, oppure frutto della fantasia, non potrebbero dare, essi, i frutti che ci aspetteremmo. Chi li sente menzionare li ritiene fatti favolosi, invenzioni, come quelle di Omero, di Virgilio, di Ovidio e di Stazio. Se volessimo dare un esempio di fedeltà coniugale, non potremmo, di certo, fare l’esempio di Laodamia (celebrata da Ovidio16), perché nessuno lo prenderebbe come esempio reale e soltanto gli esempi reali hanno valore. Il fatto di« esser tratto liberale», osserva il poeta, riguarda molto l’amicizia, ma anche il vizio opposto, che richiama quasi dialetticamente, l’avidità di ricchezze che, «secondo il dir de’ favolosi carmi17» ha portato Mida vicino alla morte18. Soltanto uno spirito sublime, cioè che sappia elevarsi al di sopra delle passioni umane, esalta i pregi della liberalità vista come aspetto dell’amicizia. Il poeta si rivolge alla liberalità personificata: « Oh ben felice liberalitate, / Se te seguisse ognuno sempre, e ognuno / Agli amici, e congiunti un tal amore /Insinuar nell’animo cercasse!» (vv. 64-67). Allora la società (personificata, al pari della liberalità) farebbe una figura magnifica! Non si vedrebbero gemere i poveri per le strade, non si udirebbe il pianto degli orfani, né il sospiro e il pianto delle vedove. Queste figure destinatarie della liberalità sono di ascendenza veterotestamentaria19 e contrassegnano una forte rivendicazione religiosa quale base per confrontarsi con il secolo. 14 In particolare va ricordato che «Montparnasse» è stata denominata la «collina dei poeti e delle Muse», ove nel secolo XVII alcuni studenti declamavano versi. Montparnasse, del resto, è il Monte Parnaso, per analogia con il monte della Grecia centrale che domina Delfi, a nord del golfo di Corinto, sede dell’importante oracolo del dio Apollo (il dio che guida le nove Muse figlie di Zeus e di Mnemosine), monte sacro ad Apollo e a Dioniso. Dei suoi due gioghi, Cirra e Nissa, il primo era consacrato ad Apollo, il secondo alle Muse. 15 Cfr. G. Boccaccio, Decameron, novella ottava, giornata decima; Ariosto, Orlando furioso, XLIV, 12- XLVI, 78 (terza redazione). 16 Cfr. Ovidio, Heroides, XIII. 17 Cfr. Ovidio, Metamorfosi, XI, 85-193; Igino, Favole, 191, Servio, Commento a Eneide X, 142. 18 Su Mida, non è impossibile che l’autore avesse presente, oltre alle fonti antiche, anche quanto scrive L. Crasso, Istoria de’poeti greci e di que’che ‘n greca lingua han poetato, appresso A. Bulifon, All’Insegna della Sirena, 1678, pp. 347-348: avendo ricevuto da dioniso il dono di trasformare in oro tutto quello che gli capitava di toccare, il principe frigio Mida non riusciva più a nutrirsi, finché il dio lo liberò dell’infausto dono. Lorenzo Crasso (metà del secolo XVII) fu avvocato e letterato di Napoli. 19 Cfr. Esodo, 22:22-23: «Non maltratterai la vedova o l’orfano»; Salmo 68, 5: «Dio è padre degli orfani, difensore delle vedove»; Deuteronomio, 27:19: «Maledetto chi calpesta il diritto dello straniero, dell’orfano e della vedova.»; Isaia 1, 17: «Cercate la giustizia, rialzate l’oppresso, fate giustizia all’orfano, difendete la vedova»; Zaccaria 7, 10: «Non 18 «Oh secol d’oro, che sarebbe novo / Re di nostre contrade, ed i ricetti / U’ giacion miserabili e languenti / Uomini d’ogni etate, e condizione / Porrebbe in bando non per crudo, e rio / ma per il più umano e generoso core.» (vv. 74-79): la generosità detesta gli ospizi per poveri e vorrebbe abolirli in nome della dignità umana: se la liberalità regnasse nei cuori, avremmo il ritorno dell’età dell’oro20, sarebbero banditi i ricoveri per i più poveri per consegnarne gli ospiti a un destino degno della loro umanità. La descrizione della giornata del ricco (vv. 80-110), per i suoi accenti può ricordare il poemetto di Giuseppe Parini Il giorno: il levarsi del ricco dal letto quasi a mezzogiorno, il sedersi a tavola come il ricco Epulone di evangelica memoria21 per soddisfare l’ingordigia (non la fame!) e, dopo avere mangiato, si abbandona «a vergognoso sonno» (v. 90) finché lo sveglia un servo per la passeggiata. Poi egli si dedica alla conversazione in casa e si fa beffe dei vecchi e degli infermi che gli è capitato di vedere durante la passeggiata. Poi, a cena, «Alla gola consente ed in lascivie / I lubrichi desir, e il corpo sfama / Ed in tal modo dal gran vino oppresso / E pieno di libidine si getta / Sul letto u’ trova a’ suoi desiri albergo.» (vv. 106-110). Memorie letterarie e testimonianze personali22? Il ricco qui descritto vive della corporeità e senza Dio. A forte contrasto con la vita del ricco viene descritta la giornata del povero. Ammalato, stanco, prima che si levi il sole, il povero si alza dal letto e va in Chiesa ad adorare Dio e assiste alla Messa. Quando esce, la sua giornata prosegue fra mille stenti, nel lavoro. A mezzogiorno mangia pane e qualche noce, bevendo acqua. Riprende, poi, il lavoro fino a notte fonda. Al ritorno a casa, mangia pane nero. Dalle fessure, d’inverno, entra l’aria gelida. Si stende, infine, sul pagliericcio senza potere dormire, perché le sofferenze della sua vita gli tolgono il sonno. Il poeta si rivolge, dunque, al ricco: «Più duro il core / hai, ricco, d’una pietra, e la passione /dell’avarizia con orgoglio giunta / ti spinge in tal così inumano abisso.» (vv. 135-138). Avarizia e orgoglio, dunque: le passioni più lontane dalla pratica della vita cristiana. A che pro, chiede l’autore, amare in questa vita gli onori, gli agi, le ricchezze «quando stranieri siam noi, e viaggiator soltanto / E questa vita è un sol notturno albergo?» (vv. 145-147) toccando corde famigliari alla lirica di Young. Del resto, nella Lettera agli Ebrei Paolo di Tarso scrive (13, 14): «non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus.» Come ricorda anche Paolo Segneri nel suo Quaresimale, «noi qui non siamo cittadini di stanza, ma ospiti di passaggio23.» Per tutti, opprimete la vedova, né l’orfano, lo straniero, né il povero; nessuno di voi, nel suo cuore, trami il male contro il fratello.» 