Thesis Reference - Archive ouverte UNIGE

Transcript

Thesis Reference - Archive ouverte UNIGE
Thesis
Ground presuppositions – presupposizioni di 'fondo': uno sguardo
nuovo su un fenomeno classico
FASCIOLO, Marco
Abstract
Cette thèse propose que les présuppositions les plus prototypiques sont non pas les
'présuppositions discursives', liées aux déclencheurs discursifs (groupes nominaux en
position référentielle, phrases clivées, verbes factifs, implicatifs, de jugement, etc.); mais bien
les 'présuppositions de base' : à savoir, les distinctions ontologiques entre humains, animaux,
végétaux, concrets, lieux, etc. Les premières sont 'présuppositions' seulement dans la mesure
où elles ressemblent aux secondes. La thèse adopte une notion 'fonctionnelle' de
présupposition. Les présuppositions discursives remplissent la fonction de présupposition
seulement pour un acte de parole contingent ; les présuppositions de base, en revanche,
remplissent la fonction de présupposition pour toute notre forme de vie. La différence ne
réside pas dans cette fonction, mais bien dans l'ampleur de la pratique par rapport à laquelle
elle est remplie.
Reference
FASCIOLO, Marco. Ground presuppositions – presupposizioni di 'fondo': uno sguardo
nuovo su un fenomeno classico. Thèse de doctorat : Univ. Genève, 2009, no. L. 682
URN : urn:nbn:ch:unige-323301
Available at:
http://archive-ouverte.unige.ch/unige:32330
Disclaimer: layout of this document may differ from the published version.
[ Downloaded 30/09/2016 at 02:32:23 ]
UNIVERSITE DE GENEVE
FACULTE DES LETTRES
Thèse pour obtenir le titre de Docteur ès Lettres
Ground presuppositions – Presupposizioni di ‘fondo’
Uno sguardo nuovo su un fenomeno classico
Candidat:
Marco Fasciolo
Jury de thèse:
prof. Emilio Manzotti
prof. Michele Prandi
prof. Andrea Bonomi
prof. Gaston Gross
Président:
prof. Roberto Leporatti
What if, on a crowded street, you look up and see
something appear that should not, given what we
know, be there. You either shake your head and
dismiss it, or you accept that there is much more to
the world than we think. Perhaps it really is a
doorway to another place. If you choose to go
inside you may find many unexpected things.
Shigeru Miyamoto
2
Sommario generale
Introduzione
Capitolo 0
Il libero arbitrio
Parte I
Verso una concezione di ‘fondo’ della
presupposizione
Capitolo 1
Capitolo 2
Il punto di partenza: O. Ducrot e R. Stalnaker
L’idea centrale: presupposizioni contingenti vs.
presupposizioni di base
Parte II
Discesa alle presupposizioni discorsive
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Presupposizionalisti vs. anti-presupposizionalisti
Sulle funzioni linguistiche degli attivatori
Presupposizione e struttura informativa
Il problema della proiezione
Presupposizione e inferenza
Parte III
Ascesa alle presupposizione di base
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Lo statuto logico delle presupposizioni di base
L’ambito di funzionamento delle presupposizioni di
base
Come studiare le presupposizioni di base
Scorribande tra vegetali, cose, animali e persone
Parte IV
Tipi di presupposizioni di base
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
La presupposizione di esistenza
Presupposizione atomiche
Buono e bello
Conclusione
Capitolo 15
Il progetto di un iper-dizionario
Riferimenti bibliografici
3
CAPITOLO 0
Il libero arbitrio
4
Indice del capitolo
1. Il problema del libero arbitrio
1.1. Due alternative inconciliabili
1.2. Una mappa di opzioni teoriche
1.3. Dissoluzione del problema
1.3.1. Due concetti di libertà
1.3.2. Dal libero arbitrio al verbo smettere
2. Le caratteristiche centrali di una presupposizione
2.1. Condizioni di esperienza
2.2. Condizioni di conoscenza
3. L’aspetto paradossale del dibattito sulle presupposizioni
3.1. Le reazioni possibili a questa tesi
3.2. Esempi e non-esempi di presupposizione
6
6
6
7
7
8
9
9
9
10
10
11
5
1. Il problema del libero arbitrio
1.1. Due alternative inconciliabili
Un buon modo per entrare in contatto con l’idea di presupposizione è
imbattersi in uno dei problemi più classici della filosofia morale: il libero
arbitrio.
Se immaginiamo una persona che desidera fortemente qualcosa, ci
troviamo a un bivio. Da un lato, sembrerebbe sensato giudicare quella persona
in base al contenuto del suo desiderio: se l’unico scopo della sua vita fosse
accumulare denaro per stiparlo nei materassi e nei cuscini della sua villa, ad
esempio, è probabile che la giudicheremmo una persona gretta. Dall’altro lato,
un desiderio può essere assolutamente irresistibile, magari suscitato da un
codice segreto ineludibile: l’inconscio o il patrimonio genetico o qualsiasi altra
cosa. Da questo punto di vista, sarebbe insensato e perfino arrogante qualsiasi
giudizio: questa volta, probabilmente, tenderemmo a dire che quella persona
sia ossessionata o malata e che quindi, in fondo, non sia colpa sua.
