Tracce d`Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015

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Tracce d`Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
’Gli Errori di Orione’
di Fabio Marino
La Costruzione delle Piramidi di al-Jizah
di Giuseppe Badalucco
Intervista a LORENZO ROSSI
di Roberto Bommarito
Il Mito di Cristo nel Vangelo di Tommaso
di Domenico Rosaci
La Connection Extraterrestre
di Pier Giorgio Lepori
Mothman e altre Creature Misteriose
di Gianluca Rampini
L’Alchimia Trasformativa del Rosarium Philosophorum
di Michele Perrotta
La Ricerca Extraterrestre
di Federico Tommasi
Schiavi degli Dei
di Valentino Ceneri
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Contenuti
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Note a Margine
Rubrica del Direttore Gianluca Rampini
pag. 3
Introduzione alla TCO
di Archeomisterica
pag. 4
GLI ERRORI DI ORIONE
di Fabio Marino
pag. 6
LA COSTRUZIONE DELLE PIRAMIDI DI al-JIZAH
di Giuseppe Badalucco
pag. 20
CRIPTOZOOLOGIA - Intervista a Lorenzo Rossi
di Roberto Bommarito
pag. 45
IL MITO DI CRISTO
di Domenico Rosaci
pag. 52
LA CONNECTION EXTRATERRESTRE
di Pier Giorgio Lepori
pag. 56
MOTHMAN, SPRING HEELED JACK
di Gianluca Rampini
pag. 63
L’ALCHIMIA TRASFORMATIVA DEL ROSARIUM
PHILOSOPHORUM
di Michele Perrotta
pag. 70
LA RICERCA DI CIVILTA’ EXTRATERRESTRI
di Federico Tommasi
pag. 73
SCHIAVI DEGLI DEI
di Valentino Ceneri
pag. 85
www.associazioneaspis.net
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NOTE A MARGINE
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Rubrica del Direttore Gianluca Rampini
La rivoluzione è fallita. Sempre che sia mai
cominciata e che non fosse solo nella mia testa.
Con l'avvento dei social-network ho per lungo tempo
sperato che ciò producesse un'evoluzione del
“consumatore medio”, un progresso nella diffusione
dell'informazione. Ora, tendo a credere non a caso,
la situazione è talmente afflitta da immondizia
telematica, da bieca disinformazione, che ogni
speranza è ormai perduta. Per dover di precisione
devo dire che questo mio pensiero va
principalmente a Facebook, non frequentando gli
altri ( Twitter, Instagram ecc.. ). Se non fosse per
l'aiuto “tecnico” che ci da nell'allestire
comunicazioni, nell'intessere rapporti e nel dare
visibilità a ciò che facciamo l'avrei felicemente
abbandonato da tempo. Tristezza e disgusto, oltre
che saturazione, sono ciò che provo ogni volta che,
ipnotizzato, scorro i post di utenti che se pur “amici”
non conosco per niente.
La cosa peggiore da vedere è la guerra tra poveri
che da un verso ci hanno costretto ad intraprendere
e dall'altro ci raccontano spargendo nell'etere
tonnellate di falsità ed idiozie perfettamente tarate
per affibbiare colpe, demonizzare gruppi e in
definitiva farci distrarre dal precipizio che si avvicina
rapidamente e nel quale finiremo, a meno di
insospettabili risvegli da parte di noi tutti. Via via in
ordine decrescente vi è tutta un serie di argomenti
ormai infettati da stupidità e malafede. Non so a
qual punto della classifica ci sono l'ufologia, la
paleo-astronautica ed il paranormale in genere. Non
so negli altri paesi, ma in Italia abbiamo alcuni dei
più grandi fuoriclasse dell'ignoranza e dell'ottusità
mentale. Capirete se non faccio nomi ma sono certo
che ognuno di voi può pensare a più di un esempio
che conosce. Per non lasciar intendere che io creda
di esser al di sopra di tutto questo devo ammettere
candidamente di esser stato pure invischiato nella
foga dell'assurdo, nel dare notizie senza verificarle,
nel credere in teorie senza metterle veramente alla
prova. Per tirarmene fuori ho dovuto
sostanzialmente resettare tutto. Non ripartire da
zero perché sarebbe stato controproducente, ma di
certo ho dovuto smontare tutti i costrutti teorici su
cui mi basavo. Ho dovuto re-imparare ad usare
internet, a cercare le informazioni e sopratutto ad
evitare il qualunquismo per andare quanto più
possibile vicino alle fonti. Il che comprende anche, e
forse sopratutto, dedicare il proprio tempo di ricerca
sopratutto a testi ed autori di comprovata serietà.
Mettendo finalmente da parte il preconcetto della
“scienza ufficiale”, spauracchio della ricerca
ufologica e non solo per molti anni. Se la ricerca è
seria non si può evitare di occuparsi di testi
scientifici ( per scientifici si intenda storici/linguistici/
archeologici ecc... ) ai quali bisogna integrare il
lavoro eterodosso di coloro che prima di noi hanno
usato questo paradigma. E' un lavoro faticoso, è un
lavoro che può intimorire. Non dobbiamo temere di
confrontarci con la “scienza” così come non
dobbiamo pedissequamente cercarne
l'approvazione.
Non aspettiamoci che la rivoluzione sia là fuori, se
rivoluzione sarà, sarà solo dentro di noi. E senza
voler incedere in sbiaditi toni New Age, intendo solo
dire che dobbiamo crescere. Non esiste un livello,
un momento nel quale possiamo dire che siamo
arrivati. Per ora di certo siamo arrivati a questo
numero 26 di Tracce d'Eternità e ancora stiamo
cambiando, adattandoci ai tempi e cercando, per
quanto ci è possibile, di un offrire un prodotto ( se
pur gratuito ) che testimoni quanto vi ho detto poche
righe fa.
Buona lettura a tutti.
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INTRODUZIONE ALLA TCO
di Archeomisterica
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Da circa trent’anni ogni volta che si parla o si
osserva il trittico in pietra di al-Jizah, negli ambienti
sia degli addetti ai lavori che presso il grande
pubblico si fa riferimento ad una teoria rivoluzionaria
rispetto alla considerazione egittologica ortodossa
delle Tre Piramidi.
Proprio da qui partiremo con il fine di avere un’idea
chiara dello scacchiere su cui ci muoviamo. È infatti
necessario un riassunto della questione sul fronte
archeologico convenzionale e poi capire il punto di
vista dell’avanguardia. La piana di al-Jizah è la
propaggine nord – appropinquata al delta del Nilo
ed ormai quartiere orientale de Il Cairo – punta di
diamante di un’area definita Necropoli Menfita i cui
confini si estendono da Saqqara fino ad Abu Rwash,
passando per Menfi, Abusir, Zawyat-al-Aryan,
Dashour. La zona è assai ricca di monumenti definiti
funebri con forma piramidale da quella di Saqqara,
la Piramide a gradoni del Faraone Djoser
(cronologicamente la più antica, 3150 a.C. circa),
fino alle costruzioni di Zawiat-al-Aryan ed Abu
Rwash. Le realizzazioni egizie, comunque, si
estendono ben aldilà di questa zona giungendo fin
nel profondo sud, le cosiddette ‘piramidi nubiane’.
Cosa sono secondo l’Ortodossia? Monumenti
funebri. Tombe è la risposta semplice tout-court, le
estreme dimore dei Faraoni. In particolare quelle di
al-Jizah sono persino circondate da sepolcri a
mastaba e quindi rafforzano questa idea che nasce
sostanzialmente tra il 1798 – missione napoleonica
in Egitto – e i primi del ‘900. In soldoni gli egittologi
sostengono, secondo la tesi più accreditata, che i
monumenti funerari piramidali siano cenotafi eretti al
di sopra delle originarie sepolture a mastaba.
Eppure, a partire da Erodoto e transitando
attraverso i racconti del califfo al-Mamun che
penetrò all’interno dell’Orizzonte di Khufu (Piramide
di Cheope) intorno al 820 d.C., nessuno mai ha
trovato corpi, mummie o altro in questi giganti di
pietra. I primi dubbi sulla bontà della tesi funeraria
appioppata ai monumenti piramidali dell’Egitto
Dinastico risalgono, in una primeva forma
strutturata, agli Anni ’60 dello scorso secolo; in
senso antropologico attraverso l’opera di De
S a n t i l l a n a e Vo n D e c h e n d , l a t i t a n i c a
reinterpretazione della storia e dei Miti nel testo ‘Il
Mulino d’Amleto’; più divulgativi e nazionalpopolari,
grazie ad una corrente avanguardista che vanta i
suoi capostipiti in ricercatori indipendenti come lo
statunitense Robert K. G. Temple il quale, attraverso
una lettura di frontiera sulla considerazione che i
Dogon avevano della stella Sirio, dà il via ad una
serie di speculazioni con principi poco seri giacché
la propria tesi era una distorsione di analisi accurate
fatte dall’etnologo Griaule e dalla antropologa
Dieterlen proprio sui Dogon e riportate da De
Santillana e Von Dechend. Incurante della
millanteria e forte del sensazionalismo allora
scatenato, ecco giungere il continuo di quel testo
ovvero ‘Il Mistero di Sirio’ ad opera di Murry Hope la
quale trasporta in Egitto la tesi di Temple
ipotizzando il contatto tra questo popolo e una
popolazione di origine extraterrestre dalle fattezze
leonine.
In quegli stessi anni, intorno alla prima metà degli
’80, i testi di Temple, le ricerche della Hope, ‘Il
Mulino’ di De Santillana e Von Dechend ma
soprattutto un’altra grandissima opera, ‘Serpent in
the Sky’ di J. Anthony West, influenzeranno e
diverranno sostrato per le ricerche di un ingegnere
appassionato di Egitto ed egittologia: Robert Bauval.
L’approccio metodologico è rivoluzionario, si tratta
infatti di concepire la storia di un popolo non solo
sotto il profilo archeologico ma olistico, a tutto tondo
compresa astronomia, mitologia, antropologia,
fisica, matematica, filosofia e via discorrendo. Già A.
Posnansky nel 1945 introdusse uno studio sul
Kalasasaya a Tiahuanaco di tipo archeoastronomico
ovvero misurando gli allineamenti tra i monumenti e
le costellazioni sospette di esserne i modelli
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Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
risalendo pertanto ai periodi reali di costruzione e
d’interpretazione.
Dal 1984 Bauval ha rovesciato sulla testa degli
egittologi ortodossi una carrellata di informazioni
archeoastronomiche da fare accapponare la pelle
dimostrando, nei fatti, la diversa destinazione del
trittico di Rostau (alla lettera 'la porta delle stelle')
nella piana di al-Jizah tutt'altro che sepolcri bensì lo
specchio terreno del Duat con le Tre Piramidi a
simboleggiare l'asterismo principale ovvero la
Cintura di Orione. L'Autore scrive due testi
fondamentali (‘Il Mistero di Orione’ e ‘Il Codice
Egizio’) più una serie di articoli, conferenze ed
interviste presso i maggiori media internazionali
compresa la diretta BBC quando il robot 'Upuaut II'
nel 1993 – progettato da Rudolph Gantenbrink –
risale il condotto nord di Khufu e scopre la famosa
'porta' tutt'oggi ancora – dopo le esplorazioni del
2002 e del 2004 – oggetto di dibattito.
Bauval racconta la sua illuminazione durante una
notte negli Anni ’80 in cui osservava dall’alto la
piana di Rostau e contemporaneamente la volta
celeste. Ad un certo punto il suo sguardo fu
catturato dalla Cintura d’Orione e lì, egli narra ne ‘Il
Mistero di Orione’, ebbe la sua ‘mela di Newton’.
Successivamente elaborò l'intuizione attraverso un
software astronomico, Skyglobe 3.0; stando agli
allineamenti stellari dei condotti nord-sud presenti
sulla Grande Piramide essi puntavano decisamente
su Ursa Minor e Orion: seguendo un preciso
coordinamento con il vecchio detto egizio: 'come in
alto così in basso', fece sì che Skyglobe trovasse il
perfetto allineamento tra l'asterismo e i tre
monumenti delineando un asse tra Khufu e Alnitak,
prima di Cintura, Zeta Orionis. Ne venne fuori la
fatidica data del 2550 a.C. ovvero 4.500 anni or
sono quando il condotto che puntava ad Orione era
perfettamente allineato con la stella in questione. La
data fu aggiustata tra il 2550 e il 2450 a.C. per
ragioni ortodosse. Da quel momento la Teoria della
Correlazione con l’Orione diviene il punto di forza
dell’avanguardia arricchendosi di scrittori e
ricercatori indipendenti come Graham Hancock,
Adrian Gilbert, Colin Wilson e altri. La TCO sembra
davvero la ‘spina nel fianco’ dell’Ortodossia.
Ma qualcosa non torna…
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GLI ERRORI DI ORIONE
di Fabio Marino
(parte I)
AVVERTENZA
La bibliografia relativa all'intero lavoro,
sebbene ridotta al minimo e ai soli titoli dei testi,
articoli e pubblicazioni utilizzati, sarà pubblicata in
calce all'ultima parte del lavoro stesso per evitare di
appesantire troppo la lettura con note e rimandi.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
!
L'origine e il motivo di disposizione e
allineamento di alcuni dei più importanti monumenti
egizi sono, com'è noto, altamente dibattuti. Da
almeno un paio di secoli, si fronteggiano non meno
di due correnti di pensiero (con relative sfumature),
afferenti rispettivamente alla visione "legittimista",
classica e ortodossa dell'Egittologia, e viceversa a
una idea "alternativa", eterodossa e che spesso
purtroppo è sfociata in degenerazioni
piramidologiche assolutamente non condivisibili,
anche -e non solo!- per motivi matematici. La
pubblicazione nell'ormai lontano 1969 del classico e
monumentale "Mulino di Amleto" da parte di due
giganti come Giorgio de Santillana e Hertha von
Dechend ha prodotto profonde revisioni
archeologiche sia nell'interpretazione di miti e
leggende (spesso contenenti interessanti riferimenti
di natura astronomica), che nella valutazione e rivalutazione di centinaia di siti di scavo sparsi per il
mondo sulle basi di sempre più approfondite
correlazioni archeoastronomiche. Ha altresì
prodotto, come effetto collaterale, la nascita e lo
sviluppo di una congerie di ipotesi e teorie (più o
meno fantasiose), sorte con lo scopo di ridiscutere
quasi ogni conclusione dell'archeologia ortodossa. Il
che, si intende, non è un male in sé. Un posto
certamente di rilievo, che in ogni caso ha prodotto
alcune notevoli revisioni da parte dell'Egittologia
"ufficiale", è l'ipotesi, formulata originariamente dal
noto ingegnere Robert Bauval (belga, ma egiziano
di nascita) e da Adrian Gilbert, nota come "Teoria
della Correlazione di Orione" (d'ora in poi
abbreviata in TCO).
FIGURA 1 - copertina del libro "Il mistero di Orione"
Questa ipotesi (forse “teoria” è un termine troppo
impegnativo) ha rapidamente guadagnato terreno
sia fra i “revisionisti”, fra i quali sono stati
rapidamente arruolati Graham Hancock, John
Anthony West e il compianto Colin Wilson (ma non il
geologo Robert Schoch, che si muove su basi più
prudenti), sia fra gli amatori, gli “appassionati lettori”
e numerosi “ricercatori indipendenti” di terza o
quarta mano. Io stesso confesso di dover essere in
qualche misura debitore, per quanto riguarda le mie
modeste ricerche e i miei interessi, al libro "Il
mistero di Orione", alle cui tesi ho
entusiasticamente aderito per molti anni.
Successivamente, tuttavia, un'analisi condotta da
qualche tempo a questa parte, attraverso un'attenta
ri-lettura degli scritti di Bauval e soci nonché delle
tematiche relative (aspetti paleoclimatici,
archeologici, epigrafici, mitologici, astronomici), mi
ha portato ad assumere una posizione piuttosto
critica nei confronti di TCO e addentellati vari.
Naturalmente, non sono il primo a esprimere
ampie riserve sulla teoria di Bauval; in ogni caso,
molte di queste riserve mi sono sembrate piuttosto
"settorializzate", per cui è difficile cogliere la serietà
delle obiezioni, spesso perse in parecchi rivoli che
ne impediscono la visione d'insieme. Di qui, l'idea di
confutare (o semplicemente correggere) l'ipotesi del
belga in un unico scritto che comprendesse quanti
più elementi possibile, per fornire al Lettore (si spera
con sufficiente chiarezza) i motivi per cui non si può
aderire, in tutta sincerità, a questa pur coraggiosa
idea, che in ogni caso lascia comunque irrisolte
molte questioni sulla Civiltà del Nilo; di qui, l'idea di
7
un articolo, di stampo divulgativo ma –mi augurocomunque rigoroso, per fare il punto almeno
parziale della situazione.
La prima pubblicazione dei fondamenti della
TCO avvenne nel 1989 sul numero 13 della rivista
"Discussion in Egyptology",
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
!
FIGURA 3 - Costellazione di Orione
che si innalzava nel limpido cielo africano. Questo
asterismo, molto grande, ha essenzialmente cinque
grossi riferimenti per l'occhio nudo: a Nord-Est, la
stella arancione Betelgeuse
!
FIGURA 2 - il n° 26 della rivista "Discussions in
Egyptology"
curata da una grande egittologa (seppur eretica -ma
non eterodossa!), la prof.ssa Alessandra Nibbi.
Bauval riprese molte volte su quella rivista le sue
tesi (ad esempio, nei numeri 26 e 28, e anche
successivamente), che sono estremamente note,
per cui le riassumerò molto brevemente.
Molto poeticamente, Bauval racconta che
una notte, mentre si trovava ai margini del deserto
egiziano, ebbe a notare la costellazione oggi nota
come Orione:
!
FIGURA 4 - Costellazione di Orione - la freccia
indica Betelgeuse
(nome derivato dall' arabo "‫وزاء‬%% ‫ج‬% % % % % % ‫د ال‬%% % % % % % ‫”ي‬, Yad alJawzāʾ, "la mano di al-Jawzāʾ [Gigante]"); a SudOvest la brillante e bianco-azzurra Rigel
8
!
in seguito i motivi. La costellazione di Orione,
sebbene così chiamata per via della derivazione di
quasi tutti i nomi celesti moderni dalla mitologia
greca, ha certamente affascinato nel corso del
tempo moltissime civiltà e culture. Un breve
riassunto utile per i nostri scopi è presente in
Wikipedia: "Nella mitologia norrena la cintura era
considerata come la canocchia di Frigg o di Freyja.
Nella mitologia ugro-finnica, invece, le stelle della
cintura rappresentavano la falce o la spada di
Väinämöinen. Al contrario, di origine biblica sono i
nomi di «Bastone di Giacobbe» o «Bastone di
Pietro», così pure come quello di «I tre Re» o «I tre
Magi». Presso i clan di etnia Seri del nordovest del
Messico le tre stelle erano conosciute
collettivamente come «Hapj» (un nome che denota
un cacciatore). Singolarmente invece esse venivano
chiamate «Hap» (Cervo Mulo),
«Haamoja» (Antilocapra) e «Mojet» (Bighorn).
«Hap» è Alnilam ed è stata ferita dal cacciatore; il
suo sangue è gocciolato sull'isola di Tiburón."
Apparentemente agganciata proprio alla Cintura si
trova la "Spada di Orione" (forse la regione del cielo
maggiormente fotografata da astrofili e
professionisti, per via del gran numero di formazioni
del Profondo Cielo ivi presenti).
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FIGURA 5 – la stella Rigel
(dall’arabo “Rijl jawza al-yusra”, che significa "il
piede sinistro di Colui che è Centrale", cioè Orione);
in posizione quasi centrale rispetto a queste stelle, e
con direzione diagonale da Sud-Est a Nord-Ovest
!
FIGURA 6 - la Cintura di Orione
c'è la famosa Cintura di Orione, composta da tre
stelle di luminosità piuttosto elevata: per l’appunto
da Sud-Est a Nord-Ovest, e separate fra loro da
pochissimi gradi, troviamo Alnitak (nome che, come
gli altri, deriva dall'arabo ‫اق‬%% ‫ط‬% %‫ن‬% % % % % % ‫“ ال‬An-nitaq”, che
significa “La cintura”); Alnilam, la stella centrale
(‫نظام‬%% % ‫" ل‬An-niżām", correlato al termine ‫ظم‬%% % ‫" ن‬Nażm",
"Fila di perle"); Mintaka (‫ة‬%% ‫ق‬% ‫ط‬% ‫ن‬% % % % % % ‫“ م‬Manţaqah”, cioè
"Cintura"). Un dato importante da tenere a mente
d’ora in poi è rappresentato dalla magnitudine
apparente dalla Terra di questi tre astri:
rispettivamente 1.74, 1.69 e 2.21: si noti che il
numero più piccolo esprime una luminosità
maggiore, anche a livello dei decimali. Un altro
dato di rilievo è rammentare che la stella più a Sud
è Alnilam, quella più a Nord Mintaka: ne vedremo
!
FIGURA 7 - Spada di Orione - immagine di Lorenzo
COMOLLI, 1998
9
La cosiddetta "Spada" è costituita da un
raggruppamento di astri che comprende, fra l'altro,
anche la celeberrima Nebulosa di Orione
(
periodo compreso fra 32.500 e 38.000 anni.
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!
FIGURA 8 - Nebulosa di Orione (M42) - Foto
dell'Autore
e che, come la Cintura, ha una lunga storia di
osservazioni e di "attenzioni", fin dall'antichità e
presso le più diverse culture. La stessa Wikipedia
così efficacemente sintetizza: "Tra le sue
componenti ha una posizione fondamentale la
Nebulosa di Orione (M42): creduta in antichità una
semplice stella, magari un po' sfocata, si rivela
essere una delle più grandi nebulose conosciute,
nonché la più luminosa osservabile dalla Terra e la
più studiata. Grazie all'osservazione di questa
nebulosa, gli scienziati hanno potuto osservare e
studiare gli stadi fondamentali della formazione
stellare. Fra le tre stelle della Spada sono presenti,
oltre alla Nebulosa di Orione, altri due sistemi
nebulosi importanti: uno è costituito dalla Nebulosa
De Mairan (M43), in realtà direttamente connesso
con la Nebulosa di Orione, e a nord, NGC 1977, una
nebulosa a riflessione illuminata dalla stella 42
Orionis." A parte il grande interesse astronomico e
astrofisico, è evidente che un asterismo così grande
non può non aver catturato l'attenzione dei popoli fin
dall'antichità, come visto più sopra. Alcuni, forse un
po' troppo arditamente, identificano la costellazione
addirittura in un manufatto (una sottile tavoletta)
trovata nel 1979 in una caverna nella valle di Ach,
nel Giura di Svevia, in Germania. La datazione al
C14 delle ceneri di ossa trovate in un deposito
vicino alla tavoletta fanno supporre che risalga a un
!
Viene attribuita ai misteriosi Aurignaziani,
una popolazione di cui sappiamo davvero poco, se
si eccettua il fatto che entrarono in Europa
verosimilmente dall'est sostituendo l'uomo di
Neanderthal.
Ritornando però al racconto iniziale di
Bauval, si apprende che -osservando, come detto,
la costellazione e la sua Cintura nella nera oscurità
del deserto- egli ebbe un'intuizione, che poi mise
ripetutamente alla prova: le tre grandi piramidi di
Gizah (e forse non solo esse) erano state costruite
per raffigurare nella terra d'Egitto, corrispettivo del
Cielo per via del suo stretto rapporto con le Divinità
celesti, una mappa terrena di Orione (e
probabilmente di altre costellazioni), sfruttando
anche la vicinanza della piana con il Nilo,
equivalente della "Via d'Acqua Tortuosa" posta nel
firmamento (la Via Lattea). A riprova delle loro
affermazioni, Bauval e Gilbert riportano
l'impressionante sovrapposizione di una
astrofotografia (in verità un po' vecchia) delle stelle
della Cintura con una ripresa dall'alto delle Grandi
Piramidi, davvero suggestiva.
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astronomicamente orientati verso Thuban
(Alfa del Dragone - all'epoca stella polare),
la Cintura di Orione, la stella Sirio (Alfa del
Cane Maggiore, la stella più brillante del
cielo -in egizio: Sopdet; in greco: Sothis) e
Kochab (Beta dell'Orsa Minore), in maniera
intenzionale e non per mera coincidenza.
Ovviamente, questo fatto (l'intenzionalità)
fissa definitivamente una data-limite per la
costruzione del monumento, e
l'affermazione si basa sui lavori pionieristici
di Badawy e Trimble;
!
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
FIGURA 9 - Fotografia e composizione di Robert
Bauval
Tralasciamo del tutto, in questa sede, l'ipotesi,
altrettanto alternativa, di una corrispondenza, invece
che con Orione, con la costellazione del Cigno, e
vediamo dove cercano di condurci Bauval, Gilbert e
Hancock (i principali sostenitori della TCO).
Innanzitutto, precisiamo che all'interno della teoria
trova posto anche la Sfinge, il cui ruolo (purtroppo
anch'esso errato...) verrà analizzato
successivamente nel corso di questo lungo articolo.
La TCO "completa" viene esplicitata da
Bauval nel corso della sua ormai notevole
produzione bibliografica. In estrema sintesi, il
ricercatore belga ritiene (essendosi avvalso della
sua intuizione oltre che di programmi -non
eccessivamente sofisticati- di simulazione
astronomica per PC):
-
che esista una pressoché perfetta
corrispondenza fra le tre piramidi attribuite
a Cheope, Chefren e Micerino e la posizione
celeste delle stelle della Cintura di Orione;
-
che tale corrispondenza sia però
chiaramente fissata, grazie ai fenomeni
processionali per cui la costellazione di
Orione "si alza" e "si abbassa" rispetto
all'orizzonte di Gizah durante il Grande
Anno (o Anno Platonico, pari a circa 25.920
anni), al 10.500 a.C. circa, tempo che
Bauval ritiene descrivere lo Zep Tepi o
Primo Tempo, con cui gli Egizi fanno iniziare
la storia mitica dell'Egitto;
-
che i quattro condotti interni presenti
nella Camera del Re e della Regina della
Grande Piramide di Cheope (già definiti
come "pozzi di aereazione") siano
-
che grazie a tale allineamento questi
condotti "puntino", di fatto, a una data
specifica, per cui di fatto "fissano" con
precisione la data di costruzione della
piramide stessa, e questa data è circa il
2.550 a.C. (corrispondente in pieno,
dunque, con la datazione/cronologia
dell'Egittologia classica);
-
che esistano corrispondenze molto
strette fra l'intera costellazione di Orione
e la disposizione al suolo di parecchie
piramidi egizie, le quali complessivamente
riprodurrebbero l'intero asterismo;
-
che, in definitiva ed eccezion fatta per la
Sfinge, per il suo Tempio e per il Tempio
della Valle (si veda in seguito), la datazione
classica delle piramidi è sostanzialmente
corretta; la novità introdotta da Bauval
risiederebbe nella concezione del
progetto complessivo della piana di
Gizah. Secondo questo autore, infatti,
esisterebbe e sarebbe dimostrato dalle sue
ricerche e simulazioni archeoastronomiche
un progetto specifico, terminato nel III
millennio a.C. dagli Egizi, concepito però
nell'XI millennio a.C. (più o meno al
presunto termine dell'ultima era glaciale) per
indicare, accanto alla conoscenza esoterica
della precessione degli equinozi, un preciso
"percorso iniziatico" sulla via del Sole, dei
solstizi e degli equinozi. Bauval & co., in
ogni caso, non fanno alcuna supposizione
esplicita e concreta sulla civiltà responsabile
di un simile piano.
Cassando, in questa sede, quanto non relativo
all'antico Egitto (di fatto e più o meno
implicitamente, Bauval si allinea a Hancock, Collins,
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
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Wilson, West e quant'altri collegano Stonehenge,
Nabta Playa, Yonaguni, Bimini, Olmechi, Maya,
Angkor Wat in un unicum che rappresenta
l'estrema eredità di una super-civiltà
preesistente a quelle storiche), l'ingegnere belga,
riassumendo, ipotizza (NdA: aggiornamento
dell'idea-base alla data del suo libro: "Il mistero
della genesi" -titolo originale: "Black genesis") che
sia esistita una società altamente evoluta, la quale
circa 12.000 anni fa per motivi imprecisati ha
ritenuto di dover trasmettere un messaggio
codificato attraverso la rappresentazione nella Valle
del Nilo di figurazioni celesti, rappresentazione
probabilmente iniziata con la Sfinge e/o con i cerchi
di Nabta Playa e conclusa circa 8.000 anni più tardi,
secondo modalità mai precisate, con
l'edificazione delle tre grandi piramidi.
Un'avvertenza è d'obbligo. Ci troviamo di fronte,
purtroppo, a un tentativo affascinante quanto
imbarazzante di mettere insieme svariate idee in
libertà, senza un reale filo logico. Bauval spesso
appare sconvolto e folgorato, nel corso dell'intera
sua produzione e anche all'interno di uno stesso
libro, da rivelazioni assai diverse per importanza e
per datazione, al punto che è oggettivamente
complicato tenere dietro a tutti i numeri e alle date
che di volta in volta egli propone. Si ha talora
l'impressione che estragga numeri a caso, oppure
che tenda a dare ragione all'ultima nozione che ha
acquisito nel corso delle sue ricerche,
indipendentemente dal loro reale valore in relazione
alla sua ipotesi. Mi auguro di essere più chiaro di lui,
ma è difficile, e auspico l'indulgenza del Lettore.
D'altra parte, Ian Lawton e Chris Ogilvie-Herald
hanno avuto le medesime "difficoltà", come
riportano nel loro libro ("Il codice di Giza"): “Il loro
(NdA: di Bauval e Hancock) atteggiamento lascia
sempre interdetti e perplessi. Chi legga questa loro
opera, la prima dedicata a questi argomenti, non
può che uscirne fuori con le idee molto confuse in
merito alla datazione ascrivibile alle Piramidi… i
due autori ritengono che esse siano state disposte
sulla Piana di Giza come rappresentazione in Terra
delle stelle della Cintura di Orione così come questi
astri apparivano ai nostri occhi 10.500 anni or sono,
anche se, per l’evidenza
di altre disposizioni
astronomiche sono costretti ad accettare l’ipotesi
ortodossa che le dice concretamente innalzate
soltanto 8000 anni dopo. In verità disaccordano con
l’Egittologia ufficiale solo sulla datazione della
Sfinge e dei templi ad essa collegati, ma prima di
arrivare a capire tutto questo, districandosi nella
generale confusione, è necessario rileggere più di
una volta il loro libro (NdA: qui il riferimento è a
«Custode della Genesi»)… Una cosa è comunque
certa: il filo della discussione è talmente
ingarbugliato e poco chiaro che la logica che lo
sottende si smarrisce”.
Prima di proseguire, è meglio esaurire fin da
subito anche i motivi del mio rifiuto, e di quello della
Comunità scientifica internazionale, di talune
interpretazioni pseudomatematiche e a sfondo
piramidologico. In primo luogo, perché i calcoli
vengono effettuati sempre e comunque utilizzando
unità di misura assolutamente arbitrarie: si parli di
miglia o chilometri, di metri o piedi, di leghe o
cubiti (reali o non) il risultato non cambia. Non
esiste nessuna prova che gli Egizi o chi per loro
fossero "usi all'uso" di unità di misura a noi note.
Ovviamente del tutto diverso è il discorso aperto
da considerazioni fondate sullo studio di
proporzioni, che restano le medesime
indipendentemente dalla misura adoperata: si pensi
alla ormai assodata conoscenza del π da parte dei
Nilotici (abbastanza ben approssimato, con un
valore oscillante fra 3.16 e 3.145), o del ø, entrambe
di fatto incorporate in molti monumenti, anche
dell’Antico Regno.
In secondo luogo, perché spesso con numeri e
misurazioni si può giocare. Ad esempio, per chi
vuole divertirsi ho trovato questa bizzarra
elucubrazione in Rete:
!
FIGURA 10
il signor Veloso Emerson ha trovato (non so quanto
provocatoriamente…) un'evidente correlazione (sic!)
fra il tempio cambogiano di Angkor Wat e casa sua,
in quel di Florianopolis (capitale dello stato di Santa
Caterina, in Brasile). Utilizzando la "sicura
conoscenza matematica" degli antichi Indù (che - a
dire il vero- con la Cambogia e il Brasile c'entrano
12
poco o nulla), il signor Emerson ha tirato fuori
questa serie di formule (si guardi anche la figura):
cos a = cos b . cos c + sen b . sen c . cos A
cos a = cos 76,6° x cos 62,3° + sen 76,6° . sen
62,3° . cos 27,5°
cos a = 0,107726… + 0,763973… = 0,871699…
Inv(cos) a = 29,34°
360° -------------------- 2piR
29,34° --------------------- d
d = 2piR x 29,34°/ 360°
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
d = 2pi x 6.371km x 0,0815
d = 3.262 km
D = piR - d = pi x 6.371km - 3.262 km = 20.015km 3.262 km
D = 16.753 km
grazie alle quali, in buona sostanza, conclude che
esiste una correlazione ineccepibile fra la sua
città e Angkor Wat: le formule, insomma,
permettono di verificare che tra Florianopolis e il
tempio c'è una distanza pari a 16.753 Km, a fronte
di una misurazione effettiva (tramite Google Earth)
di 16.759 Km. Chiaramente, qui ci troviamo davanti
a un mistero nel mistero: come abbia fatto una
qualunque civiltà di migliaia di anni fa a prevedere
addirittura l’esistenza del sistema GPS.
Gli stessi Ian Lawton e Chris Ogilvie-Herald,
inoltre, nel loro accurato "Il codice di Giza" su
accennato così giustamente osservano: "Le nostre
correnti unità di misura (piedi, metri ecc.) devono
essere accuratamente convertite nelle arcaiche
unità di misura degli Egizi, quali il cubito e la stadia
lunga – di cui nei tempi antichi e classici esistevano
infinite varianti –, sapendo sin da principio, per
quanto ci viene da prove scritte e architettoniche,
che una conversione esatta è pressoché
impossibile, non disponendo di una «ratio»
codificata e riconosciuta per questa conversione".
Mi sembra con questo di aver detto tutto al
riguardo, non credete?
Cominciamo ora l'analisi vera e propria, che
ci porterà a concludere che l'ipotesi di Bauval è
purtroppo insostenibile, e non è nemmeno
granché brillante, nonostante la sua grande
popolarità e lo strombazzamento a cui è
sapientemente tuttora sottoposta.
Va subito detto che la TCO è viziata
all'origine dall'uso stesso del metodo utilizzato
per testarla. Oltre l'apparenza granitica dell'uso di
procedure informatiche, il programma usato (un
banale software commerciale concepito addirittura
per il DOS) è assolutamente "primitivo" e di
conseguenza i risultati ottenuti sembrano essere
del tutto inadeguati e scorretti. In altri termini,
non corrisponde al vero che esiste una
corrispondenza fra la Cintura celeste e quella
presunta "terrena", in nessuna epoca. Non solo, ma
esistono considerazioni astrofisiche, come vedremo,
che gettano parecchie ombre sulla ipotesi di
Bauval per via della possibile evoluzione stellare
degli astri, elemento non tenuto in conto
dall'ingegnere belga: ne farò cenno in seguito,
rimandando il Lettore desideroso di un ulteriore
approfondimento a uno specifico articolo presente
nella bibliografia. Una dettagliata analisi sulle
capacità e sulle pecche dei software astronomici
comunemente in uso è presente in questo stesso
numero, a cura di Giuseppe Badalucco, per cui
ritengo inutile ripetere gli stessi concetti in questa
sede. Basti solo ricordare che: "…(per) questi
software occorre precisare che alcuni di essi non
sono considerati software di natura
professionale, per cui gli stessi produttori, che li
hanno elaborati, per correttezza, hanno
espressamente avvertito gli utilizzatori che tali
programmi sono configurati per fornire posizioni
planetarie, costellazioni, e altri dati con margine
d'errore minimo entro un'epoca compresa fra il
3.000 a.C. e il 3.000 d.C. (tra questi si possono
ricordare alcuni importanti software come
Skyglobe, Stellarium, WinStars e altri). Da ciò
sicuramente si deduce che, seguendo le indicazioni
fornite dagli stessi produttori, è possibile ipotizzare
che tali software non possano fornire
informazioni del tutto attendibili per epoche
lontane, come il 10.500 a.C. su cui … lavorarono
Bauval e Hancock nei propri scritti (nel 1994
operarono simulazioni su Skyglobe), per cui per
periodi di tempo così lontani rimangono seri dubbi e
perplessità sui dati esposti. Alcuni studiosi (si veda
per esempio il Prof. Piero Massimino
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
13
dell'Osservatorio di Catania) hanno elaborato dei
software disponibili su siti di gruppi astrofili che sono
settati per tenere conto di tutte le problematiche
relative alla rappresentazione delle configurazioni
celesti, compresi i problemi relativi alle epoche
lontane, in cui gli effetti della precessione su
tempi lunghi non sono del tutto facilmente
comprensibili (per esempio Skydraw)" (G.
Badalucco, "CONSIDERAZIONI SULLO
SPOSTAMENTO PRECESSIONALE DELLE
COSTELLAZIONI ZODIACALI E SUL
FUNZIONAMENTO DEI SOFTWARE
ASTRONOMICI", ASPIS 2013 -il grassetto è mio).
Inoltre, come già rilevato da più di 15 anni da
astronomi del calibro di Ed Krupp (Griffith
Observatory, Los Angeles) e del compianto
Anthony Fairall (Dipartimento di Astronomia
dell'Università di Città del Capo) le immagini
proposte da Bauval e quant'altri sono tutte
completamente errate nell'orientazione. Non dico
assolutamente che sia stata un'operazione
fraudolenta, intendiamoci. Eppure, le mappe sono
tutte sbagliate. Passi per il fatto che nei libri
l'orientamento delle figure è capricciosamente
variabile, e non rispondente quasi mai alla
convenzione internazionale secondo cui il Nord è
visualizzato in alto (e, conseguentemente, il Sud in
basso, l'Est a destra e l'Ovest a sinistra). Dà da
pensare, in ogni caso, proprio l'immagine "primeva"
prodotta da Bauval. Guardiamola di nuovo, con
attenzione:
!
FIGURA 11 - R. Lepsius
e, se non bastasse, da questa ripresa dall'alto
ottenuta con Google Earth:
!
!
FIGURA 9
Da essa sembrerebbe assolutamente evidente che,
in effetti, "come in alto, così è in basso". Giusto?
Incontestabile? Assolutamente sbagliato. In
realtà, il trucco c'è. E si vede pure, specialmente se
raffrontato con questa riproduzione (tratta da un
articolo in rete di Krupp):
FIGURA 12 - il terzetto di Gizah ripreso da Google
Earth
Chiaro l'arcano? Se non lo è, un poco di pazienza e
di sforzo, e sarà tutto di solare evidenza.
