Il cane giallo della Mongolia

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Il cane giallo della Mongolia
Il cane giallo della Mongolia
regia: Byambasuren Davaa (Mongolia 2005)
sceneggiatura: Byambasuren Davaa
fotografia: Daniel Schonauer
montaggio: Sarah Clara Weber
musica: Boerte Group
interpreti: Urjindorj Batchuluun,
Buyandulam Daramdadi Batchuluun, Nansal Batchuluun
produzione: Schesch Filmproduktion
distribuzione: BIM
durata: 1h 03’
BYAMBASUREN DAVAA
Ulanbator, Mongolia - 1971
(2005) Il cane giallo della Mongolia
(2004) La storia del cammello che piange
LA STORIA
L’anno scolastico è finito e Nansal torna dai suoi genitori e
dai suoi fratelli alla iurta montata ai piedi della montagna in
un deserto di erba dove le pecore pascolano e gli uomini le
proteggono dai lupi. Ha lasciato la scuola vestita con la divisa, un sacchetto a tracolla, portata lassù dall’autista della
scuola con il pulmino. La prima cosa che sua madre le dice
è: “Ci sei mancata molto” e lei risponde: “anche voi”. E poi
Nansal rivolta a suo padre: “Tu che cosa hai fatto?” e lui:
“Ho guardato le bestie”. “È tornato il lupo?”, “Si purtroppo”.
Sono stati i lupi a uccidere le due capre trovate senza vita
quella mattina e adesso Urijundori deve andare in città a
vendere le pelli. Anche per Nansal è venuto il momento di
rendersi utile. Sua madre la manda a raccogliere lo sterco
secco da bruciare nella stufa. La bambina prende la cesta e il
bastone e va fino a raggiungere una grotta dove sente il
lamento di un cane. E quel cane lo prende con sè, lo porta a
casa legato alla sua cintura gialla e gli dà un nome “Macchia”.
“È il mio cane”, dice a sua madre che vuol sapere da dove
venga e a spiegarle subito che il suo padrone potrebbe venire
a riprenderselo. “Adesso è mio perché l’ho trovato io” insiste
con suo padre che le dice con severità come un cane trovato
in una grotta è cresciuto in mezzo ai lupi e non può vivere
con gli altri animali. Niente da fare: Nansal non cede e allora
la madre conclude “Forse era destino che venisse da noi”. Il
giorno dopo Urijndori prende la moto e va in città. Prima di
partire “Quel cane deve sparire”. Ma Nansal comincia a
nasconderlo e non ascolta sua madre che cerca di farle capire
come non si possano avere tutte le cose che si vedono. E non
lo abbandona neanche quando lo smarrisce tra le rocce mentre sta pascolando il gregge e un temporale in arrivo le
nasconde la cima della montagna, il segno che ha per ritrovare la strada di casa. A dare un riparo a Nansal e a Macchia
ritrovato provvede una vecchia signora che li accoglie nella
sua iurta, mette ad asciugare gli abiti fradici davanti al fuoco,
dà loro qualcosa da bere e racconta alla bambina la storia del
cane giallo, abbandonato in una grotta, poi scomparso e
forse rinato nel bambino con la treccia secondo una antica
leggenda. Una storia che porta Nansal a chiedere alla sua
mamma, quella sera prima di addormentarsi, della sua vita
precedente. “Solo i bambini ricordano qualcosa”, e a Nansal
aggiunge “lascia che la tua sorellina racconti le sue storie”. La
mattina dopo Urijndori fa ritorno a casa: Nansal sente lontaIL CANE GIALLO DELLA MONGOLIA
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no il rumore della moto e corre a nascondere Macchia. Ma
serve a poco. L’uomo lo vede, ricorda alla figlia quello che le
aveva chiesto e tenta di venderlo a dei pastori. Tuttavia, un
cane trovato in una grotta e forse incrocio con un lupo è un
rischio che nessuno è disposto a correre. Ed è ormai tempo
di lasciare l’altopiano e tornare a valle. Si smontano le tende,
si carica tutto sui carri tirati dai buoi e ci si mette in strada. Il
più piccolo dentro una cesta, Nansal con l’incarico di badarlo. Per Macchia non c’è più posto. Lo si lega ad un bastone e
lo si lascia lassù. Adagio la carovana guadagna strada mentre
il sole si avvia al tramonto. Ma Nansal, gli occhi bassi per