Nel primo caso, l’azione compiuta all’insegna del desiderio sarebbe
davvero un’azione: cioè un evento di cui un soggetto è responsabile e per il
quale è moralmente giudicabile; nel secondo caso, invece, quella stessa azione
sfumerebbe in un semplice evento naturale: qualcosa che accade a causa di
leggi fisiche, chimiche o psicologiche e per il quale è fuori luogo parlare di
responsabilità o dare giudizi morali. Nel primo caso, riconosceremmo che un
essere umano sia libero e responsabile – capace di compiere azioni degne di
questo nome – anche se è mosso da desideri o spinte incontrollabili; nel
secondo, dovremmo ammettere che l’uomo sia una cosa soggetta a leggi
naturali inderogabili: una cosa come tutte le altre.
Il problema del libero arbitrio è questo: quale scegliere tra le
alternative precedenti?
1.2. Una mappa di opzioni teoriche
Naturalmente, qui non siamo interessati al dibattito sul libero arbitrio
in se stesso ma ad osservare, al suo interno, il funzionamento dell’idea di
presupposizione. Ciononostante, ritengo utile schizzare una mappa delle
principali posizioni teoriche in gioco. Punto di partenza di questa mappa è
l’opposizione tra due tesi fisiche: il determinismo e l’indeterminismo.
Ecco come M. De Caro descrive il determinismo o, più correttamente,
il «determinismo scientifico universale»:
Secondo una classica formulazione ispirata da Laplace, questa concezione afferma che
la descrizione dello stato del mondo in un certo istante, congiunta con la proposizione
che specifica tutte le leggi di natura, implica la descrizione dello stato del mondo in
ogni istante successivo. Da ciò segue che a ogni istante un solo futuro è fisicamente
possibile (De Caro 2004: 14-15).
Quanto al cosiddetto «indeterminismo», esso viene definito come la tesi
contraria rispetto al determinismo di solito appoggiandosi ai risultati della
teoria della relatività o della meccanica quantistica. Secondo M. De Caro:
6
L’indeterminismo è semplicemente la negazione del determinismo. Il determinismo e
l’indeterminismo dunque sono mutualmente esclusivi e congiuntamente esaustivi (De
Caro 2004: 11).
Se questo è il punto di partenza, le strade si biforcano immediatamente:
può essere vero il determinismo e quindi falso l’indeterminismo, o viceversa.
Intraprendendo la prima strada ci si imbatte in un altro bivio, dove un sentiero
conduce a negare e l’altro ad affermare il libero arbitrio. Seguire il primo
sentiero significa sostenere che il determinismo renda impossibile la libertà;
seguire il secondo, invece, vuol dire pensare che il determinismo ne individui
una condizione addirittura necessaria. Intraprendendo la seconda strada –
ammettendo l’ipotesi indeterminista – si incontra ancora il bivio precedente, in
cui un sentiero conduce a negare il libero arbitrio e l’altro ad affermarlo.
Questa volta, però, seguire il primo cammino vuol dire ritenere
l’indeterminismo una condizione necessaria al libero arbitrio; e seguire il
secondo vuol dire sostenere che l’indeterminismo impedisca il libero arbitrio. I
modi concreti in cui gli studiosi percorrono le strade appena delineate – ovvero
le ragioni con cui argomentano i precedenti legami di implicazione – sono
estremamente variegati; quello che conta, tuttavia, è che sono tutti sbagliati.
Le vie che conducono a riconoscere l’esistenza del libero arbitrio
mirano a dimostrare la compatibilità tra quest’ultimo e una specifica struttura
fisica del mondo (determinista o indeterminista, secondo i casi); le vie che
conducono a negare spazio al libero arbitrio, al contrario, mirano a dimostrare
l’incompatibilità tra quest’ultimo e una specifica struttura fisica del mondo
(ancora, determinista o indeterminista). Queste vie sono sbagliate perché la
struttura fisica del mondo è logicamente indipendente dal libero arbitrio. Può
essere ragionevole concordare con l’idea che tutti i moti dell’animo, i pensieri,
le scelte e le azioni siano predeterminati da leggi chimiche o fisiche. E, nel
contempo, affermare che questo sarebbe ininfluente rispetto alla questione del
libero arbitrio perché lascerebbe inalterata la nostra percezione del mondo:
cioè non renderebbe meno sensato continuare a considerare le persone
responsabili per le proprie azioni più di quanto la convinzione che tutti
moriremo non rende meno sensato né curarsi dalle malattie, né accusare
qualcuno di omicidio. Come scrive P. F. Strawson:
[…] this truth [l’ipotesi determinista, nel nostro esempio] is simply irrelevant to the
issue before us [l’esistenza del libero arbitrio]. To see human behaviour as consisting
simply of physical movement would, of itself, exclude the attitudes and feeling in
question [la sensazione di essere liberi e tutte le emozioni e i giudizi morali]; for it is
only in relation to behaviour understood, or experienced, as intentional action [cioè,
appunto, dotato di libero arbitrio] that these attitudes and feelings ever arise
(Strawson 1992: 142).