Nella famosissima foto di Bauval, il terzetto di
Gizah è doppiamente invertito e ribaltato
rispetto alla realtà. Mentre le stelle della Cintura
sono, nonostante la vetustà dell'immagine,
14
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
correttamente raffigurate (si veda anche la
FIGURA 13, qui sotto)
!
FIGURA 14 - il terzetto di Gizah dopo sola
riflessione orizzontale
ma quadra magicamente dopo una seconda
riflessione sull'altro piano, ad esempio quello
verticale:
!
FIGURA 13 - stelle della Cintura di Orione - da R.
Bauval
e sono quindi dal basso in alto (o, meglio, da
Sud-Est a Nord-Ovest…) Alnilak, Alnilam e
Mintaka, le tre piramidi vengono invece
scorrettamente rappresentate, riflesse/ribaltate
una volta secondo il piano verticale e una volta
secondo quello orizzontale. La reale
rappresentazione delle Grandi Piramidi sul
terreno, in effetti, è quella delle figure 11 e 12.
Però, se -attraverso un qualunque programma di
grafica: io ho usato IrfanView- si sottopongono le
immagini reali dei tre monumenti (prendiamo come
esempio la figura 12) ad una sola
"riflessione" (come la chiama il programma) sul
piano ad esempio orizzontale, il risultato continua a
"non quadrare":
!
FIGURA 15 - il terzetto di Gizah dopo riflessione
orizzontale e verticale
"C'est plus facile, ne pas?" (cit.)
Ed ecco, per comodità, come compare
realmente la presunta sovrapposizione delle stelle
mantenendo il Nord in alto (ho usato per maggiore
chiarezza la stessa foto della Cintura usata da
Bauval):
15
1 - senza alcuna riflessione (cioè, come
effettivamente si vedono le stelle, e come
effettivamente sono disposte sul terreno le
Piramidi - ricordo che la Grande Piramide è quella
più scura, "a destra"):
!
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
FIGURA 18
!
FIGURA 16
non esiste la benché minima sovrapposizione di
Cielo e Terra. D'accordo, entrambi i gruppi sono
composti da tre unità, ma mi pare un po' poco, no?
L'asse diagonale perfetto fra Cheope e Chefren non
corrisponde all'allineamento fra Alnilam e Alnitak;
2 - con la sola riflessione orizzontale:
si ottiene l'unico modo di far combaciare (beh,
quasi!) stelle e Piramidi. Un buon esempio,
insomma di come sia possibile piegare le
osservazioni empiriche alle idee, con buona pace
della Filosofia della Scienza. Cosa è successo,
dunque? Molto semplicemente, poiché non esiste
alcun modo di far combaciare la posizione "del
Cielo" e quella "della Terra", nemmeno ipotizzando
un improbabile "convenzione Sud" per quanto
riguarda gli Egizi (anche in questo caso
sarebbero indispensabili le riflessioni operate),
si è piegata l'osservazione sul campo affinché
confermasse l'idea.
In tutta sincerità, da modesto scienziato non
posso che ripensare a un'autentica bufala
speculativa. Soprattutto in considerazione di un altro
aspetto che mi accingo ad analizzare, sullo stesso
tema (archeo)astronomico. Se infatti andiamo a
sovrapporre, utilizzando scale molto simili, le
immagini delle stelle di Bauval con le Piramidi come
oggi le vediamo, la presunta correlazione (come già
dimostrato) è del tutto inesistente: necessita della
doppia riflessione di cui abbiamo appena discusso:
!
FIGURA 17
le due raffigurazioni orionica e terrena appaiono al
massimo QUASI speculari, ma nient'affatto
corrispondenti;
3 - con riflessione orizzontale e verticale:
16
FIGURA 20
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
È facile vedere (e dunque dimostrare) che
su scala similare esiste (solo con l'artificio della
doppia riflessione!) una correlazione pressoché
completa con la Seconda Piramide; una
correlazione quanto meno discutibile fra Grande
Piramide e Alnilam, mentre Mintaka e Micerino
sono al massimo compagni di banco. Non è
rispettato "in basso" (cioè a Gizah) il rapporto
esistente nelle distanze fra le singole stelle.
!
FIGURA 19
!
Che succede se invece riportiamo le immagini
arbitrariamente doppiamente riflesse sulle stelle?
Ecco:
Va fatta, poi, un'ulteriore considerazione.
Anche volendo forzare le cose, e presupporre
arbitrariamente che gli Egizi abbiano per qualche
oscuro motivo mescolato le carte e quindi in realtà
una stretta correlazione esista, c'è un altro elemento
da spiegare (e Bauval non lo fa). "Da sinistra a
destra" avremmo la rappresentazione di Alnilam,
Alnitak e Mintaka, come detto. Ebbene, anche
questo semplicemente non è possibile. Secondo
la TCO, infatti, le Tre Piramidi sarebbero la
proiezione terrestre della Cintura; invece CheopeAlnilam è fuori posto, perché la stella più brillante
del terzetto è Alnitak-Chefren (quella "centrale"),
e sembrerebbe invece logico rappresentare la
stella più brillante con la piramide più grande.
Una differenza minima (1.69 contro 1.74) ma che
una civiltà evoluta sarebbe stata in grado di
cogliere. E difatti la Seconda Piramide è
leggermente più piccola della Grande Piramide (a
presunta riprova di una simile capacità), ma in
chiave TCO è stata eretta nel posto sbagliato (al
"centro" anziché a "sinistra"). Bisogna specificare,
poi, che per motivi prospettici effettivamente la
Seconda Piramide appare spesso più grande delle
tre; ma Alnitak non sembra affatto, a occhio
nudo, più brillante di Alnilam. Quindi, restano
inspiegabili queste devastanti discrepanze fra
osservazione del Cielo e costruzioni sulla Terra,
demolendo almeno in quest'ottica il paradigma del
"Come in Alto, così in Basso". Non potrebbe essere,
come vedremo in seguito, che questa perifrasi
debba essere riguardata come una metafora di altro
genere? Che "il Basso" sia qualcos'altro? Come
scrive Krupp: "Anche se un appassionato della TCO
potrebbe sostenere che l'inversione non è davvero
significativa, o che gli Egizi deliberatamente
rovesciarono questa costellazione per motivi arcani
e noti solo a loro, queste razionalizzazioni non
hanno alcun senso. Nel momento in cui
abbracciano l'ipotesi di un orientamento
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
17
plausibilmente astronomico dei condotti Nord e
Sud (NdA: della Camera del Re) della Grande
Piramide, Bauval e Gilbert hanno l'obbligo di
accettare il fatto che il Nord significa nord e il
Sud si trova a sud nella Grande Piramide. Non
ha senso, quindi, immaginare un'inversione nel
piano generale. Si potrebbe obiettare che è
possibile adottare una prospettiva completamente
diversa e indipendente, immaginando il modo in cui
Orione apparirebbe da un punto al di fuori della
sfera celeste. In tal caso, l'Est è est e l'Ovest si
trova a ovest , ma i due non combaciano ancora: la
cintura continua a trovarsi nella direzione
sbagliata" (grassetti miei). Come si vede, Krupp
descrive esattamente la situazione che -anche a
mezzo delle figure precedenti- a mio giudizio
rappresenta un durissimo colpo alle affermazioni dei
neo-egittologi. Il compianto Anthony Fairall così
scrive, a completamento di questi pensieri: "La
Piramide di Cheope è la più grande di una linea di
tre - insieme a quella di Chefren e la piramide molto
più piccola di Micerino. Date le competenze di
rilevamento degli Egiziani, molti si sono chiesti il
motivo per cui la linea delle tre piramidi è
leggermente deviata… (omissis). Una (spiegazione)
è che la deviazione dalla linea retta corrisponde a
quello delle tre stelle della cintura di Orione,
anch'esse leggermente disassate. Questo ha
suggerito che il layout di Giza possa essere un
tentativo di ritrarre la Cintura di Orione. Se è così,
l'orientamento della linea, rispetto ai punti cardinali,
è sbagliato, in relazione alla data «canonica» del
2500 a.C. circa. Il fenomeno della precessione,
tuttavia, cambia l'angolo che la cintura fa nel cielo.
Bauval sostiene che un riferimento al 10500 a.C. dà
«una corrispondenza perfetta». Ma è davvero così?
La mia indagine ha mostrato che, mentre la linea
delle due piramidi esterne è impostata secondo un
angolo di 38 gradi da Nord, l'angolo della Cintura di
Orione a Nord per le date intorno al 10500 a.C. è
molto vicino ai 50 gradi! Una differenza troppo
ampia per essere definita «una corrispondenza
esatta». Ho calcolato che un moto di precessione
circolare darebbe 47 gradi, mentre se si
considerano anche gli aspetti dovuti alla nutazione
questo valore è leggermente più alto. Simulazioni
condotte all'interno di un planetario concordano su
questa conclusione. Bauval, d'altro canto, usa
programmi di simulazione astronomica. Egli
suggerisce che solo con moderni computer
sofisticati possiamo esaminare le antiche
configurazioni celesti. Mi chiedo se ha anche
commesso l'errore di misurare gli angoli su uno
schermo piatto (NdA: come dovrebbe essere noto,
la somma degli angoli su una superficie curva è
maggiore della somma dei medesimi angoli
proiettati su una superficie piana. Questo è il senso
dell'affermazione di Fairall, considerato che la volta
celeste è in effetti una sfera). La scelta di Bauval
del 10500 a.C. (quando Orione raggiunge il punto
più meridionale [NdA: «più basso»] nel suo ciclo di
precessione) a suo giudizio si adatta anche con la
Via Lattea, in questo caso perfettamente allineata
con il Nilo. Ma il corso del Nilo è variabile, e noi non
sappiamo con certezza e/o con precisione dove
il Grande Fiume scorresse intorno al 10500 a.C."
La conclusione di Fairall è secca e impietosa:
"La base astronomica per sostenere che il layout
(NdA: complessivo) di Giza risale 10500 a.C. è
quindi molto sottile . Sarebbe bene se si facesse di
più per contrastare la pubblicità dei libri (NdA: di
Bauval & co.), (chiarendo) che la base congetturale
di simili affermazioni è davvero fragile sotto il profilo
scientifico". Definire “ottimistica” la conclusione di
Bauval («Ma
ciò che adesso emerge dalla
raffigurazione visiva del cielo meridionale attorno al
10500 a.C. è questo: la dislocazione della
cosiddetta Cintura di Orione posta a “occidente”
rispetto alla Via Lattea, coincide e collima, con
straordinaria precisione, con il layout delle tre
Grandi Piramidi di Giza!») è dunque davvero un
eufemismo. È chiaro che la rotazione giornaliera
dell’azimut, che comporta automaticamente una
variazione diurna e annuale dell’assetto delle Tre
Stelle in relazione a qualsiasi riferimento terreno e
anche a distanza dal meridiano, non è stata
minimamente presa in considerazione. Ricordo a
questo punto che una definizione molto banale e
non strettamente corretta sotto il profilo geografico/
astronomico del termine “meridiano” è l’arco
immaginario che passa per il punto esatto in cui è
situato un osservatore, e congiunge il Polo Nord con
il Polo Sud. Bisogna poi rilevare che alcune
“spiegazioni” dei guru della Neo-Egittologia (che
forse è davvero un’Egittologia piena di nei...) sono
purtroppo ancora più raccapriccianti. Dopo
un’abborracciato chiarimento sulla natura della
precessione degli equinozi, il tutto si riduce a
dichiarare che è indispensabile risalire al 10.500
a.C. per la presenza di favorevoli fattori climatici
nell’Africa Settentrionale (affermazione che nelle
prossime parti dimostreremo essere errata) e per la
semplice osservazione (si faccia riferimento alle
considerazioni di Fairall su riportate) secondo cui
18
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
mentre nel 2.500 a.C. -epoca della costruzione delle
Piramidi anche per i neoegittologi- la Via Lattea
(“Via d’Acqua Tortuosa” per gli Egizi) era situata
obliquamente rispetto al meridiano (in quale data e
a che ora non è specificato), solo nell’XI millennio
a.C., sempre in data e ora imprecisata, la Galassia
avrebbe assunto una posizione parallela a quella
del fiume. Poco importa, a quel che sembra, sia che
si tratti di un’affermazione evidentemente senza un
reale significato, sia che lo stesso Fairall abbia
ricordato l’incostanza del corso del Nilo durante i
millenni.
Andando oltre, giova sottolineare che -con
buona pace dei seguaci di questa Neo-Egittologianon è affatto vero che, in qualche maniera, viene
comunque rispettato il ruolo dell'Egitto quale
"specchio del Cielo". Sebbene in "Custode della
Genesi" Bauval e Hancock tentino di mostrare
(secondo le purtroppo consuete modalità di
inversione, e sinceramente a questo punto il dubbio
che esse siano in qualche maniera volontarie è
legittimo…) che anche per altre stelle della
costellazione di Orione esista una corrispondenza, il
tentativo fallisce miseramente. In effetti, se ci si
pensa non è forse assolutamente
incomprensibile (anche supponendo giustamente
una diversa mentalità degli Egizi e loro predecessori
rispetto a quella moderna) che la Cintura di Orione
venga rappresentata (si fa per dire…), mentre le
stelle principali dell'asterismo, che sono fra le
stelle più brillanti del cielo, non abbiano alcun
corrispettivo? Personalmente, trovo che sia un
fenomeno davvero curioso! La pubblicazione nel
libro appena citato di una duplice "mappa" in cui
vengono ritratte Orione (con adeguata tratteggiatura
in posizioni strategiche) e la zona compresa fra
Menfi a Nord e un'area imprecisata a Sud evidenzia
la franca zoppìa della TCO. Basta guardare la figura
21
!
FIGURA 21 – dal libro “Custode della Genesi”
per rendersi conto che:
-
è assente Bellatrix, ovvero γ Orionis
(magnitudine 1.64): non c’è nessuna
piramide a “segnarla”. Timidamente e
quasi di soppiatto, i due Autori qua e là
lasciano balenare l’idea che possa essere
rappresentata dalla piramide di Zawyet
el-'Aryan (figura 22).
!
Figura 22 – la piramide di Zawyet el-'Aryan
A parte il fatto che si tratta di un'opera
lasciata incompiuta, quest'ultima risale alla
III dinastia (2.700-2.620 a.C. circa), è
considerata da molti solo un’evoluta
màstaba e in ogni caso è costruita a
gradoni, stile quella di Djoser per capirci:
quindi, non sembra quadrare molto (come
cronologia, posizione e proporzioni) con
la TCO;
-
non c'è Betelgeuse, un dato ancora più
strano, tenuto conto che -anche in termini di
colorazione (arancione), oltre che di
luminosità- questo astro è quasi un
contraltare naturale nei confronti sia di
Rigel (bianco-azzurra), posta pressoché
simmetricamente dall'altra parte
dell'Equatore celeste, che di Sirio (stesso
colore), posta più a Sud-Est;
-
non c'è, ugualmente, Rigel: il motivo per
cui le stelle più importanti della costellazione
siano assenti è, come rilevato,
assolutamente incomprensibile;
-
non è affatto chiaro come mai siano
segnalate le necropoli settentrionali (a
partire da Menfi, mentre Ayan è l'antico
19
nome dell'attuale Gebel Tura), che sono
del tutto prive di un corrispettivo celeste;
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
-
parimenti ingiustificabile e
incomprensibile il motivo per cui, in una
correlazione -a questo punto assai più
presunta che ipotetica- fra Terra e Orione,
debbano entrare in gioco le Iadi, che
fanno parte della costellazione del Toro.
Ancor più curiosamente, gli Autori non
segnalano che la stella più brillante di
quell'ammasso aperto è Aldebaran (Alpha
Tauri, magnitudine pari addirittura a 0.98!),
apparentemente "appaiata", attraverso le
note piramidi di Dashur (la "Rossa" e la
"Inclinata"), alla anonima Ain (magnitudine
3.6), un astro visivamente del tutto
insignificante. A meno che per qualche
oscura ragione nel calderone Bauval & co.
non abbiano volutamente fatto rientrare
Snefru, padre di Cheope e presunto
costruttore di questi due monumenti.
Insomma, sotto il profilo astronomico (anche se
potrei continuare) la TCO si risolve in un completo
disastro; ed è appena il caso di anticipare che non
esiste il benché minimo indizio che gli Egizi
identificassero le “vitali” costellazioni di Orione, Toro
e Leone con le nostre, risalenti a epoche
relativamente recenti. È vero che alcuni (pochi)
astronomi, in contrasto con Fairall e Krupp,
ritengono l'ipotesi di Bauval sostenibile. Però,
nessuno di loro ha mai effettuato un'analisi accurata
dei presunti legami fra monumenti e stelle,
probabilmente a causa della loro scarsa
dimestichezza con l'archeologia. Come abbiamo
invece visto, già solo esaminando le piramidi di
Gizah e la costellazione di Orione si evidenziano
enormi pecche e clamorose falle nella ricostruzione
archeoastronomica sposata da Bauval e Hancock.
Da tutto questo, si può affermare –semplicemente
sulla base di verifiche astronomiche e
archeoastronomiche- che non solo Bauval e Gilbert
sono completamente in errore nello individuare
l’epoca dello Zep Tepi, ma anche e di conseguenza
che l’intera loro ipotesi è inaffidabile, e che, sulle
basi di quanto ripetutamente proposto da costoro,
l’Egitto non è affatto uno “specchio del Cielo”,
per citare il titolo di un noto libro di Hancock. A
questo punto, il Lettore non sarà sorpreso
nell'apprendere che esistono anche argomentazioni
astrofisiche che cozzano inevitabilmente con la
TCO, e che anche il cosiddetto "layout" della piana
di Gizah, Sfinge compresa, nonché la tempistica
asserita dalla neo-egittologia imbarcano acqua a
tutto spiano. Ma questo, insieme a considerazioni
epigrafiche, archeologiche, mitologiche, al mistero di
Nabta Playa e altro ancora, sarà oggetto delle parti
successive.
20
LA COSTRUZIONE DELLE PIRAMIDI
DI al-JIZAH
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
di Giuseppe Badalucco
Da millenni le piramidi della piana di Giza si ergono,
nella loro enigmatica perfezione, a rappresentare
l’espressione più alta e nobile della antica cultura
egizia e delle sue architetture sacre; da quando, nel
XIX secolo, l’interesse intorno alle strutture
megalitiche di Giza tornò a crescere, dopo la
spedizione napoleonica, con la nascita
dell’egittologia moderna, gli studiosi hanno
realizzato studi estremamente complessi ed
elaborati sulle piramidi allo scopo di individuare, in
modo preciso e dettagliato, le tecniche adottate per
la loro costruzione nonché le tecnologie presenti nei
diversi momenti storici attraversati dalla civiltà
egizia. Il dibattito acceso tra studiosi di ogni
disciplina in merito alle tecniche di costruzione delle
piramidi di Giza e alle tecnologie adottate, nel corso
degli anni, non ha portato ad un risultato definitivo
ma ha lasciato aperte numerose questioni scottanti
riguardanti le attrezzature impiegate per la
costruzione, l’impiego di rampe per le costruzioni
stesse, i tempi tecnici di realizzazione e i possibili
tempi di rimaneggiamento e ristrutturazione dei
manufatti stessi. Gli studi condotti in passato fino ad
oggi hanno dimostrato che la civiltà egizia, cominciò
a svilupparsi storicamente, successivamente al
3150 a.C. con il periodo arcaico nel quale ebbero
sviluppo le prime dinastie storiche; mentre in epoca
predinastica, all’inizio del IV millennio a.C., lo
sviluppo della civiltà egizia avvenne in modo
sufficientemente rapido, con l’avvio delle attività
agricole nel Delta del Nilo e di una fiorente attività
artigianale. Nel periodo storico, a partire dal 3100
a.C., la nascita dei primi villaggi e delle città egizie
portò ad uno sviluppo altrettanto rapido delle
tecniche di costruzione di edifici, costruiti in pietra e
mattoni, tra cui prevalsero edifici relativi ad
architetture sacre e istituzionali (palazzi, templi) per
realizzare i quali le attrezzature disponibili, a partire
almeno dal III millennio a.C. erano rappresentate da
oggetti di piccolo e medio taglio che sono stati
spesso raffigurati in papiri e dipinti murali e che
possono essere così catalogati:
- tra gli strumenti impiegati dagli scalpellini vi erano
accette, scalpelli di bronzo e mazze di legno, inoltre
venivano impiegate squadre e filo a piombo per
realizzare misurazioni corrette
- i lucidatori per levigare e lisciare bene le superfici
di pietre impiegavano dei lisciatoi
- gli operai addetti al sollevamento di manufatti
come blocchi di pietra, impiegavano argani e
corregge con l’ausilio inoltre di piani inclinati. Gli
operai addetti al taglio dei massi di pietra
impiegavano invece martelli di pietra con manici di
legno
- i falegnami impiegavano accette e seghe per
tagliare il legno, e pialle per rifinire le tavole di
legno mentre per realizzare oggetti più complessi
impiegavano trapani ad archetto
!
!
Fig. 1 attrezzature egiziane antiche
21
Fig. 2 attrezzature egiziane antiche
!
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Fig. 3 trasporto blocchi su slitte a traino animale
Lo stato della tecnologia che quindi, all’alba del III
millennio a.C. avrebbe permesso agli Egizi di
costruire i manufatti più grandi ed enigmatici del
mondo allora conosciuto era quello descritto più
sopra a cui si possono aggiungere le conoscenze
tecniche relative all’impiego certo di semplici
macchine per sollevamento pesi (blocchi di pietre
ecc., introdotte almeno a partire dai primi secoli del I
millennio a.C.) che viene fornito più oltre nella
descrizione delle tecniche di costruzione. Tale stato
è quindi quello di una tecnologia sufficientemente
avanzata da raggiungere l’uso minimo di macchine
di sollevamento pesi a cui si abbina l’impiego di
attrezzi manuali di piccolo taglio e tecniche di
trasporto terrestre di oggetti e manufatti con l’ausilio
di slitte trainate da esseri umani o animali come buoi
e cavalli (successivamente) mentre per il trasporto
fluviale di merci e manufatti venivano impiegate
chiatte galleggianti lungo il fiume Nilo. In questo
quadro tecnologico di base, caratterizzato da
conoscenze tecniche minime, essendo presente in
forma istituzionale da almeno 500 anni, si inserisce
la costruzione delle piramidi di Giza in un periodo
presumibilmente compreso fra il 2650 e il 2450 a.C.,
realizzate dai sovrani della IV dinastia (Khufu,
Khafra, Menkaura) e per il quale si sono sviluppate
diverse ipotesi di costruzione che analizziamo in
questo breve scritto:
L’ E V O L U Z I O N E D E L L E T E C N I C H E D I
COSTRUZIONE E L’IPOTESI REGRESSIVA:
La prima importante considerazione di natura
storica e tecnica riguarda le presunta evoluzione
temporale che avrebbero subito le tecniche di
costruzione di edifici sacri e palazzi appartenenti
all’architettura egizia antica. Infatti gli egittologi sono
comunemente concordi nell’affermare che tali
tecniche costruttive si modificarono nel tempo, nel
corso di secoli, proprio a causa dell’evoluzione nello
stato della tecnica e dell’arte egizia. Gli egittologi
sostengono apertamente, con alcune varianti
interpretative, che le tecniche con cui furono
costruite le piramidi (più piccole) del Regno Medio
(2000 – 1780 a.C. circa) erano decisamente diverse
rispetto a quelle adottate per realizzare i grandi
monumenti megalitici dell’Antico Regno (2700 –
2190 a.C.). Infatti gli egittologi affermano
innanzitutto che le tecniche di costruzione si
modificarono nel tempo raggiungendo, in alcuni
casi, una sorta di compromesso fra diversi stili
tecnici che potevano essere adottati.
- in una prima fase, legata al Regno Antico, le
piramidi furono costruite interamente in pietra, con
blocchi di pietra calcarea e granito che venivano
estratte in cave situate a distanza di alcuni
chilometri dal sito; in particolare la pietra calcarea
veniva estratta secondo gli egittologi
prevalentemente nella zona di Tura (zona Il Cairo)
mentre le cave di granito erano essenzialmente
situate nella zona di Assuan; i blocchi di pietra
calcarea furono impiegati principalmente per
costruire la muratura esterna perimetrale dell’edificio
piramidale mentre i blocchi di granito furono
impiegati principalmente per costruire le parti interne
delle piramidi, come i muri e i soffitti delle camere
funebri, anche se occorre ricordare che furono
impiegati anche per costruire la copertura esterna
della piramide di Micerino (Menkaura). Altra
considerazione importante da fare è che
inizialmente i blocchi di pietra venivano posizionati
in modo inclinato verso l’interno mentre in una
seconda fase successiva cominciarono ad essere
posizionati orizzontalmente in modo da determinare
un miglioramento nella tenuta della struttura1
- in una seconda fase, a partire dal Medio Regno in
avanti (2000 a.C. circa) le tecniche di costruzione di
edifici pubblici di culto, di palazzi, di templi e di
piramidi cambiarono ulteriormente; i palazzi e
piramidi costruiti in questo periodo appaiono
realizzati con mattoni di fango cotti ricoperti
esteriormente da coperture in pietra e alcune
vennero realizzate su colline naturali per evitare al
minimo l’impiego di materiali esterni. Questi
manufatti nella maggior parte dei casi hanno avuto
uno stato di conservazione pessimo rispetto alle
prime piramidi che sono giunte invece pressoché
intatte fino ai giorni nostri2.
Queste importanti considerazioni sull’evoluzione
temporale delle tecniche di costruzione dalle prime
dinastie storiche a quelle del Medio Regno ha
determinato il formarsi di precise idee in seno alla
comunità scientifica in merito a quello che può
essere definito come un regresso delle capacità
tecniche esprimibili da parte di una civiltà, a
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
22
dimostrazione del fatto che l’evoluzione storica delle
civiltà non sarebbe così lineare come potrebbe
apparire ad una prima analisi, ma indicherebbe la
presenza di variazioni non lineari nella tecnologia
esprimibile anche in base all’andamento della sua
situazione storica. Se infatti l’evoluzione storico –
sociale dell’Antico Egitto portò, ad un determinato
momento, all’assenza nella terra dei Faraoni di
maestranze in grado di lavorare la pietra o di gestire
grandi quantitativi di materiali edili, i costruttori delle
nuove e più recenti piramidi avrebbero dovuto
adattarsi alle conseguenze che tale evoluzione
aveva determinato, impiegando i pochi materiali e le
scarse maestranze disponibili.
il distacco dalla roccia madre, i blocchi venissero
eventualmente bagnati con acqua3. Altri importanti
problemi che dovettero affrontare i costruttori delle
piramidi riguardarono:
- il livellamento delle fondamenta che si ipotizza sia
stato effettuato con l’ausilio di tecniche idrauliche
(attraverso l’impiego di fossi ripieni di acqua)
- il riempimento degli interstizi tra un blocco e
l’altro, che fu effettuato con l’ausilio di materiale
di riempimento come malta ottenuta da
riscaldamento del gesso, macerie, pezzi di pietra
e altro materiale di scarto. Lo scopo di tale
operazione fu quello di rendere, semplicemente,
più stabile la struttura dell’edificio.
LE VARIE IPOTESI DI COSTRUZIONE
RESOCONTI STORICI: ERODOTO, STRABONE,
DIODORO SICULO E PLINIO IL VECCHIO
L’idea che sta alla base degli studi realizzati
dall’archeologia classica e che è stata supportata,
nel corso del tempo, dagli studi ingegneristici e di
architettura antica è che le piramidi siano state
realizzate a partire dal distacco dei blocchi di pietra
dalle cave, sfruttando scalpelli di rame o bronzo, a
cui faceva seguito il trasporto a bordo di slitte
trainate fino al cantiere nel quale venivano sollevate
fino al punto di inserimento nel corpo del manufatto;
e l’idea principale che è prevalsa nel corso del
tempo è che le piramidi siano state costruite con
delle rampe di terra che siano servite ad effettuare il
trasporto dei blocchi fino ai corsi di muratura più
elevati e a garantire la manovrabilità degli stessi una
volta giunti all’altezza prevista. I principali problemi
tecnici che dovettero affrontare i costruttori delle
piramidi fu quello di trasportare e manovrare pesanti
blocchi di pietre estratte dalla rocce calcaree;
sappiamo con certezza, poiché sono stati studiati e
analizzati dettagliatamente, che i blocchi di pietra
che compongono le piramidi di Giza sono blocchi di
dimensioni e peso variabili tra 1 o 2 tonnellate fino
a 80 tonnellate che quindi dovettero essere staccati,
lavorati e trasportati fino al punto di sollevamento
con difficoltà che oggettivamente devono essere
attentamente valutate. Le informazioni desumibili
dalle testimonianze storiche che ci sono pervenute
permettono di affermare che probabilmente per
eseguire il proprio lavoro di taglio della roccia
calcarea gli operai facevano uso di scalpelli di rame,
trapani e seghe mentre le pietre di maggiore
durezza (come diorite, granito e basalto) venivano
colpite con diabasi (rocce minerali) e venivano
lavorate con l’ausilio di materiale abrasivo come
sabbia di quarzo. Si ipotizza anche che, per favorire
Le testimonianze storiche dirette relative alla
costruzione delle piramidi di Giza (cioè fonti storiche
dirette come scritti, o dipinti o papiri con
raffigurazioni dirette dell’epoca relativa alla IV
dinastia) non esistono o comunque non sono
pervenute fino a noi (ad oggi); per cui la speranza
più grande per gli archeologi è e rimane quella di
poter trovare dei papiri antichi in cui sia descritto
come furono costruite, risalenti almeno al 2500 a.C.
Le uniche testimonianze scritte disponibili sono
quelle relative a cronisti di epoca posteriore come
furono Erodoto, Diodoro Siculo che vissero
rispettivamente nel V sec. a.C. e I sec. a.C. cioè
circa duemila anni dopo la costruzione dei
monumenti megalitici. Le testimonianze di questi
storici furono senza dubbio importanti perché
diedero avvio alla storiografia ufficiale dei popoli
antichi e si fondarono, prevalentemente,
sull’elaborazione in forma scritta di resoconti di
dialoghi tenuti, tramite traduttori presenti in loco, con
sacerdoti egizi e funzionari addetti ai luoghi sacri
che operavano nei templi delle città egizie in tale
epoca. Infatti Erodoto (484 – 425 a.C.) in particolare
visitò l’Egitto e vi rimase per circa quattro mese,
avendo così il tempo di visitare i luoghi sacri della
civiltà dei Faraoni. Nel suo libro le “Storie” parlò
della costruzione della piramide di Cheope (Khufu)
esprimendosi in tal modo:
“Il faraone Cheope costrinse tutti gli Egizi a lavorare
per la costruzione della piramide. Ad alcuni impose
di trascinare pietre dalle cave situate nelle
montagne d'Arabia fino al Nilo; ad altri assegnò di
ricevere le pietre, trasportate su navi attraverso il
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
23
fiume, e di trainarle a loro volta fino al monte
chiamato Libico. Ai lavori partecipavano sempre 100
000 uomini per volta in turni di tre mesi. Ci vollero
dieci anni di duro lavoro collettivo per la costruzione
della strada su cui trainare le pietre, opera a mio
parere che ha poco da invidiare alla piramide
stessa. Dieci anni occorsero anche per l'allestimento
delle camere sotterranee che avrebbero custodito la
sepoltura di Cheope situate nell'altura su cui
sorgono le piramidi. Per edificare la piramide
occorsero venti anni, essa è completamente
costituita da blocchi di pietra levigati e perfettamente
connessi fra loro: nessuna delle pietre misura meno
di trenta piedi (un piede corrisponde a circa 30 cm,
n.d.r.). La piramide fu realizzata a ripiani. Quando i
ripiani vennero completati, con apposite macchine
sollevarono le pietre rimanenti dal livello del suolo al
primo ripiano. Poi la pietra veniva affidata a una
seconda macchina posta sul primo ripiano e questa
la sollevava fino al secondo ripiano su una terza
macchina: le macchine erano in numero pari ai
gradini, ma poteva anche esserci un unico
macchinario, sempre lo stesso, facilmente
trasportabile da un gradino all'altro. Dapprima fu
ultimato il rivestimento della parte più alta della
piramide, poi le altre in successione, per ultimi il
piano sopra il livello del suolo e il gradino più basso.
Una iscrizione in caratteri egizi sulla piramide
dichiara quanto fu speso in rafani (una radice
commestibile), cipolle e aglio per i lavoratori e, se
ben ricordo le parole dell'interprete che mi lesse
l'iscrizione, la cifra ammontava a 1 600 talenti di
argento (una moneta in uso al tempo di Erodoto,
n.d.r.). Se questa cifra è esatta, quanto altro denaro
deve essere stato speso per i ferri di lavoro, per il
mantenimento e per le vesti degli operai? Tanto più
che se impiegarono il tempo suddetto per la
realizzazione delle opere, altrettanto ne occorse, io
credo, per tagliare le pietre, per il loro trasporto e
per lo scavo sotterraneo”4
Erodoto elaborò il suo scritto all’incirca tra il 440 e il
430 a.C. in un periodo nel quale la civiltà Egizia era
ancora in grado di esprimere importanti retaggi
culturali da trasmettere alla Grecia classica e alle
civiltà limitrofe, per cui gran parte delle conoscenze
espresse in questo testo si riferivano comunque a
conoscenze tecniche presenti nella tecnologia
egizia almeno nella stessa epoca; espressamente
nel testo di Erodoto si menziona il fatto che
- occorse un lasso di tempo di 10 anni solo per
costruire la strada che doveva servire per
trasportare il materiale al cantiere (cioè le pietre da
utilizzare nella piramide)
- occorse un tempo altrettanto lungo,
espressamente citato da Erodoto in altri 10 anni, per
costruire le camere sotterranee destinate
ufficialmente a conservare le spoglie del Faraone
- inoltre, ovviamente, occorsero 20 anni per
costruire il corpo effettivo della piramide, formata da
blocchi di pietra levigati e connessi tra di loro
- all’opera monumentale lavorarono 100.000
(centomila) uomini per volta a gruppi che venivano
turnati una volta ogni 3 mesi
- per quanto riguarda il posizionamento dei blocchi
sui corsi di muratura occorre specificare che
espressamente Erodoto sostiene che la piramide fu
costruita a ripiani; una volta completati i singoli
ripiani i blocchi di pietra venivano caricati su una
macchina che li sollevava dal ripiano inferiore fino al
corso di muratura superiore, cioè dal suolo fino al
primo ripiano, poi una seconda macchina sollevava
il blocco dal primo ripiano al secondo e così via,
oppure poteva essere spostata un’unica macchina
da un ripiano all’altro (cioè la macchina per
sollevare i blocchi sarebbe stata abbastanza
facilmente manovrabile)
- per quanto riguarda invece il rivestimento esterno
della piramide, i costruttori effettuarono dapprima il
rivestimento delle parti più alte della piramide per
poi discendere verso i corsi di muratura inferiori e il
basamento
Le informazioni tecniche fornite da Erodoto furono
senza dubbio molto importanti perché permisero di
disporre di specifiche minime su quelle che
poterono essere le tempistiche relative alla
costruzione di un’opera monumentale di questo tipo.
Tuttavia non tutti gli studiosi forniscono a queste
informazioni il carattere di attendibilità che ci
sarebbe potuto aspettare, per il semplice motivo che
tali informazioni furono elaborate in un periodo di
tempo lontano circa 2000 anni dalla costruzione
delle piramidi, per cui solo in parte ad esse viene
dato credito pur venendo direttamente dai funzionari
e sacerdoti addetti ai templi egizi nel 440 a.C. Inoltre
su alcune di queste informazioni vengono espresse
poche certezze poiché alcune di esse vengono
espresse in forma dubitativa (“….Tanto più che se
impiegarono il tempo suddetto per la realizzazione
delle opere, altrettanto ne occorse, io credo, per
tagliare le pietre, per il loro trasporto e per lo scavo
sotterraneo”)5. Quello che sappiamo con certezza
delle informazioni fornite da Erodoto è che i tempi
tecnici sicuri furono almeno, complessivamente, di
24
40 anni (10 per la strada, 10 per le camere
sotterranee e 20 per il corpo della piramide) per cui
ogni altro tempo impiegato per opere di rifinitura
viene espresso in forma dubitativa. Inoltre nel corso
degli anni, con gli scavi realizzati intorno alle
piramidi, ancora da completare ovviamente, sono
stati trovati attrezzi di piccolo taglio per lavorazioni
manuali, ma poche tracce di macchine per sollevare
i pesi che in parte, col passare del tempo, possono
essere andate distrutte.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Altre importanti considerazioni sulla costruzione
delle piramidi di Giza furono espresse dallo scrittore
Diodoro Siculo (90 – 27 a.C.) nel suo libro Biblioteca
storica (Libro I) pubblicato tra il 60 e il 36 a.C. circa,
in cui espressamente scrive:
«Ed egli disse che la pietra era stata trasportata da
grande distanza dall'Arabia, e che gli edifici erano
eretti tramite rampe di terra, dato che le macchine
per sollevare non erano ancora state inventate; e la
cosa più sorprendente è che, nonostante queste
grandi strutture siano state erette in un'area
circondata da sabbia, non restano tracce di queste
rampe o della lavorazione delle pietre, tanto che non
sembra il risultato del paziente lavoro degli uomini,
ma piuttosto come se l'intero complesso fosse stato
posto qui già completato da qualche dio. Ora gli
egizi tentano di rendere queste cose una meraviglia,
parlando di rampe che sarebbero state costruite con
sale e che, quando il fiume fu fatto scorrere contro
di esse, si sciolsero dilavandosi e non lasciando
traccia senza bisogno di intervento umano. Ma in
verità, quasi sicuramente non fu fatto in questo
modo! Piuttosto, la stessa moltitudine di operai che
eressero i tumuli riportarono l'intera massa di
materiale nel suo luogo di origine; dicono che
360.000 uomini furono costantemente impegnati nel
lavoro, prima che l'intero edificio fosse finito alla fine
di 20 anni di lavoro»6.