20 L’espressione usata dall’autore, che si legge, oltre che in Poliziano, anche nel cosiddetto «Monologo del Satiro» respinto da Silvia, tratto dall’ Aminta di Torquato Tasso: «Non son io brutto, no, né me tu sprezzi / perché sì fatto io sia, ma solamente / perché povero sono. Ahi, ché né le ville / seguon l’essempio delle gran cittadi! E veramente il secol d’oro è questo, poiché solo vince l’oro e regna l’oro» (vv. 55-58, Atto II, scena I); l’espressione “secol d’oro” deriva da Ovidio, Ars amatoria II, 277-278; Virgilio, Ecloga IV, Esiodo, Le opere e i giorni, 109 ss. L’immagine evoca, come il celebre dipinto di Lucas Cranach il Vecchio, la vita perfetta, felice, della originaria stirpe umana plasmata dagli dèi. 21 Luca, 16, 19-31. 22 «Quindi assisosi a cena in quella guisa / che di Baltazuar fu l’ultima cena». Il riferimento più plausibie come un’eco è a La cena del rey Baltasar di Pedro Calderon de la Barca, scritta nel 1632. La fonte comune è il libro di Daniele, la descrizione delle vicende dell’esilio babilonese del popolo ebraico (587-538 a. C.) del profeta Daniele. Al 1636 risale Il festino di Baltasar dipinto da Rembrandt. Baltasar, nonostante l’assedio di Ciro, sceglie di organizzare un banchetto nella corte, senza preoccuparsi di difendere la città. Coppe e vasellame sulla tavola provengono dal saccheggio del Tempio compiuto da Nabucodonosor al tempo della conquista di Gerusalemme. 23 Cfr. P. Segneri, Quaresimale, vol. 1, Firenze, Jacopo Sabadini, 1679, p. 476. 19 l’alternativa è «o morte eterna, o pur eterna vita» (v. 150). Quando sarà giunta l’ultima ora, «cadrà giù l’empia degli avari schiatta / E tosto tormentarli un folto nembo / Di demoni verrà, oh terribil vista!» (vv. 164-166). Non solo l’avido soffrirà le pene comminategli, ma dovrà patire la vista della beatitudine di chi ha agito generosamente nel mondo: «La liberalità dal Divo Padre / Di corona immortal là coronata.» (vv. 176-177). Occorre chiarire, a questo punto, la vicenda semantica della liberalità nella lingua e nella cultura italiane che il nostro testo presuppone. 3. Il tessuto concettuale della liberalità Come accade non di rado, in principio troviamo la riflessione filosofica di Platone (Repubblica 402) e quella di un ignoto platonico influenzato dalla Stoà del III secolo a. C., l’autore degli Ὅροι (Definitiones). Nella Repubblica (402 e 1 ss.) troviamo menzionata la liberalità (ἐλευθεριότης) assieme alla temperanza, al coraggio, alla magnanimità quali doti alle quali vanno istruiti i guardiani dello Stato. Si tratta di doti immediatamente politiche, perché in grado di configurare il buon comportamento pubblico e la coesione della città-Stato. E parlando di Teeteto, nell’omonimo dialogo (144), si rileva non soltanto che è stato rovinato dai suoi amministratori, ma che egli è liberale nel trattare dei suoi beni (τῶν χρημάτων) e Socrate commenta che egli è uomo nobile. La nobiltà del carattere si definisce, dunque, come una certa qual autonomia dai beni che si possiedono. Negli Ὅροι la liberalità è definita «inclinazione (ἕξις24) all’arricchimento secondo il necessario; elargizione o acquisizione dei beni secondo il bisogno.» Sia l’arricchimento, sia l’elargizione sono sottoposte a una misura suggerita dalla temperanza: necessità e bisogno sono i limiti che configurano la liberalità – rispetto all’avarizia, all’avidità e alla prodigalità. Proprio perché gli Ὅροι sono materiale di scuola, essi mostrano che nel contesto dell’Antica Accademia platonica il concetto era di uso comune, oggetto di sforzo definitorio – quali che siano le limitazioni critiche da addurre nella considerazione del processo di formazione della raccolta stessa25. Liberalità (ἐλευθεριότης) è derivato da ἐλευθερία, «libertà» condizione giuridica e politica opposta a quella dello schiavo, ma ben distinta anche da quella di chi, pur non essendo giuridicamente schiavo di nessuno, lavora per conto di terze persone, il lavoratore dipendente, la condizione che, nel mondo romano era detta libertas. Sotto il profilo economico, la liberalità presuppone l’’autosufficienza, oppure la ricchezza, la disponibilità di beni; i nobili, tanto nel mondo greco, quanto nel mondo romano, sono i «benestanti», i «potenti», come aveva rilevato Friedrich Nietzsche nel primo dei saggi compresi nella raccolta del 1887 Zur Genealogie der Moral (La genealogia della morale). Nella strutturazione del campo semantico del termine «liberalità» grande importanza ebbero gli apporti di Cicerone (De officiis I, 12) e di Seneca (De beneficiis I, 11-12). Cicerone riporta l’esempio del re Pirro, a proposito di un riscatto di progionieri. Rifiutando di barattare la libertà dei prigionieri con oro, Pirro rivendica la qualità di combattenti per i propri soldati, come per i soldati avversari e afferma: «quorum virtutei belli fortuna pepercit, eorundem liberati me parcere certum est. Dono ducite doque volentibus cum magnis Dis», «ho deciso di rendere liberi i prodi cui la fortuna 24 Il termine greco qui citato, héxis, indica sia il possesso, sia l’acquisizione, sia lo stato morale o fisico (come il latino habitus), quindi “facoltà”, “inclinazione”, oppure “abitudine”. 