1.3. Dissoluzione del problema
1.3.1. Due concetti di libertà
Come suggerisce M. Prandi (Prandi 2004: 330-333) è possibile
distinguere due diversi concetti di libertà: un concetto di libertà «pratico» o
«empirico» e un concetto di libertà «teoretico» o «ideale» o «essenziale».
Il concetto pratico di libertà può essere ulteriormente declinato in
un’accezione esterna e una interna. Utilizziamo l’accezione ‘pratico-esterna’
7
quando diciamo che c’è poca o nessuna libertà di stampa o di religione, oppure
quando diciamo che gli uomini non sono liberi perché ‘programmati’ dal
proprio codice genetico. Nel primo caso, è possibile lottare per raggiungere un
grado maggiore di libertà; nel secondo, occorre soltanto rassegnarsi e
riconoscere che il grado di libertà umana sia pressoché nullo. Utilizziamo
l’accezione ‘pratico-interna’ quando affermiamo che vorremmo agire in un
modo, ma una pulsione ci spinge ad agire in un altro, oppure quando agiamo in
un modo conforme ai nostri desideri provando quel tipico senso di gioia e
pienezza. In entrambi i casi, usare il concetto pratico di libertà vuol dire
misurare il proprio grado di libertà: in rapporto a forze esterne (dinamiche
sociali o politiche; leggi fisiche, chimiche, psicologiche) o interne (tipicamente
passioni e desideri).
Usare il concetto essenziale di libertà, invece, vuol dire presupporre
tautologicamente che l’uomo è libero perché è uomo: cioè che il concetto di
uomo non è pensabile senza la proprietà di essere libero di agire e quindi
responsabile. Questa definizione è circolare: è un assioma. Ma un assioma
senza il quale non siamo disposti a vivere.
1.3.2. Dal libero arbitrio al verbo smettere
I concetti di libertà appena distinti sono connessi: più precisamente, la
condizione alla quale possiamo affermare che una persona sia molto, poco o per
nulla libera in senso pratico è l’idea che sia libera in senso ideale. Se una
persona è legata a una sedia, non può alzarsi: tutti diremmo che non sia libera
di alzarsi. Se lascio cadere una pietra – a causa della forza di gravità – non può
non cadere: ma nessuno direbbe che la pietra non sia stata libera di restare
dov’era. Tra la persona e la pietra non c’è una differenza pratica o empirica: in
entrambi i casi, infatti, qualcosa non può accadere a causa di una legge fisica.
La differenza tra la persona e la pietra è di ordine ideale: soltanto per l’uomo ha
senso porre il problema pratico della libertà perché soltanto l’uomo è assunto
come essenzialmente libero; per la pietra il problema non si pone: does not
arise.
In questo senso, la libertà pratica o empirica – tanta, poca o nulla che
sia – presuppone la libertà ideale. Ha senso negare o affermare che una persona
sia fattualmente libera perché è presupposta in quanto essenzialmente libera; al
contrario, non ha senso affermare o negare che una pietra sia di fatto libera
perché la pietra non è presupposta come essenzialmente libera. La libertà
ideale è dunque la condizione – l’orizzonte logico – che apre la possibilità di
essere, in concreto, liberi o schiavi.
L’impiego della nozione di presupposto appena condotto non è un
semplicemente un analogon di quello più tecnico della letteratura specializzata:
è il cuore del fenomeno stesso della presupposizione. Esiste un asse che parte
dal libero arbitrio e giunge fino al verbo smettere: questo asse collega il fatto
che non abbia senso dire che un sasso che cade non sia libero di non cadere al
fatto che non abbia senso dire che abbia smesso di fumare qualcuno che non ha
mai iniziato a farlo. La differenza è che mentre il presupposto che rende
coerente domandare (o affermare o negare) se qualcuno abbia smesso di fumare
non ha alcuna rilevanza filosofica, il presupposto che rende coerente
domandare (o affermare o negare) se una persona sia empiricamente libera
rivela un tratto della nostra ontologia naturale.
Ora, se guardiamo una presupposizione come quella del libero arbitrio,
8
due caratteristiche emergono chiaramente: il fatto che una presupposizione è
una condizione di possibilità dell’esperienza, il fatto che una presupposizione è
una condizione di possibilità di conoscenza.