quel cagnolino rimasto dove c’era la iurta e adesso c’è solo il
vuoto, ha perso di vista il fratellino e, quando la madre si
accorge che non c’è più, lancia un grido. Urijndori a cavallo
ritorna indietro al galoppo e ritrova il bimbo tranquillo che
trotterella e Macchia che gli sta vicino, la corda che lo teneva
legato al palo slacciata. In cielo volano minacciosi gli avvoltoi
che poco prima avevano tentato di avvicinarsi al piccolo e
che solo il cane è riuscito a tenere lontano. Quando rivediamo la carovana della famiglia Batchuluun. nuovamente in
marcia, Macchia è tra le braccia di Nansal. (LUISA ALBERINI)
LA CRITICA
Un uomo e una bimba, le cui silhouette alla luce del tramonto si stagliano fra terra e cielo, eseguono il triste rituale
di dare sepoltura a un cane. «Papà, perché gli metti la coda
sotto la testa?» chiede la piccola. «Così rinasce uomo con la
treccia e non cane con la coda». «Rinasce?» «Tutti muoiono,
ma in realtà non muore nessuno» spiega il padre. Inizia così
Il cane giallo della Mongolia di Byambasuren Davaa, la trentacinquenne regista che nel 2004 aveva incantato le platee
internazionali con La storia del cammello che piange; ed è un
incipit che dà subito conto di una concezione della vita
impregnata di spiritualità buddista. Invece che nel meridionale deserto del Gobi, il nuovo film è ambientato nel nordovest dello sconfinato paese incuneato fra la Russia e la
Cina. Ovvero nella zona da cui proviene la famiglia materna
della cineasta, nata nella capitale Ulan Bator ma allevata da
una nonna che le ha trasmesso l’amore per la cultura d’origi106
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ne. Se il titolo si riferisce a una leggenda, il film si ispira a
un racconto di Ganthuya Langhva, dove si narra di un cucciolo di cane adottato da una bambina e abbandonato per
volere del di lei padre, ma... L’esile spunto serve da viatico
per introdurre lo spettatore nella quotidianità di una vera
famigliola di pastori nomadi – i genitori, due sorelline e un
fratellino – che trascorrono l’estate accampati con il gregge
in un paesaggio montano di remota bellezza. Pur studiando
in città, la figlia maggiore Nansa di anni sette in quei ritmi
arcaici si trova completamente a suo agio. Cavalca, è già in
grado di portare le capre al pascolo da sola e il suo legame
con il cagnolino trovatello Macchia è significativo di un
armonico rapporto con la natura di cui il delizioso film ci fa
sentire nostalgici. Abile a mantenersi in equilibrio fra documentario e fiction, sul modello del grande Flaherty, la
Davaa è attenta a non cadere nel lezioso mentre salva la
memoria di un piccolo mondo antico insidiato (o addirittura condannato?) dagli stravolgimenti climatici e dalla
modernità.
(ALESSANDRA LEVANTESI, La Stampa, 28 aprile 2006)
Si può fare un documentario su una favola? Il cane giallo
della Mongolia è qualcosa di molto simile: un film in cui
tutto, ambienti, personaggi, gesti, animali, è autentico, ma il
momento della verità coincide con qualcosa che è dell’ordine del mito. Una favola, appunto. La favola che la piccola
Nansa sente raccontare alla vecchia nomade presso cui trova
rifugio quando si perde negli sterminati paesaggi mongoli.
Anche questa situazione del resto ricorre nelle fiabe di tutto
il mondo: il bambino o l’adulto che si smarrisce, e smarrendosi accede a un sapere superiore. Il tutto però è narrato con
tanta semplicità che è lo spettatore (occidentale) a rischiare
di smarrirsi. Perché il secondo film della co-regista della
Storia del cammello che piange sembra un innocente documentario su una famiglia di nomadi. Invece è più sottile e
complesso. In superficie registra la loro vita quotidiana, il
lento declino di una certa cultura materiale e spirituale
minacciata dalla modernità, il coesistere di tende e tv, nuovi
equilibri e antichi riti (vedi la sepoltura iniziale del cane).