25 Cfr. in merito Platon, Oeuvres complètes, Tomo XIII, Parte 3 ͣ, a cura di J. Souilhé, Paris, Les Belles Lettres, 1962, Notice, pp. 153-159. 20 dell’armi incolume ha resa la vita. Riconduceteli in patria, ch’io ve li dono, e che gli Dèi, nella loro grandezza, vi facciano lieti26.» La magnanimità è componente della liberalità qui ben chiara nel rifiuto del riscatto in oro. La liberalità si definisce come libertà dall’interesse rappresentato dalla ricchezza, quindi come autonomia dai beni materiali. Seneca afferma, nel capitolo 12 del De beneficiis, che il dono in cui consiste l’atto liberale dev’essere un ché di duraturo, una reale provvigione di ciò di cui un altro ha bisogno. Posto questo, se ne deduce che la liberalità è il superamento sia della logica dei rapporti di forza, sia del connesso «do ut des» che caratterizzano tutte le forme di utilitarismo pratico; un superamento inteso in nome di una potenza che si manifesta non come oppressione, ma come beneficio, come «sovrabbondanza di essere», non come restrizione degli spazi della personalità altrui. Stando così le cose, non c’è da stupire se la liberalità, nell’età ellenistico-romana andava di pari passo, almeno semanticamente con la εὐεργεσία27, il «beneficio» inteso come il buon agire tipico (almeno sotto il profilo del dover essere) di chi dispone legittimamente del potere sovrano (si pensi, a esempio, a Tolomeo III Evergete, re d’Egitto dal 246 alla morte, nel 221 a. C., figlio di Tolomeo IIe di Arsinoe I) inteso come un potere rivolto a giovare ai sudditi, disinteressatamente (come sarà nel modello del buon principe elaborato da Seneca nel De clementia e da Plinio il Giovane nel Panegirico di Traiano, trasmessosi, attraverso la tradizione degli Specula Principum nel Medio-Evo latino, fino alla Institutio Principis Christiani di Erasmo da Rotterdam e alla descrizione del Summus Magistratus nella Politica methodice digesta exemplis sacris atque profanis inlustrata di Johannes Althusius (1603, terza edizione 1614)28. Il ruolo fondamentale del principe è quello di essere benefattore, come tale egli viene descritto in numerose iscrizioni in lingua greca tra la metà del IV secolo a. C. e gli ultimi decenni del I secolo a. C. In Roma, gli edili avevano a disposizione una somma tratta dal bilancio pubblico spesso insufficiente a essere liberali e dovevano, per finanziare feste religiose, divertimenti, spettacoli circensi, opere pubbliche, attingere alle proprie personali ricchezze. Il pubblico potere si manifesta, dunque, come magnificenza e liberalità; le stesse Res gestae di Ottaviano Augusto si soffermano sulle spese sostenute dal princeps per lo Stato e per il popolo romano; da Nerone in poi, gli imperatori continueranno nella politica di elargizioni attingendo al bilancio pubblico. Tramontato il modo di produzione schiavistico, cristianizzatosi l’impero romano, soprattutto dopo l’Editto di Tessalonica del 380 emanato da Teodosio, tanto ἐλευθεριότης29, quanto il suo equivalente latino liberalitas si depoliticizzarono progressivamente sino ad assumere un significato etico-religioso; le opere di carità, le elemosine, l’abbellimento delle chiese saranno il segno della magnificenza e della liberalità di un potere conferito da Dio30; in italiano (e nelle lingue neolatine31) liberalitas ha assunto precisamente il significato di una denotazione etica, pertinente al carattere e 26 Cfr. Cicerone, Dei doveri, versione di G. Lattanzi, Istituto Editoriale Italiano, Milano, 1928. 27 Il termine euergesìa è già presente in Omero (Odissea, XXII, 235); in Tucidide indicava un titolo di benemerenza politica che comportava privilegi (I, 129); ne conosciamo addirittura una personificazione in Dione Cassio (LXXI, 34) equivalente al latino Liberalitas. 28 Cfr. J. Althusius, La politica. Elaborata organicamente e con metodo e illustrata con esempi sacri e profani, a cura di C. Malandrino, Torino, Claudiana, 2009. 29 Eleutheriòtes derivato da eleutherìa, “libertà” è un altro equivalente del latino liberalitas. Tuttavia, mentre euergesìa sottolinea il bene fatto per la collettività, eleutheriòtes mette in primo piano la libertà da ogni vincolo di interesse e / o di denaro. 30 Cfr. J. M. Laboa, Storia della carità nella vita del cristianesimo. «Dai loro frutti li riconoscerete», tr. it. Milano, Jaca book, 2012. 31 Liberalidad in spagnolo, liberalidade in portoghese, libéralité in francese, liberalitate (oltre che dărnicie in rumeno). 