2. Le caratteristiche centrali di una presupposizione
2.1. Condizioni di esperienza
Se durante una passeggiata in un bosco un ramo mi colpisce il viso, mi
è capitato qualcosa; ma se qualcuno mi tira uno schiaffo, non mi è
semplicemente capitato qualcosa: sono stato vittima di un’aggressione. Se
incido la corteccia di un pino, ne vedo la resina fuoriuscire; ma se schiaffeggio
una persona non vedo delle secrezioni fuoriuscire dai suoi occhi: la vedo
piangere. Se un militare colpisce un prigioniero con un pugno, il fatto che
quest’ultimo non emetta alcun lamento potrà essere interpretato come un
segno di coraggio; ma se lo stesso militare tira un pugno contro un muro, il
fatto che dal muro non provenga alcun lamento non sarà interpretato come
segno di alcunché.
Queste osservazioni attirano l’attenzione sul fatto che le
presupposizioni non sono fatti di cui possiamo fare esperienza ma condizioni
che rendono possibili compiere determinate esperienze. Se vedo una persona
che mi sfila il portafoglio dai pantaloni, ciò che vedo non è che è dotata di
libero arbitrio ma che mi sta rubando il portafoglio: l’idea che sia libera di agire
è la condizione alla quale posso vedere che sto subendo un furto e che non sto
semplicemente smarrendo il borsellino. Se vedo qualcuno che piange, ciò che
vedo non è che è una persona ma che è triste: l’idea che sia una persona è la
condizione alla quale posso interpretare le sue lacrime come manifestazione di
tristezza e non come semplici secrezioni oculari.
Noi non facciamo esperienza di una cosa come «il libero arbitrio»; ma
facciamo esperienza di furti o omicidi, desideri meschini o nobili, azioni giuste
o ingiuste, persone oneste o disoneste… che lo presuppongono. Analogamente,
noi non facciamo esperienza di una cosa come «l’anima di una persona»; ma
facciamo esperienza di manifestazioni di gioia o dolore, coraggio o ostinazione,
speranze o idee… che la presuppongono.
2.2. Condizioni di conoscenza
Il fatto che le presupposizioni siano una condizione di possibilità
dell’esperienza implica la seconda caratteristica centrale summenzionata: le
presupposizioni non sono contenuti di conoscenze ma condizioni che rendono
possibile determinate conoscenze.
Se vediamo un’amica (Maria) che piange, possiamo domandarci: Perché
Maria piange? La risposta a questa domanda è un oggetto di conoscenza
possibile: qualcosa su cui possiamo sbagliarci, su cui possiamo dubitare (Maria
piange perché il suo ragazzo l’ha lasciata o perché è stata licenziata?) e per cui
possiamo andare a cercare prove a favore o contro (Maria piange perché è stata
licenziata: ho parlato col suo datore di lavoro). La condizione alla quale
possiamo conoscere i motivi per cui Maria piange, dubitare su quali essi siano
o sbagliarci nell’individuarli è l’idea che Maria sia una persona. Proprio per
questo, tuttavia, quell’idea non è a sua volta un oggetto di conoscenza
9
possibile: infatti, a meno di non sospendere il senso comune, non ha senso né
dire Maria piange perché è una persona né chiedersi Perché Maria è una
persona?
Possiamo dubitare se un nostro amico sia felice perché presupponiamo
che sia una persona, ma sarebbe assurdo dubitare se sia una persona o una
cosa; possiamo cercare di scoprire se il nostro amico sia triste o felice perché
presupponiamo che sia una persona, ma sarebbe assurdo cercare prove del fatto
che sia una persona. Certo, si potrebbe pensare che un individuo sia una
persona perché, ad esempio, può soffrire o essere disonesto. Ma è vero il
contrario: vediamo qualcuno soffrire o agire disonestamente perché
presupponiamo che sia una persona. Considerazioni analoghe valgono per le
cose: perché il cielo non è una persona? Apparentemente, potremmo essere
tentati di rispondere cose come perché non può parlare o ridere o piangere.
Tuttavia, ancora una volta, è vero il contrario: il cielo non può parlare o ridere
o piangere perché presupponiamo che non sia una persona. Se
presupponessimo che fosse una persona ci sforzeremmo di interpretare i
mutamenti meteorologici come manifestazioni di sentimenti e pensieri. Ma non
lo facciamo.
3. L’aspetto paradossale del dibattito sulle presupposizioni
3.1. Reazioni possibili a questo lavoro
In linguistica e filosofia del linguaggio, l’etichetta «presupposizione» si
riferisce a quella congerie di fenomeni linguistici discussi a partire dal 1952
(anno della traduzione inglese dell’articolo Sinn und Bedeutung di G. Frege),
fino per lo meno al 1992 con il contributo Presupposition Projection and
Anaphora Resolution di R. A. van der Sandt. All’interno di questo arco di
tempo, il dibattito è fiorito tra il 1970 e il 1979, poi ha cominciato ad appassire:
la pubblicazione della summa collettanea Presuppositions (undicesimo volume
della collana Syntax and Sematics, curato da C. Oh e D. A. Dinnen) ha avuto in
pratica l’effetto di una pietra tombale. Ma il punto, qui, non è delineare la
parabola di questo dibattito; il punto è che se ai fenomeni che ne hanno
costituito la spina dorsale si affianca l’idea che le persone siano dotate di libero
arbitrio, due reazioni scaturiscono immediatamente.