Ma poi in quella scena da fiaba tutto vacilla e si confonde,
vecchio e giovane, arcaico e contemporaneo, magico e quo-
tidiano. Una vertigine, inquinata in parte dal solito doppiaggio assurdo, che è il cuore segreto di questo film fin
troppo timido e “scritto”.
(FABIO FERZETTI, Il Messaggero, 30 aprile 2006)
Per ore la piccola Nansal (Batchuluun Nansal) ha cercato il
suo Macchia. Rincorrendo chissà quali pensieri meravigliosi,
il cucciolo s’è perduto nella steppa in mezzo a cui sta la iurta
dei Batchuluun. Sul suo cavallo lei ne ha corso il verde senza
fine dell’erba. Poi, coraggiosa, è salita fin sull’orlo d’un precipizio, temendo che Macchia vi sia caduto. Alla fine lo ha
ritrovato, addormentato e salvo. Intanto, il buio è sceso
sull’altipiano. Nansal ha perso di vista la cima della montagna, per quanto quella stessa mattina sua madre Daramdadi
(Buyandulam Daramdadi) le abbia raccomandato di non
farlo mai, per non smarrire la via. Ora però, insieme con il
suo cane, è al sicuro nella iurta d’una vecchia signora che,
amorosa e sapiente, le racconta il cuore stesso della vita: un
cuore cui è dedicato fin dalle prime immagini Il cane giallo
della Mongolia. La donna prende dunque un grosso ago e lo
tiene a punta in su. Poi, con l’altra mano afferra un pugno di
riso e glielo lascia cadere pian piano sopra. Quante probabilità ci sono che un chicco resti infilzato e fermo sulla sua
punta? Nessuna. risponde attenta e svelta Nansal. Ebbene,
continua l’altra, difficilissimo è anche che lo scorrere della
vita “prenda corpo” in un essere umano. E questo suggerisce
quanto valgano ogni singolo uomo e ogni singola donna,
affidati come sono al fluire improbabile del caso. Ben dentro
questo fluire. Byambasuren Davaa racconta il suo secondo
film, dopo La storia del cammello che piange (2004). Come la
loro iurta sta in mezzo alla steppa, così Nansal e i suoi stanno
in mezzo alla vita. Ci stanno con la leggerezza dei loro gesti
quotidiani. La semplicità delle immagini, delle parole, dei
desideri di Il cane giallo della Mongolia è tutt’altro che superficialità. I Batchuluun – oltre a Nansal e alla madre, anche il
padre (Urjindori), la piccola Nansalmaa e il fratellino di
pochi mesi Bahbayar –, i Batchuluun, dunque, non sono
quel che resta d’un mondo idilliaco, d’un mondo appunto
naturale e fuori della Storia. Sono invece testimoni e portatori d’una cultura grande e antica, e proprio d’una Storia grande e antica. Nel loro mondo, la vita è intera. Ossia, non ci
sono fratture e crudeli gerarchie di valore fra gli esseri che
“scorrono” nel tempo, come i chicchi di riso fra le dita della
vecchia signora che accoglie Nansal nella sua iurta. Gli uomini e le donne sono certo casi improbabili di questo scorrere, e
dunque meritano attenzione e rispetto, come tutto ciò che è
raro e irripetibile. Ma lo merita anche un cane, e non solo
perché in un passato lontano può essere stato un essere
umano, o perché lo sarà magari in un altrettanto lontano
futuro. In lui, già per quello che è, c’è tutta la vita, nella sua
splendente interezza.
È questo splendore che Byambasuren coglie nella trasparenza dei colori in cui vive la steppa. Ed è questo splendore che,
soprattutto, vediamo negli occhi di Nansal, aperti e curiosi.
La madre le racconta che i bambini pare ricordino ancora
qualcosa delle loro esistenze precedenti. E questo le fa nascere continue domande interiori. Forse, pensa, è la sua storia
di prima che la sorella più piccola tenta di raccontare, con le
sue parole incerte. E forse qualcosa di simile vale anche per
il suo Macchia, trovato in una grotta, un po’ cane e – così
teme il padre – un po’ lupo. In ogni caso, se lo stringe addosso, quel cucciolo che le somiglia tanto, al pari di lei
teneramente vivo. E lo accudisce, lo accarezza, lo protegge,
come le mani della vecchia signora faranno poi con lei.