21 alle inclinazioni della vita privata, per quanto considerata, quest’ultima, sempre in rapporto con la vita pubblica ormai disegnata secondo le linee della morale cristiana (che viene ad ampliare le nozioni di bene pubblico implicite nel linguaggio etico-politico e nella pratica greca e romana). Va considerata, inoltre, un’altra radice della nozione di liberalità, quella che affonda nell’ Etica nicomachea di Aristotele che ha influito sullo sviluppo del campo semantico del nostro termine attraverso la filosofia di Tommaso d’Aquino. Alla liberalità è dedicato il libro IV dell’ Etica nicomachea; la liberalità viene definita «la medietà riguardo alle ricchezze32» Ricchezza è tutto ciò che è misurato con la moneta33; la prodigalità e l’avarizia indicano l’eccesso e il difetto relativo all’uso della ricchezza. Il generoso «elargirà in vista del decoro e rettamente, cioè alle persone a cui si deve e quanto e quando si deve e si conformerà a tutte le norme di una retta elargizione34.» Il generoso non guarda a sé35. La generosità, comunque, non consiste nella quantità delle cose date, ma «nella disposizione d’animo di chi le dà36», cioè con piacere o senza dolore; ma egli non darà a chi non deve dare, né quando non deve dare. Il prodigo finisce, poi, per essere avido di prendere per il suo desiderio di elargire37. Dalla prodigalità, si può guarire, tuttavia, mentre dall’avarizia non c’è modo di uscire. Nella Summa Theologica (art. 2, quaestio 117) Tommaso d’Aquino afferma che la liberalità può essere detta anche «larghezza»; le cose che debbono passare da un uomo a un altro uomo sono i beni posseduti indicati dalla parola «denaro». Ne consegue che la materia propria della liberalità è l’uso del denaro38. Fedele esegesi delle vedute aristoteliche, essa congiunge, poi, la liberalità alla giustizia, alla fortezza e alla temperanza, altrettante modalità per mettere in forma l’impulso acquisitivo (base psicologica dell’avarizia /avidità) e il desiderio di essere benvoluti dal prossimo grazie alle elargizioni (base psicologica della prodigalità). Dante Alighieri, nel Convivio39, afferma: «Acciò che nel dono sia pronta liberalitade e che essa si possa in esso notare, ancora si conviene essere netto d’ogni atto di mercatanzia, conviene essere lo dono non domandato.» La lezione ciceroniana del De officiis, nell’esempio di Pirro, e di Aristotele, attraverso l’esegesi di Tommaso d’Aquino traspare con una certa chiarezza dalla parole di Dante Alighieri. Liberale non è chi opera secondo una pratica di scambio, ma chi dà senza alcun ritorno economico o di altra natura. La prima trattazione sistematica moderna su base aristotelica del tema si deve a Emanuele Tesauro (Torino 1592-Torino 1675), drammaturgo, rètore e letterato, gesuita dal 1611, precettore storico di Corte di Casa Savoia, uscito dalla compagnia di Gesù nel 1635 pur restando sacerdote secolare. Nella sua opera La filosofia morale derivata dall’alto Fonte del grande Aristotele Stagirita40 egli precisa: «Donar salutari consiglia a’ perplessi, non è liberalità, ma umanità. Donar ajuti con buoni officj appresso a’potenti, non è liberalità, ma offiziosità. Donar conforti agli afflitti, non è liberalità, 32 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, IV, 1, 1119 b 22-23, tr. it. di A. Plebe, Bari, Laterza, 1961, rist. in Aristotele, Opere, Bari, Laterza, 1973, vol. 7. 33 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., IV, 1, 1119 b 27-28. 34 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., IV, 1, 1120 a 23-25. 35 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., IV, 1, 1120 b 7. 36 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., IV, 1, 1120 b 7-8. 37 Cfr. Aristotele, Etica nicomachea, cit., IN 1, 1120 b 32-33. 38 Cfr. Tommaso d’Aquino, La somma teologica, Edizioni dello Studio Domenicano, Bologna, 1996, traduzione a cura della redazione delle Edizioni Studio Domenicano. 39 Cfr. Dante Alighieri, Convivio, I, VIII, 16. 40 Cfr. E. Tesauro, La filosofia morale derivata dall’alto Fonte del Grande Aristotele Stagirita del Conte e Cavalier di Gran Croce D. Emanuele Tesauro, patrizio torinese, in Venezia, MDCCXXIX, presso Niccolò Pezzana, con licenza de’ Superiori. 22 ma pietà. Donare il sangue per la Patria non è liberalità, ma fortezza. Gli oggetti della liberalità sono i beni di fortuna, che si misurano con l’oro; perché circa questi la liberalità per proprio offizio modera l’affetto umano […]. Il donare del liberale, non è solamente il trasferire la proprietà di una gemma o di una somma d’oro in colui che riceve; ma spendere largamente in splendidi palagj, amene ville, deliziosi giardini, e fonti, e statue, e pittura preziose e peregrine fiere; non per delizia sua, ma del popolo; ritenendone la proprietà, per farne usufruttuarj gli occhi di tutti. Perocché siccome l’avaro con cento catenaccj chiudendo le sue case, e le sue casse, per farle impenetrabili anco del Sole, a guisa del vigile serpente degli orti esperj non ne gode, e non ne lascia godere, il liberale per opposito allora gode, quando gli altri ne godono, sicché veramente chiamar si possono Delizie del popolo, le sue delizie41.» Il filosofo aristotelico continua: «L’oro, non men che il ferro è un utile instromento; ma inutile nelle mani dell’avaro; pernicioso in quelle del prodigo. Il sol liberale ha l’arte di bene adoprarlo42.» Il dono va proporzionato, inoltre, alla qualità di chi dona e di chi riceve il dono, cioè ai gradi etici e sociali; e non si deve donare tutto a uno solo. E va ricordato che «il donare a genti infami, quando sono miserabili, non è liberalità, ma umanità, e debito naturale43.» La liberalità, inoltre, conferisce gloria. La rielaborazione o amplificazione delle vedute di Aristotele lascia traccia negli esempi raccolti dal