La prima reazione è di sconcerto e quindi di rifiuto. Lo sconcerto deriva
dal fatto che il nome «presupposizione» sembra esteso a qualcosa di così
diverso dagli esempi usuali da far pensare che si perda ogni legame. Il rifiuto
consiste nel trincerarsi dietro all’idea che, appunto, con «presupposizione» gli
studiosi intendono qualcosa di assai definito e rigoroso. Temo che questa sarà
la reazione della maggior parte degli specialisti di fronte alla mia tesi. A loro si
rivolge dunque l’invito di Shigeru Miyamoto posto in epigrafe.
La seconda reazione, forse, sarà più probabile nei non-specialisti. Se
davvero il libero arbitrio è un presupposto prototipico, allora è ragionevole
aspettarsi che la presupposizione non sia solo un fenomeno linguistico che si
manifesta in un pugno di enunciati, ma qualcosa di assai più generale: che, in
ultima analisi, coincide col problema del fondamento (Ground). La seconda
reazione, dunque, consiste nel vedere il dibattito classico assumere un aspetto
straniante e paradossale. Ciò che è straniante è che si sia prestata tanta
attenzione al fatto che la domanda Maria ha smesso di fumare? perda di senso
qualora Maria non abbia mai fumato, e non al fatto che tutte le nostre azioni
10
nei suoi confronti perderebbero di senso se non fosse una persona. Ciò che è
paradossale è che gli studiosi abbiano scambiato per esempi prototipici i casi
più marginali di presupposizione: quelli che ne esibiscono in modo meno
evidente le caratteristiche. Come vedremo, infatti, le proprietà che vengono
tipicamente attribuite ai casi classici di presupposizioni (ad esempio, il far parte
d’un bagaglio di conoscenze condivise aggiornato nel corso di un dialogo) sono
proprietà che possiedono proprio nella misura in cui non sono presupposizioni.
3.2. Esempi e non-esempi di presupposizione
L’archeologia della nozione di presupposizione è stata condotta da O.
Ducrot:
A voler fare la preistoria del concetto di presupposizione, bisogna risalire almeno alla
teoria medievale delle frasi «esponibili», la quale conduce a dissociare il valore
semantico di certi enunciati in più proposizioni indipendenti […] La logique de PortRoyal, nel Seicento si avvicina anche di più al concetto moderno. […] Arnaud e
Lancelot rilevano, discutendo su un loro esempio, che se si nega l’enunciato
considerato, solo una delle proposizioni elementari è interessata dalla negazione,
mentre l’altra ne resta intatta (Ducrot 1980: 1989).
A. G. Conte risale fino a Senofane:
Forse il primo filosofo che abbia intuito questo paradossale aspetto del fenomeno della
presupposizione è un presocratico: Senofane. Secondo Senofane, è empio sia affermare
che gli dèi siano mortali, sia negare che gli dèi siano mortali: infatti, ambedue le
opposte tesi sulla mortalità degli dèi condividono l’empia presupposizione che gli dèi
siano nel tempo (Conte 2007).
Quanto a me, coerentemente con l’idea il libero arbitrio sia un esempio
prototipico di presupposizione, dovrei citare le idee di E. Husserl, i
Commonplaces di Moore, le certezze di Wittgenstein e, per lo meno, l’intero
capitolo On presupposing della prima parte del volume An Essay on
Metaphysics di R. G. Collingwood. Invece, per motivi di spazio, mi limiterò al
passo seguente (sottolineature mie):
[…] if you were talking to a pathologist about a certain disease and asked him ‘What
is the cause of the event E which you say sometimes happens in this disease?’ he will
reply ‘The cause of E is C’; and if he were in a communicative mood he might go on to
say ‘That was established by So-and-so, in a piece of research that is now regarded as
classical’. You might go on to ask: ‘I suppose before So-and-so found out what the
cause of E was, he was quite sure it had a cause?’ The answer would be ‘Quite sure, of
course.’ If you say ‘Why?’ he will probably answer ‘Because everything that happens
has a cause.’ If you are importunate enough to ask ‘But how do you know that
everything that happens has a cause?’ he will probably blow up right in your face,
because you have put a finger on one of his absolute presuppositions, and people are
apt to be ticklish in their absolute presuppositions. But if he keeps his temper and
gives you’re a civil and candid answer, it will be to the following effect. ‘That is a
thing we take for granted in my job. We don’t question it. We don’t try to verify it. It
isn’t a thing anybody has discovered, like microbes or the circulation of the blood. It
is a thing we just take for granted’. He is telling you that it is an absolute
presupposition of the science he pursues […] Absolute presuppositions are not
verifiable. This does not mean that we should like to verify them but are not able to; it
means that the idea of verification is an idea which does not apply to them […]
11
(Collingwood 1940, 1998: 31-32).