Le informazioni tecniche e storiche fornite da
Diodoro Siculo sono state ritenute poco attendibili
dalla storiografia moderna, soprattutto per l’accenno
relativo al trasporto di pietre dall’Arabia, considerato
come un errore evidente. Tuttavia occorre ricordare
che gran parte delle informazioni definite “errate”
sono espresse da Diodoro sulla base di fonti orali a
lui trasmesse da sacerdoti e addetti dei templi cui
egli fece visita, per cui se tali fonti furono da lui
riportate in modo fedele, si tratterebbe di
informazioni tecniche errate provenienti proprio da
quelle persone che avrebbero dovuto conoscere i
“segreti tecnici” delle costruzioni megalitiche di Giza,
per cui da ciò si può dedurre che, o i sacerdoti
mentivano, per nascondere precise informazioni da
non divulgare, oppure effettivamente essi non erano
più a conoscenza delle tecniche di costruzione, per
cui potevano esprimere solo delle ipotesi, che
furono poi riportate dallo stesso scrittore. Diodoro
diede per scontato che storicamente le macchine
per sollevare pesi non fossero ancora state
inventate al tempo delle costruzioni delle piramidi di
Giza (2500 anni prima), per cui ipotizzò che i
monumenti fossero stati costruiti con l’ausilio di
rampe di terra che furono poi distrutte dagli operai;
in questo caso, Diodoro Siculo, che scrisse circa
380 anni dopo Erodoto, contraddisse
completamente lo storico greco, affermando che le
macchine per sollevare pesi non fossero state
costruite al tempo di Cheope. Inoltre egli non diede
credito all’ipotesi, da lui stesso riportata dai racconti
locali, secondo cui le rampe sarebbero state
realizzate con sale che poi sarebbe stato disciolto
con l’acqua del fiume. Ancora si può aggiungere
che, Diodoro Siculo nel trattare l’argomento,
introdusse elementi interpretativi delle tecniche di
costruzione che fanno propendere per una
determinata ipotesi (rampe di terra) di cui sono state
trovate tracce ma per le quali non esistono precise
testimonianze storiche. Infine è importante ricordare
che mentre in alcuni casi Diodoro contraddisse
Erodoto, in altri riprese le stesse informazioni, come
quella relativa al trasporto di pietre dall’Arabia, a
dimostrazione del fatto che, se anche Erodoto non
fu tra le fonti di Diodoro, questa informazione storica
poteva far parte di un insieme di conoscenze
disponibili nella cultura del tempo, di cui non era
dimostrabile, al tempo, la veridicità.
Un accenno altrettanto importante alle piramidi fu
realizzato da Strabone (ca. 60 a.C. – 24 d.C. ca.)
nella sua opera Geografia scritta all’inizio del I sec.
d.C.; infatti nel XVII libro (1,33) egli afferma
testualmente:
“Procedendo quaranta stadi dalla città (Memfi
n.d.r.), c'è un altopiano roccioso, sul quale vi sono
molte piramidi, tombe di re, ma tre sono degne di
nota: due di queste sono anche annoverate tra le
sette meraviglie del mondo. Misurano uno stadio in
altezza, quadrangolari nella forma, hanno altezza di
poco superiore al lato di base. Una è di poco più
grande dell'altra e in alto, quasi a metà di una
faccia, ha un masso estraibile: togliendolo, c'è una
25
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
galleria tortuosa fino alla camera mortuaria. Queste
piramidi dunque sono vicine le une alle altre sullo
stesso pianoro; più discosta, sulla parte elevata
dell'altopiano, c'è la terza, molto più piccola delle
due, ma fatta costruire con molta più spesa: infatti
dal piano di calpestio fino quasi alla metà è di pietra
nera, da cui si fabbricano anche i mortai, fatta venire
da lontano, dai monti dell'Etiopia, e per il fatto che
essa è dura e difficile da lavorare, la costruzione fu
così dispendiosa.”7
Le informazioni fornite da Strabone sono state
considerate, dalla storiografia moderna, abbastanza
attendibili, anche per l’importanza delle sue stesse
fonti (Anassimandro, Eraclito, Ecateo, Democrito,
Eudosso, Eratostene, Ipparco e altri ancora),
sebbene lo stesso, in merito alle piramidi di Giza,
non si soffermò ad illustrarne le tecniche di
costruzione, quanto piuttosto ne fornì una
descrizione generale in termini di strutture
geometriche e misure. Strabone introdusse un
elemento “medio” di misura dell’altezza delle stesse
pari a 1 stadio (equivalente a 185 m) mentre
sappiamo che le piramidi di Cheope e Chefren
misurano rispettivamente 146,7 m e 136,5 m circa,
per cui fornì valori prossimi ma non del tutto corretti.
Sulle tecniche di costruzione Strabone si soffermò in
maggior misura sull’importanza che ebbe l’uso di
materiali pregiati per la realizzazione della piramide
di Micerino (che fu molto dispendiosa), per la quale
affermò espressamente che, almeno per metà della
sua struttura esterna, fu impiegata la “pietra nera”
che giunse dai monti dell’Etiopia (granito rosso di
Assuan), informazione che Strabone “condivise” con
Erodoto e Diodoro Siculo (i quali parlarono
rispettivamente di “pietra Etiopica” e “pietra di colore
nero” istituendo un collegamento tra il materiale
impiegato e il costo dell’opera). Le informazioni
fornite da Strabone tendono invece ad essere
differenziate da Diodoro per quanto riguarda le
distanze geografiche tra Memfi e Giza, indicate in
40 stadi contro 120.
Infine un’altra importante testimonianza scritta fu
fornita dallo storico Plinio il Vecchio (23 – 79 d.C.)
nella sua Storia Naturale (XXXVI, 75 – 82) nella
quale così si espresse sulla costruzione delle
piramidi:
“Si parli, per inciso, anche delle piramidi in Egitto,
ostentazione vana e stolta della ricchezza dei
sovrani, in quanto la causa della loro costruzione,
secondo i più, fu il non lasciare denaro ai successori
o ai rivali invidiosi oppure non lasciar la plebe in
ozio. In merito a ciò la vanità di quegli uomini è stata
straordinaria […] Le altre tre, che hanno riempito il
mondo con la loro fama, perfettamente visibili da
ogni lato a chi si avvicina in nave [sul Nilo n.d.r.],
sono collocate nella zona dell'Africa su un altopiano
roccioso e arido tra la città di Memfi e quello che
abbiamo detto chiamarsi Delta, a meno di 4 miglia
dal Nilo [circa 6 km, n.d.r.] e a 7 miglia e mezzo
[circa 11 km, n.d.r..] da Memfi […] La piramide più
grande è fatta con pietre estratte dalle cave
dell'Arabia. Si dice che l'abbiano costruita 360 mila
uomini in 20 anni. Le tre piramidi furono invece
portate a termine in 88 anni e 4 mesi. La maggiore
occupa 7 iugeri di terreno [1 iugero = 0,252 ha
=10.000 mq, N.d.T.], ogni lato è di 783 piedi, i
quattro angoli sono equidistanti. L'altezza dalla
sommità al suolo è di 725 piedi. In cima è presente
una piattaforma con perimetro di 16,5 piedi. Il lato
della seconda è di 757,5 piedi. La terza, più piccola
rispetto alle precedenti, ma molto più ammirevole, a
causa delle pietre etiopiche, si innalza (con un lato),
tra gli angoli, di 363 piedi”8.
Anche le informazioni fornite da Plinio il Vecchio
furono, per certi versi, abbastanza dettagliate,
anche se comunque limitate. Plinio fornì innanzitutto
un giudizio storico abbastanza pesante nei confronti
dei costruttori delle piramidi, individuati nei Faraoni
della IV dinastia, accusati di aver realizzato tali
opere al fine di primeggiare nella propria epoca e di
non lasciare ricchezze accumulate ai propri eredi;
ciò rientrerebbe nella tradizione di una parte della
storiografia antica che tendeva a fornire un giudizio
alquanto negativo sulla storia sociale e politica delle
civiltà anteriori alla propria, al fine di esaltare la
storia e la cultura contemporanee. Per quanto
riguarda, invece, le misure geometriche dei
manufatti, Plinio fornì dei dati abbastanza precisi
che in parte si raccordano con le informazioni fornite
da Erodoto, Strabone e Diodoro; Plinio fornì una
misura della superficie alla base occupata dalla
piramide di Cheope pari a 7 iugeri di terreno (1
iugero = 0,252 ha dove 1 ha = 10.000 m2) per un
totale di circa 17.640 m2, una misura pari a 1/3 di
quella reale. Per quanto riguarda invece i lati della
piramide di Cheope fornì una misura pari a 783
piedi equivalente a circa 231,7 m contro i 230,30 m
reali, per cui tale misura fu molto precisa (per
l’epoca) mentre per quanto riguarda l’altezza della
stessa la misura fornita fu di 725 piedi, equivalente
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
26
a circa 214,6 m contro i 146,7 m effettivi, per cui tale
misura fu sovrastimata rispetto a quella reale. Per la
piramide di Chefren Plinio fornì una misura del lato
di 757,5 piedi, equivalenti a circa 224,2 m contro i
215 effettivi mentre per la terza piramide di Micerino
fu fornita la misura del lato pari a 363 piedi,
equivalente a 107 m contro i 102,2 m effettivi;
considerando la maggiore precisione dei dati relativi
a Cheope, si può senz’altro affermare che
comunque tali misure fornite da Plinio furono
abbastanza precise, anche considerando il fatto che
la piramide di Cheope disponeva, ancora alla sua
epoca, di una copertura esterna, che man mano
andò staccandosi nel corso dei secoli e che era di
alcuni cm; tali misure furono sufficientemente
corrette per quanto riguarda i lati, mentre furono
meno corrette per quanto riguarda l’altezza dei
manufatti. Per ciò che concerne, invece, l’uso dei
materiali e rivestimenti, Plinio condivise con Erodoto
l’informazione relativa alla fornitura di pietra
dall’Arabia così come condivise con Strabone e
Diodoro l’informazione relativa all’impiego di
materiali pregiati per la copertura della piramide di
Micerino, la pietra nera di Tebe.
grandi blocchi di pietra che poi furono sollevati e
posizionati sui corsi di muratura. Le specificazioni
tecniche, tuttavia, su cui la comunità scientifica
tende a dividersi, riguardano le singole tipologie di
rampe che furono impiegate dai costruttori, che, è
stato dimostrato, potevano presentare le forme più
disparate e che devono essere attentamente
analizzate:
RAMPE DIRITTE:
In passato, quando gli studi relativi alle tecniche di
costruzione di monumenti megalitici antichi non
avevano ancora raggiunto un elevato grado di
approfondimento, come in epoca contemporanea,
prevalse per molto tempo l’ipotesi che le piramidi
fossero state costruite con rampe diritte, sebbene gli
stessi archeologi affermano che tale metodo di
costruzione dovesse essere affiancato da un altro
che permettesse, per mezzo di leve, il sollevamento
dei pesanti blocchi di pietra e il loro posizionamento
sul corso di muratura. Tra i principali studiosi che
hanno ipotizzato l’uso di rampe diritte si possono
ricordare Jean Philippe Lauer, Louis Croon e Ludwig
Borchardt9
ANALISI DEI METODI DI COSTRUZIONE DELLE
PIRAMIDI: DIVERSE IPOTESI
Le poche e sommarie, per quanto importanti,
informazioni tecniche pervenute dalle testimonianze
storiche precedentemente citate (Erodoto, Diodoro
Siculo, Strabone, Plinio il Vecchio) hanno permesso,
in passato, di concentrare l’attenzione, negli studi
ingegneristici e di architettura antica, su alcune
importanti ipotesi riguardanti le tecniche di
costruzione delle piramidi, che possono essere,
fondamentalmente, riassunte nell’impiego di rampe
per il trasporto e il sollevamento dei blocchi di pietra
e nell’ausilio di attrezzature o semplici macchine per
il sollevamento delle pietre stesse. Di seguito
vengono illustrate le principali ipotesi che sono state
elaborate nel corso dei decenni di studi realizzati in
materia:
METODO DI COSTRUZIONE FONDATO SU
RAMPE
La maggior parte degli studiosi (egittologi, ingegneri
e studiosi di architettura antica) ritiene
comunemente accettabile la tesi secondo cui le
piramidi della piana di Giza furono costruite con
l’ausilio di rampe, sulle quali furono trasportati i
!
Fig. 4 esempio di rampa diritta
Le rampe diritte presentavano una serie di
caratteristiche tecniche che devono essere
attentamente valutate:
- erano composte di materiali misti come terra,
detriti e pietra
- venivano posizionate su un lato in costruzione
della piramide
- presentavano una pendenza che variava nel
tempo man mano che procedeva la costruzione;
27
partendo dal dato effettivo relativo all’altezza della
Grande Piramide, di 146,7 m circa, è possibile in
modo approssimato calcolare la lunghezza che
avrebbe dovuto avere la rampa per raggiungere i
vari corsi di muratura secondo la formula
L = (A / % P) X 100
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
ALTEZZA
LATO
PIRAMIDE
(A)
%
LUNGHEZZ
PENDENZA A RAMPA
(% P)
(L = A / %P)
X 100
25 m
5%
500 m
50 m
5%
1000 m
75 m
5%
1500 m
100 m
5%
2000 m
125 m
5%
2500 m
146,7 m
5%
2934 m
25 m
10%
250 m
50 m
10%
500 m
75 m
10%
750 m
100 m
10%
1000 m
125 m
10%
1250 m
146,7 m
10%
1467 m
dove L indica la lunghezza della rampa, A esprime
l’altezza del lato in costruzione (cioè il dislivello da
superare), % P indica la percentuale di pendenza
(che può essere espressa eventualmente anche in
termini unitari se non si moltiplica per 100). In tal
modo si ottiene, ad esempio, una tabella di questo
tipo:
- una volta che veniva completato un corso di
muratura, la rampa doveva essere riposizionata
per il corso successivo, per cui doveva essere
allungata; tale operazione poteva determinare,
anche se solo temporaneamente, l’interruzione
dei lavori
PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLE
RAMPE DIRITTE:
le prove archeologiche relative alle scoperte
realizzate intorno alle piramidi hanno dimostrato
l’esistenza di piccole rampe e camminamenti
inclinati che tuttavia, secondo gli studiosi, non
furono sufficienti per approntare l’opera nel suo
complesso. Le rampe diritte, essendo molto lunghe,
avrebbero dovuto sostenere il peso di blocchi di
pietra molto pesanti (alcuni fino a 200 tonnellate),
per cui una volta che fossero stati trainati su tali
rampe, avrebbero potuto determinarne il crollo, a
meno che il materiale di cui erano composte le
rampe non fosse stato lo stesso dei blocchi
trasportati (pietra calcarea); in tal senso gli studiosi
sostengono che tali rampe sarebbero state molto
costose, in termini di materiale e forza lavoro
impiegata.
RAMPE A SPIRALE:
Un’importante ipotesi alternativa a quella delle
rampe diritte, sostenuta anche da egittologi di fama
mondiale come Mark Lehner e George Goyon, è
quella secondo cui le piramidi furono realizzate,
presumibilmente, con l’ausilio di rampe a
“spirale”10. Secondo questa ipotesi sarebbero state
realizzate delle rampe che avvolgevano la struttura
dei corsi di muratura, partendo da una rampa
principale (più lunga) che poi “roteava” intorno alla
struttura. In particolare, le rampe a spirale potevano
essere di due tipi:
- rampe a spirale sostenute dalla sovrastruttura
- rampe a spirale appoggiate alla struttura già
realizzata e sovrapposte
Mark Lehner ha ipotizzato nelle sue pubblicazioni
che la rampe a spirale partissero dalle cave di
estrazione (situate a sud – est di Giza) per poi
raggiungere i lati inclinati della piramide per ruotare
intorno ad essa. I pesanti blocchi di pietra venivano
quindi trascinati su queste rampe con l’ausilio,
presumibilmente, di slitte trainate da operai e
lubrificate con acqua o altre sostanze
28
!
state, secondo alcuni studiosi, costruite con un
minor apporto di materiale rispetto alle rampe
esterne, ma ciò avrebbe reso la struttura stessa
delle rampe più instabile
- inoltre per poter posizionare i blocchi lisci e
levigati, tipici delle piramidi di Giza, in alcuni punti le
rampe a spirale non avrebbero potuto appoggiare
sulla struttura liscia dei blocchi di pietra, ma
avrebbero dovuto essere smontate per posizionare i
blocchi già levigati (cioè si ritiene che i blocchi
venissero levigati e lisciati prima di essere innalzati
sui corsi di muratura, per cui si dovevano costruire
ulteriori punti di appoggio come detto
precedentemente)
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Fig 5 diverse tipologie di rampe a spirale
RAMPE TORNANTI (A ZIG ZAG)
Secondo gli egittologi, il materiale indispensabile per
realizzare rampe a spirale sarebbe stato in quantità
inferiore rispetto a quello necessario per costruire
rampe diritte, per cui avrebbe determinato un minor
dispendio di energie umane e minori costi di
costruzione.
PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLE
RAMPE A SPIRALE
Altri studiosi, come l’egittologo tedesco Holscher,
ipotizzarono che le piramidi furono realizzate con
l’impiego di rampe tornanti o a zig zag, che
venivano posizionate su un solo lato dell’edificio;
secondo gli egittologi questo tipo di rampe poteva
essere impiegato anche come metodo secondario di
trasporto dei blocchi negli ultimi tratti da percorrere
per giungere alla cima della piramide, anche se
nelle parti inferiori dell’edificio fossero state
impiegate altre tipologie di rampe.
Le evidenze relative ai ritrovamenti archeologici
realizzati nel corso di decenni di scavi non hanno
provato l’esistenza diretta di rampe a spirale; inoltre
sono state messe in luce diverse criticità
relativamente all’ipotesi delle rampe a spirale che
devono essere attentamente analizzate:
- a causa delle caratteristiche ingegneristiche delle
rampe a spirale, che ruotavano intorno ai lati della
piramide, era estremamente difficile manovrare i
pesanti blocchi di pietra, soprattutto se fosse stata
richiesta una rotazione di 90° (ad angolo retto)
- un altro importante elemento di criticità delle
rampe a spirale sarebbe stato legato alle notevoli
difficoltà che sarebbero sorte per controllare la
forma e la struttura dei lati nonché la pendenza degli
stessi, poiché la struttura sarebbe stata ricoperta
dalle rampe, per cui avrebbe potuto indurre in errore
i costruttori
- l’impiego di rampe tortuose o a spirale avrebbe
determinato la necessità di costruire ulteriori
ponteggi o basi di appoggio per raggiungere
determinate parti della struttura che non potevano
essere raggiunte direttamente dalle rampe esterne,
complicando ulteriormente l’esecuzione dell’opera
- nel caso in cui fossero state costruite rampe a
spirale sovrapposte alla struttura, queste sarebbero
!
Fig. 6 rampe a ‘zig-zag’
Secondo gli egittologi l’impiego di rampe a zig zag
avrebbe permesso di controllare con maggiore
facilità i 3 lati scoperti e gli angoli della piramide
rispetto ad altre tipologie di rampe.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
29
PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLA
RAMPE A ZIG ZAG
Anche per la presunta presenza di rampe tornanti a
zig zag non sono state rinvenute particolari prove
archeologiche, sebbene si ritiene che potessero
essere state abbinate ad altre tipologie di rampe
situate a livelli inferiori; i maggiori inconvenienti delle
rampe a zig zag sarebbero legati alle notevoli
difficoltà che avrebbero incontrato gli operai a
manovrare i pesanti blocchi lungo i tratti tornanti
della rampa (che formano angoli quasi retti), per cui
gli operai avrebbero potuto trasportare i blocchi di
pietra solo in linea retta e poi avrebbero dovuto
risollevarli ogni volta che giungevano al punto di
rotazione del tornante della rampa; inoltre per poter
garantire la funzionalità delle stesse con una
pendenza accettabile (5 – 10%) avrebbero dovuto
presentare diversi tornanti, con un incremento
notevole dell’impiego di materiale per la loro
costruzione11.
Fig. 7 rampe interne
PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLE
RAMPE INTERNE
Non sono state trovate evidenze archeologiche di
rampe interne, sebbene esistano prove di
camminamenti e piccole rampe, come accennato in
precedenza; inoltre è importante sottolineare che le
ipotesi introdotte dall’egittologo Arnold non hanno
trovato particolare riscontro nella comunità
scientifica, poiché si ritiene che le rampe di questo
tipo avrebbero potuto rappresentare un notevole
ostacolo per i lavori relativi alle camere interne della
piramide di Cheope. Inoltre man mano che esse si
avvicinavano alla sommità della piramide avrebbero
dovuto diventare molto ripide per cui avrebbero reso
quasi impossibile il trascinamento e il
posizionamento dei blocchi di pietra12.
RAMPE COMBINATE:
RAMPE INTERNE:
!
L’egittologo tedesco Dieter Arnold ipotizzò che le
piramidi possano essere state costruite con l’ausilio
di rampe interne, che partono dall’esterno del corpo
della piramide per inoltrarsi nella parte incompleta
della sovrastruttura. In tal caso le rampe
presenterebbero la struttura di rampa diritta che si
inoltra nella parte interna incompleta e Arnold
suppose che, per quanto riguarda Cheope, tale
rampa avrebbe potuto essere posizionata in modo
tale da agevolare almeno il trasporto dei blocchi
verso la parte elevata della struttura. Le rampe
interne avrebbero avuto il vantaggio di richiedere
una minore quantità di materiale necessario per la
loro costruzione
Alcuni studiosi, come Rainer Stadelmann, hanno
ipotizzato che le piramidi siano state costruite con
l’impiego di rampe “combinate”; questo modello
consisteva in rampe diritte, più piccole rispetto a
quella “unica”, che venivano posizionate su ogni lato
in costruzione e permettevano il trasporto in
contemporanea di blocchi di pietra da parte di più
squadre di uomini su diversi punti dei corsi di
muratura; queste rampe erano realizzate,
presumibilmente, con detriti di pietrisco, mattoni di
fango o terra e dovevano essere sufficientemente
resistenti. Le rampe combinate venivano impiegate
soprattutto per i primi metri di costruzione mentre
per le parti più elevate della piramide venivano
montate altre rampe a gradoni sulla sovrastruttura
già realizzata, in modo tale da permettere il
trasporto dei blocchi verso l’apice. Secondo gli
studiosi le rampe combinate presentavano il
vantaggio di accelerare i tempi di costruzione dei
primi corsi di muratura delle piramidi (in quanto il
materiale veniva trasportato più rapidamente).
30
IL METODO DI TRASPORTO ROPE – ROLL DI
FRANZ LOHNER:
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
!
Fig. 8 rampe combinate
PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DELLE
RAMPE COMBINATE
Anche per le rampe combinate vi sono notevoli
dubbi sull’esistenza delle stesse poiché non sono
state ritrovate prove effettive del loro impiego se non
in misura limitata; inoltre dagli studi sono emerse
una serie di criticità notevoli che devono essere
attentamente valutate:
- le rampe, situate su un determinato livello dei corsi
di muratura, dovevano essere spostate quando si
terminava il trasporto dei blocchi nei punti prescelti e
si doveva iniziare con altri, e quindi occorreva
disfare la rampa e ricostruirla in altri punti (in tal
caso, forse, i mattoni di fango e la terra venivano in
parte riutilizzati). Comunque il lavoro doveva essere
interrotto e poi ripreso successivamente
- i blocchi di pietra di maggiori dimensioni, destinati
alle parti più elevate della piramide, avrebbero
creato, con questo tipo di rampe, gravi problemi di
trasporto e carico sulle rampe superiori; infatti per
poter essere posizionati nelle parti superiori della
piramide, i blocchi più pesanti potevano essere
trascinati solo in direzione retta, per cui avrebbero
dovuto essere ripetutamente sollevati per essere
inseriti nella parte superiore della piramide
- nelle parti superiori della piramide le rampe di
questo tipo avrebbero richiesto una maggiore
quantità di materiale da costruzione per essere
realizzate, con un maggiore dispendio di energie
umane e costi elevati (13) (14) .
Lo studioso Franz Löhner ipotizzò nei suoi studi che
il metodo impiegato per trasportare i pesanti blocchi
di pietra sui corsi di muratura fosse basato
sull’impiego di slitte trainate dagli operai e
agganciate su piste di legno ancorate ai lati della
piramide con il meccanismo del Rope – Roll
(letteralmente Corda arrotolata o rotolo di corda). Le
slitte erano così agganciate a delle piste di legno
situate sui fianchi della piramide e i blocchi di pietra
venivano appoggiati sulle slitte e trainati con la forza
degli operai che facevano muovere le stesse con
delle corde arrotolate; in tal modo gli operai
riuscivano, senza eccessive difficoltà, a muovere i
pesanti massi lungo i fianchi della piramide con una
pendenza di circa 52° sfruttando la propria forza e il
proprio peso abbinato al movimento delle slitte.
Secondo Löhner con questa metodologia gli operai
potevano muoversi in entrambi i lati della pista e
non necessariamente davanti alle slitte in modo da
ridurre i tempi di percorrenza e il dispendio di
energie; in tal modo, sfruttando questa tecnica di
trasporto dei blocchi di pietra, i costruttori non
avrebbero fatto uso di rampe laterali ma le
avrebbero sostituite direttamente con le slitte
agganciate ai lati della piramide, riducendo al
minimo il costo dell’opera. Le ipotesi introdotte da
Löhner trovano parzialmente riscontro in prove
documentali ritrovate dagli archeologi in papiri in cui
sono descritti operai o animali che trainano slitte di
legno che vengono lubrificate sul terreno con acqua
o altri liquidi (come vedremo meglio più oltre) ma
ovviamente non sono state trovate ritrovate parti di
piste che comunque sarebbero andate distrutte nel
tempo15.
31
!
Fig. 10 Trasporto dei blocchi di pietra sui lati
!
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Fig. 9 trasporto blocchi con slitte rope-roll
I L M E TO D O D I T R A S P O R TO D I R E T TO
LATERALE:
Alcuni studiosi come il Prof. J.F. Edwards
(dell’Università di Cambridge) hanno ipotizzato che
per la costruzione delle piramidi sia stato impiegato
il metodo di trasporto diretto dei blocchi di pietra
lungo i lati delle piramidi con l’ausilio di corde, quindi
senza l’ausilio di rampe e slitte su piste di legno.
Con questo metodo di trasporto:
- i blocchi di pietra erano legati con corde lungo la
superficie laterale delle piramidi e trascinati verso
l’alto da squadre di operai che erano posizionati sul
plateau della piramide stessa e che si muovevano in
orizzontale. Le pietre venivano quindi “tirate” verso
l’alto fino a raggiungere il bordo del plateau dove poi
venivano trascinate, issate e posizionate sui corsi di
muratura
Il vantaggio principale di questo metodo consisteva
nell’evitare la costruzione di rampe che
rappresentavano un notevole costo in termini di
energie umane sprecate e in termini di materiali edili
da produrre per realizzare le rampe stesse(16) (17).
PROVE ARCHEOLOGICHE E SVANTAGGI DEL
TRASPORTO DIRETTO LATERALE:
Non esistono prove documentali che facciano
esplicito riferimento ad un metodo di trasporto di
questo tipo, che comunque non sarebbe stato
documentabile in quanto tale a meno che non
fossero ritrovati papiri che illustrano il metodo con
disegni che richiamano direttamente questo metodo
di trasporto. Secondo gli studiosi inoltre tale
tipologia di trasporto comportava svariati e gravi
problemi che devono essere attentamente valutati:
- i blocchi di pietra, che presentavano un peso
minimo a partire da 2,5 tonnellate, dovevano essere
trascinati lungo le pareti della piramide con una
pendenza di circa 52° (per la precisione 51°52’) per
cui anche se tali blocchi erano ben legati con le
corde appositamente realizzate per il trasporto, ciò
avrebbe rappresentato per molti studiosi un’impresa
quasi impossibile senza l’ausilio di mezzi di
sollevamento e di rampe.
- le corde di maggiore lunghezza, necessarie per
trainare i blocchi dal piano terra ai corsi di muratura,
potevano essere sostituite con quelle più corte,
necessarie per trainare i blocchi al piano di lavoro
sul plateau, solo quando le pietre erano già state
posizionate sulla piattaforma, per cui nel frattempo
le corde più lunghe avrebbero ostacolato
notevolmente le lavorazioni in corso.
- man mano che aumentava l’altezza dell’edificio,
con la pendenza prevista, lo spazio effettivo di
lavorazione si riduceva sempre di più, con la
riduzione del plateau disponibile mentre i costruttori,
dal basso, avrebbero dovuto impiegare cavi di corda
di lunghezza superiore ai 200 m.
- nel momento in cui la lunghezza del blocco di
pietra fosse stata superiore alla porzione di piano su
32
cui si trovavano gli ultimi corsi di muratura
(approssimandosi alla cima) gli operai avrebbero
potuto operare materialmente solo camminando
sull’altro lato della piramide, con problemi enormi di
sicurezza e di stabilità del materiale e attrezzature
stesse
- con questo metodo di trasporto, sulla piattaforma
in costruzione, il numero di operai necessario per
trainare le pietre sarebbe stato molto elevato, per
cui avrebbe creato enormi problemi nella
gestione delle squadre di trasporto del materiale.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
SPECIFICHE TECNICHE SU ATTREZZATURE DA
SOLLEVAMENTO:
Nel periodo in cui, presumibilmente, furono costruite
le piramidi della IV dinastia (tra il 2650 e il 2450 a.C.
circa) lo stato della tecnologia di cui potevano
disporre i costruttori permetteva loro di impiegare
semplici attrezzature per il sollevamento di manufatti
e blocchi di pietra, come, per esempio, argani,
corregge e piani inclinati. Col passare del tempo
furono introdotte la ruota, con tutti gli strumenti
derivati e altre tipologie di attrezzature che man
mano divennero più complesse e articolate, ma che
non potevano essere esistenti, presumibilmente
durante la IV dinastia; tra gli strumenti più importanti
dell’epoca si possono ricordare:
- SHADUF: lo shaduf è uno strumento impiegato dai
contadini e operai per sollevare acqua da un fiume o
da un pozzo; fu introdotto almeno a partire dal II
millennio a.C., anche se vi sono testimonianze già
nel III millennio a.C. in alcuni rilievi sumero –
accadici (risalenti intorno al 2500 a.C.). Lo shaduf in
uso presso gli egizi era composto da due pali
conficcati nel terreno e uniti in alto da un asse di
legno su cui poggiava una pertica. Sui due estremi
della pertica vi sono un contrappeso, che permette
di sollevare la stessa, e un recipiente che permette
di raccogliere l’acqua. In una giornata di lavoro è
stato calcolato che un singolo operaio potesse
raccogliere all’incirca 3 mc di acqua.
!
Fig. 11 Shaduf egizio
Nell’ambito dell’analisi dei potenziali macchinari
disponibili per il sollevamento di manufatti, durante
l’Antico Regno, è stato ipotizzato che con apposite
modifiche lo shaduf egizio avrebbe potuto essere
impiegato per il sollevamento dei blocchi di pietra.
Questa ipotesi è senza dubbio molto interessante,
dal punto di vista storico – scientifico, poiché
fondata sulla conoscenza effettiva di tale
meccanismo di sollevamento pesi nell’epoca
considerata, ma ritenuto quasi impossibile da
attuare; infatti per poter utilizzare appositi shaduf
modificati, i costruttori delle piramidi avrebbero
dovuto costruire delle torri di legno di e poi queste
avrebbero dovuto essere posizionate ai vari livelli di
muratura, in modo da essere impiegate per il
sollevamento dei blocchi di pietra ma secondo molti
studiosi tale operazione sarebbe stata molto
complessa poiché uno shaduf, per quanto
modificato e rafforzato con travi molto spesse, non
sarebbe stato in grado, comunque, di sollevare
numerosi blocchi pesanti oltre 2,5 tonnellate
soprattutto con tempi tecnici rapidi come,
presumibilmente, era richiesto per quest’opera (vi
sono dubbi anche sulla capacità di tenuta delle travi
di legno).
- MACCHINA A LEGNI CORTI: la macchina di
sollevamento a legni corti fu descritta, come
accennato precedentemente, da Erodoto nel suo
testo Le Storie in modo abbastanza preciso;
secondo le ipotesi introdotte da alcuni studiosi la
macchina consisteva di un’intelaiatura in legno
formata da tre assi di legno obliqui a cui veniva
33
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
fissata una pertica orizzontale che poteva oscillare
liberamente e alla quale veniva legato con corde
strette un blocco di pietra di peso variabile (dai 500
kg fino a oltre 2,5 tonnellate). Gli operai facevano
oscillare la pertica di legno, a cui era legato il
masso, in avanti e all’indietro e, ad ogni passaggio,
liberando lo spazio sulla base della macchina,
venivano inseriti nell’apposito alloggiamento
sottostante alla pietra, dei legni corti (di spessore
variabile) che una volta posizionati facevano “salire”
il blocco di pietra verso l’alto, permettendo così di
sollevare il blocco in modo più o meno rapido per
poi posizionarlo sui corsi di muratura.
di una nave. Secondo gli studiosi il problema
fondamentale dell’impiego di macchine ad argano
era legato all’effettiva conoscenza, da parte degli
Egizi, di macchinari fondati sull’uso della rotazione
circolare in un periodo in cui non vi sono
testimonianze dirette della loro conoscenza della
ruota che era già in uso presso i Sumeri (in Egitto fu
introdotta successivamente), per cui ipotesi fondate
sull’uso di specifiche macchine basate sull’impiego
di meccanismi a rotazione diretta è considerato
poco attendibile. Allo stesso modo altre attrezzature
e macchine come carrucole e gru a cavalletto sono
da scartare per lo stesso identico motivo non
essendo conosciute, sulla base delle informazioni
disponibili per l’epoca, dagli Egizi nel periodo della
IV dinastia (cominciarono ad essere impiegate in
epoche successive).
ALTRE IPOTESI RELATIVE ALLE TECNICHE DI
COSTRUZIONE DELLE PIRAMIDI
L’IPOTESI DELLA RAMPA INTERNA DI JEAN
PIERRE HOUDIN
!
Fig. 12 macchina a legni corti per il sollevamento
blocchi
Alcuni studiosi, tuttavia, ritengono che la stessa
macchina a legni corti avrebbe provocato seri
problemi per il sollevamento dei blocchi di pietra,
poiché, man mano che cresceva l’altezza
dell’edificio, arrivando oltre i 100 m di altezza, il
sollevamento dei blocchi di pietra ad altezze
notevoli avrebbe richiesto un numero elevato di
manovre e di trasferimenti orizzontali che avrebbero
ostacolato in modo determinante il lavoro di
completamento dell’edificio stesso.
- ARGANO E CABESTANO: l’argano è una
macchina per sollevare manufatti formata da un
bobina e da un tamburo centrale, in forma cilindrica,
collegata ad una intelaiatura di legno, a cui sono
fissate manovelle laterali che permettono di roteare
il tamburo. Alla bobina è fissata una corda a cui è
attaccato il manufatto (blocchi di pietre ecc.). Gli
operi fanno girare le manovelle laterali e sollevano
l’oggetto facendo avvolgere la corda intorno al
tamburo centrale. Un meccanismo simile ma
impiegato in verticale per il sollevamento di pesi
poteva essere quello del cabestano meccanico,
impiegato in marina per il sollevamento dell’ancora
Nel 1999 lo studioso francese Henri Houdin, di
professione Architetto, ipotizzò che le piramidi, in
particolare la piramide di Cheope, fossero state
costruite con l’ausilio di una particolare tecnica di
costruzione fondata sull’impiego di rampe interne
alla struttura, sfruttando particolari macchine per il
sollevamento dei blocchi di pietra come lo shaduf
modificato. L’ipotesi innovativa di Henri Houdin fu
elaborata dal figlio Jean Pierre che fu il primo
Architetto a realizzare un modello tridimensionale
della piramide di Cheope; in particolare lo studio
architettonico di Houdin per la piramide di Cheope
mise in luce alcuni importanti elementi che possono
essere così riassunti18:
- la costruzione fu realizzata per il 30% circa della
sua altezza (45 m) con l’ausilio di rampe esterne
realizzate con pietre e detriti, mentre per la parte
restante fu impiegata una rampa interna utilizzata
per portare i blocchi al di sopra del precedente
livello di altezza. In particolare le due rampe
esterne, per il carico dei blocchi di pietra, avevano
una lunghezza complessiva di circa 970 m ed erano
ubicate sulla piana di Giza in modo tale da superare
un dislivello di circa 40 – 43 m tra il porto fluviale e
la facciata sud della piramide, con una pendenza
media dell’8,55% ([(41,5/8,55)* 100]*2); le due
rampe esterne si univano in corrispondenza del
punto di ingresso nella piramide di Cheope,
formando un angolo di 80° e la seconda rampa fu
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
34
impiegata per trasportare anche il materiale per la
piramide di Chefren. La terza rampa era situata
all’interno dell’edificio e partiva da una piattaforma
sul lato sud a circa 43 m di altezza correndo in
direzione opposta rispetto alla grande Galleria.
- in un secondo momento, quindi, i blocchi di pietra
impiegati per la rampa esterna, vennero riciclati per
realizzare la rampa interna, spiegando il motivo
dell’apparente impossibilità di ritrovarne reperti nella
zona
- secondo il modello di Houdin ogni braccio della
rampa interna correva parallelamente ai lati della
piramide per poi compiere una “rotazione” di 90° ad
angolo retto e salire verso l’alto correndo lungo
l’altro lato della piramide, formando, in tal modo, una
“spirale quadra” che sale verso la cima della
piramide. In queste rampe ascendenti a spirale
furono trasportati i blocchi di pietra verso le parti
elevate dei corsi di muratura, facendo uso di slitte
trainate da operai e lubrificate lungo il percorso.
!
Fig. 13 rampe interne secondo J.P. Houdin
- secondo Houdin ogni braccio della rampa interna
terminava con uno spazio aperto, una sorta di tacca,
lasciata volutamente sul lato dell’edificio e questa
superficie era pari all’incirca a 10 m2. In questo
breve spazio i costruttori installarono una macchina
per sollevare pesi che è stata definita “doppio
shaduf” in quanto sfruttava il principio di
funzionamento dello shaduf precedentemente
descritto; in particolare questa macchina veniva
posizionata lungo i tornanti di rotazione della rampa
interna e permetteva, in tal modo, il sollevamento e
il cambio di direzione (per rotazione angolare di 90°)
delle slitte con i blocchi di pietra da 2,5 tonnellate,
permettendo a squadre di 8 operai di immettere i
blocchi di pietra sulle rampe superiori in modo da
raggiungere i corsi di muratura più elevati.
!
Fig. 14 macchina per sollevare pesi ‘doppio shaduf’
- le analisi condotte da Houdin in collaborazione con
l’egittologo Bob Brier, nel 2008, hanno dimostrato
che effettivamente questi spazi aperti all’esterno
corrispondono ai punti di intersezione delle rampe
interne con i lati della piramide e, penetrandovi
all’interno, i due studiosi hanno ipotizzato che sia
possibile salire dal basso verso l’alto. Più
specificamente gli incavi ritrovati da Houdin furono
ispezionati dall’egittologo Bob Brier ad un’altezza di
81 m sullo spigolo nord – est della piramide di
Cheope; entrandovi Brier scoprì un’apertura
secondaria che permetteva di accedere ad un locale
più interno che aveva una forma ad L e che
misurava circa 3x3 m. La struttura interna del locale
fu ricostruita in formato 3D dimostrando che essa
aveva una volta a cupola e un volume interno
inferiore a quanto originariamente ipotizzato da
Houdin, per cui lo stesso Architetto rivide parte del
suo progetto originario19.
35
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
!