Vocabolario degli Accademici della Crusca44quasi a conferma della rielaborazione di Tesauro (e altri) affermatasi nel senso comune degli scrittori moderni dii etica. Fra le più significative attestazioni c’è quella di Torquato Tasso il quale (Lettere, 2, 281) esorta, inoltre, il principe a «distinguere minutissimamente tra la prodigalità e la liberalità» confermando il ruolo del principe come promotore della liberalità stessa. Ulteriori conferme del quadro aristotelico emergono dalla voce Liberalità del Dizionario della lingua italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini45. Nel Rinnovamento Gioberti scrive: «Che se in noi la libertà e la liberalità differiscono, la parentela delle due voci ne fa risalire alla fonte comune ed archetipa delle doti che rappresentano.» Il comportamento dell’uomo libero della tradizione platonico-aristotelica va a fondersi con la libertà del cristiano e con i suoi obblighi verso la legge di Dio e verso il prossimo, nonché con gli ideali di libertà professati dal liberalismo e con gli ideali di carità emergenti dal cristianesimo sociale di Lamennais – autore ben e polemicamente noto a Gioberti46. Già all’inizio del Rinnovamento troviamo un’affermazione assai significativa: “Tre sono i bisogni principali dell’età nostra, cioè il predominio del pensiero, l’autonomia delle nazioni e il riscatto della plebe, che è quanto dire del maggior numero47.” La libertà stessa non è che uno strumento dell’ordine politico e non ne può essere assolutamente il fine. Intesa e praticata come fine, la libertà può volgersi al bene come al 41 Cfr. E. Tesauro, La filosofia morale, cit., pp. 144-145. Alla liberalità è dedicato l’intero libro VI, pp. 137 ss. 42 Cfr. E. Tesauro, La filosofia morale, cit., p. 149. 43 Cfr. E. Tesauro, La filosofia morale, cit., p. 152. 44 Cfr. Vocabolario degli Accademici della Crusca, vol. IX, in Firenze, nella tipografia galileiana, 1905 s. v. Liberalità. 45 Cfr. Dizionario della lingua italiana nuovamente compilato dai signori Nicolò Tommaseo e cav. Bernardo Bellini […], vol II, parte II, UTET, Torino-Napoli, 1869. 46 Cfr: L. Giusso, Gioberti, Milano, Garzanti, 1948, pp. 111-115. Si vedano anche le pagine dedicate a Lamennais nei Pensieri numerati vol II, a cura di G. Bonafede, Padova, CEDAM, 1995, pp. 91-92. Giusso, peraltro, avverte: «I fiscali della contraddizione possono ben sogghignare davanti alle oscillazioni d’una “formula ideale” che sbanda vertiginosamente tra l’identificazione colla “Monarchia cristiana” e il riassorbimento senza residui nelle istituzioni democratiche al tempo del Rinnovamento.» 47 Cfr. V. Gioberti, Del Rinnovamento civile d’Italia, tomo I, Parigi e Torino, a spese di Giuseppe Bocca libraio di S.S.R.M., Chamerot, rue du Jardinet, 13, 1851, p. 86. 23 male: “E nel modo che la libertà è la potenza di fare il bene, similmente la liberalità è l’inclinazione a comunicarlo, onde viene il nome di liberale, comune a quelli che amano il vivere libero e a quelli che largheggiando, ne appianano agli altri il godimento48.” La liberalità che è al centro del componimento attribuito a Gioberti sembra prendere come suo antipodo la frase di George Farquhart (1678-1707): «Nulla è scandaloso quanto gli stracci e nessun crimine è vergognoso quanto la povertà.» Essa, infatti, si presenta come carità e la carità, come non conosce scandali, così non conosce vergogna. Non è istanza giudicante sul piano etico, ma amore per il prossimo. Nella prima metà del XIX secolo si è sviluppata una vasta letteratura sulla povertà coeva di «quel complesso fluttuante di aspirazioni sentimentali, che si è più volte cristallizzato nelle utopiche creazioni artificiali di un nuovo mondo umano, che per un tocco magico dovrebbe sostituirsi dall’oggi al domani al vecchio mondo in cui viviamo49.» In Inghilterra, nel 1834, una legge abolì la carità legale proibendo l’aiuto a domicilio e costringendo i poveri a entrare in nuove Workhouses (tra i promotori della legge l’allievo del filosofo utilitarista Jeremy Bentham, sir Edwin Chadwick, vissuto tra il 1800 e il 189050); in Francia, l’accademia delle Scienze Morali e Politiche promosse un’inchiesta sulle condizioni operaie e, agli inizi degli anni Quaranta, Antoine-Eugène Buret tenta di sviluppare una sociologia della povertà e di studiare la connessione di simultaneità tra povertà delle masse popolari e ricchezza della nazione51. Sono gli anni del pieno sviluppo della prima rivoluzione industriale: di lì a poco Friedrich Engels pubblicherà (1844) Le condizioni della classe operaia in Inghilterra. Non andrebbero neppure passate sotto silenzio le secolari iniziative come, per ricordarne una, quelle della Congregazione di San Vincenzo de’ Paoli che doveva essere particolarmente nota a Gioberti. Eppure, leggendo la sua composizione, pare che nessuno si prenda cura dei poveri, nessuno si interessi delle loro condizioni. Potremmo considerarlo un modo di criticare radicalmente quanto si veniva facendo in materia di “governo della povertà”, quale che fosse in contesto, francese, belga o piemontese, in cui si radicava la composizione. Il modo di avvicinarsi al problema dell’autore del nostro componimento è diverso da quello degli studiosi della povertà o da quello degli istituti caritatevoli: la fede nell’Agnello di Dio deve muovere i cuori, tutti i cuori, verso chi è povero pur essendo oberato dal lavoro; lo scenario è ben lontano da diagnosi sociologiche o da prospettive politiche e sembra collocarsi in una teologia politica52 della ricchezza e della povertà, in una esortazione a prendere finalmente sul serio il Vangelo. 