Al precedente, desidero affiancare altri tre esempi. Il primo è la nozione
di Sfondo teorizzata da J. R. Searle che, nel seguente passo sul realismo,
propone un argomento simile a quello impiegato sopra per il libero arbitrio:
Il mio impegno nei confronti del “realismo” viene mostrato dal fatto che io vivo nel
modo in cui vivo. Io guido la mia auto, bevo la mia birra, scrivo i miei articoli, e scio
sulle mie montagne. Ora, in aggiunta a tutte queste attività, ciascuna delle quali è una
manifestazione della mia Intenzionalità, non c’è un’ulteriore ‘ipotesi’ che il mondo
reale esista. Il mio impegno verso l’esistenza del mondo reale viene manifestato quasi
ogni qualvolta che io faccio qualcosa. E’ un errore trattare questo impegno come se
fosse un’ipotesi, come se in aggiunta allo sciare, al bere, al mangiare ecc., mantenessi
una credenza che esiste un mondo reale indipendente dalle rappresentazioni che ho di
lui. […] Sembra che non potrei mai mostrare o dimostrare che esiste un mondo reale
indipendente dalle rappresentazioni che ho di lui. Ma è ovvio che non lo possa mai
dimostrare perché ogni mostrare o dimostrare presuppone lo Sfondo, e lo Sfondo è
l’incarnazione del mio impegno al realismo. […] Non è possibile che esista una
domanda dotata di pieno significato, del tipo “C’è un mondo reale indipendente dalla
rappresentazioni che ho di lui?”, perché già il semplice avere delle rappresentazioni
può esistere soltanto contro uno Sfondo che dia alle rappresentazioni il carattere di
“rappresentare qualcosa”. Questo non è dire che il realismo è un’ipotesi vera; è
piuttosto dire che non è affatto un’ipotesi, bensì la precondizione per avere delle
ipotesi. (Searle 1983, 1985:162-163)
Gli altri due esempi sono tratti, rispettivamente, da P. F. Strawson e P.
H. Grice. Essi illustrano il carattere paradossale del dibattito accennato sopra:
l’uno perché coglie il cuore della nozione di presupposizione quando non parla
di presupposizioni; l’altro perché esibisce al meglio il funzionamento di una
presupposizione non quando la identifica con l’implicatura conversazionale ma
quando descrive il meccanismo con cui nasce un’implicatura conversazionale.
P. F. Strawson definisce la nozione di presupposizione così:
E’ auto-contraddittorio congiungere A con la negazione di A’ se A’ è una condizione
necessaria semplicemente della verità di A. Un diverso genere di assurdità logica si ha
quando si congiunge A con la negazione di A’ se A’ è una condizione necessaria della
verità o falsità di A. La relazione fra A e A’ nel primo caso è che A esige A’. Abbiamo
bisogno di un nome differente per la relazione fra A e A’ nel secondo caso; diciamo
[…] che A presuppone A’. (Strawson 1952, 1961: 225)
Tuttavia, la migliore definizione di presupposizione offerta da P. F. Strawson è
quest’altra:
Vi è […] un solido nucleo centrale del pensiero umano che non ha storia, o non ne ha
una che sia riportata nelle storie del pensiero; vi sono categorie e concetti che, nei loro
caratteri più fondamentali, non cambiano affatto. Ovviamente non si tratta delle
particolarità del pensiero più raffinato. Si tratta invece dei luoghi comuni
dell’equipaggiamento concettuale degli stessi esseri umani più sofisticati. E’ di questi,
delle loro interconnessioni, che e della struttura che essi formano che una metafisica
descrittiva si occuperà principalmente (Strawson 1959, 1964: 10)
Le proposizioni della metafisica descrittiva sono le presupposizioni par
excellence.
P. Grice (Grice 1981, 1991) tenta di analizzare la presupposizione nei
12
termini della sua nozione di implicatura conversazionale; e la nozione di
implicatura conversazione è definita così (sottolineatura mia):
Suppose that A and B are talking about a mutual friend C who is now working in a
bank. A asks B how C is getting on his job and B replies Oh, quite well, I think; he
likes his colleagues and he hasn’t been to prison yet. […] In a suitable setting A
might reason as follows: “(1) B has apparently violated the maxim ‘Be relevant’ and so
may be regarded as having flouted one of the maxims conjoining perspicuity, yet I
have no reason to suppose that he is opting out the Cooperative Principle; (2) given
the circumstances, I can regard hi irrelevance as only apparent if, and only if, I
suppose him to think that C is potentially dishonest; (3) B knows that I am capable of
working out step (2). So B implicates that C is potentially dishonest” (Grice 1975: 2431).