Fig. 15 incavo ritrovato da Houdin e Brier sulla
Piramide di Cheope
Le ipotesi introdotte da Jean Pierre Houdin non
hanno trovato particolare riscontro presso la
comunità scientifica degli egittologi, poco propensi a
modificare le tesi relative alle rampe esterne;
tuttavia le sue ipotesi hanno trovato parziale
conferma in un importante studio realizzato nei
decenni scorsi sulla piramide di Cheope. Nel 1986
un gruppo di ricercatori realizzò un’analisi
microgravimetrica della piramide di Cheope; l’analisi
microgravimetrica si prefigge lo scopo di individuare
delle cavità e spazi vuoti nel sottosuolo oppure di
verificare la stabilità di fondamenta di edifici e
infrastrutture varie. Al termine del loro studio i
geologi redassero una relazione finale e misero a
disposizione degli studiosi alcuni disegni in cui si
evince, da una prima analisi, una struttura interna
come quella descritta da Houdin. Gli studiosi che
propendono per la teoria delle rampe interne di
Houdin ritengono che sarà possibile fornire nuove e
importanti prove dell’esistenza delle rampe a spirale
interne attraverso ulteriori indagini come la
fotografia a raggi infrarossi che permetterebbe di
valutare la struttura interna della stessa con il
raffreddamento serale della piramide.
L’IPOTESI DEL TRASPORTO E SOLLEVAMENTO
IDRAULICO DI MANUEL MINGUEZ
Nel 1985 l’Ingegnere e studioso Manuel Minguez
ipotizzò, in un suo lavoro di ricerca20, che gli Egizi,
oltre a trasportare i blocchi di pietra su chiatte
galleggianti sul Nilo (ipotesi accettata dalla maggior
parte degli studiosi), sfruttarono delle tecniche
idrauliche per sollevare i pesanti massi e
posizionarli sui corsi di muratura, per mezzo di un
sistema complesso di chiuse con galleggianti.
L’ipotesi elaborata da Minguez derivò da un
importante studio delle caratteristiche geologiche,
morfologiche e idriche della piana di Giza, a cui si
affiancò uno studio delle architetture dei templi egizi.
Minguez notò, innanzitutto, che tutti o la maggior
parte dei complessi funerari presentavano come
punto comune, la presenza del tempio a valle, che
era collegato direttamente al fiume oppure
connesso per mezzo di un canale. Dai templi partiva
proprio una “strada” che rappresentava il percorso
che sarebbe stato seguito dai cortei funebri per
portare il feretro dei principi alla dimora eterna, ma
questo percorso superava circa una quarantina di
metri di dislivello (come accennato
precedentemente). Secondo Minguez questo
percorso fu impiegato per costruire un sistema di
trasporto fluviale che, come in una grande “scala”
idraulica, permettesse alle chiatte di portare i blocchi
di pietra, in modo abbastanza agevole, fino alla
struttura in costruzione. Questo sistema consisteva
di grandi vasche idrauliche, collegate tra di loro da
un sistema di chiuse, che permetteva alle
imbarcazioni cariche con i blocchi di pietra, di
superare il dislivello presente rispetto al livello del
porto fluviale (in cui approdavano i blocchi
trasportati dal Nilo) e di permettere in tal modo agli
operai di trasportare i massi a ridosso della piramide
senza doverli trainare fisicamente su rampe esterne.
In un secondo momento i blocchi di pietra venivano
issati sui corsi di muratura per mezzo di rampe
elicoidali o a spirale che avvolgevano la piramide,
sulle quali i blocchi di pietra venivano sospinti
appoggiandoli su rulli di legno. Il sistema di trasporto
idraulico ideato da Minguez richiedeva, senza
dubbio, un carico di lavoro molto elevato ai
costruttori, poiché, per realizzare un sistema di
chiuse di tale livello di complessità, i costruttori
avrebbero dovuto spendere molto tempo ed energie
per realizzare le rampe di accesso per le vasche,
nonché l’armatura stessa in pietra delle vasche
idrauliche di cui non sarebbe rimasta traccia nella
piana di Giza (opera che sarebbe considerata
ancora più complessa e difficile da realizzare
rispetto alle rampe inclinate esterne); inoltre la teoria
di Minguez non considera sufficientemente
l’importanza che avrebbero avuto le rampe elicoidali
o a spirale necessarie per issare i massi sui corsi di
muratura, per cui la maggior parte degli egittologi e
36
studiosi ha criticato come non fattibile questa
ipotesi.
veniva inondato di acqua. Il blocco di pietra veniva
quindi a trovarsi nel pozzo verticale dell’ascensore
inondato di acqua e, per mezzo di galleggianti,
saliva verso l’alto uscendo dall’ascensore. Qui poi
veniva posizionato nella zona di appoggio e inserito
nei corsi di muratura.
!
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Fig. 16 ipotesi trasporto idraulico blocchi di M.
Minguez
E’ comunque importante precisare che esiste una
variante all’ipotesi di Minguez che consiste
nell’ipotizzare un sistema di canali e chiuse con
ascensori idraulici che si addentrava nella piramide
e, che per mezzo di galleggianti, permetteva di far
salire i blocchi di pietra verso l’alto fino a farli
giungere al livello di altezza desiderato. In
particolare la variante all’ipotesi di Minguez
prevedeva che venisse realizzato il seguente
percorso progettuale:
- all’inizio dei lavori veniva scavato un canale
orizzontale, con apposita pendenza verso la
piramide
- in questo canale venivano trasportati i primi blocchi
di pietra necessari per costruire le fondamenta
dell’edificio e i muri perimetrali del livello più basso
- si costruiva intorno al canale, in modo che
defluisse all’interno dell’edificio, un argine
perimetrale con uno strato di blocchi, in modo tale
da determinare la formazione di un canale interno a
cui si affiancava un ascensore ad acqua da
inondare.
- in tal modo i blocchi di pietra giungevano all’interno
del canale, provenendo dal canale esterno e
arrivavano alla base dell’ascensore interno (a
canalone verticale)
- a questo punto veniva inserita una chiusa
all’imbocco del canale interno e una all’uscita del
plateau della piramide, cioè all’uscita dell’ascensore
idraulico che fungeva da “tubo”
- il blocco di pietra, galleggiando, raggiungeva la
base dell’ascensore. A questo punto veniva tappata
la chiusa che stava all’imbocco del canale interno
(cioè la chiusa in basso) mentre veniva aperta la
chiusa in alto all’uscita dell’ascensore e questo
!
Fig. 17 ascensore ad acqua interno alla piramide
Secondo alcuni studiosi questa variante all’ipotesi di
Minguez è l’unica in grado di spiegare come sia
stato possibile sollevare fino a oltre 80 m di altezza
blocchi che superano il peso di 60 – 80 tonnellate e
posizionarli nei corsi di muratura interni della
piramide laddove sarebbe stato quasi impossibile
calarli dall’alto e operare con macchine di
sollevamento a causa degli spazi estremamente
limitati. Nella variante di Minguez si è ipotizzato che
i costruttori abbiano realizzato un sistema di pozzi
verticali di risalita dell’acqua verso l’alto in modo da
disporre delle risorse idriche necessarie per
inondare l’ascensore ad acqua; gli ingegneri hanno
cercato di determinare se potessero esistere le
condizioni tecnologiche che avrebbero permesso, in
un’epoca così remota, ai costruttori, di realizzare
un’opera di siffatta portata ed effettivamente
sappiamo con certezza che già nell’epoca
predinastica gli Egizi erano dei maestri nell’arte
della lavorazione dell’argilla e della ceramica, per
cui realizzarono, secondo questa ipotesi, dei veri e
propri pozzi di risalita dell’acqua che furono
impiegati per convogliare l’acqua verso l’alto per
riempire e svuotare l’ascensore idrico. Secondo
questa ipotesi i tubi dei pozzi furono costruiti in
argilla in modo da raggiungere un’altezza di circa
100 m ed erano in grado di resistere ad una
pressione di oltre 10 atmosfere; ipotizzando che
l’ascensore ad acqua avesse una superficie di 16
m2 circa e un’altezza di circa 100 m, il suo volume
sarebbe stato pari a circa 1600 m3, per cui
ipotizzando che l’acqua entrasse nell’ascensore ad
una velocità di 0,5 m3 al secondo (500 litri al
37
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
secondo) occorrevano circa 53 minuti affinché un
blocco di pietra potesse raggiungere l’altezza di
circa 100 m (0,5:1=1600:X da cui X = 1600/0,5 cioè
3.200 secondi dove 3200 secondi sono 3200/60 =
53,33 minuti), per cui in una giornata di 10 ore
sarebbe stato possibile inserire circa 10 blocchi al
giorno. Se invece l’altezza fosse stata pari a circa
50 m il volume sarebbe stato pari a circa 800 m3 e
ipotizzando che l’acqua entrasse con la stessa
cubatura al secondo, avrebbe richiesto 1600
secondi per giungere a 50 m di altezza, cioè circa
26 minuti per un blocco, con un totale di circa 24
blocchi al giorno nel caso si fosse lavorato 10 ore.
Ovviamente, poiché ci si muove in ambito
puramente ipotetico, non si ha alcuna certezza su
questo computo.
ELEMENTI DI CRITICITA’DELL’IPOTESI DEL
TRASPORTO IDRICO DI MINGUEZ
La comunità scientifica, come già accennato
precedentemente, ha fatto quadrato contro la teoria
di Minguez argomentando sul fatto che la
costruzione di chiuse e vasche idrauliche per
realizzare il trasporto dei blocchi fino alla piramide
avrebbe determinato degli elevati livelli di criticità di
tipo tecnico che sarebbero stati maggiori di quelli
che si sarebbero riscontrati con le rampe esterne;
inoltre non è ben chiaro quale avrebbe potuto
essere il ruolo dei pozzi verticali di risalita dell’acqua
che sono stati ritrovati in alcuni edifici ma non in
altri. Nella piramide di Djoser, infatti, sono state
ritrovate le basi di 11 pozzi verticali piccoli a cui si
aggiunge uno grande che parte da una profondità di
28 m per innalzarsi nella struttura interna della
piramide a gradoni, per cui da ciò si deduce che la
struttura degli ascensori ad acqua, situati al piano
strada, avrebbe dovuto innestarsi su una
preesistente struttura del pozzo interno, per cui non
è chiaro se l’ascensore avrebbe dovuto essere
rifornito da un pozzo sottostante o da un canale
esterno. Questo perché la presunta struttura
dell’ascensore ad acqua, situata a piano strada, non
deve essere confusa con la struttura del pozzo
stesso che partiva dalla profondità di 28 m. Poiché
non vi è certezza assoluta sull’esistenza di un
possibile ascensore idraulico interno alla piramide,
almeno per sospingere i blocchi ad altezze di 100
m, molti studiosi propendono per ipotesi alternative
di trasporto per le altezze maggiori di 50 m, come,
per esempio, l’impiego di slitte trainate da operai sul
plateau in costruzione della piramide con il sistema
del contrappeso (slitta in discesa sul fianco della
piramide con carico di operai e slitta con pietre sul
lato opposto collegata da varie funi).
L’IPOTESI DEI GEOPOLIMERI DI DAVIDOVITS:
Nel 1979 il Prof. Joseph Davidovits, chimico dei
materiali e ricercatore universitario, presentò al
congresso di Egittologia di Grenoble una nuova
ipotesi sulle tecniche di costruzione delle piramidi,
secondo cui i blocchi di pietra calcarea non furono
realizzati estraendoli dalle cave, per poi essere
levigati e trasportati fino alla costruzione, ma furono
realizzati, “in cantiere”, attraverso un processo
chimico – fisico che determina la formazione di
geopolimeri, cioè blocchi di pietra manufatti
artificialmente; questa ipotesi fu definita anche del
“cemento di calcare”. In particolare Davidovits,
riprendendo studi precedentemente realizzati nel
campo della chimica industriale, coniò il termine
“geopolimeri” per indicare dei composti sintetici a
base di alluminosilicati che trovano applicazione
nell’industria moderna e nei materiali di costruzione
(al posto del cemento) ma che, secondo lo studioso,
poterono trovare applicazione anche nell’Antico
Regno Egizio ed anche presso altre civiltà
(Tihauanaco). Secondo gli studi realizzati dal Prof.
Davidovits il processo chimico che genera i
geopolimeri può essere così riassunto21:
- reazione chimica di un alluminosilicato in polvere
con una soluzione alcalina in condizioni fisiche
compatibili con quelle ambientali
- in particolare viene impiegato il metacaolino
(2Al2O3 SiO2) ottenibile dalla reazione termica di
argilla caolinite
La reazione chimica generatrice dei geopolimeri
segue il seguente schema:
- gli ioni idrossido in soluzione determinano la
dissoluzione degli atomi di Si e Al del materiale
inserito in soluzione
- successivamente si verifica la riaggregazione in
polimeri inorganici attraverso una reazione di
policondensazione.
La teoria di Davidovits tende innanzitutto a legare
importanti scoperte realizzate in epoche moderne, e
legate allo sviluppo contemporaneo della chimica
industriale, a importanti conoscenze che possono
essere patrimonio comune di civiltà antiche e che
potevano essere presenti anche circa cinquemila
anni fa (ipotesi che fa storcere il naso agli
egittologi). La giustificazione “tecnica” della teoria
dei geopolimeri sono legate innanzitutto alla
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
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geofisica del pianeta; è importante infatti,
innanzitutto, precisare che la crosta terrestre è
formata in modo preponderante da composti di
silicio – alluminio, per cui Davidovits ipotizzò che un
singolo composto formato da Silicio e Alluminio
(esistente in natura nella struttura geologica delle
rocce) potesse essere fatto reagire in una soluzione
alcalina generando un processo di polimerizzazione.
In natura, comunque, i geopolimeri si possono
ritrovare anche in materiali pozzolanici (lava, ceneri
volanti di carbone) o comunque rocce sedimentarie
che sono fonti di metacaolina e altri alluminosilicati.
Per quanto riguarda la loro struttura e la loro
composizione occorre precisare che i geopolimeri
hanno una struttura simile alle rocce zeolitiche
(struttura a base alluminosilicati) ma non dotati di
una struttura cristallina; la struttura dei geopolimeri è
quindi caratterizzata da un gel alluminosilicato
tridimensionale che tende a creare una struttura
solida e resistente nel tempo (che ricorda, una volta
riorganizzato, la roccia calcarea). Nei suoi studi
Davidovits realizzò un’analisi corposa e dettagliata
della roccia impiegata nei blocchi di pietra utilizzati
per la costruzione delle piramidi di Giza, nonché
statue e vasi di pietra realizzati nel corso di circa
tremila anni di storia egizia e giunse all’elaborazione
dell’ipotesi secondo cui i blocchi di pietra delle
piramidi non furono estratti da cave, levigati e
trasportati in loco ma realizzati appositamente sul
posto con la tecnica fisico – chimica dei geopolimeri.
Secondo Davidovits per realizzare i blocchi di pietra
geopolimeri gli egizi impiegarono la seguente
tecnica:
- la roccia calcarea presente nelle cave di pietra
situate nella zona limitrofa al sito di Giza veniva
frantumata materialmente in piccoli pezzi che
potevano essere agevolmente trasportati in piano
con slitte non eccessivamente pesanti (trainabili
anche da parte di animali)
- una volta raccolto il materiale roccioso in piccoli
ciottoli veniva immerso in pozze situate a livello
terreno, in una soluzione liquida formata da acqua,
natron (1% che contiene carbonato idrato di sodio
Na2CO3, presente facilmente in Egitto a causa
dell’evaporazione di acque ricche di sodio) e calce
(in misura pari al 2%)
- nelle pozze di reazione i ciottoli di roccia calcarea
si disaggregavano con facilità, a causa delle
reazioni chimiche, formando una fanghiglia morbida
nella quale erano presenti argilla di caolino e soda
caustica come leganti
- una volta formato l’impasto di fanghiglia di calcare,
natron e calce, la fanghiglia veniva rimescolata in
modo da renderla più compatta possibile
- terminato il rimescolamento del materiale fangoso
questo veniva riversato in stampi di legno
appositamente creati a forma di blocco rettangolare
(di varie dimensioni) situati sui corsi di muratura e
qui veniva battuto in modo da essere reso compatto;
successivamente veniva lasciato asciugare al sole
- una volta che il blocco era completamente asciutto
veniva rimossa l’armatura in legno e il blocco di
pietra era riaggregato (ricostituito) in forma
compatta come un blocco di pietra estratto dalla
cava e levigato.
!
Fig. 18 processo di reazione dei geopolimeri
secondo Davidovitz
Con questa tecnica di costruzione in sito, che
secondo Davidovits subì un’evoluzione temporale,
nel corso di un arco di tempo di circa 600 anni (dal
periodo predinastico 3200 a.C. fino al 2600 a.C.
circa epoca delle piramidi) i costruttori arrivarono a
disporre di una tecnica raffinata a livello chimico –
fisico che permise loro di realizzare agevolmente
una struttura che dal punto di vista ingegneristico
avrebbe richiesto uno sforzo molto complesso e di
difficile realizzazione per le disponibilità
infrastrutturali dell’epoca (sollevamento di blocchi di
peso superiore a 80 – 200 tonnellate). In tal modo,
secondo Davidovits, il numero di maestranze
necessarie sicuramente per la realizzazione
dell’opera sarebbe stato di 1.400 unità in un arco di
tempo sempre ventennale, anziché le oltre 100 mila
unità ipotizzate storicamente e negli studi
ingegneristici moderni. Il Prof. Davidovits che
realizzò un’analisi dettagliata a livello chimico –
fisico dei blocchi di pietra calcarea della piramide e
delle rocce presenti nelle cave di pietra circostanti
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
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Giza, giunse alle sue conclusioni teoriche sulla base
di importanti prove dettagliatamente documentate:
- furono ritrovati in un blocco di pietra calcarea della
piramide di Cheope frammenti di peli o capelli
insieme a bolle d’aria e piccoli pezzi di intonaco; ciò,
secondo gli studiosi esperti di chimica industriale, fa
supporre che il blocco non fosse di formazione
naturale (estratto da cava) ma bensì di natura
artificiale, a dimostrazione della validità dell’ipotesi
di Davidovits
- Davidovits notò che il calcare situato nella zona di
Giza contiene fossili di conchiglie; effettuando
un’analisi della conformazione dei fossili ebbe modo
di verificare che nelle rocce calcaree le conchiglie
presentavano un “orientamento” preciso, dettato
dalla posizione assunta quando si erano depositate.
Viceversa, analizzando i blocchi di pietra della
piramide, realizzati con la stessa roccia, si accorse
che i fossili erano situati e depositati in modo
sparso, cioè il loro orientamento era disordinato (o
casuale), a dimostrazione del fatto che il materiale
calcareo era stato lavorato come in un impasto
riaggregato.
Davidovits, che presenta delle sfumature
interpretative rispetto ad altre traduzioni, è la
seguente:
(Colonna 11): C'è un massiccio di montagna nella
sua regione orientale (a Elefantina) contenente tutte
le pietre ricche di minerali, tutte le pietre (erose)
schiacciate (aggreggati appropriati per
l'agglomerazione), tutti i prodotti
(Colonna 12) cercati per costruire i templi degli dei
del Nord del Sud, le nicchie per degli animali sacri,
la piramide (tomba reale) per il re, tutte le statue che
sono erette nei templi e nei santuari. Per di più, tutti
questi prodotti chimici sono messi davanti al volto di
Knum ed intorno a lui.
(Colonna 13)... si trova là in mezzo al fiume un
posto di riposo per ogni uomo che tratta le pietre
ricche di minerali sui suoi due lati.
(Colonna 15) Impara i nomi dei materiali pietrosi che
devono essere ricercati... bekhen, il granito (eroso)
morto, mhtbt, r’qs, uteshi-hedsh (la pietra di
cipolla)... prdny, teshy.
(Colonna 16) Impara i nomi delle pietre ricche di
minerali posti a monte... oro, argento, rame, ferro,
lapisilazuli, turchese, thnt (crisocolla), diaspro, Ka-y
(la pietra di ravanello), il menu, smeraldo, temikr (la
pietra d'aglio), e in più, neshemet, ta-mehy,
hemaget, ibenet, bekes-ankh, fard vert, l'antimonio
nero, l'ocra rossa...
!
Fig. 19 blocco in pietra realizzato con tecnica
geopolimera
- Nei suoi lavori di ricerca (presentati nei congressi
del 1979 e 1988) e nelle sue pubblicazioni
Davidovits espressamente ipotizzò, sfruttando le
traduzioni effettuate nel corso del tempo dagli
egittologi Brugsch, Sethe, Barguet e Lichtheim, che
la tecnica di costruzione delle piramidi di Giza sia
stata espressamente descritta nell’iscrizione
denominata “Stele della Carestia” redatta
ufficialmente nel 200 a.C. ma risalente,
presumibilmente, secondo Davidovits, ad una
tradizione storica molto antica, almeno all’inizio del
Regno Antico (2750 a.C.). La traduzione ripresa da
(colonna 18) ...ha constatato che Dio stando in
piedi... Egli mi ha parlato: "io sono Kunm, il Tuo
creatore, le Mie braccia sono intorno a te, per
stabilizzare il tuo corpo, per
(colonna 19) salvaguardare le tue membra. Ti
conferisco delle pietre ricche in minerali... dalla
creazione nessuno le ha mai lavorate (per fare la
pietra) per costruire i templi degli dei o ricostruire i
templi rovinati..."22.
40
!
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Fig. 20 la Stele della Carestia
Secondo gli egittologi, tuttavia, la Stele fu realizzata,
presumibilmente, sulla scorta di un falso storico;
cioè si ritiene che essa fu scritta effettivamente
intorno al 200 a.C. ma facendo effettivamente
credere, nella tradizione storica del tempo, che le
origini dello scritto o della tradizione da cui aveva
preso origine fossero molto più antichi, allo scopo di
legittimare i sovrani dell’epoca e la loro azione. Una
traduzione alternativa e più completa rispetto a
quella citata da Davidovits è la seguente:
“Vi è un gruppo di montagne nel suo luogo abitato
verso Oriente con ogni qualità di pietre preziose.
Pietre dure di cava e di tutte le cose che si è abituati
a cercare per edificare ogni tempio dell'Alto e del
Basso Egitto. Le stalle degli animali del dio; le
tombe dei re e di ogni statua che viene messa nei
templi e nei santuari. I loro prodotti sono deposti
davanti a Khnum ed intorno a lui. Così come le
grandi piante verdi e tutti i tipi di fiori che esistono ad
Elefantina, a Biga e che sono là ad Est e ad
Ovest.Nel mezzo del fiume ricoperto d'acqua al suo
tempo dell'anno, c'è un luogo di riposo per tutti sulle
cui sponde viene fatto il lavoro di queste pietre,
luogo nel fiume di fronte a questa stessa città di
Elefantina. Vi è un'altra altura centrale rocciosa
pericolosa per natura che ha il nome di Krofi
("Rischio") di Elefantina. Impara i nomi degli dei che
sono nel tempio di Khnum, Satis, Anuki, Nilo, Shu,
Gheb, Nut, Osiri, Horus, Isi e Nefthis. Conosci i
nomi delle pietre che sono là, poste nel mezzo della
zona della frontiera che sono ad Est e ad Ovest che
sono sulle due sponde del canale di Elefantina che
sono in Elefantina medesima, che sono al centro
Est e Ovest, che sono in mezzo al fiume. La pietra
Bekhen, la pietra Metcai, la pietra Mekhtebteb, la
pietra Ragas, la pietra Utesci all'estremità Est. La
pietra verde Pergien ad Ovest, la pietra Tesci ad
Ovest e nel fiume.Impara i nomi delle pietre pregiate
della cava che sono a monte. Ve ne sono tra esse
alcune che distano 4 iteru (1 iteru = 10,46 km). Oro,
argento, rame, ferro, lapislazzuli, turchese, pietralucente tehenet, cornalina, cristallo di rocca,
smeraldo, pietra tem-iqer. Oltre a ciò feldspato,
diaspro verde, ametista, anfibolo, ematite, polvere
verde, galena, quarzo, ocra rossa di Seheret,
polvere mimi di cereali, terra bianca nubiana, dentro
in questa città. Quando fui informato di ciò che era
in essa (= in quella regione) il mio cuore fu felice.
Dopo che udii dell'inondazione, i libri legati furono
aperti, fu fatta una purificazione. Furono condotti dei
riti segreti. Fu fatta una grande offerta completa
consistente in: pane, birra, buoi, uccelli ed ogni
sorta di cosa buona per gli dei e le dee che sono in
Elefantina e il nome dei quali è stato pronunciato.
Mentre dormivo in vita e fortuna (= sognavo) trovai il
dio stante in piedi davanti a me. Lo pacificai
adorando, lo implorai davanti a lui. Egli mi si
manifestò ed il suo volto era luminoso e mi disse: "Io
sono Khnum il tuo creatore. Le mie due braccia
sono attorno a te per stringere il tuo corpo e per fare
sane le tue membra. Io ti consegno minerali preziosi
in grande quantità con i quali non è ancora stato
fatto alcun lavoro per costruire templi, per rinnovare
ciò che è caduto in rovina, per incastonare gli occhi
del suo signore”23.
Ovviamente nella Stele della Carestia non vi è una
descrizione tecnica delle costruzioni delle piramidi,
ma vi sono descrizioni dei materiali impiegati per la
realizzazione dei blocchi di pietra calcarea, con
riferimenti a diversi minerali e pietre che potevano
essere oggetto di una processo di lavorazione fisico
– chimica. Davidovits si appoggiò proprio su tali
importanti documenti (considerati un falso storico)
per fornire maggiore peso alle proprie ipotesi. Allo
scopo di dimostrare la validità della sua teoria
Davidovits effettuò presso il centro di ricerca dei
geopolimeri in Francia un importante esperimento
con una squadra di 5 – 10 persone e riuscì a
dimostrare che un gruppo ristretto poteva costruire
una struttura in blocchi di pietra del peso variabile
tra 1,3 e 4,5 tonnellate in circa due settimane.
41
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
ELEMENTI FAVOREVOLI E DI CRITICITA’
DELL’IPOTESI DEI GEOPOLIMERI
L’ipotesi dei geopolimeri di Davidovits rappresenta,
a detta di molti studiosi, una teoria estremamente
interessante che potrebbe, effettivamente, spiegare,
come siano state costruite le piramidi senza dover
ricorrere, in modo massiccio, all’impiego di
macchine di sollevamento dei blocchi di pietra e
all’impiego di rampe enormi che avrebbero potuto
provocare ulteriori problemi nella realizzazione
dell’opera stessa. Tuttavia la comunità scientifica si
è divisa su tale teoria poiché non è ritenuto
accettabile, dagli egittologi, che i blocchi di pietra
siano stati realizzati artificialmente in cantiere con
armatura in loco. In tal senso gli egittologi rivolgono
l’onere della prova contro Davidovits, cercando di
dimostrare che il suo modo di pensare “moderno”
sia stato applicato alla visione delle tecniche
costruttive che avevano i costruttori dell’epoca delle
piramidi. Inoltre gli egittologi che si sono schierati
contro affermano categoricamente che se anche
fosse stato possibile costruire alcuni blocchi in pietra
calcarea in loco, ciò non sarebbe stato possibile per
i blocchi di maggiori dimensioni, che superano le 10
tonnellate e che si trovano all’interno della piramide
di Cheope (fino ad arrivare a 80 tonnellate) sopra la
Camera del Re. Alcuni blocchi sono stati
attentamente analizzati giungendo alla conclusione
che si trattava di calcare naturale proveniente dalle
cave situate nelle zone limitrofe; in particolare uno
studio realizzato nel 2008 dal team di ricerca della
Prof.ssa Ioannis Liritzis, dell’Università di Atene, ha
dimostrato che i blocchi di pietra delle piramidi di
Giza sono naturali e non furono ricostituiti in loco;
Liritzis ha analizzato campioni estratti dai blocchi di
pietra, sfruttando la tecnica a raggi X, e ha
individuato le seguenti peculiarità:
- il materiale principale di cui sono composti i blocchi
di pietra è rappresentato da graniti rosa, bianchi e
neri, con vari tipi di rocce calcaree
- nei blocchi di pietra sono stati individuati centinaia
di migliaia di fossili di nummuliti (protozoi marini
diffusi tra 33 e 55 milioni di anni fa) e questi
rappresentano circa il 40% del totale del volume dei
blocchi di pietra
- i fossili sono disposti nei blocchi di pietra secondo
uno schema che si può definire casuale e
omogeneo, che corrisponde alla loro collocazione
originale, per cui da ciò si deduce che i blocchi non
furono polverizzati ma lavorati24.
L’aspetto senza dubbio più controverso di questi
studi realizzati dalla Prof.ssa Liritzis è che i dati
individuati nell’analisi vengono interpretati
esattamente con conclusioni opposte rispetto a
quelle a cui è giunto il Prof. Davidovits; infatti la
Prof.ssa Liritzis ha affermato che la disposizione
casuale e omogenea dei fossili è “naturale”, cioè
deriva da un processo naturale di deposito dei fossili
nella roccia mentre il Prof. Davidovits ha affermato
esattamente il contrario, cioè che la disposizione
casuale dei fossili fosse il risultato di un processo
artificiale di rimescolamento prodotto dall’Uomo. Altri
studiosi della chimica dei materiali, tuttavia, hanno
sostenuto la teoria dei geopolimeri di Davidovits; tra
questi il Dott. Michel Barsoum dell’Università di
Philadelphia nella sua pubblicazione presentata sul
Journal of the American Ceramic Society nel 2006 in
cui dimostrò che studiando dei campioni di roccia
prelevata dai blocchi di pietra della piramide furono
trovati minerali composti e bolle d’aria che non
devono essere presenti nel calcare naturale.
Nonostante tale importante scoperta, da non
sottovalutare, la comunità degli egittologi ha fatto
quadrato contro la teoria dei geopolimeri,
appoggiandosi sulle conclusioni degli studi fin qui
realizzati che dimostrerebbero l’inesistenza di prove
certe.
ALTRE IPOTESI SULLA COSTRUZIONE DELLE
PIRAMIDI DI GIZA
Nel corso degli ultimi decenni sono state elaborate
dagli studiosi altre importanti ipotesi sulla
costruzione delle piramidi di Giza e tra queste
spicca, per originalità e interesse, quella elaborata
dall’Ing. Mario Pincherle e illustrata nei suoi
pregevoli lavori di ricerca25. Secondo questa ipotesi
i costruttori egizi sfruttarono, per trasportare gli
enormi blocchi di pietra, del peso superiore a 5
tonnellate ciascuno, dei piani inclinati (lungo i fianchi
delle piramidi), sui quali furono fissate enormi slitte
che venivano mosse grazie alla dilatazione di cubi di
legno bagnati con acqua (i cosiddetti legni corti). I
calcoli effettuati dall’Ing. Pincherle dimostrarono che
i piani inclinati avrebbero avuto una lunghezza
massima di circa 100 m. mentre per impiegare un
meccanismo come quello dei tronchi di legno
bagnati, gli Egizi avrebbero dimostrato, in tal modo,
di saper ragionare in termini infinitesimali, perché la
piccola dilatazione del cubo di legno si sarebbe
sommata a quella di numerosi altri cubi generando
lo spostamento del masso situato sulla slitta. Con
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
42
un apposito modellino realizzato in scala 1:25,
bagnando 50 cubi di legno, Pincherle dimostrò che
lo spostamento di circa 5 cm di una pietra levigata di
32 cm equivaleva, all’incirca, allo spostamento di un
masso di 8 m per circa 1,25 m e in tal modo,
quantomeno, Pincherle dimostrò che un
meccanismo del genere fosse, in linea di principio,
possibile da impiegare per spostare blocchi di
pietra, senza nessuna fatica eccessiva, anche se
comunque, una volta giunti in cima ai corsi di
muratura, la pietra doveva essere messa in
posizione con l’ausilio di un elevato numero di
operai. Una recente scoperta realizzata da un team
di ricerca della Fom dell’Università di Amsterdam
(nel 2014) ha dimostrato, invece, che gli Egizi
trascinarono i blocchi di pietra, pesanti oltre 5-10
tonnellate, normalmente su slitte trainate sulla
sabbia ma facendo uso di una tecnica di riduzione
dell’attrito della sabbia versando quantità standard
di liquido (acqua) in modo tale da ridurre l’attrito di
circa il 50%. La quantità di acqua veniva versata da
uno o più “addetti” sistemati sulle slitte, in cui erano
posizionati i pesanti blocchi di pietra o le statue,
trainate dagli operai in maniera tale da sfruttare
l’effetto di riduzione dell’attrito, a dimostrazione del
fatto che gli Egizi avevano una forte esperienza
delle tecniche di trasporto su superfici sabbiose. La
tecnica fu addirittura descritta in un dipinto che fu
realizzato con immagini e descrizione geroglifica
nella tomba di Djeutihotep, risalente all’incirca al
1850 a.C., anche se ovviamente non è possibile
sapere se tale tecnica fosse effettivamente
conosciuta solo in quell’epoca od anche in epoche
più remote26.
!
Fig. 21 dipinto nella tomba di Djeutihotep, 1850 a.C.
CONCLUSIONI
Le ipotesi, relative alle modalità con cui furono
costruite le piramidi di Giza, analizzate in questo
breve lavoro, dimostrano innanzitutto le notevoli
difficoltà interpretative che devono affrontare ancora
oggi gli studiosi per comprendere appieno quello
che fu un vero e proprio piano architettonico che si
sviluppò nel corso della III e IV dinastia per quasi
200 anni dal 2680 a.C. circa fino al 2500 a.C. circa,
e che determinò la costruzione anche di altre
piramidi (Saqqara, Dahshour, Meidum); la
mancanza di prove documentali certe (come papiri
che illustrino in modo specifico la costruzione) a cui
si aggiungono solo in parte ritrovamenti di steli che
dimostrano una possibile evoluzione nella
conoscenza dell’uso delle pietre e dei materiali da
costruzione (come la stele della Carestia) non
hanno fatto altro che alimentare ulteriormente il
mistero intorno alle conoscenze ingegneristiche
effettive degli Egizi, sebbene sia chiaro con assoluta
certezza che i costruttori poterono anche usare
particolari tecniche di costruzione “ad hoc” che
furono integrate, di volta in volta, con l’ausilio di
cambi di tecnica a seconda delle situazioni; con
questo si intende dire che se gli studiosi sono
disposti, anche solo parzialmente, ad ammettere
che i blocchi di pietra furono in parte costruiti in loco
con la tecnica geopolimera, questa non fu
comunque utilizzata per i blocchi più grandi, come
quelli situati nella Camera del Re e al di sopra di
essa, nei quali le analisi condotte hanno dimostrato
che si trattava di calcare naturale. L’interpretazione
delle capacità ingegneristiche degli antichi Egizi,
quindi, comporterebbe in parte l’attribuzione agli
stessi di una sorta di “flessibilità” tecnica che si
sarebbe sviluppata nel tempo, con un percorso
tecnico che partendo dalle mastabe e passando per
un ampliamento delle stesse, sarebbe infine sfociato
nella costruzione delle piramidi a facce lisce. A
questo percorso di natura storico – architettonica si
affianca, quindi, un altro percorso di natura tecnico –
ingegneristica in cui, di volta in volta, i costruttori
avrebbero modificato le tecniche di costruzione per
ottimizzare i risultati, sfruttando blocchi di pietra di
dimensioni e peso variabili con tecniche che
possono variare da un edificio all’altro, ottenendo
comunque risultati straordinari in termini di stabilità
delle strutture ed estetica architettonica. Nel corso di
oltre un secolo di studi e analisi sono state elaborate
diverse ipotesi sulle tecniche di costruzione, ognuna
delle quali presenta elementi favorevoli e di criticità
abbastanza forti, come l’ipotesi delle rampe che, pur
essendo a tutt’ oggi la più accreditata nella comunità
scientifica, presenta notevoli difficoltà interpretative
legate principalmente alla notevole lunghezza che
avrebbero dovuto presentare in rapporto alla
pendenza da coprire, creando, presumibilmente,
problemi di stabilità delle strutture stesse. Le ipotesi
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
43
alternative, tra cui quella delle rampe interne di
Houdin, sono a loro volta, ipotesi estremamente
importanti, che devono essere attentamente vagliate
dalla comunità scientifica nella speranza di
individuare proprio quel mix di tecniche
ingegneristiche che potrebbero essere state
utilizzate, nel corso del tempo, per portare a termine
un progetto così grandioso. Infatti ciò che va
attentamente valutato, dagli studiosi, è proprio la
possibilità che gli Egizi non abbiano impiegato un
unico standard tecnico (immobile nel tempo) ma che
tali standard produttivi si siano evoluti al pari dei
progetti stessi, dimostrando, in tal modo, il notevole
spirito di adattamento che avevano i costruttori, che
potrebbero, almeno in parte, aver impiegato i canali
interni della piramide per realizzare un ascensore ad
acqua fino all’altezza di circa 40 m, per poi passare
all’impiego di una rampa a spirale per raggiungere
le parti alte dell’edificio, impiegando le macchine a
doppio shaduf previste da Houdin; in tal modo, per
poter realizzare un progetto con tali tecniche,
avrebbero solo dovuto disporre di un raccordo tra
plateau di posizionamento blocchi e l’imbocco della
rampa a spirale, facilmente raggiungibile con
macchine come quelle previste da Houdin. Il
ritrovamento di incavi nella struttura esterna della
piramide all’altezza di circa 80 m dimostrò che vi era
un possibile punto di intersezione tra le rampe
interne (che ruotavano lungo la struttura) e i lati
della piramide, in cui potevano essere posizionati gli
shaduf di sollevamento e rotazione dei blocchi di
pietra. Se queste macchine operavano all’altezza di
oltre 80 m e precedentemente i blocchi di pietra
avevano “viaggiato” in ascensori idraulici (fino a
raggiungere almeno l’altezza di 43 m) si può
ipotizzare realmente che un progetto come la
costruzione di un edificio piramidale possa essere
stato un progetto estremamente complesso ma
realizzato in modo sufficientemente agevole dagli
Egizi. L’ipotesi della costruzione interna è stata
sostenuta non solo da Jean Pierre Houdin e da
Manuel Minguez ma anche dall’Ingegnere Gallese
Peter James, esperto di manutenzione di siti antichi,
a dimostrazione del fatto che tale ipotesi trova
credito, se non tra gli archeologi, almeno tra gli
esperti di tecniche ingegneristiche antiche. La
mancanza di certezze sul ritrovamento di manufatti
e di attrezzi da lavoro, a cui si accompagna il
ritrovamento di parti di slitte di legno, ha fatto
propendere per il trasporto su slitte, per quanto
concerne, si intende, il trasporto esterno dei blocchi
mentre ben poco è emerso per il trasporto e il
sollevamento interno dei blocchi stessi. Anche le
ultime importanti scoperte realizzate dai fisici
dell’Università di Amsterdam nel 2013-14 (e
supportate da parte degli archeologi) permettono
solo di stabilire con certezza che per il trasporto
esterno dei blocchi, in fase di allocazione delle
risorse sul cantiere, furono impiegate le slitte a
traino “agevolato” ma questa tecnica riguardò solo il
trasporto esterno dei blocchi mentre rimane fuori da
questa ricerca l’ambito più complesso, riguardante
le tecniche di sollevamento dei blocchi ad oltre 80 100 m di altezza; per queste vale comunque l’ipotesi
che i blocchi siano stati trascinati, con la stessa
tecnica, anche in pendenza sulle rampe di carico,
sebbene dai pochi ritrovamenti disponibili si
comprenda che lo spostamento dei blocchi avviene
su percorso lineare. Semmai è importante ricordare
che questa ricerca apre orizzonti nuovi legati alla
conoscenza che gli Egizi potevano avere delle
tecniche idrauliche, aprendo la possibilità di
considerare l’importante ruolo che possa aver avuto
l’acqua come tecnica di trasporto dei blocchi di
pietra. Inoltre occorre ricordare che le diverse teorie
elaborate richiederebbero un’importante opera di
integrazione (tra di esse), in una sorta di sforzo
interdisciplinare, allo scopo di unire i diversi aspetti
architettonici, ingegneristici e culturali della civiltà
egizia che non sono stati adeguatamente
rappresentati nelle varie ipotesi considerate. A
distanza di circa cinquemila anni gran parte dei
misteri di questa grande civiltà antica sono ancora di
fronte a noi come un enigma di difficile risoluzione,
poiché le svariate ipotesi elaborate nel corso del
tempo non hanno permesso, per quanto importanti
e ben delineate, di risolvere tutte le questioni
controverse che ancora permangono in campo, al
punto che ancora ad oggi non è possibile dire con
certezza le modalità con cui furono realizzate le
piramidi di Giza.