Byambasuren inquadra da vicino quelle mani premurose. Le
mostra nella felicità solerte e gentile del prendersi cura:
tanto accorte quanto a loro è consentito dalla sapienza degli
anni, e tanto affettuose quanto a loro è suggerito dallo stupore della vita che, improbabile e meravigliosa, in Nansal
torna e si rinnova.
Presi dal mestiere quotidiano di campare, Urjindori e
Daramdadi – il padre e la madre – non sempre avvertono la
grandezza e la gioia del fluire dell’esistenza. Per la seconda
un mestolo può valere di più delle domande di Nansal. Per
il primo conta il timore che i lupi arrivino in cerca di Macchia, e che il suo gregge sia in pericolo. Per quanto splendente e intera, la vita degli uomini e delle donne deve rendere conto alla durezza della necessità, nel compito di stare
al mondo. Ma poi basterà loro la paura di perdere un figlio,
per ritrovare il gusto d’essere in mezzo alla vita. Urjindori si
stringerà addosso il piccolo Babbayar, e affonderà il proprio
viso in lui, aspirandone il profumo. A quel punto starà
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anche lui nel cuore del mondo, tenero e aperto quanto la
sua Nansal.
(ROBERTO ESCOBAR, Il Sole-24 Ore, 14 maggio 2006)
Con intenti quasi documentari, negli stupendi ed infiniti
paesaggi mongoli visti in Urga di Michalkov, la regista del
Cammello che piange, Byambasuren Davaa racconta la vita
quotidiana di una famigliola nomade col bestiame e il lupo
che minaccia nottetempo. Il pretesto narrativo è il ritrovamento di un cagnolino disperso, Macchia, da parte della
bambina, che fa irritare il padre. Chissà se ci sono leggi eterne e parabole, come le suggerisce una vecchia col suo racconto: la realtà è dura, i piccini si perdono, gli avvoltoi volteggiano. Alla fine – l’unica sequenza davvero bella – il
gruppo fa letteralmente le tende e muta domicilio, caricando la casa poeticamente sui carri mentre un camioncino viene ad avvertire che votare è un diritto ed è come un inserto
fantascientifico. Tutto molto a tesi, buonista, ghiottonerie
per antropologi alla Lévi Strauss.
(MAURIZIO PORRO, Il Corriere della Sera, 28 aprile 2006)
I COMMENTI DEL PUBBLICO
DA PREMIO
Letizia Serena Ragona - Bellissimo, pieno di poesia con paesaggi mozzafiato. L’interpretazione semplice, intensa e dolce
rende il film commovente. Anche il cane (ufficialmente il
vero protagonista) si fa amare da tutti i personaggi.
OTTIMO
Bruno Bruni - Dolce e poetico ambiente pastorale in una
Mongolia che la modernizzazione sta conducendo verso un
inevitabile percorso di inurbamento. Tradizioni e leggende si
confondono in una natura ancora incontaminata dove l’uomo
vive in simbiosi con l’equilibrio delll’ambiente da cui trae il
proprio sostentamento. Uno spaccato di vissuto familiare in cui
i bambini si divertono con ciò che li circonda e i rapporti interpersonali si mantengono in una spontanea vicinanza solidale.
Piergiovanna Bruni - Questo film è certo il frutto di una
struggente nostalgia per le origini di questa giovane donna
che ormai vive in un mondo civilizzato in cui la natura non
è più la sola protagonista.
Paolo Cipelletti - Un bellissimo film pieno di umanità e di
capacità di rappresentare la realtà, immerso in grandiosi paesaggi naturali.
Fiorella di Libero - Semplicità e arcaica purezza di vita conciliate con il mondo attuale (si vota, si va a scuola in città..)
nella esistenza scandita dalle stagioni e dalle necessità quotidiane di queste famiglie di pastori nomadi. La giovane regista ha la mano felice nel tenersi in misurato equilibrio tra
documenario etnico, fiaba, racconto minimalista attento alle
psicologie, ai sentimenti, alle problemtiche concrete e insieme al senso del trascendente. Nessuna noia e lentezza: i gesti
non perdono, nella loro ripetitività, il loro senso profondo,
ma serbano ciascuno un che di unico e prezioso, severo e
insieme amorevole.
Marilina Castelli Liva - Di una poesia indimenticabile!