Tuttavia, la presupposizione non è l’implicatura conversazionale bensì la
massima del principio di cooperazione sul quale si fa leva per generare
un’implicatura. La presupposizione non è il risultato del processo di inferenza,
ma la condizione che lo rende possibile. Il funzionamento del principio di
cooperazione è uno dei migliori esempi di presupposizione in atto.
13
PARTE I
Verso un’idea ‘di fondo’ della presupposizione
La Parte I consta di due capitoli (capitolo 1 e capitolo 2) e ha la funzione di
introdurre l’idea centrale del lavoro. Il capitolo 1 si occupa di traghettare il
lettore dalle posizioni di due autori classici (O. Ducrot e R. Stalnaker) a una
concezione nuova – di ‘fondo’ – della presupposizione. Il capitolo 2 ha il
compito di esporre e giustificare quest’ultima.
14
CAPITOLO 1
Il punto di partenza: O. Ducrot e R. Stalnaker
15
Indice del capitolo
1. La presupposizione come funzione e come azione
17
1.0. Introduzione
17
1.1. L’accezione strutturale o funzionale di presupposizione
17
1.2. L’accezione retorica di presupposizione
18
1.2.1. Accezione retorica vs. accezione comunicativa
18
1.2.2. La pseudo accezione comunicativa di presupposizione
19
1.3. La strategia retorica di indurre a presupporre
20
2. La concezione illocutiva di presupposizione
20
2.0. Introduzione
20
2.1. Un duplice parallelismo
21
2.2. Presupporre e ordinare
22
2.2.1. La presupposizione come atto perlocutivo
22
2.2.2. Assenza di una forma performativa esplicita
24
2.2.3. Una palette di strategie per presupporre
25
2.3. Presupporre e salutare
26
2.3.1. La presupposizione e la mossa di un gioco
26
2.3.2. La presupposizione come atteggiamento naturale
27
2.3.3. Riformando O. Ducrot
28
3. La concezione pragmatica di presupposizione
29
3.0. Introduzione
29
3.1. La presupposizione come atteggiamento proposizionale
29
3.2. Presupposizione pragmatica: decostruzione dell’espressione 31
3.2.1. Due accezioni di pragmatico
31
3.2.2 What is really pragmatic about pragmatic presuppositions? 32
3.2.3. L’insostenibile contingenza degli esempi classici
34
3.3. Un punto di avvio
34
3.3.1. La nozione di common ground
34
3.3.2. riformando R. Stalnaker
37
16
1. La presupposizione come funzione e come azione
1.0. Introduzione
Gli esempi che concludono il capitolo precedente – lo Sfondo e l’ipotesi
realista, il progetto di metafisica descrittiva, il principio di cooperazione –
esibiscono il cuore dell’idea di presupposizione ma restano bozzetti
impressionistici. Per questa ragione occorre localizzare un punto preciso nel
dibattito sul fenomeno delle presupposizioni, al quale ancorare il presente
lavoro. Questo punto è individuato dalle idee di O. Ducrot e R. Stalnaker.
Sub. § 1, distinguerò un’accezione di presupposizione che etichetteremo
«funzionale» o «strutturale» da una che etichetteremo «retorica». Questa
mossa ha un duplice scopo: da un lato, fissare un tratto centrale dell’idea di
presupposizione alla base di questo lavoro; dall’altro lato, introdurre (con
l’accezione retorica) la concezione di O. Ducrot
1.1. L’accezione strutturale o funzionale di presupposizione
Si consideri la seguente coppia di esempi:
(1)
a. Giorgio ha smesso di fumare.
b. Giorgio fumava.
Usare l’accezione strutturale di «presupposizione» vuol dire affermare
che lo stato di cose descritto da (1b) è una condizione di coerenza del processo
descritto da (1a) così come le fondamenta sono una condizione necessaria alla
statica di un edificio. In questo senso la domanda perché (1b) è un presupposto
di (1a)? riceverebbe una risposta inerente alle condizioni di pensabilità di (1a).
Nella prospettiva strutturale «presupporre» designa una funzione; e
precisamente la funzione di (1b) verso (1a): cioè il fatto che, senza (1b), (1a)
sarebbe impensabile. In questa prospettiva, il verbo «presupporre» non
designa un’azione per almeno due ragioni: perché si riferisce a una relazione in
rebus ed è solo di riflesso che chi asserisce (1a) dovrà fare affidamento su (1b);
perché una persona che asserisce qualcosa sta appunto compiendo l’azione di
asserire e non quella di presupporre un contenuto: esattamente come quando
cammina sta compiendo l’azione di camminare e non quella di appoggiarsi su –
o fare affidamento sul fatto che ci sia – la terra sotto i suoi piedi.