Bibliografia Essenziale e note bibliografiche:
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ZUR ALTAGYPTISCHEN KULTUR 1991
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AEGYPTIAN ARCHEOLOGY ROUTLEDGE 2003
3 M. ISLER, STICKS, STONES AND SHADOWS:
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4 ERODOTO, LE STORIE RCS LIBRI 2006
5 ERODOTO, LE STORIE RCS LIBRI 2006
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
44
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SONZOGNO 1820
7 STRABONE, DELLA GEOGRAFIA, LIBRO XVII
ED. MOLINA 1835
8 PLINIO IL VECCHIO, STORIA NATURALE,
XXXVI 75-82 A CURA DI CHIARA LEFONS ED.
SILLABE 2000
9 M. LEHNER, THE COMPLETE PYRAMIDS ED.
THAMES AND HUDSON N. YORK 1997
10 M. LEHNER, THE COMPLETE PYRAMIDS ED.
THAMES AND HUDSON N. YORK 1997
11 U. HOLSCHER, DAS GRABDENKMAL DES
KÖNIGS CHEFREN VERÖFFENTLICH UNGEN
DER ERNST VON SIEGLIN EXPEDITION IN
AGYPTEN LEIPZIG 1912
12 A. DIETER, BUILDING IN EGYPT PHARAONIC
STONE MASONRY OXFORD UNIV. PRESS 1997
13 R. STADELMANN LE PIRAMIDI EGIZIE ED.
VON ZABERN 1985
14 R. STADELMANN LE GRANDI PIRAMIDI DI
GIZA ED. ADEVA 1990
15 H. ILLIG, F. LONER DER BAU DER CHEOPS –
PYRAMID ED. MANTIS VERLAG 1993
16 J.F. EDWARDS, BUILDING THE GREAT
PYRAMID: PROBABLE CONSTRUCTION
METHODS EMPLOYED AT GIZA VOL. 44 N. 2
2003
17 I.E.S. EDWARDS, THE PYRAMIDS OF EGYPT
LONDON 1987
18 J.P. HOUDIN, KHUFU: THE SECRETS BEHIND
THE BUILDING OF THE GREAT PYRAMID FARID
ATIYA PRESS 2006
19 B. BRIER, J.P. HOUDIN THE SECRET OF THE
GREAT PYRAMID COLLINS 2008
20 M. MINGUEZ, LES PYRAMIDES D’EGYPTE: LE
SECRET DE LEUR CONSTRUCTION 1985
21 J. DAVIDOVITS, IL CALCESTRUZZO DEI
FARAONI ED. PROFONDO ROSSO 2004
22 INSTITUT GEOPOLYMERE, LA STELE DE LA
FA M I N E : H I E R O G LY P H E S U R L A
CONSTRUCTION DES PYRAMIDES
23 WWW.EGITTOLOGIA.NET STELE DELLA
CARESTIA TRAD. DI P. BARGUET 1950
24 WWW.FOCUS.IT/CULTURA/GLI-EGIZISCULTORI-E-SCALPELLINI-NON-MURATORI
25 M. PINCHERLE, LA GRANDE PIRAMIDE:
COME FU COSTRUITA E COSA NASCONDE ED.
FILELFO ANCONA 1979
26 http://www.corriere.it/scienze/14_maggio_02/
ecco-come-egiziani-costruirono-piramidi-39729c00d1e7-11e3-8ed3-fdcfbf1b09b2.shtml?refresh_rum
Note tecniche: le immagini e i disegni con copyright
Aspis sono state realizzate da Giuseppe Badalucco
e sono puramente indicative; tali raffigurazioni non
sono in scala
45
CRIPTOZOOLOGIA
Intervista a Lorenzo Rossi
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
di Roberto Bommarito
Lorenzo Rossi
Buongiorno Lorenzo. È un vero piacere averti
ospite fra le pagine virtuali di ASPIS. Per chi non
ti conoscesse ancora, che ne diresti di iniziare
presentandoti?
tutti quelli dei quali l’uomo ha una conoscenza
indiretta tramite quelle che lui definiva “prove
circostanziali”, cioè indizi da un lato non sufficienti a
dimostrare l’esistenza di questi animali, ma dall’altro
abbastanza interessanti per giustificare la ricerca di
questi ultimi. In sintesi lo scopo della criptozoologia
doveva essere quello di partire dagli indizi (impronte
sul terreno, testimonianze oculari, fotografie
indistinte, leggende, dipinti, etc.) e verificarne la
veridicità in una sorta di approccio criminologico
applicato alle scienze naturali. L’oggetto di queste
indagini dovevano essere nuove potenziali specie in
attesa di essere scoperte, specie ritenute estinte,
ma sopravvissute, e specie già conosciute, ma
segnalate in aree geografiche nelle quali la loro
presenza non era stata ancora documentata.
Mi chiamo Lorenzo Rossi, classe ’78, divulgatore
scientifico affascinato dal rapporto tra scienza e
pseudoscienza e dalle scienze naturali. Da 16 anni
curo e gestisco il sito internet www.criptozoo.com
interamente dedicato alla criptozoologia, che è la
mia più grande passione.
Che cosa è la criptozoologia?
A questa domanda, a dire il vero, non esiste una
risposta unanimemente condivisa. E’ molto più
semplice dire cosa la criptozoologia avrebbe dovuto
essere e cosa invece è (purtroppo) diventata per
molti.
Il concetto di criptozoologia nasce da un’idea dello
zoologo belga Bernard Heuvelmans e la sua
etimologia è “scienza degli animali nascosti”.
Secondo Heuvelmans gli “animali nascosti” sono
Bernard Heuvelmans
Heuvelmans voleva rendere la criptozoologia una
branca della zoologia in quanto era un
conservazionista ed era rimasto stupito dal fatto che
molte scoperte di nuove specie animali avvenute nel
Novecento avrebbero potuto essere anticipate…
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
46
Quando nel 1861 l’esploratore britannico John
Hanning Speke riportò che i nativi del Ruanda
credevano nell’esistenza di orchi villosi chiamati
ngagi, talmente forti da potere soffocare un uomo
stritolandolo, il mondo accademico dell’epoca non
prese la cosa troppo sul serio, ma 40 anni dopo, nel
1902, il Capitano Beringe divenne il primo europeo
ad abbattere un esemplare di gorilla di montagna.
Un altro esempio può essere il varano di Komodo, la
cui esistenza era favoleggiata dai pescatori di perle
che saltuariamente approdavano su questa piccola
isola un tempo disabitata e che parlavano di
misteriosi boeaja darat (coccodrilli di terra), ma
nessun naturalista dell’epoca pensò di appurare la
veridicità di tali racconti. Ci vollero così 100 anni
prima che, per circostanze fortuite, il mondo si
accorgesse dell’esistenza della più grande lucertola
vivente.
In sintesi il pensiero di Heuvelmans si articolava su
questi punti:
Molte di quelle che definiamo
“scoperte” zoologiche sono tali “soltanto” per gli
scienziati, visto che spesso queste specie nuove
sono già (e da tempo) conosciute dalle popolazioni
locali;
Su molti di questi animali ancora da
scoprire sono nate leggende molto colorite che ne
deformano e ne ingigantiscono la realtà, portando
così chi ascolta queste storie a non credere che
simili animali possono esistere veramente;
Dalle prime voci su questi animali alla loro effettiva
scoperta passano in genere molti anni e una volta
identificati spesso ci si accorge che sono già in
grave pericolo di estinzione.
L’auspicio di Heuvelmans era quindi quello di potere
aiutare, con la criptozoologia, la velocizzazione del
processo di scoperta di nuove specie in modo tale
che fosse possibile proteggere legalmente questi
animali (una specie che ufficialmente non esiste non
può essere protetta) evitando il rischio che
potessero estinguersi prima che qualcuno si
accorgesse della loro esistenza.
Cebo dorato
Dal mio personale punto di vista questi concetti
sono solidi e non pseudoscientifici e l’esempio
migliore è la (ri)scoperta del cebo dorato, un piccolo
primate dal manto giallo che vive lungo la costa
orientale del Brasile. Un’illustrazione di questo
animale apparve per la prima volta nel 1648
all’interno dell’opera Historiae rerum naturalium
Brasiliae, dove viene riportato che la scimmia in
questione era conosciuta con il nome di caitaia, ma
da quel momento sembra sparire nel nulla, tanto da
venire relegata all’interno delle leggende indios.
Soltanto 358 anni dopo, nel 2006, lo zoologo
Mendes Pontes, incuriosito dalle segnalazioni della
famiglia Queiroz, proprietari terrieri che per
trent’anni avevano cercato di attirare l’attenzione del
mondo accademico sulla presenza di scimmiette
dorate che vivevano nei loro possedimenti terrieri,
diede una conferma all’esistenza del caitaia.
Ma purtroppo, come dicevo prima, oggi per molti la
criptozoologia è qualcos’altro…
Innanzitutto Heuvelmans non ebbe soltanto idee
scientificamente condivisibili. Ad esempio a suo
modo di vedere le cose, il criptozoologo avrebbe
potuto descrivere una nuova potenziale specie
animale anche senza la necessità di depositarne un
olotipo, affidandosi esclusivamente alle prove
circostanziali. Per lui l’effettiva scoperta di un
“animale nascosto” era semplicemente un valore
aggiunto, un’operazione che a suo modo di vedere
47
non era strettamente legata alla criptozoologia, ma
che ne poteva essere al massimo il risultato.
Eppure, anche se in maniera non del tutto completa,
la criptozoologia ebbe diversi tentativi di definizioni
formali sulle pagine di una rivista peer reviewed
avente un comitato editoriale di tutto rispetto. Mi
riferisco a Cryptozoology, pubblicata dal 1982 al
1998, che sebbene non mancasse di difetti, ospitò
dibattiti molto stimolanti a cui parteciparono anche
“grandi nomi” della zoologia dell’epoca. Dibattiti dai
quali emerse che gli obbiettivi della criptozoologia
avrebbero dovuto essere essenzialmente tre:
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Smascherare le bufale riguardanti
gli animali “misteriosi”;
Occuparsi della ricerca di potenziali
nuove specie animali conosciute solo attraverso
prove circostanziali;
Occuparsi di verificare l’attuale
presenza di specie considerate estinte, ma ancora
segnalate.
Questa, attualmente, è anche la mia visione della
criptozoologia.
Serpente marino in un mosaico del IV secolo a.C,
Villa del Casale, Sicilia
Il secondo problema è la grande valenza, a livello
emozionale, di alcuni (a dire il vero una minima
parte) dei presunti animali nascosti oggetto della
criptozoologia. Alla maggior parte delle persone
interessa relativamente poco la scoperta di nuove
specie di scimmie, cetacei, insetti, etc., mentre una
fetta di pubblico molto più vasta si è trovata prima o
poi a fantasticare sul mostro di Loch Ness, il Mokele
Mbembe e i serpenti di mare. Ne consegue che,
paradossalmente, a molti degli appassionati di
criptozoologia non interessano assolutamente la
zoologia e la biodiversità e per riflesso, molti addetti
ai lavori nel campo delle Scienze Naturali si
allontanano da questa disciplina. La confusione che
ne consegue è tanta e purtroppo molto spesso
anche la comunità dei debunkers tratta l’argomento
in maniera alquanto superficiale.
Come nasce l’idea del sito Criptozoo.com e cosa
lo contraddistingue da altri siti che trattano di
segnalazioni e avvistamenti di animali insoliti?
L’idea è nata per gioco e per passione in un’epoca
nella quale internet era ancora poco diffuso in Italia
e in molti, io per primo, si chiedevano se potesse
davvero rappresentare una rivoluzione per il futuro,
oppure fosse una curiosità del momento destinata a
tramontare. Ai tempi navigare online era quasi
costoso quanto navigare in crociera, l’avvento delle
flat era ancora abbastanza lontano e la velocità di
connessione era di 56k (nominali). Diciamo quindi
che era un territorio più selettivo, nel quale si
avventurarono i primi pionieri che avevano molta
passione e qualcosa da dire. Pensai di realizzare un
sito dedicato alla criptozoologia e le cose sono
andate oltre le mie aspettative. Con il tempo
“criptozoo” è diventato una consolidata realtà che è
sopravvissuta a
Myspace e che è più vecchia di YouTube, Twitter,
Facebook e piattaforme blog varie. Diciamo che
48
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
può essere definita una scienza o è una
pseudoscienza? Ha senso di esistere in qualità di
disciplina o è ridondante alla zoologia? Questo
studio sarà pubblicato a breve all’interno di un
volume edito da Springer International che
affronterà a 360° e da un punto di vista
interdisciplinare il tema della cosiddetta “fauna
problematica” e spero che potrà fare chiarezza su
molti aspetti della criptozoologia rendendola più
“accettabile” al mondo accademico.
Quando si parla di animali sconosciuti, è
impossibile non pensare alle leggende che
narrano di grossi primati come lo yeti
dell’Himalaya o lo sasquatch americano. Qual è
la tua opinione a riguardo?
mediaticamente parlando, è un dinosauro
sopravvissuto all’estinzione.
La cosa che lo contraddistingue, è l’approccio alla
disciplina, che punta essenzialmente a promuovere
in ambito scientifico le intuizioni di Heuvelmans e
non a strumentalizzarle per appagare le fantasie dei
“cacciatori di mostri”.
Quali sono i casi più interessanti che hai trattato
finora?
Il campo di studio della criptozoologia è molto vario:
ricordo con estremo piacere la permanenza di sei
mesi in alcune zone dell’Asia per studiare il folklore
relativo alle storie sull’”uomo selvatico” e sono molto
emozionato per l’imminente partenza per il Ghana
dove collaborerò a una ricerca sulla possibile
persistenza del leone orientale (Panthera leo
senegalensis), considerato estinto nel Paese, ma
saltuariamente avvistato da qualche testimone. Ma
la verità è che lo studio più interessante che penso
di avere condotto è puramente a livello teorico. Si
tratta di una revisione sistematica sulla
criptozoologia in cui ho cercato di individuare la
soluzione ai quesiti che da sempre l’accompagnano:
Penso che il bigfoot del nord America e lo yowie
australiano siano miti relativamente moderni, molto
più radicati nel bagaglio folkloristico dei coloni che
non in quello dei nativi. Le leggende che circolano
nelle aree delle catene montuose asiatiche, dove il
mito dell’uomo selvatico sembra avere le sue radici,
sono invece più interessanti. Prima è però
necessario un chiarimento: la parola yeti è
un’occidentalizzazione del vocabolo Sherpa yehteh, che significa “animale delle rocce”: yeh (zona
rocciosa) + teh (animale). Secondo gli Sherpa lo yeti
è simile ad una scimmia alta circa 120 – 150 cm,
dal pelo rossiccio e dotata di una caratteristica testa
conica. Si tratterebbe di un animale solitario che
camminerebbe con una postura eretta sui tratti
nevosi, ma che di norma deambula a quattro
zampe. Durante la mia permanenza in Nepal ho
potuto parlare a lungo con gli Sherpa e ascoltare le
loro descrizioni del misterioso primate, che a parte
le dimensioni sopra la media e l’indole solitaria, non
sembrerebbe essere troppo dissimile da un macaco.
Visto che può succedere di tanto in tanto che
maschi anziani di macachi si separino dal branco e
diventino solitari e solitamente piuttosto aggressivi,
lo yeh-teh potrebbe trovare la sua origine in
esemplari solitari di macachi tibetani lontani dal loro
areale consono. I macachi autoctoni del Nepal sono
49
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
infatti troppo piccoli e docili per potere essere alla
base di queste leggende.
Però nell’immaginario collettivo lo yeti è perlopiù
rappresentato come una sorta di uomo scimmia
bipede di grandi dimensioni e la spiegazione va
ricercata nel vasto patrimonio folkloristico delle
popolazioni delle zone montane asiatiche. In Nepal
ad esempio, oltre che allo yeti, le popolazioni dei
villaggi parlano anche del ban-manche, l’uomo della
foresta: ban (foresta) + manche (uomo). Questa
creatura, descritta sempre con le medesime
caratteristiche, pur se con una moltitudine di nomi
diversi, fa parte del bagaglio culturale di
numerosissime etnie asiatiche stanziate presso le
propaggini delle catene montuose, dal Caucaso al
Vietnam, e il significato del suo nome nelle varie
lingue e dialetti locali è quasi sempre riconducibile a
quello di uomo selvatico o uomo dei boschi.
Secondo i testimoni si tratterebbe di creature (i
presunti avvistamenti descrivono sia individui di
sesso maschile che femminile) molto simili all’uomo,
ma distinte da quest’ultimo da una costituzione
fisica massiccia, l’andatura un po’ ciondolante e una
vistosa peluria che ne ricopre la maggior parte del
corpo alla stregua della pelliccia di un animale. Il
volto di queste creature sarebbe caratterizzato dal
mento sfuggente e dalle robuste arcate
sopraccigliari e le loro dimensioni varierebbero dai
160 cm agli oltre due metri. E’ quindi a questi esseri
che si fa riferimento, pur se non correttamente,
quando in Occidente si parla di yeti.
Alcuni sostengono che grossi rettili potrebbero
ancora esistere nelle zone meno esplorate del
pianeta. Il primo esempio che mi viene in mente
è quello del mokele mbembe, un grosso animale
che vivrebbe in una zona paludosa della regione
di Likouala, nel cuore dell’Africa. Secondo le
descrizioni ottenute dalle varie spedizioni
effettuate nel corso del secolo passato,
l’animale sarebbe alquanto simile
all’Apatosauro: il dinosauro dal lungo collo
molto noto anche nella cultura popolare. Credi
sia possibile che esistano grandi rettili – sia
terrestri che marini – che aspettano ancora di
essere scoperti dall’uomo?
Il mokele mbembe in un’illustrazione fantastica
Se parliamo di grandi rettili terrestri in senso lato, la
mia risposta è “forse si”. Ad esempio nel 2010,
nell’isola di Luzon, Filippine, è stata scoperta una
nuova specie di varano (Varanus bitatawa) che può
raggiungere i due metri di lunghezza. Se il discorso
si sposta invece sui dinosauri… temo che dovremo
accontentarci di quelli che sentiamo cinguettare nei
parchi, visto che gli uccelli, che si originarono dai
teropodi, sono gli unici dinosauri sopravvissuti ai
nostri giorni. Questo non significa che forse un
animale che ha dato origine alle leggende sul
mokele mbembe non esista o sia esistito davvero,
ma potrebbe trattarsi di un grosso varano o di una
tartaruga. Comunque le descrizioni dei nativi fanno
pensare piuttosto a un prodotto puramente
mitologico. Resta poi il fatto che il suo habitat e la
sua etologia, senza contare alcune caratteristiche
morfologiche che gli vengono attribuite, non si
adattano con niente di quello che la moderna
paleontologia ha potuto ricostruire sull’ordine dei
sauropodi. Le vecchie illustrazioni di “brontosauri”
che emergono placidi da qualche palude sono
interpretazioni ormai superate che non rispecchiano
il reale modo di vivere di questi animali.
Sicuramente nell’epoca in cui giunsero in occidente
le prime notizie riguardanti il mokele mbembe,
l’ipotesi di dinosauri sauropodi sopravvissuti oltre
50
che affascinante poteva suonare anche non del tutto
inverosimile, ma allo stato attuale dei fatti si tratta,
purtroppo, di una ipotesi senza alcun fondamento.
battezzata Rhinopithecus strykeri, un genere di
Primati fino ad allora mai documentato in Myanmar.
Come vedi il futuro della criptozoologia?
Ci potresti parlare di alcune delle scoperte più
interessanti degli ultimi anni?
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Rinopiteco del Myanmar
Dal mio punto di vista le scoperte più interessanti
sono quelle relative a specie di taglia apprezzabile
già conosciute dai nativi, ma non dagli zoologi. Un
ottimo esempio è il già citato varano di Luzon,
conosciuto dai locali con il nome di bitatawa e
saltuariamente cacciato. Un caso molto recente è
quello del tapiro pigmeo dell’Amazzonia, conosciuto
da tempo dagli indios con il nome di anta pretinho
(letteralmente piccolo tapiro nero) e segnalato e
descritto una decina d’anni fa dallo zoologo
olandese Marcus van Roosmalen con prove ritenute
insufficienti dalla comunità scientifica. Però nel
dicembre del 2013 lo zoologo brasiliano Mario
Cozzuol ha descritto una nuova specie di tapiro le
cui caratteristiche corrispondono esattamente sia
con le descrizioni dei nativi, sia con quelle già a suo
tempo diffuse da Roosmalen, il quale però, piuttosto
ingiustamente, non è stato minimamente citato
all’interno della descrizione formale di questa nuova
specie. La scoperta che però mi ha colpito di più è
stata quella del rinopiteco del Myanmar, avvenuta
nel 2010 ad opera di un team di primatologi che
stava studiando i gibboni nella regione. Durante le
ricerche appresero dal gruppo etnico del Law Waw,
della presenza di una scimmia misteriosa da loro
chiamata myuk na tok te, che significa “la scimmia
dal naso all’insù”. I locali erano concordi
nell’affermare che questa scimmia molto rara poteva
essere facilmente localizzata dai cacciatori durante
le giornate di pioggia, quando le gocce d’acqua
penetrando nelle narici rivolte verso l’alto dei loro
nasi le fanno starnutire. In questo caso i ricercatori
hanno avuto il grande merito di non fermarsi a
questa descrizione folkloristica, preferendo invece
indagare su questa curiosa segnalazione. E la loro
lungimiranza è stata premiata con l’effettiva
scoperta di una nuova specie di rinopiteco,
Criptozoologia – Animali Misteriosi tra Scienza e
Leggenda di Lorenzo Rossi
Poco roseo e a un bivio. Attualmente la
criptozoologia vegeta in una sorta di limbo tra
scienza e pseudoscienza che non la porterà da
nessuna parte. Il fatto è che sin dalla sua
“istituzione” è stata al centro di accesi dibattiti e
diverse correnti di pensiero ai cui estremi si
collocano da un lato chi crede all’esistenza di
qualunque tipo di creatura improbabile e dall’altro
chi ritiene che il campo di studio della criptozoologia
sia quello degli “animali impossibili”. L’essenza della
disciplina teorizzata da Heuvelmans si è quindi
perduto. Se da una parte è vero che Heuvelmans
per primo non si tirava mai indietro in quanto a
promuovere l’esistenza di animali biologicamente
improbabili, la base della criptozoologia è quella di
indagare le prove circostanziali riguardanti la
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
51
possibile esistenza di una nuova specie animale e
sotto questo punto vista un dinosauro sopravvissuto
o un roditore hanno la medesima dignità. Alcuni
critici hanno posto enfasi sul fatto che escludendo
dinosauri e ominidi relitti dalla criptozoologia,
quest’ultima non avrebbe nulla di diverso dalla
zoologia e sarebbe quindi una disciplina non
necessaria. Queste persone non si rendono però
conto che la criptozoologia non è mai stata
concepita come una “nuova zoologia”, ma come una
sua branca, come lo sono la paleontologia,
l’erpetologia o l’ittiologia. La paleontologia si
concentra sugli organismi che hanno polpolato la
Terra nelle epoche passate, l’erpetologia si
concentra sui rettili e la criptozoologia avrebbe
dovuto avere il compito di occuparsi nell’indagare le
prove circostanziali sulla possibile esistenza di
nuove specie. Spero che il mio studio di prossima
pubblicazione potrà contribuire a fare chiarezza
sull’argomento, ma temo che si tratterà comunque
di una goccia nell’oceano.
Grazie, Lorenzo, per la dettagliata e
interessantissima intervista. Ne approfittiamo
per segnalare inoltre il tuo libro, Criptozoologia
– Animali Misteriosi tra Scienza e Leggenda, che
il lettore può comodamente reperire all’indirizzo
http://ww2.photocity.it/Vetrina/DettaglioOpera.aspx?
versione=18553&formato=8634.
52
IL MITO DI CRISTO
nel Vangelo gnostico di Tommaso
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
di Domenico Rosaci
Tra i tanti Vangeli esistenti, quello denominato "di
Tommaso" meglio si presta ad illustrare
efficacemente il mito di Cristo. Infatti, tale vangelo
contiene una versione particolarmente sintetica dei
contenuti del Cristianesimo delle origini. Tali
contenuti, pur essendo essenzialmente identici a
quelli proposti dai vangeli canonici, vengono illustrati
in maniera “esoterica”, ovvero quali conoscenze
riservate solo ad una cerchia di discepoli iniziati.
Il Vangelo di Tommaso è stato rinvenuto in forma
completa nel 1945 in Egitto, a Nag Hammadi, su un
documento papiraceo in lingua copta. Se ne
conoscevano già alcuni frammenti di una versione
greca riportata su alcuni papiri scoperti nel 1897 ad
Ossirinco, in Egitto.
La versione copta è presumibilmente risalente al IV
secolo Dopo Cristo, ma l’originale versione in greco
è sicuramente precedente, ed è fuori di dubbio che
essa circolasse nei primissimi secoli del
Cristianesimo insieme ai Vangeli che furono scelti
da Ireneo per essere inclusi nel Canone.
Il Vangelo di Tommaso comprende circa un
centinaio di “detti” (loghia) attribuiti a Gesù Cristo.
Ognuno di tali detti inizia con la formula “Gesù
disse”.
Il primo di tali detti recita: “Queste sono le parole
segrete che Gesù il Vivente ha detto e Didimo
Giuda Tommaso ha trascritto.”
Fin dall'incipit appare quindi evidente che il Vangelo
si presenta come un racconto esoterico, poiché le
parole sono “segrete”, e quindi riservate ai soli
iniziati. Inoltre, si chiarisce fin dall'inizio che Gesù
sia da considerarsi "colui che realmente vive", in
ovvia contrapposizione con una qualche altra
tipologia di uomo, che andrà invece considerato
"morto".
E' Tommaso stesso a spiegarci quale sia tale
tipologia di uomo, visto che immediatamente dopo
l'incipit si fa affermare a Gesù che “chiunque trova
la spiegazione di queste parole non gusterà la
morte”.
"Vivere" è dunque una metafora per "conoscere".
Vive chi ha la conoscenza, e la conoscenza è
proprio ciò che il Vangelo veicola.
Ancora una volta, come nel Vangelo di Giovanni,
Gesù si configura come il “portatore del Logos”,
quello Spirito divino che altro non è che conoscenza
delle cose segrete.
L'osservazione che qui facciamo, centrale nel nostro
studio, è la seguente.
Concepire la vita come il possesso di una
conoscenza esoterica, e la morte come una sua
assenza, era il principale contenuto dell'antica
Religione Naturalistica della Dea, di cui abbiamo già
parlato. Una religione adottata dagli antichi
agricoltori neolitici nell'Europa mediterranea, in
Egitto, in Mesopotamia, in India e in Cina.
In epoca storica, passando nelle culture degli
indoeuropei e dei semiti, ma anche nelle stesse
culture originarie che si trasformarono in senso
patriarcale anche in quei casi in cui non ci fu
nessuna invasione vera e propria (è il caso
dell'Egitto), la "conoscenza segreta" fu codificata in
culti e testi sacri che ci sono direttamente pervenuti.
Ad esempio, nel "Libro dei Morti" egiziano si afferma
con chiarezza che l’uomo che muore deve essere
stato iniziato ai segreti della morte.
Questa iniziazione consiste nel conoscere le
risposte alle domande che le creature dell’aldilà gli
porranno. Grazie a queste risposte, egli potrà
vincere la morte, per risorgere a nuova vita come
Osiride.
Era fondamentale quindi per gli Egizi la conoscenza
delle "parole sacre", che erano quelle contenute
negli inni intonati dai sacerdoti, e nelle formule
stesse del Libro dei Morti, recitate ad
accompagnamento dell’anima del defunto.
Appare difficile non notare il collegamento tra
questo modo di vedere la "morte", che noi in questo
libro definiamo genericamente "gnostico", ed il
concetto di “superamento della morte” grazie al
Logos proposto nel Vangelo di Tommaso.
Il vero centro di questo insegnamento è contenuto
nel "Detto 3" del Vangelo, in cui Gesù dice: "Il
Regno è dentro di voi ed è fuori di voi. Quando
conoscerete voi stessi, sarete conosciuti e saprete
che siete figli del Padre Vivente."
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
53
Si parla quindi qui, come anche nei Vangeli
Canonici, di un "Regno", che inequivocabilmente
rappresenta la condizione in cui l’uomo realizza la
propria completa felicità.
Questo Regno, diversamente dai concetti di Divinità
o di Paradiso, propri delle Religioni Storiche, non è
trascendente, ovvero non si trova "fuori" dell'Uomo.
Al contrario, esso è immanente al complesso UomoNatura stesso, ovvero non si trova "dentro" oppure
"fuori", ma bensì "dentro e fuori".
Si vuole cioè intendere che la felicità, che è anche
scoperta della divinità, si consegue nella perfetta
fusione della coscienza umana con la Natura.
Questa era proprio la principale convinzione
dell'antica religione naturalistica.
Il Vangelo di Tommaso prosegue con la descrizione,
da parte di Gesù, delle caratteristiche di questo
Regno. Esso è il “Luogo della Vita”, e la
“Luce” (Detti 4 e 12).
Questo modo di esprimersi è evidentemente
ereditato dal linguaggio platonico, e più
precisamente dal "Timeo". Nel Timeo, Platone cerca
di eliminare la separazione fra il mondo superiore
delle Idee, e il mondo delle forme o della realtà
sensibile, al quale appartiene anche l'uomo mortale.
A collegare i due mondi è la figura del Demiurgo,
una sorta di divino "artigiano", che plasma la
materia dando forma alle idee, mosso dall'Idea
Somma, il Bene. Il Timeo (che prende il nome dal
protagonista dell'opera, probabilmente il filosofo
locrese Timeo) è un libro sapienziale, nel senso che
intende trasmettere la conoscenza della realtà,
insieme a quella circa l'origine di tale realtà, fino ad
arrivare a contenuti propriamente escatologici.
Platone espone con chiarezza come l'uomo possa
ottenere la felicità:
Per chi dunque si occupi di passioni e di contese e
in esse si affligga, inevitabilmente tutte le sue
opinioni saranno mortali, e neanche il più piccolo
particolare trascurerà per diventare il più possibile
mortale, incrementando appunto tale parte: chi
invece si è occupato dello studio della scienza e
delle riflessioni sulla verità ed ha esercitato
soprattutto questa parte di se stesso a riflettere sulle
cose immortali e divine, se viene a contatto con la
verità, è assolutamente necessario che, per quanto
sia ammesso dalla natura umana, prenda parte
dell'immortalità, senza trascurarne neppure una
parte, e, come colui che venera una divinità e
mantiene in ordine il divino che abita in sé, sia
particolarmente felice.
E' quindi la conoscenza, derivante dallo studio e
dalla riflessione "sulle cose immortali", che conduce
alla felicità. E il simbolo attraverso cui Platone
descrive metaforicamente la "vera conoscenza" è la
Luce, come bene possiamo leggere in un altro
famoso dialogo: La Repubblica.
In questo dialogo, si narra d uomini prigionieri in una
caverna, incatenati alle gambe e al collo, e quindi
impossibilitati a volgere lo sguardo dietro di loro,
dove c'è un fuoco che arde. Tra la luce del fuoco e i
prigionieri vi è un muricciolo che costeggia una
strada, e sula strada alcuni uomini si muovono e
parlano, portando sulle spalle statue che raffigurano
uomini. Gli uomini incatenati non possono
conoscere la vera esistenza degli uomini sulla
strada, ma percepiscono solo l'ombra delle statue
che il fuoco proietta sulla parete di fronte a loro, e
l'eco delle voci. Quelle ombre e quell'eco
costituiscono per i prigionieri la "realtà". Ma se uno
dei prigionieri potesse finalmente liberarsi dalle sue
catene, potrebbe scavalcare il muro e volgere lo
sguardo verso il fuoco, e alla sua luce vedere
adesso l'esistenza degli uomini veri. Se poi
ipotizziamo che il nostro prigioniero si avventuri al di
là del muro, fuori dalla caverna, possiamo
immaginare come egli resterebbe in un primo
momento abbagliato dalla luce del Sole e poi,
abituandosi, vedrebbe le cose stesse e infine,
prima riflessa in una pozza d'acqua, poi con i suoi
propri occhi, vedrebbe il Sole
In questo mito, la luce del fuoco rappresenta la
conoscenza, mentre gli uomini oltre il muro
simboleggiano le cose come realmente sono, la
verità, contrapposte alle statue che sono solo
imitazioni della verità. Le ombre delle statue
simboleggiano l'interpretazione che i sensi
forniscono delle cose stesse, ovvero l'opinione pura.
La luce, in un primo tempo quella del fuoco poi
quella del Sole, chiarirà all'uomo ex prigioniero che
esiste una conoscenza soprasensibile
rappresentata dalle statue, e che persino questa
conoscenza ha vari gradi di "verità", perché le
statue sono meno reali degli uomini di cui sono
immagine. Inoltre comprenderebbe che solo
apparentemente il fuoco dentro la caverna è la
causa della conoscenza che adesso possiede,
perché fuori dalla caverna c'è una luce ben più forte,
da cui proviene ogni conoscenza, persino quella del
fuoco. Per Platone il Sole rappresenta il Bene.
Per capire quanto di tale visione gnostica si ritrovi
nei Vangeli, si consideri l'episodio della guarigione
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
54
del cieco di Gerico, riportato nel Vangelo di Marco
(Marco 10:26-42). Si descrive che il miracolo
avvenne fuori Gerico, ed il cieco sedeva al margine
della strada. La strada rappresenta generalmente
un percorso, ed in senso spirituale, una via sulla
quale acquisire conoscenza. Il cieco però è fermo,
non cammina per via della sua cecità. Si limita a
mendicare, ovvero a dipendere dagli altri. Quando
però su quella strada passa Gesù, il Cristo, il cieco
avverte la presenza di un'occasione, intuisce la
possibilità di porre fine a quella sua condizione di
staticità. "Gesù" significa "Dio salva". Quindi il cieco
chiama Gesù per nome, invocando la salvezza. Ma
Gesù è il Logos, impersona lo Spirito Santo, ed
allora anche il Vangelo Canonico di Marco spiega
quale sia il mezzo tramite il quale Gesù porta la
salvezza. Egli apre gli occhi al cieco, ovvero gli fa
vedere la luce. E la luce non può che rappresentare,
in un contesto simile, la conoscenza (gnosi).
Incidentalmente, notiamo che Marco ci informa che
il cieco si chiamava Bartimeo, ovvero "figlio di
Timeo". Un riferimento possibile (ma è solo una mia
supposizione) al celebre dialogo platonico.
Nel Vangelo di Tommaso, si dichiara che il
raggiungimento del Regno (la gnosi) può avvenire
solo quando l’Uno, l’"Ego Cosciente", si unisce al
Tutto che lo circonda e diventa Due (Detto 12). Il
Dualismo, proprio delle Religioni della Natura, è
quindi il centro del messaggio evangelico di
Tommaso. Non si tratta quindi di alcuna Trinità,
come erroneamente interpretato dal Credo di Nicea
e quindi dalle moderne Chiese Cristiane, ma invece
dell’antica contrapposizione-fusione Uomo-Natura.
L’uomo trova la sua completa realizzazione solo in
tale fusione. Che la natura della divinità sia
dualistica e non trinitaria è ulteriormente confermato
nel Detto 35.
Inoltre un altro insegnamento che viene espresso
nel Vangelo di Tommaso riguarda l’inutilità di
penitenze e sacrifici come il digiuno, nocivi per il
corpo e quindi offensivi per la Natura. E inoltre, fatto
che risulterà sorprendente per gli attuali credenti, si
afferma l'inutilità della preghiera, perché insensato
chiedere un aiuto dall’esterno quando si è già "fusi"
con la divinità. Quello che è importante fare è invece
solidarizzare col prossimo, ed aiutare chi soffre
(Detto 15).
Ma a levare ogni dubbio sulla derivazione gnostica
del Vangelo di Tommaso e sulla natura della Divinità
di cui esso tratta, c'è l'affermazione avanzata nel
Detto 16, in cui si afferma che il Padre, ovvero la
Divinità a cui si giunge mediante il processo di
conoscenza, "non è nato da donna". Quindi per
Tommaso la divinità non si incarna, nè mai si
incarnerà. Il Logos è Spirito, essenza ideale, non è
un Dio antropomorfo, e Cristo è colui per mezzo del
quale il Logos si esprime, e non è il Logos incarnato
come gli attuali cristiani pretendono di avere
interpretato.
L'importanza del Cristo sta dunque nei suoi
insegnamenti, nel Logos, mentre colui che li
pronuncia è solo un personaggio simbolico,
letterario.
Il centro dell'insegnamento del Cristo è che la Via
per arrivare al Regno è l’abbandono delle cose
materiali a vantaggio di quelle spirituali (Detto 24).
Quindi, viene proposto un percorso di ascesi
spirituale che risolve l'originale duopolio UomoNatura nell’unità della Natura stessa, in modo tale
che "l’interno sia come l’esterno, l’alto come il
basso, il maschio come la femmina." (Detto 27).
Quindi il significato più profondo del Vangelo di
Tommaso sta proprio nella risoluzione delle
individualità nel Tutto, riproponendo attraverso il
mito di Cristo l’unità taoista di Yin e Yang.
