Cervantes, Pirandello e l`umorismo

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Cervantes, Pirandello e l`umorismo
note a margine | Cervantes, Pirandello e l’umorismo
Le consonanze della civiltà barocca con il Novecento sono state variamente individuate da critici e letterati. Emblematico risulta, in tal senso, il saggio L’umorismo (1908) di Luigi Pirandello, il più grande drammaturgo italiano
del secolo. In esso l’autore cita, tra gli altri personaggi affini alla sua arte “umoristica”, don Chisciotte di Cervantes.
L’umorismo, per Pirandello, è il «sentimento del contrario», distinto dal comico, che è invece «avvertimento del
contrario». In quest’ultimo caso noi avvertiamo l’atteggiamento del personaggio come estraneo ai nostri criteri di
giudizio e per questo ridiamo dell’anomalia; nell’umorismo, viceversa, ne comprendiamo le intime motivazioni, e
per questo ne proviamo compassione.
La descrizione che l’autore fa del sentimento che si impadronisce del lettore di fronte al personaggio di don
Chisciotte è, in tal senso, esemplare:
Noi vorremmo ridere di tutto quanto c’è di comico nella rappresentazione di questo povero alienato che maschera della sua follia sé stesso e gli altri e tutte le cose; vorremmo ridere, ma il riso non ci viene alle labbra schietto e
facile; sentiamo che qualcosa ce lo turba e ce l’ostacola; è un senso di commiserazione, di pena e anche d’ammirazione, sì, perché se le eroiche avventure di questo povero hidalgo sono ridicolissime, pur non v’ha dubbio
che egli nella sua ridicolaggine è veramente eroico. Noi abbiamo una rappresentazione comica, ma spira da
questa un sentimento che ci impedisce di ridere o ci turba il riso della comicità rappresentata; ce lo rende amaro.
Attraverso il comico stesso, abbiamo anche qui il sentimento del contrario. L’autore l’ha destato in noi perché s’è
destato in lui, e noi ne abbiamo già veduto le ragioni.
L’autore umorista, per Pirandello, è dunque caratterizzato dalla tendenza a “scomporre” la realtà, mettendo in crisi quella
costruzione della logica che ci porta a ritenerla come un universo compatto, organico, a noi pienamente comprensibile:
Per l’umorista le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate, come nelle nostre comuni opere
d’arte, in cui tutto è, in fondo, combinato, congegnato, ordinato ai fini che lo scrittore s’è proposto.
Si avvertirà facilmente in queste parole l’affinità con i fondamenti culturali e filosofici del Barocco. Non a caso
Pirandello cita ancora, come “umorista inconsapevole”, proprio Copernico, perché «smontò non propriamente la
macchina dell’universo, ma l’orgogliosa immagine che ce n’eravamo fatta», e dopo di lui Galileo con il suo cannocchiale, che, quando «l’anima nostra [...] salta a guardar di sopra, dalla lente più grande [...] diventa un terribile
strumento, che subissa la terra e l’uomo e tutte le nostre glorie e grandezze».
È evidente che questa propensione umoristica nasce da un’esperienza lacerante, personale o epocale, che non
ci consente di aderire oltre ai valori, rivelatisi illusori: dietro il sorriso demistificante dell’umorista vi è dunque una
profonda amarezza.
Nel caso di don Chisciotte, Pirandello l’attribuisce, oltre che alla crisi epocale, all’esperienza personale dell’autore, che aveva visto cadere, di ritorno da Lepanto, i valori eroici che lo avevano spinto a combattere contro i turchi
fino a subire la mutilazione della mano, e ancora, in seguito, aveva subito l’umiliazione del carcere:
La riflessione [...] frutto della tristissima esperienza della vita, esperienza che ha determinato la disposizione umoristica nel poeta, si era già esercitata sul sentimento di lui, su quel sentimento che lo aveva armato cavaliere della
fede a Lepanto. Spassionandosi di questo sentimento e ponendovisi contro, da giudice, nella oscura carcere
della Mancha, ed analizzando con amara freddezza, la riflessione aveva già destato nel poeta il sentimento del
contrario, e frutto di esso è appunto il Don Quijote.
Riportiamo qui di seguito una pagina illuminante del saggio pirandelliano dedicata al personaggio di Cervantes
e al suo autore.
L’umorismo di don Chisciotte
Ma si può dir questo veramente del Don Quijote del Cervantes? Si può dire e sostenere sul serio che l’intenzione
del poeta nel comporre il suo libro era solamente quella di toglier con l’arma del ridicolo ogni autorità e prestigio
che avevan nel mondo e presso il volgo i libri di cavalleria, a fine di distruggerne i mali effetti, e che il poeta non si
sognò mai di porre in quel suo capolavoro tutto quello che ci vediamo noi?