Sima Terzi - Questo film mi è sembrato di eccezionale valore
per la forza poetica della sua storia dalla prima all’ultima
inquadratura. La spontaneità dei protagonisti, evidentemente
non attori, ma persone riprese durante la loro vita reale, dona
autenticità al film, come in un documentario, ma la sensibilità della regista riesce a cogliere espressioni, atteggiamenti,
parole, sia nei bambini che negli adulti, che ispirano da un
lato tenerezza mentre dall’altro fanno riflettere.
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Ugo Pedaci - Nel suo genere (documentario con storia) si
può definire un piccolo capolavoro. Un’opera delicata,
dolce, su una famiglia e un contesto veri. Due osservazioni
molto personali. La prima: lascerei un lavoro di questo
genere a margine della nostra classifica per il Premio – poco
“cinematografico” secondo il comune sentire, una piccola
gemma a sè stante. La seconda: avrei gradito il sonoro originale con qualche sottotitolo piuttosto che essere distratto
(direi disturbato) da un insulso doppiaggio.
Umberto Poletti - Una delicata pagina di poesia fra la morte
di un cane (che è poi la sigla della morte di tutti) e un’anonima jeep al servizio della propoaganda elettorale. Fra il duraturo reale (vita/morte) e l’effimero (votazione/politica) si
muove questa famiglia di quasi nomadi che mi hanno ricordato un altro mondo agreste (qui pastorale), quello de L’albero degli zoccoli. Poche parole, molti fatti, gesti concreti,
ambiente, natura, bambini, nostalgia di realtà umane o
scomparse o in via di dissolvimento.
Franca Galli - Finalmente un film che fa sorridere e che
esprime dolcezza e serenità.
Arturo Cucchi - Un documentario che diventa fiaba appassionante della vita quotidiana d’una famiglia di pastori nomadi che passano l’estate accampati in un paesaggio di straordinaria e impareggiabile bellezza. Tutto è narrato con semplicità. E i valori familiari, morali, assieme all’affetto vicendevole, alla serenità, al messaggio di unità fanno breccia nel nostro
cuore, anche nei momenti difficili, con tanta invidia.
Pierfranco Steffenini - A mezza via tra il documentario etnico e la favola folcloristica, Il cane giallo della Mongolia è un
film tenero e toccante. Interessa quanto apprendiamo sui
costumi di popolazioni così lontane da noi, che vivono a
contatto con una natura tanto affascinante quanto, a volte,
pericolosa.
BUONO
Luisa Alberini - “Sono tornati i lupi?” chiede Nansal a suo
padre, al ritorno a casa dalla città con ancora addosso il
grembiulino di scuola. Non sappiamo se i lupi lei li abbia
mai incontrati, ma capiamo subito che lei non è “Cappucetto rosso” e che non vive nel mondo delle fiabe. Eppure tra i
meriti che a questo film vanno riconosciuti c’è quello di
averci aiutato a ripensare l’infanzia. Non più quella strana
stagione in cui vivono i bambini oggi, fatta di un’agenda
piena di appuntamenti e di orari che non lasciano spazio ai
tempi della fantasia.
Nansal è la bambina che si ferma a guardare le nuvole, che
perde la strada di casa per cercare il suo cane, che guarda
cadere i chicchi di riso sulla punta di un ago e capisce quello
che nessuno potrà mai insegnarle in altro modo. Ha penetrato quel mondo dove paura e coraggio si mescolano senza
confine. Ne è uscita provando dolore e felicità, senza piangere, senza capricci, senza proteste: solo con il linguaggio
delle emozioni e del silenzio. Che ci ha trasmesso e di cui la
ringraziamo.
Carlo Chiesa - Si tratta di un quasi documentario. Ma se
questo genere di documentari informa, istruisce, interessa e
addormenta i cattivi istinti perchè non premiarlo con la
nostra simpatia?
Teresa Deiana - Gradevole tema, molto adatto all’atmosfera
prenatalizia quando più si va col pensiero a vasti paesaggi
incontaminati e a freschi sorrisi di bimbi.
M. Ferrante - Pur nella povertà della trama, nella semplicità
di una recitazione - non recitazione, nella ripetitività dei gesti
quotidiani e nella durezza di un ambiente non granchè attraente, questo piccolo film-documentario intenerisce, suscita simpatia e coinvolge anche lo spettatore abituato a trame e
sceneggiature più impegnative.
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