In questo mito, il profondo insegnamento delle
antiche religioni della Natura, mediata attraverso le
riflessioni filosofiche del razionalismo greco, e
definitivamente risolta nel mondo ideale di Platone.
Tommaso fa dire a Gesù che egli si è manifestato
"nella carne" ai discepoli (Detto 33), significando
che attraverso Cristo parla il Logos, lo Spirito della
Divinità Naturale.
Questo introduce alla natura iniziatica del mito di
Cristo, come espresso nel Detto 47, in cui Gesù
esorta i discepoli dicendo loro "Siate Viandanti".
L’"itineranza" è condizione essenziale di colui che
ricerca, che è sempre in eterno viaggio. E ancora,
nel Detto 54, Gesù precisa che solo il "solitario",
colui che avrà fatto ritorno all’Anima del Mondo,
potrà trovare il Regno.
Il Detto 55 chiarisce poi la Natura degli uomini. In
esso Gesù dice ai discepoli: "Se vi domandano: "Di
dove siete venuti?", rispondete: "Siamo venuti dalla
Luce, dove la luce si è originata da se stessa. Essa
è sorta e si è manifestata nella nostra immagine".
Se vi domandano: "Che cosa siete voi?",
rispondete: "Noi siamo i figli e gli eletti del Padre
Vivente". Se vi domandano: "Quale segno del vostro
Padre è in voi?", rispondete loro: "È un movimento e
una quiete."
Viene quindi affermato che l’uomo ha natura divina,
e che la manifestazione di tale natura sta
nell’intelligenza che opera permettendo all’uomo
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
55
stesso di riacquistare in ogni momento l’unità con la
sua origine. Il moto e la molteplicità che gli uomini
ed il mondo naturale rappresentano è quindi solo
"apparenza", "opinione", che si ricompone nella
quiete dell’assoluta immobilità dell’Essere-Dio.
Ritroviamo qui, in maniera assolutamente evidente,
la concezione platonica di un mondo materiale
"copia" di quello ideale.
In sostanza, possiamo ragionevolmente affermare
che il Mito di Gesù, come riportato nel Vangelo di
Tommaso, appare come una interpretazione
platonica dell’antichissima visione dell’UomoNatura, che era stata propria delle antiche
popolazioni degli agricoltori neolitici. La Natura
stessa viene idealizzata, diventando il prototipo del
mondo materiale che è soltanto una sua "copia".
L’uomo "materiale" vive nella natura materiale, e
conosce essa attraverso i sensi e la razionalità, ma
questa conoscenza è soltanto "opinione". Per
mezzo del Logos, che nel mito cristiano è
"interpretato" dal personaggio Cristo, ovvero per
mezzo della conoscenza "esoterica" che si rivela
grazia al percorso interiore di iniziazione, l’uomo
può ascendere alla dimensione ideale della Natura,
dentro la quale egli si fonde e riconquista la
pienezza della sua condizione divina.
Come è chiaro anche negli scritti di Paolo, che parla
di sola giustificazione per mezzo della fede, nel mito
di Cristo non esiste nessun "aldilà" da conquistare
attraverso le buone opere.
Addirittura, nel Detto 56, Gesù chiarisce che il
"Regno" è già venuto, sono gli uomini a non
accorgersene, sempre per via dell'"apparenza" a cui
sono assoggettati. La divinità è cioè dentro di loro,
nella Natura la cui idea è conoscibile attraverso il
percorso che Gesù indica. Un percorso di solitaria
ricerca interiore, vissuta in una pace armoniosa con
le altre creature che aiuti nel processo di ascesi
spirituale. Il concetto è ribadito anche nel Vangelo
Canonico di Luca, 17,21. "Il regno di Dio non viene
in modo da attirare l'attenzione, e nessuno dirà:
Eccolo qui, o: eccolo là. Perché il regno di Dio è in
mezzo a voi!". E sempre nei canonici, stavolta in
Matteo 23,13, si precisa che la "strada" per il Regno
non è quella indicata dagli scribi e dai farisei, cioè
dall'Ebraismo farisaico tradizionale: "Guai a voi,
scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli
davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e
non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono
entrarci."
E' infatti ampiamente attestato nei Vangeli che il
rispetto della Torah non è affatto condizione
sufficiente per giungere a Dio, come evidentemente
gli Ebrei farisaici hanno sempre creduto. La
parabola del giovane ricco riportata sia in Matteo 19,
16-22 che in Marco 10, 17-22 lo chiarisce
perfettamente, sottolineando che l'unica condizione
sufficiente per la salvezza è seguire il Cristo, ovvero
il percorso iniziatico ("io sono la Via, la Verità, la
Vita).
E con ancora più forza Gesù dice, nel Vangelo di
Tommaso (Detto 84): "Io sono la Luce: quella che
sta sopra ogni cosa; io sono il Tutto: il Tutto è uscito
da me e il Tutto è ritornato in me. Fendi il legno, e io
sono là; solleva la pietra e là mi troverai."
Risulta ovvio che questa stessa cosa possa dirla
ogni uomo che abbia compreso il messaggio del
Cristo, perché è ovvio che se il Tutto è dentro il
legno e la pietra, è anche in ogni uomo.
56
LA CONNECTION EXTRATERRESTRE
Pseudo eterodossia e fumus persecutionis, spine nel fianco dell’ufologia
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
di Pier Giorgio Lepori
Dieci anni fa circa, intorno a luglio 2005, scrissi un
articolo per conto di Edicolaweb a proposito degli
enigmi biologici e inerenti civiltà tecnologizzate
legati alle cicatrici del pianeta Marte. Si trattava
della recensione al libro di Graham Hancock
L’enigma di Marte (ediz. Il Corbaccio – 1997)
correlata di considerazioni personali espresse sulla
scorta di altri testi legati in qualche maniera al
saggio di Hancock.
Al tempo ero ancora convinto dell'esistenza fisica di
Atlantide nonché della correlazione astronomica tra
al-Jizah e Cintura di Orione, più nota come TCO
(Teoria della Correlazione con l'Orione), una tra le
suggestioni più radicalizzate pseudo-eterodosse.
Tra le invettive più feroci di certa ufologia descritta
come 'acciaio e bulloni', vi è quella cosiddetta
‘complottista’ portata contro 'Loro', 'Them', una
fantomatica Spectre capeggiata solitamente dagli
Stati Uniti e seguita a ruota da altre potenze sul
campo, di dubbia identità, spesso trasversali che si
ciba di occultamenti correlati ad interessi economici
basati sul controllo delle masse da tenere nel
terrore, ciò al fine di imporre legislazioni caustiche
della libertà d'espressione e al contempo impositive
di politiche economiche restrittive con lo scopo di
'non far pensare troppo' gli individui, tenendoli
mentalmente e socialmente impegnati a
sopravvivere. Nei primi Anni 2000 ebbi modo di
leggere un documento strategico Telecom Italia
firmato Roberto Colaninno (sorvolo sulla fonte
d’informazione per motivi di privacy) in cui
necessitava il crearsi di un ‘clima critico’ all’interno
dell’Azienda al fine di tenere le ‘risorse sotto
pressione’ poiché solo in un contesto simile è
possibile lo ‘sviluppo di idee’ e la crescita
professionale dei soggetti. Non è un caso che il
salto qualitativo sia tecnologico che di pensiero
l’umanità lo abbia compiuto negli ultimi 200 anni,
grazie a stimoli epocali assai ravvicinati a partire
dalla Rivoluzione Industriale e transitando attraverso
ben due guerre mondiali l’una a venti anni esatti
dall’altra.
Nella realtà, sia sotto un profilo sociologico che
antropologico, gli individui abdicano alla riflessione
quando si divertono, sono distratti e al contempo
vivono condizioni economiche favorevoli: il latino
panem et circenses è antonomasia della
demagogia.
Non è semplice far crollare il presupposto
complottista poiché pur essendo un presupposto
errato è molto radicato nelle coscienze, difficile
crearvi uno spartiacque chiaro tra illusione e realtà.
Il dubbio quindi è: ma non è che panem et circenses
risieda proprio all'interno di sigle come il CUN o il
MUFON?
E' possibile che operi – approfittandone - una
contro-informazione iperbolica, forte di ufologia
legata all'evoluzione storica affatto inconscia?
E qualora fosse vero: perché?
Partiamo dal primo quesito legato all’incubo ‘Them’,
vero e proprio fumus persecutionis, fondamento
della dietrologia complottista. Non è vero che la
superpotenza statunitense – ad esempio – si
comporta come agente contro-iniziatico. Un testo
illuminante, addirittura del 2003 edito da Bruno
Mondadori, ‘La vita nell’universo’ può cambiare il
punto di vista ‘malato’. Gli Autori, il geologo Luigi
Bignami assieme all’astrofisico Gianluca Ranzini e
al fisico Daniele Venturoli, sono i co-fondatori del
Centro Studi di Esobiologia all’interno della Società
Italiana di Scienze Naturali.
Nel testo sono riportate numerose sigle di studio,
oltre al classico SETI Institute (Search for ExtraTerrestrial Intelligence), in questo settore.
Lo spostamento è chiaro: gli studiosi sono passati
dalla spasmodica quanto inconcludente (tranne il
57
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
segnale ‘Wow!’ risalente al 15 agosto 1977 presso il
SETI) ricerca di forme di vita intelligente,
organizzata e tecnologicamente avanzata, ad una
ricerca progressivamente estesasi a qualsiasi
forma, tipologia di vita ovvero all’esistenza stessa di
Satellite SIRTF e logo missione
quest’ultima da quando uno dei padri
dell’esobiologia, Carl Sagan, definì l’atteggiamento
da paraocchi ‘sciovinismo antropocentrico’1 ossia
quel parametrizzare l’intero universo sulla figura
umana e pertanto negare qualsivoglia forma di
esistenza che non risponda alle caratteristiche di
perimetrazione che disegnano il profilo della vitacosì-come-la-conosciamo2 e in particolare di quella
profilazione adatta allo sviluppo dell’intelligenza.
L’esobiologia non tiene conto minimamente di un
disegno complottista planetario se non addirittura
epocale, esteso nei decenni addirittura millenni
antecedenti ‘l’intuizione’. Si parlava di sigle.
Premesso che la presenza di acqua è conditio sine
qua non per l’attivazione di processi biochimici di
qualunque tipo (le colonie di polpi o i gamberi albini
che sintetizzano sostanze in ambiente alcalino
vicino alle bocche eruttive termali di Lost City tra
l’Atlantico e l’Indiano sono molto indicative), gli
States – in particolare la NASA - dispongono di
‘cercatori d’acqua’ ad alta quota: sono aerei ad uso
scientifico come il KAO (Kuiper Airborne
Observatory) oppure il nostrano (proprietà ESA) ISO
(infrared Space Observatory) montato a bordo di
satelliti con tutte le incredibili scoperte effettuate e
messe a disposizione di chiunque tra cui la
presenza di massicce quantità d’acqua presenti su
‘stelle fredde’ come le M o addirittura all’interno delle
macchie solari.3
L’Eterodossia è divampata tra gli studiosi quando
iniziarono a ridimensionare i 5 punti di profilazione
che individuassero la cosiddetta ‘fascia di abitabilità’
(Oro, Rewers e Odom: Criteria for the emergence
and evolution of life in the solar system – ‘Origins of
Life’ n. 12 - 1982, pagg. 285-305) cominciando ad
aprire l’orizzonte di visuale e cambiando punto di
vista: è la Vita che si sviluppa all’interno di 5
presupposti o è la Vita-così-come-la-conosciamo?
Andiamo avanti.
‘Odin’, lanciato nel 2001, e SIRTF (2003, acronimo
di Space Infrared Telescope Facility) sono progetti
operativi per la ricerca dell’acqua su pianeti
extrasolari, entrambi targati ESA.
Sempre dell’Agenzia Europea, il Darwin Project è il
più ambizioso:
-
Sistema di 6 telescopi orbitanti posti in punti
lagrangiani e posizionati ad una certa
distanza dal Sole (1,5 mln di km) con il fine
di evitare la luce zodiacale, cioè quel
chiarore prodotto dalla luce solare nell’area
dell’eclittica e diffuso da grani di polvere
cosmica.4
1
L. Bignami, G. Ranzini, D. Venturoli La Vita nell’Universo – Bruno Mondadori 2003 – rif. pag. 121
2
I. Asimov – Civiltà Extraterrestri - Saggi Oscar Mondadori 1989
3
Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.130 e segg.
4
Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.132 e note a piè di pagina
58
-
precisa volontà di rimestare nel torbido per tenere
alta l’attenzione e non solo a scopi di business ma
anche sociali, politici dove per ‘politica’ intendo il
termine nel senso stretto:
Continuiamo. Cito direttamente dal testo:
-
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
-
Per sottolineare l’importanza delle ricerche
concernenti i pianeti extrasolari (e la relativa
ricerca di acqua N.d.A.) basta un dato:
attualmente sono in corso, in fase di
realizzazione o in progetto qualcosa come
60 programmi diversi finalizzati alla loro
scoperta con tecniche differenti.5
Gli Autori scrivono ciò tra il 2001 e il 2003, tempo in
cui svilupparono il testo pilota di questo articolo.
Leggiamo quali, tra i 60 suddetti, vengono illustrati
nelle pagine seguenti:
-
-
-
NASA, Missione ‘Kepler’ (già operativo in
sostituzione di Hubble, avvio missione
2009), telescopio orbitante. Gli Autori
scrissero di aspettarsi almeno la rilevazione
di 50 pianeti del tipo ‘Terra’; su Focus.it
(http://www.focus.it/scienza/spazio/
telescopio-spaziale-kepler-700-nuovipianeti-come-la-terra) se ne annoverano
715 a febbraio 2014
ESA, Missione ‘Gaia’, satellite posto a 1,5
mln di km in posizione lagrangiana con a
bordo 3 telescopi in grado di identificare
una moneta da 2 EU ad una distanza di
300.000 km. Operativa dal 19
dicembre2013, LeScienze.it (http://
www.lescienze.it/news/2013/12/14/news/
missione_gaia_esa_mappa_tridimensionale
_via_lattea-1929702/)
NASA, Missione ‘TPF’ (Terrestrial Planet
Finder) con data da definire oltre il 2015 con
l’obiettivo di spostare l’occhio umano su
sistemi planetari stellari a oltre 45 AL da noi.
In tutto questo, le ‘cover-up’ dove sono? La controinformazione delle sigle storiche urla a gran voce
con frastuono confusionario al fine di non portare
alle persone conoscenze di questo tipo. I motivi
potrebbero essere ovvi ma a parer nostro –
purtroppo – sono inquietanti: rispondono ad una
5
Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.144 e segg.
6
Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.188
‘modalità di governance dell’etica, della
morale e della psicologia di massa’.
Un atteggiamento usuale di chi crede
l’Eterodossia un dispositivo anti-Ortodossia: non
è così, l’Eterodossia è un comportamento,
un'etica, si basa sul cambio di punto di vista.
Significa ‘opinione diversa’ non ‘opinione giusta’.
Bisognerebbe spiegargli che l’ufologia ‘motori e
bulloni’ è rimasta con lui e Mauro Biglino ed è
ormai scomparsa a partire dalla conversione di
J. Allen Hynek post-Blue Book e se mai
qualcosa vi fosse ancora, è paragonabile a
reperti archeologici in rovina.
Non è un caso che vi siano altre sigle, oltre al
SETI, orientate in tal senso:
Telescopio Kepler
-
-
SETA (Search for Extra Terrestrial Artifacts)
con l’obiettivo di identificare manufatti di
origine aliena tra le nostre orbite terrestrelunare, nei punti lagrangiani o tra asteroidi
ed orbite planetarie del nostro sistema
SETV (Search for Extra Terrestrial
Visitation), con l’obiettivo di identificare
oggetti chiaramente riconoscibili come
sonde aliene all’interno del sistema e più in
dettaglio in orbita terrestre. Il SETV fu
fondato da due ricercatori del JPL NASA
(Jet of Propulsion Laboratory)6
59
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
speculazione teoretica ma questa volta fondata
su leggi astronomiche e fisiche ben precise che
fanno capo alla forza gravitazionale, alla forza
nucleare, la Costante di Planck, le costanti delle
interazioni forti e deboli e via dicendo7.
L’odierno Principio Antropico riprende le
considerazioni religiose corroborandole con
aggiunte positive dimostrabili e, di fatto,
riportando la centralità dell’uomo al vertice
dell’esistenza dopo il decentramento
progressivo all’indomani dell’Umanesimo e delle
vette illuministiche in cui la nostra posizione,
soprattutto etico-morale, divenne periferica
come la posizione del Sistema Solare e non più
di privilegio come nel sistema tolemaicoaristotelico. Lo stesso processo che i principi di
valore hanno subito con l’introduzione della
Presunta donna pleiadiana
‘Ci hanno fatto sognare…’
È un’espressione che Biagio Russo, Autore del
libro ‘Schiavi degli Dei’ edito da Drakon Edizioni,
utilizzò durante una delle sue Conferenze e in
particolare a Roma nel novembre 2014. In
merito alla ricerca su ‘Le Donne di Adamo’,
portò un parallelo con le bionde Pleiadiane e
correlando il ‘biondo’ con caratteristiche di civiltà
proto sumeriche che nulla avevano a che fare
con Donne aliene ma, sicuramente,
influenzarono il nostro modo di pensare fino agli
odierni giorni.
Questo è l’altro argomento, dettato dalle
domande iniziali, protagonista di questo articolo.
Un teorema applicabile a qualsivoglia enigma la
cui spiegazione sembra non avere radici
materiali bensì psicologiche, antropologiche.
Mi spiego meglio.
Uno dei principi fondamentali dell’odierna
‘metafisica’ è il Principio Antropico il quale,
basandosi su alcune premesse di carattere
scientifico e soprattutto fisico (sono infatti
premesse derivanti dalla considerazione delle
forze a noi conosciute), detta i parametri
cosmologici e l’affermazione perentoria
sull’esistenza dell’universo in funzione
dell’esistenza umana, affinché quest’ultima
possa contemplarlo: è la cosiddetta versione
‘forte’ del Principio. Si tratta di pura
7
Ibid. pagg. e segg.
Relatività di Einstein in campo antropologico.
Perché questa digressione?
Il Principio Antropico spiega chiaramente quella
strana evoluzione tecnologica degli OVNI/UFO
e degli stessi extraterrestri affatto parallela alle
conquiste tecnologiche e di pensiero dell’uomo.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
60
Le differenze tra i dischi volanti e gli alieni degli
Anni ’50 e quelli odierni – transitando attraverso
decenni – sono sotto gli occhi di tutti. In
principio erano acciaio spinto da carburante
nucleare; oggi sono proiezioni ologrammiche
oppure oggetti in grado di deformare lo spaziotempo intorno a loro. Un tempo erano motori
atomici, oggi sono propulsioni ‘a curvatura’.
L’evoluzione degli avvistamenti ma soprattutto
l’evoluzione di considerazione tecnica degli
oggetti, viaggia di pari passo con quella
tecnologica della nostra umanità, senza
considerare gli aspetti archetipali del buio e del
profondo ovvero la presenza di basi nello spazio
profondo, oscuro, il fenomeno USO
(Unidentified Submerged Objects), la presenza
aliena in aree sotterranee ‘alla Verne’ o nel
cuore, sempre buio e profondo, delle montagne
(senza citare gli Stati Uniti o i misteriosi bunker
di Tunguska, noi qui in Italia consideriamo il
Monte Musinè situato in Piemonte al principio
della Val Susa una base aliena da tempo
immemore8).
Così come la versione forte del Principio
Antropico caratterizza l’universo in quanto
oggetto non solo compatibile con l’esistenza
dell’uomo ma persino funzionale ad essa9, lo
stesso Principio guida l’interpretazione aliena
nel corso dei decenni rendendola funzionale alla
tecno-evoluzione umana.
Vuol dire che gli alieni non esistono? Tutt’altro,
ho appena scritto che l’intera comunità
scientifica tranne il C.I.C.A.P. considera la
possibilità di intelligenza extraterrestre come
una possibilità addirittura di incontro futuro e
non una mera statistica stante l’osservazione
del cosmo.
A questo proposito esiste persino una
procedura internazionale in caso di acclarato e
reiterato contatto alieno (IAA - SETI Protocol),
ovvero un protocollo preparato dal comitato
dell’Accademia Internazionale di Astronautica
per il SETI così articolato:
-
Dato per certo il contatto, l’informazione
giungerebbe immediatamente al Segretario
Generale ONU
-
Egli darebbe l’annuncio al pianeta
Partono una serie di consultazioni
internazionali per decidere se rispondere o
no al segnale
L’ok finale spetta all’Assemblea ONU
In caso affermativo, la risposta non è da
parte di Stati singoli ma collegiale
dell’umanità
Tale messaggio dovrà essere reso pubblico
prima di trasmetterlo
Nessuna iniziativa ‘personale’ se non previa
concertazione planetaria10
E questo in risposta ai complottisti a proposito degli
argomenti precedenti in merito ad una presunta
‘detenzione nell’oscurità di comprensione’ a danno
delle persone.
Il tema antropocentrico mi è particolarmente
d’interesse perché legato ad una film-conference
che sto preparando a proposito di Atlantide dove i
processi di riflessione sullo scomparso
supercontinente (e relativa superciviltà) sono affatto
simili al fenomeno OVNI/UFO così come ne parlo in
questo articolo. Un esempio su tutti è che
nell’immaginario comune, fino a non molto tempo fa,
le rovine di Atlantide erano identiche alle rovine
dell’Acropoli ateniese o dei Templi di Selinunte solo
che a centinaia di metri sotto la superficie
dell’oceano: in sostanza tale proiezione proviene dal
fatto che sia un ateniese, Platone, a parlarne in
maniera approfondita. Le immagini mentali si
formano anche ‘per simpatia’, né più né meno del
feedback sonoro sulle corde di chitarra quando si
eseguono degli armonici. Il principio antropico, o
antropocentrico, ha riversato tutte le sue
caratteristiche anche all’interno di questo caso.
Detto Principio ha fatto proprio il concetto di
substantia presente nella lunga digressione
aristotelica de La Metafisica, di fatto sostituendo la
Sostanza con il significato ultimo dell’esistenza
umana:
-
contemplare, godendone, ciò che ci
circonda.
In soldoni, la realtà parteciperebbe della presenza
umana ed il suo fondamento ultimo sarebbe la
8
Vedi G. A. Dembech – Musinè Magico – Piemonte in Bancarella 1976
9
Ibid. La Vita nell’Universo – pagg.205
10
Ibid. pag. 192
61
sovranità assoluta dell’umanità stessa sul significato
di Essere.
Essendo io un Membro Permanente e Fondatore
ASPIS, è lecito chiedere che cosa ne pensino gli
uomini dell’Associazione in tal senso ed è corretto
che io risponda prontamente.
Il sito www.roswell47.it, di proprietà ASPIS, è nato
appunto per questo motivo. Presto sarà inglobato in
www.associazioneaspis.net in una rubrica apposita
che approfondisce il tema di questo articolo.
Nella pratica io e ASPIS siamo sostanzialmente
convinti di questi punti:
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
-
-
La possibilità di esistenza intelligente aliena
è assoluta ma non necessariamente
interagente
La paleoastronautica è solo un’ipotesi e
peraltro sfruttata a fini di business
I fenomeni legati al tema UFO sono
probabilmente, in percentuali quasi
assolute, artefatti
La percentuale del fenomeno UFO non
spiegabile nasconde una storia dell’umanità
ancora inenarrabile allo stato culturale
odierno
Questo fenomeno potrebbe essere legato
alla presenza di un’antica e dimenticata
umanità
Ho coniato io stesso l’espressione ‘antropologia di
frontiera’ nei confronti del testo ‘Schiavi degli Dei’ di
Biagio Russo e mi sono tirato addosso l’ira funesta
di molti quando ho definito la ricerca del Membro
Permanente ASPIS ‘neo-evemerismo reale’, ma è
così.
È un problema di punti di vista.
Facciamo un esempio: l’interpretazione aliena dei
crop circles, in particolar modo l’evoluzione
simbolistica degli ultimi anni, stabilisce che dette
manifestazioni siano un modo per comunicare
l’origine univoca di ogni simbologia, specialmente
sacra, derivata da una civiltà aliena creatrice della
nostra umanità e da parte di questa stessa specie
extraterrestre.
Ancora una volta, il Principio Antropico – applicato al
contesto storico – detta le sue condizioni
psicologiche. È molto banale:
-
Quando si viaggia indietro nel tempo, si
tende ad uniformare l’origine e non a
differenziarla: a riprova vi è la visione
puntiforme dell’inizio del tutto (dai termini
-
-
-
‘scintilla’ ai credi dell’uovo cosmico, dallo
Jod ebraico - punto primordiale, transitando
per l’Uno plotiniano fino alla ‘mistica
positivista’ del Big Bang)
Il Principio è Uno e quindi non solo
universale ma ‘uni-verso’ cioè derivante da
una sola strada: ecco le origini univoche dei
Miti (spesso i popoli narrano di padri
provenienti da un’isola in mezzo ad un mare
sconfinato)
Potremmo definire questo processo
mentale, mutuando un’espressione dalla
Giurisprudenza, ‘reductio ad unum’: la
possibilità di comprensione culturale
facilitata di remote età, patria dell’oblio più
che della memoria
È più semplice pensare ad un intruso
piuttosto che ad un’origine comune di un
fenomeno inspiegabile
La tematica aliena non è infatti esente da questi
parametri: la civiltà aliena è quasi sempre ‘una’, il
pianeta è abitato dai ‘grigi’ o dai ‘rettiliani’ o dai
‘pleiadiani’. Si immagina (ad esempio) un globo
terracqueo – affatto analogo a Gaia – pieno di rettili
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
62
antropoidi: a nessuno, o quasi, viene l’idea di
chiedere se a nord essi siano albini o biondi e
intorno all’equatore di pelle più coriacea e nerastra a
causa delle difese dai raggi perpendicolari della loro
stella-Sole. È la fotocopia dell’immaginario comune
ellenizzante di Atlantide.
Inoltre, per continuare nel ‘delirio antropico’, detta
civiltà aliena produrrebbe simboli agroglifi a partire
dal XX Sec. a.C. ovvero dalla tradizione orale
dell’Ebraismo: ma allora perché non raffigurare la
Dee Madri di oltre 30.000 anni fa?
Sono convinto che il fenomeno crop circle non sia
legato ai nostri tempi: secondo Michael Hesemann
vi sono tracce di testimonianza in tal senso da parte
dei primevi abitanti del South England, soltanto che,
in mancanza di coltivazioni a grano, orzo e colza, le
‘tracce circolari’ erano petroglifi.
Se dovessi tornare dai miei pronipoti dopo
un’assenza di decenni, per non turbarli, invierei
(prima di presentarmi di persona) messaggi
rassicuranti sulla condivisione di conoscenze di
parentela o su eventi, aneddoti e racconti comuni
all’intera ‘famiglia’.
Perché quindi pensare ad extraterrestri e non ad
esoterrestri o – peggio – ‘ex-terrestri’?
Non vi è risposta al momento e se vi fosse questa
troverebbe udito avverso rispetto alla più
accomodante, al paradosso, ‘origine altra’ della
nostra storia. Perché? Perché pensare ad una
umanità fuggita via e trasformatasi in ‘aliena’ è molto
più inquietante di un’invasione extraterrestre toutcourt.
Termino con una domanda: il terrore pervaderebbe
le nostre membra molto di più qualora di notte
sentissimo forzare la porta d’ingresso oppure
vedessimo dallo spioncino l’arrivo di un parente, un
amico dati per morti molti anni prima?
Bibliografia essenziale
63
MOTHMAN, SPRING HEELED JACK
e altre Creature Misteriose
di Gianluca Rampini
Mi dicono che talmente tanta gente ha visto oggetti
simili ad astronavi che qualcosa di vero ci deve
essere... forse c'è, ma pensate a tutta la gente che
nel corso della storia ha visto fantasmi, spiriti o
angeli. Non è quello che si vede ad esser sospetto,
ma come lo si interpretai.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Isaac Asimov
Ogni tanto mi sento un po' Fox Mulder nel rincorrere
casi che agli occhi dei più sembrano quantomeno
strampalati, inclassificabili, inconsueti in un mondo
inconsueto. Ciò che mi guida, un po' come
succedeva all'agente del Fbi, ormai prossimo al
ritorno sugli schermi, è l'intuizione che dietro queste
“anomalie” vi si nasconda un filo conduttore che
potrebbe aiutare a comprendere qualcosa del vasto
mistero del paranormale. Dopo anni spesi
nell'inseguire i dischi volanti in quanto tali, il mio
approccio è mutato verso una prospettiva più
fortiana verso questi temi, secondo la quale nulla
può essere veramente tralasciato, purché venga
affrontato con serietà ed obbiettività.
Nel caso specifico ho voluto mettere in relazione
due casi molto particolari che a mio parare hanno
dei punti di contatto, se non altro nella loro unicità.
Mi riferisco alle apparizioni del Mothman ( L'uomo
falena ) e del più antico Spring Heeled Jack ( Jack
dai tacchi a molla ).
Il primo ha terrorizzato i cittadini di Point Pleasant
nel 1967, il secondo sopratutto sventurate ragazze
della Londra di fine '800. La maggior parte delle
informazioni sul primo derivano principalmente dal
lavoro di John Keel che ha vissuto in prima persona
gli eventi tragici associati all'Uomo Falena ( storia
che varrebbe da sola la pena di essere analizzata )
mentre per quanto riguarda lo Spring Heeled Jack
mi sono affidato alle notizie dei giornali dell'epoca.
In questo sono stato facilitato dal lavoro di Mike
Dash che ha raccolto tutte le testimonianze
disponibili. C'è anche da dire che Dash lo ha fatto
con l'intento di demistificare questo personaggio, di
i
“The Mothman Prophecies” by John Keel.
dimostrare che in realtà non esiste nessun
collegamento con l'ufologia. Partendo da
quest'ultimo presupposto, con il quale concordo
nello specifico, non vi è nulla di “alieno” in questo
caso, ( molto di più nel caso del Mothman, come
vedremo ) ho potuto approfittare della sua onestà
nel riferire di questi casi proprio grazie al suo
scetticismo. Detto questo, a mio parere, analizzando
i resoconti rimane una buona dose di “paranormale”
non del tutto spiegabile. Va tutto preso con la giusta
dose di dubbio proprio per la mancanza di testimoni
diretti ma questo vale per molti argomenti che non
devono per questo essere accantonati.
Entriamo ora nel dettaglio degli avvenimenti. Quello
che segue è il primo resoconto completo che ci
risulta, anche se le voci su Spring Heeled Jack già
circolavano.
Spring Heeled Jack.
20 febbraio 1838. Protagonista principale è Jane
Alsop, diciottenne che vive insieme alla famiglia in
un cottage poco fuori Londra. La scena di svolge di
sera, dopo il tramonto. Qualcuno suona il
campanello e Jane esce a vedere chi suonasse a
quell'ora. Raggiunge il cancello, poco distante dalla
casa, dove trova una persona piuttosto alta che le
dice di essere un poliziotto e di aver catturato Spring
Heeled Jack. Con tono concitato le chiede una
lampada. La ragazza corre in casa e torna
dall'uomo con un candela. Quando questi la prende
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
64
la situazione cambia all'improvviso. La figura si
toglie il mantello che indossava rivelando il suo
grottesco aspetto. Due occhi rossi fiammeggianti,
uno strano elmetto, una specie di armatura
luccicante ed una sorta di lampada attaccata al
petto.
Sgomenta Jane rimane inizialmente immobile. Jack
( lo chiameremo così per semplicità, n.d.a. ) coglie
l'occasione e attacca la ragazza lanciandole palle di
fuoco bianco e blu sulla faccia. Le afferra il vestito e
la testa. Aveva artigli al posto della mani, dai quali
Jane riesce a divincolarsi, strappando i capelli dalla
sua presa e rimanendo ferita ad un braccio. Le sue
due sorelle le vengono in aiuto ed una volta rientrata
Jane sbarrano la porta chiudendo fuori Jack che
picchia sulla porta svegliando tutta la famiglia. Tutti
insieme si rifugiano al piano superiore gridando per
attirare l'attenzione della polizia. A questo punto
Jack Sparisce. ( The Times 22 febbraio 1838 ). Oltre
all'episodio paradossale di per se, è interessante
notare che forse il nome Spring Heeled Jack se lo
sia dato lui stesso.
18 febbraio 1838. Due giorni prima del episodio che
ha coinvolto la Alsop. Protagoniste anche questa
volta sono due giovani ragazze londinesi, Lucy
Scales e sorella passeggiano per i vicoli nei dintorni
del porto, recandosi dal fratello macellaio, quando
imboccato uno stretto passaggio si trovano di fronte
un personaggio molto simile a quello descritto dalla
famiglia Alsop. Alto, con uno strano copricapo ed
una specie di lanterna sul petto. Sopratutto, anche
Lucy come Jane, viene attaccata da un fuoco blu
che le viene sparato in faccia. ( Morning Post, 7
marzo 1838 ).
Nell'autunno del 1837 stessa sorte tocca ad un'altra
ragazza, Polly Adams, che subisce lo stesso
trattamento con il fuoco ed i vestiti strappati.
Nel 1845 Jack sembra persino macchiarsi di un
omicidio, seppure le conferme di questo episodio
non siano certe. Maria Davis, giovane prostituta
sarebbe stata aggredita, afferrata con gli artigli e,
dopo aver ricevuto la solita fiammata sulla faccia,
gettata nell'acqua melmosa delle fogne, dove
sarebbe poi deceduta.
Per molti anni poi di Spring Heeled Jack non si
sente più parlare, se non per casi sporadici e non
certamente riconducibili a quelli sin'ora descritti.
Alcuni descrivevano un “fantasma” in grado di
saltare come una capra e oltre i muri come un gatto.
Il resoconto, più dettagliato, successivo, compare
appena nel 1877. Anche l'ampio arco di tempo è un
elemento di cui tener conto.
Il caso si verifica ad Aldershot, quartier generale
dell'esercito, dov'erano stanziati più di diecimila
soldati. Li Jack si sarebbe arrampicato sopra le
postazioni di guarda ed avrebbe passato la sua
fredda mano metallica sul volto delle sentinelle, per
poi fuggire saltando oltre le mura. I militari
avrebbero fatto in tempo a sparargli senza mai
riuscire a colpirlo. Jack comparve nei pressi della
presidio altre volte, effettuando altri incredibili salti e
aggredendo le guardie, senza che mai riuscissero a
fermarlo. ( Sheldrake’s Aldershot & Sandhurst
Military Gazette, 17 marzo 1877 ).
Dopo un'altra serie di apparizioni, i cui resoconti
sono meno dettagliati e più incerti, l'ultima in termini
cronologici avviene nel 1904, a Liverpool. Qui, nei
pressi di William Henry Street avrebbe terrorizzato
molte persone saltando su e giù dai tetti anche in
pieno giorno. ( The leaping horror of Liverpool’,
Liverpool Daily Post 25 Jan 1967 ).
65
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Per completare la descrizione che ne deriva dai
giornali dell'epoca vale la pena aggiungere, a titolo
di riassunto, qualche altra descrizione:
− Spring heel Jack venne visto attaccare un
numero di donne con artigli d'acciaio ed
aveva un aspetto da diavolo. ( The morning
Chronicle, 10/01/1838 )
− Venne visto saltare sui palazzi a
mezzanotte, fare salti di una lunghezza
“fantastica”.( The Morning Chronicle,
11/01/1838 )
− Vi furono alcune persone che morirono di
paura ( The Times, 11/01/1838 ).
− Furono notati i suoi stivali con tacco alto e
venne descritto un salto che nessun uomo
potrebbe fare. ( Camberwell&Peckam
Times, 9 novembre 1872 )
Sia all'epoca dei fatti che al giorno d'oggi molti
credono non fosse altro che un impostore.
Ammettendo che la cosa in sé è sempre possibile
rimane da capire come fosse capace di simili
“prestazioni” e di come potesse aver messo così
tanta paura a una città che, fra le altre cose, si stava
confrontando con Jack lo Squartatore.
Come detto gli impostori ci furono ma furono
catturati, nonostante Spring Heel Jack poi
continuasse nelle sue acrobatiche gesta. Uno fu un
certo Daniel Granville, un giovane che venne trovato
con una maschera ed una carta blu luccicante con
la quale simulava il fuoco bluastro. ( Morning Post ,
20 marzo 1838 ) Un altro fu James Painter beccato
mentre indossava un lenzuolo ed una maschera
barbuta. Venne multato di quattro sterline e
rilasciato. ( The Examiner, 25
marzo 1838 )
A Spring Heel Jack vennero anche associate
apparizioni di tipo completamente diverso. Questo in
qualche modo ci avvicina al secondo protagonista di
questo articolo.
In un caso “un essere a 4 zampe, dalle sembianze
di un orso, comunque peloso, apparve ad un
giardiniere che per fuggire si arrampicò su un muro
di cinta coperto di vetri rotti. Dopo un breve
inseguimento, anche i cani ne erano terrorizzati,
l'essere si arrampicò su un muro e scomparve”.
( Brighton Gazette, cit. in The Times 14 marzo
1838 ).
Vi furono poi una serie di altre apparizioni simili in
giro per l'Europa. Durante la seconda guerra
mondiale si trova una citazione di un certo Spring
Man nella Rep. Ceca. Altri personaggi curiosi
vengono assimilati a Jack con nomi altrettanto
fantasiosi. Halifax Slasher, Razorblade Man a
Praga, Hippermannchen ( Sassonia 1950,51 ) o
Spiralhopser.1
‑
Viste le numerose testimonianze io tendo a credere
che perlomeno lo Spring Heel Jack originale abbia
realmente terrorizzato le strade buie dell'Inghilterra
vittoriana. Detto ciò è ovviamente impraticabile che
un ipotetico impostore avesse realmente degli stivali
a molla. E' quindi inutile andare a cercare conferme
in questo senso. Stesso discorso per la questione
delle fiamme blu. Non ha molto senso, secondo me,
andare a cercare conferma nei resoconti dell'epoca
di eventuali bruciature sulle sventurate ragazze.
Non credo si tratti di trucchi fisici o chimici. Quindi
contrapponendo il volume e la qualità delle
descrizioni alle singolari peculiarità di questo
personaggio ritengo sia un fenomeno più simile a
quello delle fate e degli gnomi. Associabile molto più
al folklore che ad un caso criminale o persino che
ad un caso di origine extraterrestre. Ma non per
questo meno reale.
Come abbiamo visto, sebbene ci siano casi
vagamente somiglianti, Spring Heel Jack rimane un
caso piuttosto unico e a sé stante. Mi riesce quindi
difficile pensare sia solo un “mito” incarnatosi su
precedenti credenze in fantasmi o simili.