Chi è Don Quijote, e perché è ritenuto pazzo?
Egli in fondo non ha – e tutti lo riconoscono – che una sola e santa aspirazione: la giustizia. Vuol proteggere i
deboli e atterrare i prepotenti, recar rimedio agli oltraggi della sorte, far vendetta delle violenze della malvagità.
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Quanto più bella e più nobile sarebbe la vita, più giusto il mondo, se i propositi dell’ingegnoso gentiluomo potessero sortire il loro effetto! Don Quijote è mite, di squisiti sentimenti, prodigo e non curante di sé, tutto per gli altri.
E come parla bene! Quanta franchezza e quanta generosità in tutto ciò che dice! Egli considera il sacrificio come
un dovere, e tutti i suoi atti, almeno nelle intenzioni, son meritevoli d’encomio e di gratitudine.
E allora la satira dov’è? Noi tutti amiamo questo virtuoso cavaliere; e le sue disgrazie se da un canto ci fanno
ridere, dall’altro ci commuovono profondamente.
Se il Cervantes voleva far dunque strazio dei libri di cavalleria, per i mali effetti che essi producevano negli animi
de’ suoi contemporanei, l’esempio ch’egli reca con Don Quijote non è calzante. L’effetto che quei libri producono
in Don Quijote non è disastroso se non per lui, per il povero Hidalgo. Ed è così disastroso, solo perché l’idealità
cavalleresca non poteva più accordarsi con la realtà dei nuovi tempi.
Orbene, questo appunto, a sue spese, aveva imparato don Miguel Cervantes de Saavedra. Com’era stato egli
rimeritato del suo eroismo, delle due archibugiate e della perdita della mano nella battaglia di Lepanto, della
schiavitù sofferta per cinque anni in Algeri, del valore dimostrato nell’assalto di Terceira, della nobiltà dell’animo,
della grandezza dell’ingegno, della modestia paziente? che sorte avevano avuto i sogni generosi, che lo avevano
tratto a combattere sui campi di battaglia e a scrivere pagine immortali? che sorte le illusioni luminose? S’era
armato cavaliere come il suo Don Quijote, aveva combattuto, affrontando nemici e rischi d’ogni sorta per cause
giuste e sante, s’era nutrito sempre delle più alte e nobili idealità, e qual compenso ne aveva avuto? Dopo aver
miseramente stentato la vita in impieghi indegni di lui; prima scomunicato, da commissario di proviande militari
in Andalusia; poi, da esattore, truffato, non va forse a finire in prigione? E dov’è questa prigione? Ma lì, proprio lì
nella Mancha! In un’oscura e rovinosa carcere della Mancha, nasce il Don Quijote.
Ma era già nato prima il vero Don Quijote: era nato in Alcalà de Henares nel 1547. Non s’era ancora riconosciuto,
non s’era veduto ancor bene: aveva creduto di combattere contro i giganti e di avere in capo l’elmo di Mambrino.
Lì, nell’oscura carcere della Mancha, egli si riconosce, egli si vede finalmente; si accorge che i giganti eran molini
a vento e l’elmo di Mambrino un vil piatto da barbiere. Si vede, e ride di sé stesso. Ridono tutti i suoi dolori. Ah,
folle! folle! folle! Via, al rogo, tutti i libri di cavalleria!
Altro che plusvalenza futura! Leggete nello stesso prologo alla prima parte ciò che il Cervantes dice all’ozioso
lettore: «Io non ho potuto contravvenire all’ordine naturale che vuole che ogni cosa generi ciò che le somiglia. E
così, che cosa poteva mai generare lo sterile e mal coltivato ingegno mio, se non la storia d’un figlio rinsecchito,
ingiallito e capriccioso, pieno di pensieri varii non mai finora da alcun altro immaginati; generato com’ei fu in una
carcere, dove ogni angustia siede ed ha stanza ogni tristo umore?».
Ma come si spiegherebbe altrimenti la profonda amarezza che è come l’ombra seguace d’ogni passo, d’ogni
atto ridicolo, d’ogni folle impresa di quel povero gentiluomo della Mancha? E il sentimento di pena che ispira
l’immagine stessa nell’autore, quando, materiata com’è del dolore di lui, si vuole ridicola. E si vuole così, perché
la riflessione, frutto d’amarissima esperienza, ha suggerito all’autore il sentimento del contrario, per cui riconosce
il suo torto e vuol punirsi con la derisione che gli altri faranno di lui.
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