4. Quali conclusioni? «L’amore degli uomini innestato per dir così dal senso religioso diventa Carità. Quanto è infiammante quest’ultimo vocabolo, tanto è freddo e secco quello di filantropia.» Così si legge nei 48 Cfr. V. Gioberti, Del Rinnovamento, cit., p. 134. Si veda anche la nota n. 2 alla medesima pagina. 49 Cfr. E. Ferri, Socialismo e scienza positiva (1894) leggibile in http://ww2.bibliotecaitaliana.itt/view?docld=bibit001109/bibit00 50 Cfr. S. Finer, The Life and Times of sir Edwin Chadwick, London, Methuen, 1952; R. A. Lewis, The Public Health Movement 1832-1854, London-New York-Toronto, Longmanns, Green and Co. 1952. 51 Cfr. Antoine-Eugène Buret, De la miserie des classes laborieuses en Angleterre et en France; de la nature de la misère, de son existence, des ses effects, des ses causes, et de l’insuffisance des rèmedes qu’on a lui opposées jusqu’ici; avec l’indication des moyens propres a en affranchir les societés, Bruxelles, Societé Typographique Belge,1842, tome II, livre III, chapitre. V, p. 86 (il volume era già apparso nel 1840, Paris, Paulin). 52 Per l’utilizzo di questa denominazione cfr. M. Scattola, Teologia politica, Bologna, Il Mulino, 2011 24 Pensieri numerati53. Potrebbe essere questa l’epigrafe da anteporre ai versi sciolti La liberalità. La carità cristiana è il fondamento della lettura della liberalità che viene data nel componimento. Dire tuttavia che esso non ripugna alla costellazione ideale giobertiana, per quel tanto che essa si nutre, in materia di morale religiosa, delle elaborazioni dell’aristotelismo mediate dalla cultura tardo-medievale e moderna, è altra cosa dal dire che Gioberti è autore dei versi da noi pubblicati qui. La ricostruzione del contesto storico-concettuale della composizione suggerisce che nulla osta a confermare l’attribuzione a Gioberti de La liberalità. A che serve la filologia? A giungere a leggere un testo con la certezza che esso sia dell’autore dichiarato in frontespizio e della forma in cui l’autore voleva che fosse diffuso. In seconda battuta, essa serve ad avvicinare quanto più possibile il campo semantico dell’autore al campo semantico ipotizzabile nel lettore. La filologia è una scienza che costruisce poche certezze e apre spazi di perplessità. Per obbligo professionale il filologo è un diffidente. Si tratta sempre di vedere se per peso le poche certezze riescano a vincere sulle perplessità, oppure no. Ritorniamo, dunque su queste ultime con le quali abbiamo dato inizio alle nostre considerazioni. 1. Come mai la composizione – che grafologicamente è giobertiana54- è sfuggita agli editori giobertiani, soprattutto a Giuseppe Massari? 2. Come mai Gioberti celebra Polinnia, musa degli inni sacri, come Musa delle opere sol del pensiero? 3. Come mai nell’opera edita e inedita di Gioberti il concetto di liberalità non pare avere un ruolo così centrale come ci si aspetterebbe una volta terminata la lettura dei versi sciolti qui pubblicati? 4. Posto che il componimento sia opera di Gioberti, a quale periodo della sua vita potrebbe risalire? Cercheremo di rispondere, ora a queste domande. 1. È molto arduo rispondere al quesito circa la fortunosa vicenda della composizione giobertiana. Il suo destino sembra quella di una composizione d’occasione, affidata subito a un destinatario senza che l’autore ne salvasse una copia per sé. Ma quale occasione? Il lascito giobertiano e l’epistolario, soprattutto, non sembra riservare alcuna spiegazione, alcun indizio dotato di credibilità. Non resta da fare nient’altro, forse, che accettare il dato di fatto dell’esistenza de La liberalità con attribuzione di mano ignota a Gioberti. 2. Nulla, nella tradizione greca e romana, poteva indurre Gioberti a designare Polinnia come Musa che presiede alle opere del pensiero. Tale associazione è possibile soltanto considerando come la conoscenza e la fede derivino, per Gioberti da una sola e medesima radice – sicché una potenza divina che presieda alla composizione di inni sacri è inevitabilmente connessa con la conoscenza, con il pensiero; la tradizione antica offriva soltanto la possibilità di tirare semplicemente le somme dagli stretti rapporti che poeti, oratori e filosofi dichiararono con le Muse in generale, non con Polinnia in particolare. Tuttavia, come abbiamo già ricordato,nel 1927/28, una scoperta nel corso degli scavi archeologici degli Horti Spei Veteris, nell’area del colle Esquilino, presso Villa Fiorelli, 53 Cfr. V. Gioberti, Pensieri numerati vol I, a cura di G. Bonafede, Padova, CEDAM, 1993, p. 247. 54 Potrebbe essere un falso? Ma il sospetto di una falsificazione abbisogna di elementi indiziari che mancano totalmente; né tali si possono considerare la fortunosa trasmissione del testo e neppure la singolare designazione sulla quale ci soffermeremo ancora della Musa Polinnia come ispiratrice delle opere del pensiero. 