Vi sono anche stati alcuni impostori che si è presto
dimostrato non aver nulla a che fare con il vero
Jack. Si è ipotizzato allora che il responsabile
potesse essere un certo Marchese di Waterford,
senza poterlo mai dimostrare. Unire una potenziale
invulnerabilità ad un notevole ingegno, al rischio di
scherzare con il fuoco, a notevoli doti di atletismo e
non poca fortuna, è un esercizio complicato. E'
questo il motivo per cui alla fine ritengo non si sia
mai trovato un responsabile. Un simile impostore è
davvero difficile da ipotizzare.
Mothman.
Trovo sia evidente che la realtà che si nasconde
dietro il fenomeno complesso del folklore abbia la
1! “The Spring Heeled Jack, to victorian bugaboo from sub-urban ghost” by Mike Dash. Fortean Magazine.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
66
capacità di adattarsi alle “aspettative” nel tentativo di
) e dei suoi rapporti con John Keel. Per il resto tutte
conformarsi al periodo storico a cui appartiene.
le altre domande che rivolse a Connie e al marito
Motivo per cui un tempo le persone venivano rapite
erano prive di senso, come se tentasse di
dalla fate per scopi riproduttivi e vedevano le case
destreggiarsi con una lingua non sua o avesse le
delle fate volare ed al giorno d'oggi sono gli alieni a
idee molto confuse.
prelevare i rapiti a bordo dei dischi volanti. In taluni
La stessa Mary Hyre ricevette una visita di Jack
casi, più rari, invece tale fenomeno assume
Brown che le chiese “cosa avrebbe fatto se
connotati totalmente singolari, forme straordinarie
qualcuno le avesse ordinato di smettere di
meno inquadrabili. Due esempi di questo tipo sono
pubblicare articoli sugli ufo”.
appunto Spring Heel Jack ed il Mothman.
Vale la pena riassume la descrizione che i vari
Quest'ultimo, a differenza dell'altro, ha delle
testimoni fecero di Jack Brown. Aveva la pella
connessioni con il fenomeno ufo. Non dirette,
scura, i tratti del volto orientali, dita molto lunghe.
perché non esiste nessuna testimonianza che lo
Guidava o risaliva sempre su una Cadillac d'epoca
associ ad alieni o dischi volanti, ma certamente
così perfetta che sembrava appena uscita dalla
circostanziali in quanto esso comparve in
fabbrica. Anche i vestiti, sempre troppo abbondanti
concomitanza di una straordinaria ondata di oggetti
e da pochi soldi, sembravano sempre nuovi. Parlava
non identificati, di contatti con supposti alieni ed
un inglese stentato, spesso con frasi sconnesse,
insoliti personaggi.
fuori luogo. In alcuni casi i testimoni hanno notato
Tra tutti i casi di avvistamento di ufo importanti nel
che non sapeva tagliare la bistecca, usare la
contesto del caso Mothman, anche se avvenuto
forchetta ed in un paio di casi ha tentato di bere la
successivamente e altrove, vi è quello di Eddie
gelatina.
Webb. Nel 1973, in Missouri, Eddie avvistò una luce
Il legame tra Jack Brown e il Mothman si ripetè
mentre guidava assieme alla moglie. Si affacciò al
ancora in altre occasioni. La connessione erano
finestrino per osservarla meglio e ne rimase
sempre i testimoni ai quali però non chiedeva mai
accecato ed ustionato a tal punto che la moglie lo
dell'avvistamento.
portò poi in ospedale.
Il 23 dicembre del 1967, Linda e Roger Scarberry
Questo tipo di effetto fisico si riscontra anche in un
tornavano a casa dall'ospedale, dove era appena
caso di incontro con l'Uomo Falena, caso che ci
nata la loro prima figlia. Entrambi avevano visto il
introduce nell'argomento. Il 27 novembre del 1966
Mothman un anno prima. Giunti a casa, dopo la
Connie Carpenter, nella periferia di New Heaven in
visita di amici, parenti e interessati agli Ufo e
West Virginia, si imbattè in una figura grigia, dalla
all'Uomo Falena, ricevettero anche la visita di Jack
forma umana, solo molto grande e robusta. La
Brown. Abituati a ricevere ospiti lo fecero entrare
creatura aveva occhi rossi fissi su di lei che li
senza porsi troppi problemi. Jack portava con sé un
descrisse come ipnotici. Mentre la osservava la
grosso registratore che però dimostrò di non saper
creatura spiegò le ali ( circa tre metri di apertura
usare e di non saper collegare alla rete elettrica.
alare ), si alzò in volo senza però battere le ali e la
Anche in questo caso pose domande vaghe,
inseguì. Connie riuscì a scappare accelerando a
distratte, sostanzialmente stupide. Non citò mai il
tavoletta. Subito dopo questo incontro la ragazza
Mothman ma si interessò a John Keel e come lo
ebbe occhi arrossati e lacrimanti per due
conoscessero ecc... Per quanto ne sappiamo
settimane
questa fu l'ultima apparizione di Jack Brown.
2. All'epoca degli eventi molti strani personaggi si aggiravano
Altriper
personaggi
il West Virginia,
simili a individui
si presentarono
che diedero
ai testimoni,
vita alla mitologia dei
All'epoca degli eventi molti strani personaggi si
in alcuni casi qualificandosi come militari o agenti
aggiravano per il West Virginia, individui che diedero
governativi, il che diede vita alla mitologia dei Men
vita alla mitologia dei Men in Black. Uno di questi,
in Black, per come li conosciamo adesso. In realtà,
che si presentò come Jack Brown, fece visita a
come Keel ebbe modo di verificare, non erano
Connie un anno dopo l'incontro con il Mothman
affatto agenti o militari, i nomi non corrispondevano
chiedendo informazioni sulla giornalista Mary Hyre
mai e spesso le agenzie nemmeno
( coinvolta assieme a Keel negli eventi del Mothman
3. Addentriamoci ora più dettagliatamente nei resoconti sulle appa
‑
‑
2 “The Mothman Prophecies” by John Keel. p. 24.
3 “The Mothman Prophecies” By John Keel p. 34.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
67
Addentriamoci ora più dettagliatamente nei
resoconti sulle apparizioni dell'Uomo Falena.
Una delle prima è quella che vide protagonista
Connie Carpenter, che abbiamo descritto
precedentemente che accusò poi la congiuntivite.
15 novembre 1966. Due coppie di giovani, Roger e
Linda Scarberry, Mary Marlette ed il suo fidanzato,
passando con la macchina accanto ad un area
isolata, denominata Area TNT, dove durante la
guerra si producevano esplosivi ( quest'area
divenne centro focale di molti avvistamenti del
Mothman ) videro due punti luminosi rossi del
diametro di circa 5 cm ad un dozzina di cm l'uno
dall'altro. Sembravano appartenere ad un grosso
animale “Sembrava un uomo, ma molto più grosso”
lo descrisse Roger Scarberry. “2 o 3 metri di altezza
e con 2 grosse ali”. Camminava incerto su due
gambe dall'aspetto umano. Impauriti scapparono
sulla Route 62. Rividero l'essere, o uno uguale, su
una collinetta. Mentre gli passarono accanto
l'essere spiccò il volo e li inseguì. Per provare a
sfuggirle accelerarono fino a 160 km orari,
inizialmente senza successo. L'essere pareggiava
la loro velocità senza mai sbattere le ali. I quattro
testimoni dissero che “squittiva” come un topo.
Quando alla fine l'essere scomparve i quattro amici
si precipitarono nell'ufficio dello Sceriffo dove
incontrarono il suo vice, Millar Halstead che, come
affermò in seguito, li conosceva da sempre e li
prese sul serio. Lo sceriffo poi accese la radio dalla
quale uscì un rumore assordante che sembrava un
disco suonato troppo velocemente. Molte altre volte
telefoni, radio e apparecchiature elettroniche non
funzionarono o funzionarono in maniera anomala
nel periodo dell'ondata di avvistamenti. Lo Sceriffo
George Johnson indisse una conferenza stampa
durante la quale raccontò l'accaduto. Uno dei report
presenti, nel riportare la notizia alla stampa
nazionale, si inventò il nome “Mothman” derivandolo
dalla somiglianza con Batman.
Il fatto che lo sceriffo abbia indetto una conferenza
stampa ufficiale, dando completamente credito ai
testimoni ed assumendosene la responsabilità,
dimostra che la faccenda venne presa molto sul
serio e che non c'era molto spazio per uno scherzo
o per una truffa.
Sera del 11 novembre 1966. Sembre nei pressi
dell'area TNT. Raymond Wamsley, la moglie
Mariella Bennett e la figlia Teena, videro con non
poca sorpresa un oggetto volante luminoso, che non
seppero riconoscere. Erano diretti a casa di amici, la
famiglia Thomas, che viveva in un bungalow tra le
costruzioni abbandonate dell'area TNT. Non li
trovarono a casa, dove c'erano solamente i figli
Richie, Connie e Vickie. Mentre parlavano con loro
sentirono un colpo di fucile dalle parti del vecchio
generatore ( sempre parte dell'area TNT ). Poi da
dietro la macchina si alzò da terra “una grossa cosa
nera, più alta di un uomo, con occhi luminescenti,
con terribili occhi rossi luminescenti”. La cosa era
priva di testa e aveva ali gigantesche dietro la
schiena. Si chiusero tutti dentro casa. Sentirono un
rumore sul portico e videro i due occhi rossi
guardare dentro dalla finestra. Le donne ed i
bambini diventarono isterici. Chiamarono la polizia
ma prima che arrivasse la creatura era scomparsa.
25 novembre 1966. Thomas Ury, commesso di un
negozio di scarpe, stava recandosi al lavoro
percorrendo la Route 62 a nord dell'area TNT. A lato
della strada, in un campo, vide una figura alta,
umanoide. “Spiegò un paio di ali e decollò verso
l'alto come un elicottero, virò sopra la mia macchina
e cominciò a volare in cerchio ad un altezza di 3
volte un palo della luce”.
Ury accelerò fino a centoventi chilometri orari ma la
creatura si avvicinò continuando a seguirlo per un
po' di tempo dopo il quale scomparve alla vista di
Ury. Questi denunciò l'accaduto allo sceriffo e lo
raccontò anche a Mary Hyre, cronista locale.
“Non ho mai visto niente di simile... ero così
spaventato da non poter andare a lavorare... una
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
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paura irrazionale”.
In tutto i testimoni diretti dell'Uomo Falena furono
circa un centinaio tra il 1966 ed il 1967.
Vale la pena, per rendere ancor più l'idea di quanto
fosse assurdo questo periodo, di citare ancora un
paio di episodi che hanno coinvolto gli strani
personaggi alla Jack Brown o strane apparizioni.
Alcuni si presentarono come “incaricati del
censimento” particolarmente interessati al numero di
bambini nella famiglie ( l'interesse per i bambini è
tipico di molti contesti, a partire da quello del piccolo
popolo in varie parti del mondo, a quello degli alieni
nei tempi più recenti. Nel primo caso questo
interesse trapela da molte fiabe che ancora oggi
leggiamo ai nostri figli. Da Tremotino, a Rapunzel, il
folletto vuole il figlio che deve nascere in cambio dei
suoi servigi ).
Il 9 gennaio del 1967 uno strano personaggio si
presenta alla porta della famiglia Christensen. Si
presenta sostenendo di cercare un Edward
Christensen per una questione di eredità. In un
taschino portava un distintivo che si affrettò a
nascondere. Portava vestiti troppo grandi per lui e
troppo leggeri considerata la stagione. Quando poi
si sedette sul divano dei Christensen questi
notarono un cavo verde che dalla calza spariva
sotto i pantaloni. Aveva inoltre un pallore innaturale
e parlava in modo bizzarro scandendo le parole
come lo avrebbe fatto un computer. Come in molti
altri casi le scarpe avevano una suola di gomma
molto spessa e sembravano appena uscite dalla
scatola. I coniugi si ricordarono che il tizio si
presentò ma riuscirono a ricordare solo che si
faceva chiamare “Tiny” ( piccolino, nda ). Quando se
ne andò, la questione dell'eredità non riguardava
Edward ed in generale sembrava una scusa, una
volta in strada fece un cenno ed una macchina, una
Cadillac, uscì da dietro alcuni alberi a fari spenti.
Salì sulla macchina che sempre a fari spenti ripartì.
L'11 gennaio 1967 Mabel McDaniel mentre
passeggiava nei pressi del ristorante “Tiny's” ( una
delle tante strane coincidenze ) vide uno strano
oggetto sorvolare la Route 62. “Mi parve di vedere
due gambe... che penzolavano. Volò basso, in
cerchio, sopra a Tiny's e poi si allontanò”. Le ali
erano immobili e non si sentiva alcun rumore.
4 www.nytimes.com
5 “The Mothman Prophecies” By John Keel p. 38.
6 www.cryptomundo.com
Altri uomini alati.
Per quanto, come detto, il Mothman sia un caso
veramente unico ci sono stati altri casi nel corso
degli anni, di avvistamento di “uomini alati” o “uomini
uccello”.
Sul New York Times del 12 settembre
1880
4 vi è un articolo che descrive l'avvistamento da parte di oltre mille
senza dubbio un uomo che indossava ali da
pipisterllo” e non era un inventore ma certamente un
criminale.
‑
Il 29 luglio 1880, come accennato anche dal New
York Times vi fu un avvistamento in Kentucky, a
Luisville, riportato dal Luisville Couries Journal. In
questo resoconto la ali sembravano più qualcosa si
meccanico5. Nel
Nel 1952 a Kyoto, un militare della base base
militare statunitense Camp Okubo, era di guardia
notturna. Sentì un rumore simile ad un battito di ali e
poi vide una creatura alta tre metri e con tre metri di
apertura alare. Nello stesso periodo vi fu la
testimonianza di un sergente e di altre persone che
riportarono di aver visto uccelli
giganti6. Nel giugno del
Nel giugno del 1948, a Chehalis nello stato di
Washington due uomini videro “tre uomini pipistrello”
volare in cerchio. Secondo le testimonianze
avevano casco e tuta. Nel gennaio dello stesso
anno, sempre a Chehalis la sessantunenne signora
Zaikowsky raccontò ad un ufficiale del McChord
Fields che alcuni bambini, tornando da scuola, le
‑
‑
69
chiesero se potevano andare nel suo cortile per
qualche modo preannunciato o condotto a questo
vedere meglio un essere alato. Mentre parlavano lei
tragico epilogo. Non è stato semplice folklore, non
sentì un suono, uno sfrigolare, un sibilo. Seguendo
sono stati racconti o scherzi di ragazzi annoiati.
quel rumore avvistò l'uomo alato che si librava sopra
Difficile ipotizzare cosa o perché proprio
il suo granaio. Aveva lunghe ali argentate “legate”
quell'angolo del West Virginia sia stato scelto come
alle sue spalle. La strana figura prese quota, virò
teatro di queste apparizioni. Difficile intravedere un
volando
in
tondo
e
poi
significato in questi episodi ed in tutti gli altri
s
p
a
r
ì
descritti, a cominciare da quelli dello Spring Heeled
7. Il 30 aprile 1948, Chris Dunn, ispettore del U.S. Steel dichiarava
Jack. Dietro
“
alle quinte di questi misteri vi
Il 30 aprile 1948, Chris Dunn, ispettore del U.S.
dev'essere un regista un po' folle ed un po' geniale,
Steel dichiarava “Pensavo che le persone che
che vuole forse raccontarci qualcosa usando una
raccontavano di aver visto quella cosa vedessero
simbologia che ancora ci sfugge ma che non
insetti, finché non ho guardato il cielo ieri notte.
possiamo ignorare.
Batteva le ali e volava veloce alla quota di un
chilometro. Sembrava emanare una lieve
luminescenza, non emetteva rumore... non potevo
credere ai miei occhi”. La testimonianza fu raccolta
da Charles Hertestain, assistente del sindaco, il
quale aveva deciso di indagare dopo le numerose
lettere di protesta dei cittadini riguardo il misterioso
uomo uccello8. Il
Il 18 giugno 1953 in Texas, Hilda Walker, vide un
uomo con ali di pipistrello ripiegate sulla schiena
appollaiato su un albero. La creatura emetteva
un'aura di luce che si affievolì sino a che
scomparve. Sembrava indossare un
c
a
p
p
u
c
c
i
o
9. Questo avvistamento venne confermato da un altro testimone, Howard Philips, un ispettore industriale10. In questo caso v
E come questi vi sono molti altri casi, che variando
nei dettagli sono più o meno tutti di questo genere.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
‑
‑
‑
Conclusioni.
Per concludere questa digressione su questa serie
di incomprensibili avvistamenti voglio tornare un
attimo al caso del Mothman. Mary Hyre,
protagonista assieme a John Keel, di molti degli
episodi di quel 1967 nel dicembre di quello stesso
anno fece un sogno nel quale vide pacchetti e regali
galleggiare sull'acqua di un fiume. Il 15 dicembre il
Silver Bridge che collegava Point Pleasant e
Kanauga oltre il fiume Ohio crollò portando con se
decine di macchine e persone molte delle quali
morirono e altrettante non vennero mai più trovate.
Da questo il titolo del libro di Keel “The Mothman
Prophecies” e sopratutto l'idea che in qualche modo
tutti gli avvenimenti di quel periodo abbiano in
7 “Mothman and other courious encounter” by Loren Coleman p. 30.
8 Vedi prec. Pag. 70.
9 “Misterious creatures: a guide to cryptozoology” by George M.Eberhart.
70
L’ALCHIMIA TRASFORMATIVA DEL
‘ROSARIUM PHILOSOPHORUM’
di Michele Perrotta
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Questo articolo è tratto dal saggio “La Bibbia
Rivelata – le quattro chiavi di lettura, i Rosa+Croce,
e il Corpo di Gloria” di Michele Perrotta che sarà
pubblicato nel 2015 dalla XPublishing srl.
Tutti i diritti sono riservati.
Nel Rosarium Philosophorum, detto anche “Rosario
dei filosofi”, un testo alchemico del XIII secolo, ricco
di simbologia rosicruciana (i Rosa+Croce sono
successivi ma la tradizione iniziatica dell’autore è la
medesima), attribuito al misterioso medico e
alchimista Arnaldo da Villanova (1235-1315),
troviamo scritto: “Notate bene che, nell’arte del
nostro magistero, niente è nascosto ai Filosofi,
eccetto il segreto dell’arte, che non è legittimo
rivelare ad alcun uomo, perché chi lo facesse
sarebbe maledetto, ed incorrerebbe
nell’indignazione del Signore e morirebbe con la
paralisi”. Questo è un monito per chi si avventura
nella difficile via trasformativa alchemica senza
esser degno, come per altro ci ricordano anche i
cabbalisti sulla meditazione inerente alla visione del
Carro di Ezechiele “Merkavah”. E’ da questo testo,
oltre che da “Le Nozze Chimiche di Chirstian
Rosenkreuz”, che Carl Gustav Jung elaborò la sua
idea dell’Androgino come archetipo dell’essere
perfetto. Nel mito dell’Androgino vi è la fusione
perfetta simboleggiata dall’amore fra il dio Ermes
(Mercurio/Sole) e la dea Afrodite (Venere/Luna),
archetipo della trasmutazione di colei che muta le
sensazioni in immagini, i sentimenti in allegorie e le
emozioni in metafore, dalla quale nasce Ermafrodito
(il nome stesso è la fusione delle due divinità unite
dall’“amore magico”). Nel Rinascimento l’archetipo
di Afrodite si manifesta sotto forma d’arte per
esaltare le caratteristiche archetipiche della Dea che
funge da mediatrice tra Anima ed Eros, tra Amore e
Psiche, tra Ragione e Istinto. A Firenze nasce, sulla
spinta di Marsilio Ficino e dell’Accademia Fiorentina
frequentata dagli iniziati Michelangelo Buonarroti e
Leonardo Da Vinci, una forma nuova di “simbologia
esoterica” che si dispiega per immagini e che tocca
il culmine nel dipinto di un altro iniziato, Sandro
Botticelli, “La nascita di Venere”. L’opera del
Botticelli ha una valenza esoterica non di poco
conto: Venere emerge dalle acque profonde
dell’inconscio collettivo per condurre l’iniziato verso
quell’alchimia trasformativa che armonizza e che
unisce interiormente gli opposti: il maschile e il
femminile. Nel simbolismo alchemico il Sole e la
Luna sono le due entità fondamentali
apparentemente in antitesi tra loro e che
rappresentano rispettivamente il maschile e il
femminile.
Dalla loro congiunzione fisica deve nascere un
Ermafrodito che deve però fiorire interiormente
mediante diversi processi alchemici. Nel Rosarium
Philosophorum l’Ermafrodito nasce morto e nel
linguaggio alchemico viene collocato in uno stato di
putrefazione indicato come Nigredo o Opera al
Nero. Dopo questo stadio si passa alla
trasformazione mediante un secondo stadio,
Albedo, per poi giungere all’ultimo processo
trasformativo denominato Rubedo L’intera opera
alchemica viene raffigurata attraverso le immagini
simboliche raccolte nel “Rosario dei Filosfi” e viene
indicata con i seguenti termini: “Putrefactio”, “Rosa
Alba”, “Rosa Rubea”. A livello simbolico dal corpo in
putrefazione si eleva l’anima maschile lasciando il
corpo alla passività femminile. L’anima si impregna
e viene vivificata nell’alto del cielo dove
successivamente troviamo la purificazione
attraverso l’acqua che permette all’anima
impregnata dallo Spirito di ritornare al corpo
dell’Ermafrodito ottenendo una nascita completa a
vita nuova con ali che mostrano la volatilità
simbolica di colui che può ogni cosa. Inoltre si
invertono i ruoli del maschile e del femminile
mediante uno stato superiore di purificazione dove,
a livello simbolico, la donna diviene attiva e l’uomo
passivo. Questa unione viene indicata con il termine
di “fermentazione”.
Nelle immagini del Rosarium Philosophorum
troviamo inoltre un disco solare alato che discende
nel vaso della trasformazione contenente il mercurio
vivente. “Qui il Sole muore ancora ed è coperto dal
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
71
Mercurio dei Filosofi”. L’anima vivificata a nuova vita
rappresenta la solidificazione.
Il ritorno dell’anima nel corpo dell’Ermafrodito che
prima era nato morto simboleggia la resurrezione.
Tra le ultime immagini simboliche del Rosarium
Philosophorum si trova la rappresentazione di un
leone verde che divora il Sole. Nel linguaggio
alchemico questo evento raffigurerebbe il mercurio
in grado di penetrare in tutti i corpi elevandoli. Tale
elemento se mescolato con un altro corpo lo anima
modificando le sue proprietà. Questo Sole è tutto ciò
che mediante le precedenti trasformazioni ha fino ad
ora ottenuto l’alchimista e che viene ancora
modificato e divorato dal Leone verde, l’Aqua Regia,
l’acido verdastro che dissolve l’oro. L’acqua règia (o
acido nitroclorico o acido cloronitrico o acido
nitromuriatico) è una miscela, instabile a
temperatura ambiente, composta da un volume di
acido nitrico e tre volumi di acido cloridrico
concentrati. I due acidi danno la seguente reazione:
HNO3 + 3HCl → Cl2 + NOCl + 2H2O.
Il suo nome deriva dalla sua capacità di sciogliere
l’oro, il platino e il palladio. L’acqua règia è
considerato dagli alchimisti il “Re dei metalli” in
quanto praticamente inattaccabile dalle altre
sostanze. Dopo quest’ultima raffigurazione le
immagini si concludono con la rappresentazione del
Cristo risorto, che fuoriesce dal sepolcro vittorioso.
Il fine ultimo della simbologia alchemica nascosta
nel Rosarium Philosophorum sembrerebbe analoga
ai principi del Tantra e del Cristianesimo delle origini
di matrice gnostica: liberare i principi che animano
l’essere umano tramite fermentazione e la fusione
dei corpi sottili affinchè si possa ottenere un nuovo
corpo o una nuova vita come l’Ermafrotite,
l’Androgino, il Bafometto dei Cavalieri Templari. Si
tratta di modi differenti di rappresentare colui che ha
ottenuto in sé la trasformazione alchemica perfetta
divenendo “Corpo di Gloria”. Questa trasmutazione
è strettamente connessa al numero 3. Il numero tre
è presente nei Canti della Divina Commedia di
Dante realizzata peraltro in terzine ed è comparabile
alle seguenti tripartizioni oltre che alla trinità stessa
Padre, Figlio, Spirito Santo: tre sono le virtù
teologiche (fede, speranza e carità) e tre sono
inoltre gli elementi alchemici, oltre che tre stadi, per
realizzare l’Opus Alchimicum o “La Grande
Opera” (zolfo, mercurio e sale). Lo zolfo è associato
all’anima, il mercurio allo spirito mentre il sale al
corpo. Tutto questo sapere nascosto alla base
dell’Alchimia e che Dante, “il templare” dei Fidelis in
Amore (Fedeli d’Amore) conosceva, è in sostanza
l’iniziazione che, se conquistata dall’adepto, migliora
l’ego e lo trasporta su un altro piano di realtà
interiore più elevato dove gli permetterebbe di
contemplare il Divino sotto un aspetto diretto e
individuale. E’ qui, nell’intimo, che l’archetipo
dell’Eterno discende nell’uomo e lo innalza fino a
Lui. L’iniziato a tali misteri vive un’esperienza
straordinaria quando assimila il linguaggio
simbolico-ermetico-alchemico nella propria
coscienza. Questi simboli fioriscono nell’intimo
dell’iniziato trasportando la sua coscienza in un altro
piano di realtà più elevato. L’iniziazione è una
conquista che l’uomo spiritualista ottiene quando
comprende il linguaggio iniziatico delle sacre
scritture, colme di archetipi. L’archetipo è il modello
originario ed è una verità primordiale che
inconsciamente l’umanità detiene in sé. Una volta
conquistato questo sapere che è alla base
dell’iniziazione il mistero si dischiude ed esce il
significato più profondo che viene carpito
ed
assimilato nella coscienza del mistico nella giusta
maniera. Questo è il tesoro che con gelosia
l’Altissimo custodisce per gli eletti.
Con la
distruzione dell’Ordine del Tempio (i Templari) iniziò
il vero declino della civiltà occidentale che perse
ufficialmente, salvo le confraternite che ne
ereditarono i segreti, questa arcana conoscenza in
grado di trasmutare l’uomo in un essere nobile e
connesso all’Altissimo. In poche parole l’Occidente
perse quel mistero strettamente connesso alla
sapienza, di cui è archetipo Sophia. Il mistero
dell’Androgino, il Bafometto venerato dai Templari, è
sostanzialmente il culto di Sophia (a confermarlo è
la decodificazione del nome stesso del Baphomet
nel cifrario Atbash), la Dea degli gnostici che,
similmente a Venere/Afrodite, riconcilia le anime
pleromatiche (spirituali) conducendole nel regno di
Dio. Quest’idea di archetipo femminile ci ricorda la
Dea madre che nell’Inno ad Iside detiene in sé gli
aspetti speculari delle contraddizioni: “Perché io
sono colei che è prima e ultima, Io sono colei che è
venerata e disprezzata, Io sono colei che è
prostituta e santa, Io sono sposa e vergine, Io sono
madre e figlia, Io sono le braccia di mia madre, Io
sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli, Io
sono donna sposata e nubile, Io sono Colei che dà
alla luce e Colei che non ha mai partorito, Io sono
colei che consola dei dolori del parto. Io sono sposa
e sposo, E il mio uomo nutrì la mia fertilità, Io sono
Madre di mio padre, Io sono sorella di mio marito,
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
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Ed egli è il figlio che ho respinto. Rispettatemi
sempre, Poiché io sono colei che da Scandalo e
colei che Santifica”. (Inno a Iside III-IV secolo a.C)
Il culto ad Iside venne adottato per la venerazione
delle cosiddette “Madonne nere”. Ancora oggi pochi
sanno che il culto alle Madonne nere non ha niente
a che fare con la mariologia ma ha origine proprio
dalla venerazione del culto di Iside. Anche Iside,
come Venere/Afrodite, è riconducibile a Sophia, la
Dea della sapienza che gli gnostici ricercano
perennemente per unire gli aspetti opposti situati
nell’uomo e trascendere il mondo. Iside, sposa di
Osiride, è l’archetipo del femminile che deve
congiungersi con il maschile, come Sophia che nella
gnosi vuole a tutti costi congiungersi con l’Eterno. E’
questo il fine ultimo di ogni cosa che è alla base del
Tao: l’armonia degli opposti. La storia di Sophia è
stata oggetto di molteplici varianti, fu l’amore
dell’Eone Sophia per il Pleroma e per l’Altissimo che
trasformò il suo desiderio bramoso di unirsi a Lui e
che diede origine ad una caduta. Da questo evento
nato da una sorta di “perversione” tuttavia una
scintilla divina penetrò nella creazione materiale ed
è questa che se risvegliata negli uomini riconduce
l’umanità spirituale a Dio. ...Tutta questa
conoscenza faceva parte di un bagaglio esoterico
custodito dai Templari seguaci di Sophia.
I Templari, cavalieri del tempio di Salomone, furono
a tutti gli effetti dei sacerdoti-filosofi, amanti della
gnosi. Erano una confraternita iniziatica che mirava
all’edificazione del tempio interiore: questo è il vero
significato esoterico da cui deriverebbe il loro nome
“Cavalieri del Tempio”.
I Templari erano monaci guerrieri che fecero voto di
povertà e castità ma la loro guerra avveniva nel
proprio intimo per conquistare,attraverso la via
mistica, Sophia la sapienza.
E’ da questo archetipo che deriva infatti il termine
philo-sophia (filosofia).
Questa filosofia spirituale o dottrina esoterica è una
sapienza gnostico-ermetica che fu successivamente
ripresa dai Fedeli d’Amore e dai Rosa+Croce.
73
LA RICERCA DI CIVILTA’ EXTRATERRESTRI
di Federico Tommasi
Federico Tommasi
Laurea specialistica e dottorato di ricerca in fisica e astronomia, attualmente lavora come assegnista di
ricerca del campo della fisica sperimentale presso l’Università di Firenze, studiando la propagazione della
luce all’interno di mezzi atomici, i random laser e i sensori ottici. Si occupa inoltre attivamente da molti anni
di divulgazione scientifica sia presso l’università che attraverso ulteriori gruppi e manifestazioni.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Introduzione
L’Equazione di Drake, scritta nel 1961
dall’astrofisico Frank Drake, nacque
dall’esigenza di rappresentare, in maniera
semplice, intuitiva ma elegante, la nostra
capacità di stimare il numero N di civiltà
comunicanti (cioè in grado di inviare e ricevere
segnali al di fuori del loro pianeta) nella
Galassia:
N =N⋆ ·fp ·ne ·fl ·fi ·fc ·fL (1)
dove N⋆ è il numero di stelle nella Galassia, fp
la frazione di stelle con pianeti, ne la frazione di
pianeti abitabili, fl, fi e fc rispettivamente la
frazione nei quali si è sviluppata la vita, la vita
intelligente e una civiltà comunicante e infine fL
la frazione ad oggi sopravvissuta. Data l’elevata
incertezza della quale sono affetti i diversi
parametri, l’equazione rimane ancora poco più
che un semplice esercizio numerico e ognuno
può ottenere la sua “personale” Equazione di
Drake in base al suo pessimismo o ottimismo
concernente la vita aliena.
Naturalmente, in tale scenario l’Equazione di
Drake non riesce ad assumere un significato
che abbia una chiara valenza scientifica. Ad
esempio, in fisica una equazione viene scritta in
base ad una teoria e modello fisico e, una volta
corroborata dall’esperimento e delineato il
raccordo con le altre teorie dimostrate, deve
essere in grado di descrivere un fenomeno ed
avere un carattere predittivo su osservazioni
future. Ciò non vuol dire che essa violi qualche
legge fisica, ma l’Equazione di Drake può
soltanto mirare alla produzione di una vaga
stima a priori riguardo la diffusione di un
fenomeno per il quale possediamo, non senza
lacune di conoscenza riguardanti la storia e
l’evoluzione, un solo caso osservabile
sperimentalmente: la vita sulla Terra.
Lungi dallo scopo di fornire un risultato definivo
e preciso dell’Equazione di Drake, questo
articolo è rivolto invece ad inquadrarla in modo
più moderno, avvalendosi della
reinterpretazione dei fattori e delle scoperte più
recenti nel campo dell’astrobiologia. La
discussione riguardante i vari parametri fornirà
l’occasione di affrontare diverse questioni,
alcune della quali meno note
almeno dal punto di vista divulgativo. Attraverso
la bibliografia suggerita nel testo, inoltre il lettore
più esperto potrà approfondire la conoscenza
degli argomenti trattati, qui affrontati con un
taglio più divulgativo. Aggiungeremo anche
ulteriori coefficienti all’equazione o ne
ridefiniremo alcuni quando ritenuto opportuno.
Nella Sezione 1 verranno brevemente trattate le
premesse e i concetti base, cercando di
giustificare le principali assunzioni ed ipotesi di
lavoro. Nella Sezione 2 prima doneremo una
formulazione più moderna all’Equazione di
Drake e affronteremo il problema della stima dei
parametri. Infine nella Sezione 3 trarremo
alcune conclusioni.
1. Premesse per la Ricerca
1.1. Definizione di Vita
Dare una definizione generale e caratterizzante
di vita è un difficile compito che affronteremo
imponendo la semplificazione secondo la quale
siamo interessati ad una espressione snella,
74
operativa e del tutto generale. Quindi,
armandoci di una buona dose di pragmatismo,
possiamo considerare la definizione adottata nel
1992 dalla NASA Exobiology Program [1]:
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
La vita è un sistema chimico in grado di autosostentarsi e di andare incontro ad evoluzione
Darwiniana
Quindi, tralasciando considerazioni più
specifiche oppure di natura più speculativa, la
definizione è in grado di caratterizzare e
riconoscere come esseri viventi un insieme
qualsiasi di entità chimiche che ne soddisfi i
requisiti. Non vi è indicazione sul tipo di chimica
usata, ma una fondamentale importanza è
invece rivestita dalla capacità e dall’attitudine da
parte di queste entità di conservarsi e
svilupparsi, anche in un ambiente abiotico,
attraverso lo scambio di materia con l’ambiente
e l’approvvigionamento di energia. Come
osservò anche il grande fisico austriaco Erwin
Sc hrödinger [4], le entità v iv enti s i
caratterizzano anche dal punto di vista
termodinamico; mentre un sistema isolato nonvivente evolve spontaneamente, in virtù del 2◦
Principio della Termodinamica, verso uno stato
di massima entropia, uno vivente mantiene una
bassa entropia ed una elevata organizzazione
interna [5]. Ad ciò va ad aggiungersi la tendenza
da parte dell’unità vivente a preservare la
propria individualità attraverso una barriera, che
tuttavia deve anche garantire un flusso selettivo
e coordinato di materia ed energia con
l’ambiente esterno.
Un ruolo fondamentale è inoltre svolto
dall’informazione, che queste entità devono
essere in grado di immagazzinare, elaborare e
copiare [2, 3]. Errori casuali durante quest’ultimo
processo permettono all’insieme di queste entità
di evolversi in uno o più diversi insiemi in
risposta alla selezione naturale, principalmente
operata da un ambiente in continuo mutamento,
a volte anche repentino ed estremo. Quindi nel
cercare la vita avremo anche a che fare con
insiemi composti da entità il cui numero,
diffusione spaziale e caratteristiche si evolvono
nel tempo attraverso un processo stocastico
influenzato dalla pressione selettiva indotta
dall’ambiente e dalla disponibilità di energia
sotto varie forme. Data la sua natura, lo stato
finale di questo processo è del tutto
imprevedibile, ma comunque influenzato e
marcato dalla storia dell’habitat, il quale indirizza
l’occupazione di diverse nicchie ecologiche e
sopprime individui non più adatti ai suoi
mutamenti.
1.2. Prerequisiti per la Vita
Il primo fondamentale prerequisito per
l’esistenza della vita e dei pianeti nei quali essa
si può sviluppare è la disponibilità nel mezzo
interstellare di elementi diversi (in astronomia,
con diverso significato rispetto a quello
tradizionale, chiamati metalli) dai primordiali
idrogeno e elio. Questi vengono prodotti
attraverso la nucleosintesi stellare e espulsi
nello spazio nelle fasi finali della vita delle stelle.
In seguito all’arricchimento di metalli, nel mezzo
interstellare, nel quale l’aumento locale della
densità del gas porta alla formazione di nuove
stelle e pianeti, già si formano i primi composti,
in particolare all’interno dei grani di polvere
cosmica.
La chimica basata sul carbonio e l’utilizzo
dell’acqua appare l’unica soluzione conosciuta
adottata dalla vita. Il fatto di assumere il ruolo
chiave del carbonio nella struttura degli esseri
viventi è stato criticato come una sorta di
mancanza di immaginazione riguardo alle
possibilità offerte da mondi alieni (“sciovinismo
del carbonio”) [6]. Tuttavia, notiamo che la vita
che conosciamo ha “scelto” la prima via anche
se la massa della Terra è composta al 14% da
silicio e solo dallo 0.1% da carbonio [7]. Il
carbonio è infatti unico per la sua abilità nel
formare un grande numero di molecole
complesse con differenti proprietà e moltissime
molecole organiche sono state rilevate nel
mezzo interstellare, dove l’ammoniaca rimane
l’unica molecola trovata con più di 3 atomi non
contenente carbonio. Per quanto riguarda il
liquido usato, l’acqua risulta essere il migliore
candidato, in quanto è abbondante, stabile e si
75
trova allo stato liquido in un ampio intervallo di
temperatura.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Quindi molti fattori suggeriscono che, con alta
probabilità, la vita extraterrestre debba
possedere molte caratteristiche base in comune
la vita che conosciamo e che quindi una ricerca
dovrebbe iniziare da condizioni simili a quelle
che noi consideriamo “abitabili”. Pur correndo il
rischio di proporre una visione eccessivamente
antropocentrica, a questo livello di conoscenze
queste sono le uniche premesse che possono
portare ad un qualche risultato pratico.
Ipotesi più speculative potrebbero essere anche
vere da qualche parte nel Cosmo, ma
nell’obiettivo che ci proponiamo adesso non ci
porterebbero troppo lontano.
1.3. Abitabilità di un pianeta
In questo articolo stiamo cercando di stimare il
numero di possibili civiltà extraterrestri e quindi i
requisiti saranno naturalmente più stringenti di
quelli tollerati dalla vita di tipo batterico (pianeta
biocompatibile [8]). Consideriamo quindi in
primo luogo come pianeta abitabile un pianeta
roccioso che supporta stabilmente e per lungo
periodo acqua liquida sulla superficie, unita alla
presenza di terre emerse. Assumiamo inoltre
che la stella attorno alla quale orbita il pianeta
sia una una stella di sequenza principale, che si
tratta di una fase caratterizzata dalla fusione di
idrogeno in elio nel nucleo che contrasta il
collasso gravitazionale.
La temperatura superficiale media a lungo
termine di un pianeta dipende da numerosi
fattori, quali la distanza e la luminosità della
stella, l’eccentricità dell’orbita, il periodo di
rotazione, la consistenza e la composizione
dell’atmosfera, l’albedo, cicli di feedback
negativi o positivi che si possono instaurare. La
zona abitabile circumstellare (habitable zone HZ) è usualmente definita come l’intervallo di
distanze dalla stella all’interno del quale deve
trovarsi il raggio dell’orbita del pianeta per
garantire stabilmente l’acqua allo stato liquido
su almeno parte della superficie. Non è di facile
individuazione, anche per via della dipendenza
dalle caratteristiche del pianeta e usualmente i
confini interni ed esterni vengono individuati
rispettivamente da una condizione di feedback
positivo apportato dall’effetto serra (runaway
greenhouse) e dalla formazione di nubi di CO2
che aumentano l’albedo planetario abbassando
irrimediabilmente la temperatura [9].
Mentre meccanismi di feedback negativo
possono intervenire a stabilizzare la
temperatura del pianeta (ciclo carbonio-silicio),
a complicare il problema interviene il
progressivo aumento della luminosità di una
stella di sequenza principale, aumentando nel
tempo entrambi i bordi della HZ. Possono
essere individuate quindi delle “finestre
temporali” durante le quali possono evolvesi
specie tolleranti a diversi livelli di ostilità
dell’ambiente. In conseguenza di ciò e ben
prima dell’entrata nella fase di Gigante Rossa
da parte del Sole, la Terra diverrà inabitabile,
con procarioti, eucarioti e vita complessa che si
estingueranno in ordine inverso la loro
comparsa [10].
2. Stima del numero di civiltà
2.1. Riformulazione dell’Equazione di Drake
Nell’introduzione di questo articolo abbiamo
visto come l’Equazione di Drake possa essere
considerata poco più di un esercizio algebrico
che, soprattutto per l’arbitrarietà o le scarse
possibilità di stima di alcuni parametri, produce
risultati dal significato scientifico trascurabile.
Scientificamente nessuna misura o stima ha
significato senza che venga trattata l’incertezza,
la quale risulta essere ineliminabile ed
indispensabile nel valutare un risultato.
L’incertezza nei parametri che compongono una
equazione si propagano fino al risultato finale,
fornendo l’unico modo possibile per valutare se
due misure eseguite indipendentemente siano
consistenti oppure se una teoria riesce a
descrivere adeguatamente un fenomeno.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
76
Con lo scopo di fornire all’Equazione di Drake
un maggiore significato scientifico, C. Maccone
derivò ed introdusse l’Equazione Statistica di
Drake [11], che nasce mediante l’associazione
ad ogni coefficiente presente nell’Equazione di
Drake (equazione 1) con una variabile casuale,
la quale può assumere diversi valori dipendenti
da un fenomeno aleatorio. Le variabili casuali
che useremo risulteranno in particolare
caratterizzate da un valore medio e da una
deviazione standard, la quale rappresenta
l’incertezza. Indicando con Dk il parametro kesimo dell’equazione 1, quest’ultima, dalla
forma originaria di produttoria, può essere
riscritta come una sommatoria facendo il
logaritmo naturale di entrambi i membri: (2)
dove si è rinominato lnDk con Yk, che possiede
valore medio ⟨Yk⟩ e deviazione standard σYk.
Si può a questo punto derivare (si rimanda alla
referenza [11] per i dettagli), utilizzando il
Teorema del Limite Centrale, l’espressione per
la funzione di densità di probabilità per il numero
N di civiltà comunicanti nella Galassia, in questo
caso una distribuzione lognormale. Indicando
con n la variabile deterministica associata a
quella probabilistica N [12], questa funzione è:
(3)
quindi una curva che rifletterà la nostra
conoscenza dei vari coefficienti dell’Equazione
di Drake.
A questo punto possiamo iniziare a lavorare sul
primo parametro, cioè il numero di stelle N⋆
nella nostra Galassia, un numero che ad oggi
viene stimato, con notevole incertezza tra i 200
e i 400 miliardi. Quindi, usando il nuovo
approccio statistico, la stima usata in questo
articolo sarà: N⋆ = (3 ± 1) · 1011, cioè un valore
medio di 300 miliardi ed una incertezza di 100
miliardi.
Abbiamo accennato al fatto che nella trattazione
verranno ridefiniti dei coefficienti dell’Equazione
di Drake, producendone anche di nuovi. Quindi,
qui proponiamo di sostituire al coefficiente fp
dell’Equazione di Drake originaria alcuni
coefficienti che permetteranno di selezionare la
frazione di stelle adatte:
fp → fGHZ · ·fbin · fM · fp′ (5)
dove fGHZ è la frazione di stelle nella Zona
Abitabile Galattica, fbin la frazione di stelle che
non appartiene ad un sistema binario o multiplo,
fM la frazione di stelle con la “giusta” massa e fp
′ la frazione di stelle che posseggono un pianeta
simile alla Terra nella HZ.
dove
(4a)
(4b)
La distribuzione descrive l’andamento della
probabilità con la quale la variale casuale N può
assumere dei valori tra tutti i possibili n (da 0 ad
∞). Anziché un semplice numero, otterremo
2.2. Zona Galattica Abitabile
Il concetto di Zona Galattica Abitabile (Galactic
Habitable Zone - GHZ) fu introdotto da
Gonzales et al. [13] in analogia con il concetto di
HZ trasportato su scala galattica. Lo scopo è
quello di individuare una regione della Galassia
all’interno della quale una sistema stellare può
con maggiore probabilità godere di condizioni a
lungo termine compatibili con la vita per i pianeti
nella HZ della loro stella. I tre requisiti principali
sono quindi:
1 sufficiente metallicità (disponibilità di metalli)
77
2 assenza di eventi catastrofici di portata
interstellare
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
3 tempo sufficiente per l’evoluzione biologica
Il primo requisito è necessario per la formazione
di pianeti e viene riportato un valore critico
minimo pari a circa il 10% della metallicità del
Sole [14]. Tuttavia un suo valore troppo elevato
potrebbe anche risultare nefasto per la
presenza di pianeti di tipo terrestre nella HZ
[15]; infatti un alto fattore di metallicità potrebbe
favorire la creazione di pianeti giganti che
possono impedire la formazione dei pianeti
terrestri nella HZ. La presenza di Hot Jupiter
(giganti gassosi molto vicini alla stella) è
generalmente interpretata in termini di
migrazione planetaria e analisi statistiche
individuano una dipendenza dalla metallicità del
sistema stellare [16, 17].
Per quanto riguarda il secondo, Lineweaver et
al. [18] individuano una regione con una
presenza sufficientemente bassa di supernove
(SN) stimando un fattore di rischio di
sterilizzazione dovuta alla vicinanza di questi
eventi catastrofici. Alcuni lavori comunque
criticano questa visione, suggerendo che la
presenza di una SN vicina al sistema stellare
potrebbe sterilizzare un pianeta, ma non
impedire una ripresa successiva della vita [19].
Sulla Terra, gravi estinzioni di massa sono
avvenute durante la storia della vita senza
tuttavia completamente eradicarla e comunque
senza impedire un futuro sviluppo di forme
complesse. Quindi, Carigi et al. [20] predicono
che la distruzione da parte di SN, per essere
efficace in una certa posizione della Galassia e
durante una certa epoca, debba avere una
frequenza superiore a due volte la frequenza
media relativa alla regione vicina al Sole negli
ultimi 4.5 miliardi di anni.
Il terzo punto tiene conto dei tempi caratteristici
dell’evoluzione biologica e, basandosi sui tempi
caratteristici della Terra, questi possono essere
stimati come 4 ± 1 miliardi di anni.
Come per la HZ, anche la GHZ è fortemente
dipendente dal tempo e possiamo
approssimativamente vederla come un anello
all’interno del piano galattico con una
estensione e posizione che variano con la storia
della Galassia. Attualmente questo anello si
estende tra i 23000 e i 30000 anni luce dal
centro della Via Lattea e contiene circa il 10%
del totale delle stelle. Tenendo conto dei flussi
radiali di gas verso l’interno del disco galattico,
dovuti all’interazione con la materia galattica in
rotazione [21, 22] e responsabili dell’alterazione
del gradiente di metallicità lungo il raggio della
Galassia, Spitoni et al. [23] stimano un aumento
del 38% del numero di stelle nella zona abitabile
rispetto al valore ottenuto da Lineweaver et al..
In conclusione, possiamo stimare fGHZ come
0.12 ± 0.04.
2.3. Sistemi stallari binari
Passando al fattore fbin, l’esclusione di sistemi
multipli di stelle può essere un fattore molto
importante nell’equazione di Drake, in quanto
dal 40% al 60% delle stelle appartengono a
questi sistemi. Nei sistemi binari la stabilità
dell’orbita dei pianeti del sistema diventa molto
più critica rispetto a quella di un sistema a stella
singola [25]. Diverso potrebbe essere
comunque il caso di caso di un pianeta che ruoti
a grande distanza attorno a due stelle di piccola
massa che a loro volta ruotano molto vicine
attorno al comune centro di massa. In questo
caso il calcolo dell’ammontare di energia
ricevuta dal pianeta in ogni punto della sua
orbita diviene una complicata somma dei flussi
spettrali combinati delle due stelle e il raggio
della HZ presenta delle oscillazioni per via del
moto delle due stelle [24]. Per quanto ancora ne
sappiamo oggi, questi tipi di sistemi non
78
organica. Approssimando infatti lo spettro di
emissione di una stella con quello di un corpo
nero e utilizzando la Legge di Spostamento di
Wien, il picco dell’emissione del Sole
(temperatura superficiale 5580◦K) cade nella
lunghezza d’onda di ∼502 nm (verde), mentre
per Lalande (3800◦K) questo si sposta a ∼760
nm (vicino infrarosso) e a ∼300 nm (UV-B) per
Vega (9600◦K). Per quanto riguarda l’Equazione
sembrano adatti per la vita, almeno nella sua
forma complessa. Quindi, fbin può essere
stimato come 0.5 ± 0.1.
di Drake, queste stelle molto grandi sono molto
più rare delle stelle piccole (meno del 1% delle
stelle di sequenza principale), quindi il loro
contributo è molto modesto. Da escludere per
l’evoluzione di vita complessa sono anche con
elevata probabilità le stelle arrivate agli ultimi
stadi della propria esistenza. Queste stelle,
classificabili al di fuori della sequenza principale,
come le Nane Bianche e le Giganti Rosse,
costituiscono insieme circa il 9% del totale [25].
2.4. Selezione stellare
2.5. Tidal Locking
Il parametro fM ha infine a che fare con la
selezione fine della massa della stella attorno
alla quale deve orbitare un pianeta abitabile. Il
tempo di permanenza Tms di una stella di
massa M nella fase di sequenza principale
espresso in miliardi di anni, è
approssimativamente dato da [26]: (6)
Fino a questo punto le stelle Nane Rosse di
classe M, più del 75% delle stelle di sequenza
principale, sembrano essere le migliori
candidate per trovare la vita extraterrestre,
soprattutto per via della loro abbondanza e
notevole longevità. Tuttavia, l’abitabilità di
questo tipo di stelle risulta essere oggi un
argomento molto controverso e dibattuto,
soprattutto per via del tidal locking, fenomeno
che interviene quando la rotazione di un pianeta
viene rallentata a causa delle forze mareali
esercitate dalla stella. La rotazione dei due corpi
attorno al comune centro di massa
(praticamente coincidente con quello della
stella) crea una deformazione (tidal bulge)
diretta verso quest’ultimo. Durante la rotazione
del pianeta, il bulge risulterà attratto dalla
gravità del pianeta in direzione opposta
inducendo nel tempo il raggiungimento di una
condizione di equilibrio che prevede la
coincidenza del periodo di rotazione con quello
di rivoluzione. Questa rotazione sincrona (tipica
della Luna in rotazione attorno alla Terra), causa
una faccia del pianeta sempre rivolta all’astro e
l’altra perennemente avvolta nelle tenebre.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
!
Figure 1.
Quindi si passa da circa 1.6 miliardi di anni per
una stella di tipo A come Vega (M/M⊙ ≃ 2.1), ai
∼ 10 del Sole, fino ai ∼70 della nana rossa
Lalande (M/M⊙ ≃ 0.46). In figura 1 è riportata la
vita della stella in funzione della massa e la
linea verde delimita approssimativamente un
confine temporale necessario per una
evoluzione biologica simile a quella terrestre. Le
stelle al di sotto di questa linea (di tipo A e B,
oltre alle O non riportate) hanno una durata
della vita troppo breve ed inoltre presentano una
notevole componente UV nello spettro di
emissione, particolarmente pericolosa per la vita
79
Queste condizioni estreme possono portare
anche al collasso dell’atmosfera del pianeta
[30].
Dal punto di vista dell’abitabilità, risulta utile
stimare, data la massa di una stella, il raggio
dell’orbita Rtl al di sotto del quale questa
condizione di equilibrio viene raggiunta nei
tempi t compatibili con lo sviluppo della vita [27,
28, 29]: (7)
In conclusione, un pianeta in rapida rotazione su
sé stesso all’interno della zona abitabile di una
stella di tipo G, F o K (almeno quelle di massa
maggiore), può sembrare uno scenario
eccessivamente antropocentrico, ma, per quello
che sappiamo, rappresenta anche la stima più
ragionevole. Stimiamo quindi, introducendo
l’incertezza nell’inclusione o meno delle stelle di
tipo K, fM = 0.27 ± 0.05.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
2.6. Caratteristiche del Pianeta
dove P0 è la velocità di rotazione iniziale del
pianeta, M la massa della stella e Q un fattore
che descrive la capacità di dissipazione
mareale. Fissando Q = 100 (pianeta secco), P0
= 13 ore e t = 4.5 miliardi di anni, si ottengono
valori di Rtl che coprono la regione abitabile per
le stelle di tipo M e per le stelle di tipo K meno
massive.
Per le stelle di tipo M un altro ulteriore ostacolo
è rappresentato dal fatto che il pianeta riceve un
ammontare di radiazione X e UV
superiore rispetto a quella dei pianeti orbitanti
attorno a stelle simili al Sole [31], soggette ad
una minore variabilità.
Nonostante modelli più recenti introducano
scenari nei quali esiste la possibilità di trovare
pianeti biocompatibili attorno alle stelle di
piccola massa [32, 33, 34, 35], in attesa sia
della ricerca teorica che dell’osservazione
diretta ed infine ricordando che lo scopo è la
ricerca di vita complessa, possiamo
ragionevolmente escludere le stelle di piccola
massa dall’Equazione di Drake. Come piccola
ed intuitiva corroborazione di questa stima, dato
che le stelle dalla massa simile a quella del Sole
sono molto meno frequenti (circa il 90% delle
stelle di sequenza principale hanno una massa
minore), potremmo trovare poco probabile che
l’unica vita complessa che conosciamo si sia
evoluta proprio attorno ad una di queste stelle
meno longeve.
Una caratteristica importante prevede l’essere
geologicamente attivo e la presenza di tettonica
a zolle, indispensabile per il ciclo carbonio-silicio
e per favorire la presenza di terre emerse e la
produzione di biodiversità. J. N. Pierce [25]
suggerisce anche che l’attività geologica è
inoltre in grado di mettere a disposizione
elementi pesanti e fonti di energia ad una futura
civiltà extraterrestre e una assenza della
tettonica a zolle potrebbe quindi in ogni caso
stroncare sul nascere qualsiasi eventuale
sviluppo tecnologico. Inoltre il nucleo
differenziato terrestre produce il campo
magnetico che permette lo schermaggio dalle
particelle cariche del vento solare. Queste
caratteristiche dipendono dal calore interno di
un pianeta, il quale a sua volta dipende da
diversi fattori e in particolare dalla presenza di
elementi radioattivi. Assieme alla capacità di
trattenere un’ atmosfera, la capacità di
conservare un calore interno dipende quindi
sostanzialmente dalla massa, che non può
essere troppo piccola.
Per quanto riguarda fP′ , qui ridefinito come la
frazione di stelle con pianeti dalle dimensioni
simili alla Terra nella HZ, recenti lavori riportano
questa stima basandosi sui dati provenienti dal
catalogo ricavato dalla missione Kepler [36, 37,
38] e la stima che qui useremo per fP′ sarà
quindi di 0.06 ± 0.03.
Il successivo parametro da stimare ne include le
caratteristiche che un pianeta deve possedere
per essere adatto all’evoluzione della vita, molte
80
delle quali in realtà abbiamo già inglobato nei
precedenti coefficienti. Nel 2000, il noto testo
“Rare Earth: Why Complex Life is Uncommon in
the Universe” [39] di P. D. Ward e D. Brownlee
suggeriva che i requisiti che dovrebbero essere
posseduti da un pianeta per essere adatto alla
vita complessa fossero così stringenti da
rendere la Terra una rarità altamente
improbabile nell’Universo.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Una importante caratteristica ad esempio
individuata da Ward e Brownlee è la presenza di
un grande satellite in grado di stabilizzare l’asse
di rotazione terrestre.
Rimandando ai numerosi testi esistenti la
discussione e l’approfondimento di questi fattori
(ad esempio [39, 25, 40, 41, 42]), cerchiamo di
dare una stima di ne, che in pratica nel nostro
caso deve tenere conto solo dell’eccentricità
dell’orbita e dell’inclinazione dell’asse di
rotazione. In pratica si tratta rispettivamente dei
coefficienti Pe e Pi dell’Equazione di Dole,
l’analoga all’equazione di Drake per i mondi
abitabili [43]. I dati per stimare con precisione
questi coefficienti sono ancora insufficienti e
quindi, seguendo Dole [49], stimiamo ne = 0.76
± 0.02.
2.7. Presenza della vita complessa
Per stimare i prossimi coefficienti non possiamo
far altro che assumere che la vita
spontaneamente emerga da un ambiente
abiotico e che si evolva verso forme più
complesse una volta che il tempo e le condizioni
ambientali giochino a suo favore. Individuiamo
quindi il coefficiente fl′, qui ridefinito come la
frazione di pianeti con vita complessa,
considerando i 3 seguenti “colli di bottiglia”
principali: la comparsa dei procarioti, degli
eucarioti e delle forme complesse multicellulari.
Se questi salti evolutivi fossero invece molto
improbabili anche in circostanze favorevoli, le
conclusioni riguardo la possibilità di trovare vita
extraterrestre diventerebbero piuttosto ovvie. Da
notare anche che, avendo selezionato
precedentemente solo pianeti adatti alla vita
complessa, avremo una sottostima dei pianeti
ospitanti solo forme di tipo batterico, in quanto
sottoposte a vincoli meno stringenti. Il presente
scopo risulta infatti indirizzato alla stima del
numero finale N delle civiltà extraterrestri e non
alla valutazione dei passaggi intermedi.
Per stimare fl′ è stata effettuata una semplice
simulazione numerica nella quale è stata inclusa
la durata delle finestra temporale di abitabilità
del pianeta per i 3 diversi tipi di vita (Sez. 1.3)
scalata per la vita della stella nella sequenza
principale data dall’ equazione 6, l’età media t ̃
(6.4 ± 0.9 miliardi di anni) di una stella nella
GHZ [15], la distribuzione in massa [45] e un
tempo aggiuntivo tfr durante il quale la
comparsa della vita è “frustrata” dalla
stabilizzazione del pianeta [46]. Un tipo di vita,
se la relativa finestra la supporta, può comparire
sul pianeta in un tempo casuale dato dal tipo di
salto evolutivo e i tempi di possibile comparsa
sono assunti con distribuzione normale centrata
sui valori tipici della Terra [47, 48], mentre
l’incertezza è stata calcolata includendo o meno
le stelle di tipo K. Quindi questa simulazione, di
tipo Monte Carlo, consiste essenzialmente nel
simulare grossolanamente la storia di certo
numero di stelle attraverso la generazione di
numeri casuali e le costrizioni date dai parametri
immessi.
Questa stima molto approssimata dà un valore
piuttosto alto, come c’era da aspettarsi′ dalla
stima di t: fl = 0.79 ± 0.9.
2.8. Vita intelligente
Per quanto riguarda l’emersione di vita
intelligente (noogenesi) da forme di vita
complessa, molti autori sono concordi
nell’assegnare ad fi un valore abbastanza
elevato [40]. Personalmente considero questa
stima forse piuttosto ottimistica in quanto non
esiste una “nicchia ecologica per l’intelligenza”;
la Natura ha infatti prodotto attraverso
l’evoluzione tantissimi tipi di esseri viventi,
“reinventando” caratteristiche analoghe secondo
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
81
percorsi evolutivi alternativi e prosperando
senza la comparsa di specie intelligenti (nel
senso di potenziali precursori di una civiltà
tecnologica). Risulta possibile che i meccanismi
che hanno sottoposto a pressione selettiva il
tratto dell’intelligenza siano comparsi
probabilmente a causa di peculiari
caratteristiche di un particolare e raro ambiente
creatosi nel continente africano in un certo
momento della storia biologica. L’evoluzione ha
prodotto quindi un “cespuglio” di specie di
ominidi, analogamente ad ogni altra specie
animale, che condividevano parte di questo
particolare tratto. La situazione finale che
osserviamo oggi è quella dell’estinzione di tutte
queste specie, che per un lungo periodo di
tempo hanno convissuto, eccetto quella della
quale facciamo parte. Dopo questa doverosa
precisazione, osserviamo tuttavia che non
abbiamo elementi per stimare con precisione la
possibilità di noogenesi e l’unica via resta quella
di assumerla come un non troppo improbabile
risultato della presenza della vita complessa.
Tenendo conto dei valori assegnati dei diversi
autori, proponiamo il valore: fi = 0.5 ± 0.2.
Per quanto riguarda l’emersione di una civiltà
comunicante, i prerequisiti fisici sulla specie
intelligente per un futuro sviluppo tecnologico
sono quelli di essere una creatura terrestre
dotata di appendici con le quali manipolare gli
oggetti. Una specie che abbia queste
caratteristiche dovrebbe evolversi velocemente
in una civiltà tecnologica in tempi del tutto
trascurabili rispetto a quelli geologici. I dubbi
riguardano soprattutto i limiti possibili dello
sviluppo tecnologico e, soprattutto, la durata
della civiltà. Analogamente a fi, tenendo conto
dei valori assegnati da diversi autori: fc = 0.6 ±
0.3.
Stiamo qui considerando la capacità di
comunicare e non la capacità di viaggio e
colonizzazione interstellare, la quale presenta
delle limitazioni fisiche che ancora non
sappiamo se siano o meno sormontabili. In quel
caso la stima di fc probabilmente crollerebbe
verso valori più bassi e difficilmente prevedibili.
Passando alla frazione f L delle civiltà
attualmente viventi, ci troviamo di fronte ad un
parametro del tutto sconosciuto e quello che
possiamo fare è ipotizzare alcuni valori L per la
vita media di una civiltà comunicante ed
effettuare i calcoli. Prendendo l’invenzione della
radio come ideale punto di partenza, la nostra
ad esempio è una civiltà comunicante da poco
più di 100 anni, intervallo durante il quale ha già
rischiato l’estinzione sotto la minaccia di una
guerra nucleare. Seguendo il metodo di Pierce
[25], potremo semplificare il problema dividendo
L per il tempo medio to di origine di una civiltà
nella Galassia. Considerando una età media per
i pianeti abitabili di 6.4 miliardi di anni [15] e
considerando una media di 4 miliardi di anni
necessari per l’evoluzione [18], possiamo
individuare un intervallo temporale di 2.4 miliardi
di anni. Se i tempi di origine di queste civiltà
sono uniformemente distribuiti in questo
intervallo di tempo, t0 diviene 1.2 miliardi di
anni.
3. Risultati e discussione
Omettendo qui il procedimento di calcolo,
possiamo determinare la distribuzione trovata
da Maccone in funzione dei parametri descritti e
stimati. Assumendo che le civiltà siano
uniformemente distribuite all’interno della GHZ
(nel suo calcolo, Maccone assume che le civiltà
siano all’interno dell’intero disco galattico [49]),
possiamo anche calcolare la funzione di densità
di probabilità per la distanza della civiltà più
vicina, informazione senz’altro importante per le
speranze di un contatto e il progetto SETI. I
valori scelti per L saranno 103, 104, 105 e 106
anni, quindi si va dalla scala di grandezza del
migliaio a quella del milione di anni.
In figura 2 sono presentati a titolo di esempio la
funzione per il numero di civiltà (A) e per la
distanza media della civiltà più vicina (B) per L =
105 anni. Interessante notare nella figura 2-(B)
come entro circa 500 anni luce la probabilità di
individuare una civiltà sia praticamente nulla e
che per un messaggio inviato all’ipotetica civiltà
82
più vicina bisognerebbe probabilmente
aspettare alcune migliaia di anni per ricevere
una risposta. Nella tabella 3 sono riportati i
valori medi e la moda (il valore più probabile,
cioè il picco della distribuzione) al variare di L.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
In conclusione, in questo articolo abbiamo
cercato di stimare i parametri dell’Equazione di
Drake utilizzando il calcolo statistico derivato da
Maccone, ridefinendo/aggiungendo inoltre dei
fattori dove era ritenuto necessario.
Abbiamo ripercorse alcune delle più importanti
tematiche in campo astrobiologico e abbiamo
cercato di fornire una stima più moderna ai
parametri nella nuova veste data all’Equazione
di Drake.
Molte delle stime effettuate possono essere
soggette a notevoli correzioni, soprattutto grazie
ai dati provenienti dalla ricerca, mentre altre
possono essere anche stravolte da ulteriori e
motivate considerazioni. Alcuni coefficienti
incerti, come ne e come fl potrebbero dipendere
da fattori che ne potrebbero far precipitare il
valore rispetto a quello riportato, causando uno
spostamento della moda di N verso valori molto
più bassi e prossimi allo 0. La rilevazione di una
biogenesi indipendente a quella terrestre
rappresenterebbe in questo senso una scoperta
straordinariamente importante.
Rimangono inoltre molti dubbi riguardanti la
noogenesi e abbiamo visto che lo stabilire
diverse durate per la vita media di una civiltà
stravolge i risultati del calcolo anche nel caso
statistico, vanificando quindi anche in parte lo
s f o r z o d i s t i m a r e i v a r i c o e ff i c i e n t i
dell’Equazione Statistica di Drake. Infine, non
sono stati qui considerati ulteriori interrogativi e
anche paradossi riguardanti l’ipotetica esistenza
di civiltà extraterrestri, come anche la possibile
presenza di limitanti “meccanismi di
regolazione” per la noogenesi e la sua
evoluzione. Rimandiamo la discussione di
questi suggestivi interrogativi in un prossimo
articolo
Ringraziamenti
Ringrazio il Dr. Alessio Gnerucci per le
importanti osservazioni e suggerimenti.
83
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
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85
SCHIAVI DEGLI DEI
Recensione del Prof. Valentino Ceneri
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
di Valentino Ceneri
Preparatevi a rivedere e ad aggiornare tutte le
vostre cognizioni sul sistema solare, sulla
formazione del pianeta terra, sulla nascita e la
successione degli ominidi e delle specie
antropomorfe più vicine a noi – comprese l’Homo di
Neanderthal e l’Homo sapiens sapiens – voi che vi
accingete a leggere il libro di Biagio Russo Schiavi
degli dei, edito da Drakon Edizioni nel 2010.
Lasciate da parte, per un po’, anche quel sapete
sulla Bibbia e sulle antiche civiltà sparse nell’arco
della cosiddetta Luna fertile, perché anche quei
frammenti di conoscenze devono essere
riposizionate per arrivare ad uno sguardo d’insieme
più coerente e più significativo. Si tratta di una
revisione della storia delle civiltà del Medio oriente,
a cominciare dalla primaria postazione tra i due
fiumi – detta la culla della civiltà – per la quale
occorre dimenticare l’impostazione evoluzionista o
positivista, quella, per intenderci, che enuncia le fasi
della civilizzazione come una progressione dal
meno al più civile o dal meno perfetto al più perfetto.
I Sumeri, a detta di Biagio Russo, erano arrivati già
a coprire, con la loro indagine, tutte le conoscenze
di cui disponiamo noi, grazie allo sviluppo delle
scienze astronomiche, astrofisiche e delle scienze
della terra. La nostra astrofisica e l’astronomia dei
più moderni osservatori astronomici erano già
codificati nelle loro biblioteche di mattonelle
cuneiformi, conservate nella collezione più antica
della storia: quella del Re assiro Assurbanipal. Gli
eventi che avevano preceduto l’attuale posizione
astrale delle orbite dei pianeti e dei loro satelliti
erano stati descritti e disegnati proprio in quei
supporti impastati di argilla. Il loro significato non
solo è stato interpretato ma anche esplicitato nei
suoi contenuti scientifici sorprendentemente congrui
con le ultime ricerche della NASA e di astrofisici di
chiara fama.
Naturalmente, per i credenti delle varie religioni,
nessun pericolo per i loro dogmi. Non si tratta di
spodestare gli dei dal loro Olimpo, ma solo di
vedere da vicino come possa cambiare la
prospettiva di vita, una volta accertato che le
collisioni e gli sfioramenti tra i pianeti e gli altri corpi
celesti abbiano, di fatto, reso possibile la
predisposizione delle condizioni di vita sulla terra.
La Tiamat babilonese e la Tehom di cui parla la
Bibbia. Immagino la costernazione dei teologi,
quando non potranno più raccontare la favoletta
della creazione, resa banale dalla ovvietà
autorefenziale del loro codice interpretativo volto
alla sottomissione ai loro dei. Perché nessuna delle
narrazioni antiche è banale e antiscientifico.
Era questo che ci si aspettava dagli studiosi. Ed è
ciò che Biagio Russo, con la sua sagacia condita da
una passione adolescenziale, è riuscito a darci.
L’antico e il moderno, le formule matematiche più
complesse e impensabili, per una comunità
scientifica ritenuta primitiva, confrontate col calcolo
infinitesimale dei calcolatori di ultima generazione,
fanno un mix di notti insonni nell’umile tentativo di
svelare l’arcano.
Si narra della vicenda del corpo deforme del pianeta
Terra (Tiamat), reso tale dall’urto inaspettato di un
corpo celeste (Marduk), un pianeta girovago
dall’orbita imprevedibile, che le liscia la pancia –si fa
per dire- rendendogliela concava e che la mette in
condizione di far emergere l’asciutto, in modo tale
che, poi, da Pangea, con la deriva dei continenti, si
arrivi all’attuale sua conformazione di oceani e
continenti. L’evento è descritto in un grande Poema
Epico della Creazione dei Sumeri, Enuma
elish (Quando in alto), databile al 3.000 a. C., la cui
descrizione corrisponde perfettamente alle
risultanze delle ipotesi scientifiche, fattesi strada da
non più di due secoli fa e confermate dalle ultime
scoperte astronomiche.
86
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Nel passare alla seconda parte, ci rendiamo subito
conto che gli assunti di base espressi nella
semantica grafica della copertina del libro di Biagio
Russo, Schiavi degli dei, non sono stati enunciati
per scherzo. Il nocciolo della rivelazione consiste in
un ribaltamento della interpretazione della tradizione
biblica. Anzi, più che in un ribaltamento – citazione
dopo citazione – il testo ci porta alla rielaborazione
di tutto il nostro sapere dei miti della creazione, di
quelli della Bibbia in prima linea. E’, difatti, un
riposizionamento del grande puzzle scenografico
della creazione, con l’aggiunta e lo spostamento dei
vari tasselli già esistenti con l’integrazione con quelli
dei nuovi rinvenimenti.
Trovate, così, enumerati tutti gli attori elencati negli
scritti di letteratura antica e negli scritti delle
moderne scienze dell’uomo. Non siete contenti di
vederveli balzare incontro? Non abbiate paura. La
maggioranza di loro li conoscete già. Ma attenti! Per
non andare in crisi, dovete liberarvi dagli stereotipi.
Dovrete imparare la nuova semantica e sarete
costretti anche a cambiare il vostro punto di vista.
L’uomo, lulu, i giganti, i figli di dio, gli angeli, i
guardiani/vigilanti, i Neftlin confrontati con
gli australopiteceni, gli afarensi, l’homo erectus,
l’homo abilis, l’Homo di Neanderthal, fino l’Homo di
Cro-Magnon(Homo sapiens sapiens), e poi Ea,
Tiamat, le dee madri, la Signora che diede la vita,
Hawwah, Marduk, Nintu, Anu il dio del cielo, gli
Anunnaki, Enuki il Signore della terra, per citarne i
più noti.
dei continenti, a leggere quelli di Astrofisica e di
biologia molecolare.
Tutte queste fonti, confrontate e riorganizzate per
arrivare ad una tesi finale tra l’inverosimile e il
sorprendente: l’homo sapiens sapiens, diventato
la persona che noi siamo, è il frutto di un cammino
accidentato e di combinazione di forze
contrapposte, che ora si ritrovano a coesistere
proprio nell’essere umano che noi siamo.
Le aspirazioni verso il dialogo col cielo e il desiderio
del ‘divino’ hanno potuto diventare verosimili e
alimentare il miraggio –forse- di un’ultima
dimensione dell’umano che supera le barriere della
morte, grazie al cedimento dei figli di Dio che si
erano invaghiti della bellezza delle figlie degli
uomini. Come è affermato nella Bibbia Sacra. E così
sia. Il resto lo leggerete di persona.
“Ne verbum quidem”, allora, sull’opera di Biagio
Russo? Con chiarezza egli afferma di essersi
fermato a considerare le civiltà della
cosiddetta Mezzaluna fertile. Delle altre, sparse nel
mondo intero, non se n’è occupato, lasciando da
parte anche l’Europa. Ma questo non può essere un
demerito.
Alla base di tutta la nuova visione delle cose, i testi
ritenuti sacri, a cominciare dalla Bibbia, dai testi
egiziani e soprattutto dagli scritti dei Sumeri, degli
Ittiti, degli Assiri, dei Babilonesi, dei Persiani.
Troverete citazioni dirette delle edizioni critiche della
Bibbia, del Poema di Ghilgamesh, de La Leggenda
di Sargon, del Poema Epico della Creazione Enuma
elish (Quando in alto), il Poema di Atrahasi o del
Grande Saggio, il Libro di Enoch, l’Apocrifo della
Genesi e di tanti altri documenti. Una nutrita
documentazione archeologica e paleografica vi
guiderà alla comprensione delle dimostrazioni più
dirompenti contro gli stereotipi della dormiente
cultura dei vari cristianesimi che cullano il sonno
della ragione dell’occidente.
Certo, il vantaggio di disporre di ricerche innovative
nel campo della protostoria consiste nel fatto che
esse aprono scenari insospettati che
scombussolano le stereotipie, le visioni
cosmologiche, antropologiche e anche
escatologiche che hanno fatto, per millenni, da
argine all’immane follia della percezione del caos e
da guida verso le incerte mete dell’umanità. D’altra
parte, prendere in considerazione
le ipotesi
espresse da alcuni autori, come i datati Gordon
Childe, Gimbulas e Renfren, ma anche più recenti
come Riccardo Lala (10.000 anni di civiltà europea),
sulla cosiddetta Civiltà danubiana della
mitteleuropa, risalente a quella stessa distanza di
tempo, non avrebbe portato ad un conflitto di
attribuzioni tra le culture, anche se da quelle parti
che alcuni autori ipotizzano la nascita del linguaggio
simbolico, al tempo dell’apparizione dell’Homo
sapiens sapiens.
Sarete costretti, inoltre, a rileggere i testi delle
scienze della terra, a rinverdire la Teoria della deriva
Non posso tacere neanche sulla sorpresa della
recentissima (1994-2006) scoperta del sito Gobekli
87
Tepe, in Turchia, che arretrerebbe la nascita della
civiltà a 12.000 anni fa, in epoca sicuramente
antidiluviana, collocandola territorialmente molto più
a nord di Ur dei Sumeri al confine tra la Turchia e la
Siria, vicino all’antica Harram (la Carre romana). Ma
la scoperta è troppo recente per essere
metabolizzata e rielaborata dal mondo accademico
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
Tutto questo non toglie nulla al merito di Biagio
Russo, per la sua onestà intellettuale e per la
grande fatica che si è sobbarcato nel fare le ricerche
nelle migliori biblioteche europee e nel mettere a
confronto una vasta bibliografia, che rende il libro
indispensabile per coloro che avvertono il bisogno di
scrollarsi di dosso i dogmatismi che infestano la
cultura contemporanea.
La crisi della cultura, la rottura degli stereotipi è
motivo di sofferenza per coloro che si fidano solo
degli schemi del passato. Solo il rinnovamento dei
modelli di vita, basati non sugli stereotipi ma sulla
conoscenza scientifica dell’evoluzione della specie
umana potrà garantire una solida base di partenza
per le trasformazioni-metamorfosi dell’uomo
contemporaneo, che dovrà affrontare molte lotte
ancora per non essere ‘schiavo’ di nessun altro
essere. Compresi quelli chiamati “dei”.
Valentino Ceneri è nato a Cappelle sul Tavo (PE) nel
1939.
Ha conseguito: il Dottorato di ricerca in Teologia,
presso la Pontificia Università Lateranense di Roma;
la Laurea in Sociologia, specializzazione
etnoantropologica e la Laurea in Psicologia presso
l'Università La Sapienza di Roma; il Diploma di
Psicoterapia presso l'I.P.A. di Roma.
Ha insegnato: Antropologia culturale presso la
Pontificia Università di S. Tommaso di Roma;
Scienze sociali, Psicologia, Pedagogia presso le
Scuole Secondarie della provincia di Pescara.
È stato Giudice onorario del Tribunale per i
minorenni de L'Aquila.
È Psicologo clinico Psicoterapeuta.
Vive con la famiglia a Moscufo (PE)
Ha pubblicato numerosi saggi tra cui: Mutamenti
socioculturali e valori cristiani, 1977, Roma; Dalla
Psicoanalisi alla psicoterapia analitica
esistenziale, 1981, Pescara; Il complesso di Edipo:
tramonto o superamento?, 1983, Roma; La nascita
del linguaggio, 1984, Franco Angeli,
Milano; L’evoluzione psichica dell’uomo; Lettera a
Pinocchio; L’identità rispettata; Valori: gabbie o
libertà; La nascita del desiderio (La filogenesi
dell’amore), Ed. Carabba, 1998, Pescara; Il
Minotauro; Prometeo, Ed. Psi. co.ra, 1999,
Pescara, Il punto Omega e gli attrattori della
mente, A. Molinaro - F. De Macedo, edizioni Pro
Sanctitate, 2006, Roma; Tutto il corpo nella mente e
tutta la mente nel corpo?, Roma, 2008.
Il Maestro d'ascia, Edizioni Tracce, 2011, Pescara, è
il suo primo romanzo.
Tracce d’Eternità N. 26 Nuova Serie Luglio 2015
88
‘UNITED WE STAND, DIVIDED WE FALL’
www.associazioneaspis.net