25 avrebbe confermato l’identificazione compiuta nella composizione attribuibile a Gioberti: la scoperta della statua identificata con Polinnia pensosa. La statua, attualmente conservata presso i Musei capitolini risalirebbe al II secolo d. C. e consisterebbe in una copia dell’opera scolpita dallo scultore greco Filisco di Rodi nel II secolo a. C., secondo una tipologia non ignota55. Ma Gioberti non poteva avere notizia della statua; non è necessario, qui, immaginare un falsario all’opera: basta pensare che Gioberti considerava il sacro come oggetto centrale del pensiero, come già si è ricordato, e, quindi, poteva pensare a Polinnia, Musa degli inni sacri, come tutrice delle opere del pensiero. 3. Gioberti menziona assai raramente la liberalità, anche perché il suo stile di pensiero è piuttosto lontano da quello della trattatistica che si era occupata di questa figura etica. Al di là dello scritto Sul buono, del 1843, Gioberti si è chinato piuttosto di rado sui temi della filosofia morale, dandoli, in certo qual modo, per acquisiti dalla precedente riflessione; la sua concordia discors con Lamennais lascia trasparire una vicinanza difficilmente contestabile ai temi del cristianesimo sociale bandito dall’inquieto pensatore francese, ma non per questo concorre a fare della liberalità un tema centrale di riflessione. A parte, beninteso, la composizione qui pubblicata che, però, è più opera di perorazione religiosa che non di riflessione filosofica. 4. Non vi sono elementi che permettano di collocare il componimento in un punto determinato della vicenda intellettuale di Gioberti, anche se il tono esortativo sembra essere confacente a un Gioberti non ancora provato dal fallimento dei suoi obiettivi politici che non al disincantato pensatore del Rinnovamento. L’identificazione –meramente probabile - del fiume menzionato nella composizione permette di ipotizzare tre datazioni: ottobre 1833-fine 1834, oppure 1845-1848, oppure 1849-25 ottobre 1852. Ma se l’impressione ora manifestata è corretta, la datazione ipotetica potrebbe essere ottobre 1833-fine 1834. 55 Cfr: A. Bottini (a cura di), Musa pensosa. L’immaginario dell’intellettuale nell’antichità, Milano, Mondadori Electa, 2008. 26 oli'nm'a Sol erte ^ t e j i e d i ' ctU'ofite 7*5^ Se del peniieT-c^e non c i ' u m a n a p a t i r Sfc/itcu °* {^hN'ntóino cjualjta n U Comune \jtku.ìit maAtc più Ùjo*Senn<xto 0 Je p u r atcejiì" eii'rj-i cAmiù^ìe J^ueOi n a t a t i meditante > Orasti tempi /(>ec lì mou nonmo«letni Q oU~taft 3 enti inj~e taceottt ^ella ) °jU£<jU' antìchfj e aite chi soie, Suoni Cop£tfe ci lanciar che m e n t ijnareu g Se e a Chi Jolo _/?a_; C a i m o n / o j a U f l o t a n f e caìfe ne t i memo* i n v a n può j^uia 5^amon con l ' i f i a / eJt< W nostri Ch£ t « .seguendo Un y o u n ^ u n Ct'ce*oru_ jkjfaHà J< 3?ìU<U ^ < ^ j 1 <$>i Scu"tfr f l ^ c ' o i i fccrlfc, amor adubu , aU eunici^ìou C<jnor sì spixndbL ' 1 ^ ^ejeo^* (Pi Tic5o ^ ttocdo_ e cAthìltt^ fetido. C/Ve /toL-cr) ^ hìecjru" !ci "tua BLUotìk / ( > j gì-à vojlictjtnjcx^ avocar dell'atte, eguali esempli fuio ce U l t i c M ^ o c c a c c t ' ^ e c^r/offo ^Jì (/?UQy7eto_,€ /con, cacane, e ^ii'u t^mòte aPy~e Cjià non u n . Cju/yfc^e < d e j i d i i y t u i u " Coi pjLryìeW d u n ' a l m a eWce^e 3tanet^ gì u n t o l i J o t m a r - C « d o n ci < J-atfc S o p t a dUU ' a m i c i z i a , i l j t a n jOitej/, (>Von ^ G^ernpì "tea non teoano^ e /te poc© cotante iodi' , che j o l t u n e j b i - r f o j e aj J*ì trm t a i t>ott € l a u d i non } 0 tnijtt <~fcì auutgti e n o r ne'fluat' cadetta ìi Lp^fc cjYe*dì ìnjpìtj S» cta cmofsìr non cUj>oa i n favolojijt longevi occoLfìorì p fk ben pei dief volgo tunjo~tejnp 4> 0f cU riempier più catfc a J U £ c h i n a r yur V e t j p j ce «Tt&ka. / U,^; Omet», Ovidio, e J t ^ < a 0 j r Quindi $iht<x rihaxlì per. U pK>p\ia n è i / u m ^ chu m i Jcert* o n d a lebbì già i m a Come j e un per d a r easmf j J-eds. 0 avcinT^ a i tuo i t u o l f c i o à t corjujal rnodeUo <daodamia^ i^Reca^Je^cke m o t i f i g g e n d o l ' o t n t u o ^et motti te~rto~ Qj,,' il c u o l x i i a ? Hfotje un i d i o t a Od* un J a n c i u i Seau«ndu> dunijux Chi n pundiieile di òuon j e n n o alio m c m biascie : ° ptopoTfc JcOfic OVon "t^vancLoji o t p i ù chiarir;/ e j e n i0 ? Società 5oci«ta j J ' cJt£~tà tìcchi piìvo rxutum. , ex>mp JvLìiàh Jiyu*a-<n C/Ve* j f v e d i e t o e (ferrate ^ più J U p o t è o jttaeL^ J poueuij / ot/anu vedova età afflitto i n joipìr^ e / n p/arTfc Q r i -i^coc d oui^Cfte 1 u o ^ i f a cètjUu ; m g i d non <a/v«'o J pompon, ,^y ^ ' u n i uV i t a un»' u'f i a , « d «itt,, C^Lpa odlote^ (/^e d i r t o i t a saiubbe i m m e , / a novo Conttacie^ e d / tìiètt 'ì nt^/i-uy o cttjom^ntZTj i n q u e i t o j o b '^iX* QudU gìacion vojtio U t c a r ^ c f u a t t o r n i r*«ikt' domini (Benché dt'i/'eHmenl^ancor f . lù~tta.Ìto 1 ettec C<0 Comx O dì f t o v a , Poetale "«di' a l i a m i u ^ ' a ai* a'ajni <^>OTifl66e i r ; bando e"tet e conoUfion^ 3 n o n / u r «ucLoj*iìo emetto »Utttu, c A ? a ó/ii'or rjyijfa ? c4</a m i t ó n ^ , / / u<;< . 0 apportòj eh* vicino a.m«tfc $ a i T letto Seco^cLo a i die d e ' J a u o l a j i c«.->m', C o n d u c e ('/ ^docco^ e~terruiia.iìo CÀe rnijetabiu' « (anaucniT Stoppo e p a ^ ' a n i m a i Cne » d i U t J ^ d ejaUdr Siede tAitda. «odi/i, e ej«ifc- pte^i corra? d ^ j i andate u n j p i ' t i t o iat(i/7ue a e / esempio Q^opo «/ «>an c i t o 'a^a/r*efi/ l f l /*/fl c i 'Opu/on t<nno wcO ; '' ^ J<' ^ " o i o a-ppusfc a Jr\\o l a t ó r e J$n fhx t ^ j | Satollo p a / i u j " u a in^otafajo(a_; Q u i n d i furfanti m i i e t a ^ e ptendjL Che a i o p > a T a n d 4 ; g r W w / a t f c v u * ! , , - , 3 Oh 0 ben / e l i " tifcft&ii'fofe § ^ iAcjU "fe .'/ W c/;ionci^ / molli ) 0 da Cggèj p A W f c J mcmtr/' J U o t a d i f é p i u m x segui//* o r n a n o - ^ t t ^ o j k « h c a m i a , * eonjiurrfr un~tai a t n o StéJV J »' dona * v e ? j o j f K o / o J onn« 1 finché ^ruinutxt rudi a n i m o , ; U €rut« i» J e i u o a le svegliar jkfo tcìcaj.f f Signor j è j ì u h t a . «tftì f^ 3^i° JI , J j UVICK da.1 uìtà t o r p i c U Ii0?cf CoipOj e d att»y'cLnc(« G l i occhi ctncer ^el ^ino ai. ^aijo cnmai coi d e n a t c r u la appena u'*^>i > Uì i n ~t ( $uìj a «>l ttauajrli'o u n fi 8 p o c h e noci Unto a Su d a t o aaoTuVyi Jcanno e J<>dmd« Cióa.^ <> f ci cyi/a_/ aiu iauoto J'no /tto a notti o c * c-olw, pÌ*J*-U<Ai d u t end* Si ^ * n 8 Sul £ p i e n o u( ufcidtru. rt/of u~&ooveu J<" 8 £e/ am m J^h 0 rruft,!)^, al/a dove <u<n -fac?ojaru*ó ifervfc « fctto egio, ex< deliriti: dot m i * non pM*tl~~ il vigìlia, chi a tfUijti ifiui ^ piede ductuLi. XÌi.CDjd''unq d V U * n©tfe i tiudi insisti Jei ^UAÌ llcote ipinae 9 0/? 1 p'" unxfnitcCÙ. 'V toi'ótu^.j € / a pou/onx V v a i t ' p ' a con oVjojù'o^a"*àt^ t r i t a i coj< i n u m a n o a l i / j o : c4 >H cjuando noeti JaCw'/>c<o ! ei da paté : ^eli ajjìjtf {Quindi»' dee o n e j f e ujufo Con mllU Chie&cL pjuxoja. Quuxnti> e j / t o u e t ^ e a d a d e r t a t i ^C/CÌVO &XftBà)c laxiaj t * m r m n t a n d o ^ t k t « « # Ctictiv Sì aètte t P i i m a . c * u << ! • ( d a i Lctfe" a / ^ a a Jfioita pu/ja p a r t i a t e cct'Oj Yjri O - c t e j i t * attero. mar - c c ^ n 9 pe'ofuaì pajja u n a j f a n £ i n " t d i g*R*s« ^cci Qian uino oppujjò ^tfc 0j iajcivie «fi £d j e n f a / o e e in m * ^ C4I) Sui e< "Jrweino CIUQLO <n <j«« i/aau</a / u . * "ultimi C*4^a g o i a tonjerlifer rìStots^y <w 340 i n « A L - a etnei J*t u ' c o n pan mio a ca/o Dì Ch< d / {hdtcìj Ur&^fcfio m/etrrie o/fj ^ 5 0 mai mhjnno °\jiX £ j J a d e i vetch«\ e /c piìjone oftuta^ metti ^/Vòn 10 " t l a f a j u ^ ? d a l O c d i W coit^< J 0 co«^/a^'one DOHOL piinupio^ t a m Dimoiar Jt ct-jiìiojì ì<xolpam. au_«t Jefe 1 e poi t t ' p ^ £jdd.i f ) a a l i a Quinci a <ì Kca_ J m o a i ^ W-o. CKc Jtuntó a t ^ i j a ^ a C t a tutte «de. tnatón j Cjuadatjnò ^«otW^ljC^i^a^^ troppo jonno^ecf fioreggio a c o principilo «vta txan-o n ^ i * i n d « 0 jQuanJ_i> »via( tt^(n e?à ^ u u i l a j ì J C/Va ^ 0 co n-óia. liòexaUìtate Chx tanto tenete* p u i <- ^ a i ? / ucwo felice c 8d a thx- a m a r t'n ai«7fe u/Vco onori ^VÌQÌ^U e y U 'tanto itccKe^e oua^cU' (attorno °~\j2o\\Ckn [7 ^aeàfc. v i f a è u n jot* h o t t o n o c t t a ^ p . £ ijììcchi (kt~tàntc C4ccn.jce.i-d. U lìcchz^ft t Soffitte b e n a u e / c/i* J a t * eU uo« motti j p - t n ^ o p u r 0 ' # j - e è v e r c>u> Chi ctmdrT (jufjio focaia. e f e t n i L u/t'ct .• voi COJÌ JÌOL I oro <xmzÌZ~ a n c o r v o i ' po\Ìix£tl_ in ^J)ì Citi J C Hon auti c/u? jpencile'ti i'r> tOJtpi solo <£>i ^ofjlò Q ^ C^UJIX e ritto m o n d o a i c o m o j ^ e d agli a^i\ chx ( pe? u a j k f ^ a r UjcJStr d r . yojt't» o j n j-tnaiù J^uajxcio giuntò, «/ara Scenette °Ti'nfe JO CJULU /'/ C<Wj€ paiUcU la, ^ un a di' JunfliMjnjL otiìgnù V&'m'ot.»... le nubi nyxui-hìe # Suonando /'« ( V e k oli' sttefwt&rlfc'J<^'« / Veu. a/jotcUrvfe ' mjtinul u>wi ot* c/a_"feì?a a p e t f c . Con / e t à / W m f c o m u Oadtà. qiù g 0 <ern^>«i ^e_gi'< a v a i i J c K / c ^ l ^ "LO*U5 a " t o i r n f i r C f e u ' u n /otte ru> 6o ' m demo ni uetiLéL_, oh teVn'/i>i( utjtl ^Angu'tc'tmife^ dM.ce.ro £ojU.emn "hiìto t 7 e ìnj x f i a u i n à f e r a r o a (fuggii e pU' p i ù a-udii vts"tk. e il U,\ ? 35» più' 1*39enUc a i °ftorvo cru' LùeroJji "tai ii UbeialitàL opro <Agn*Ue nj> l mondU 3 io t ~à> 1 nxe rito j e fui naj con un ~tuttì' <hA Huìn* tinn'ùil trionjanch dal stla^io 6e(ia. fadvL- cotona ì m m o ' ì a l /à c&ìoncCfc . “Quando” a pag. 76 / 77 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 4 del PDF) “Quando” a pag. 3 del mio manoscritto “scherno” a pag. 76 / 77 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 4 del PDF) “scherno” a pag. 3 del mio manoscritto “infermo” a pag. 76 / 77 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 4 del PDF) “inferme” a pag. 3 del mio manoscritto “Il” a pag. 80 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 6 del PDF) “Il” a pag. 3 del mio manoscritto “senza” a pag. 80 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 6 del PDF) “senza” a pag. 3 del mio manoscritto “ognuno” a pag. 80 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 6 del PDF) “ognuno” a pag. 2 del mio manoscritto “l’uomo” a pag. 76 / 77 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 4 del PDF) “l’uomo” a pag. 3 del mio manoscritto “ricco” a pag. 72 / 73 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 2 del PDF) “ricco” a pag. 2 del mio manoscritto “d’empietà” a pag. 76 / 77 del manoscritto della Biblioteca Civica (pag. 4 del PDF) “l’empia” a pag. 4 del mio manoscritto Recent working papers The complete list of working papers is can be found at http://polis.unipmn.it/index.php?cosa=ricerca,polis *Economics Series Q **Political Theory and Law Al.Ex Series Quaderni CIVIS 2015 n.231** Guido Napolitano and Francesco Ingravalle: La liberalità. 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