L’accezione strutturale cattura l’intuizione originaria alla base dell’idea
di presupposizione, che trova la forma più esplicita nell’equiparazione tra
presupposti e condizioni di felicità istituita da J. L. Austin:
[…] cosa si deve dire dell’asserzione che «i figli di Giovanni sono tutti calvi» se viene
fatta quando Giovanni non ha figli? Ora è consueto dire che non è falsa perché è priva
di riferimento; il riferimento è necessario sia per la verità che per la falsità. […] La
gente dice «il problema non si pone». Qui io dirò: «l’enunciato è nullo». (Austin 1962,
1996: 41).
Un’altra formulazione chiara è offerta da Ch. Fillmore (sottolineature mie):
Sentences in natural use of language are used for asking questions, giving commands,
making assertions, expressing feelings, etc. […] We may identify the presuppositions
of a sentence as those conditions which must be satisfied before the sentence can be
17
used in any of the functions just mentioned. […] If we limit our considerations to
sentences which can be used for making assertions, we can separate the basic meaning
of a predicate from its presuppositions, by describing the former as being relevant to
determining whether as an assertion it is true or false, the latter as being relevant to
determining whether the sentence is capable of being an assertion in the first place. If
the presuppositional conditions are not satisfied, the sentence is simply not apt; only if
these conditions are satisfied can a sentence be appropriately used for asking a
question, issuing a command, making an apology, pronouncing a moral or aesthetic
judgment, or […] making an assertion. (Fillmore 1969: 120-121)
Nell’accezione strutturale, «presupposizione» è il titolo che assume
un’idea quando svolge la funzione di condizione di coerenza di una pratica. Tra
la pratica fondata e il suo presupposto sussiste un rapporto direttamente
proporzionale: più ampia è l’una più basilare è l’altro, più ristretta è l’una più
contingente è l’altro. Questa concezione ‘funzionale’ di presupposizione e il
conseguente rapporto tra presupposto e pratica fondata si riveleranno
centrali1. L’accesso del dibattito classico al fenomeno della presupposizione,
infatti, è avvenuto attraverso pratiche molto limitate (che non superano
l’ampiezza di un atto linguistico): di conseguenza, ci si è predestinati a
osservare solo presupposizioni effimere e ci si è preclusi la possibilità di vedere
i casi più fondamentali di presupposizioni.
1.2. L’accezione retorica di presupposizione
1.2.1. Accezione retorica vs. accezione comunicativa
Torniamo agli enunciati (1). Usare l’accezione retorica di
«presupposizione» vuol dire affermare che un mittente asserisce (1a) per
indurre un ricevente ad accettare (1b). In questo caso, la domanda perché (1b)
è un presupposto di (1a)? riceverebbe una risposta inerente ai doppi fini che il
locutore si propone.
L’accezione retorica di «presupposizione» deve essere tenuta distinta
da un’altra – impropria – che potremmo etichettare «comunicativa». Se il
locutore non avesse voluto indurre il ricevente a fare affidamento su (1b) – ma
avesse voluto comunicare proprio (1b) – quest’ultimo sarebbe stato
«presupposto» non nell’accezione retorica del termine bensì in quella che
chiamiamo qui «comunicativa». Questo sarebbe accaduto nello scambio
seguente:
(2)
a. Paola è sposata?
b. Suo marito sta arrivando proprio ora.
Nei termini di O. Ducrot, (2b) individuerebbe un caso di allusione e si
collocherebbe quindi fuori dal regno della presupposizione strettamente intesa.
Un inciso. In letteratura, si trovano, come sinonimi di presupporre x, le espressioni
dare per scontato x e fare affidamento su x. La seconda è senz’altro preferibile in quanto, a
1
differenza della prima, include proprio l’idea che la presupposizione sia funzionale alla pratica
che fonda.
18
1.2.2. La pseudo accezione comunicativa di presupposizione
L’accezione comunicativa (o «allusiva») merita una breve riflessione. A
questo scopo, si osservino gli esempi seguenti:
(3)
a. L’appartamento è costoso.
b. Alcune persone hanno la faccia tosta.
c. Il marito di Paola sta arrivando.
d. Ginevra indossa il mattino.
La lista (3) presenta una serie di enunciati che possono essere impiegati, in una
situazione comunicativa concreta, per indicare rispettivamente i messaggi (4):
(4)
a. Ti suggerisco di non comprarlo.
b. Lui ha la faccia tosta.
c. Paola è sposata.
d. Albeggia su Ginevra.
Gli esempi (a) dei gruppi (3) e (4) si differenziano dagli esempi (b-d) per
una caratteristica importante: quando il consiglio (4a) è stato abdotto a partire
dal significato (3a), che ne presenta un motivo, tutto finisce lì; al contrario, una
volta che da (3b-d) il ricevente ha afferrato (4b-d) si genera un surplus di
struttura. Nel primo caso – da (3a) a (4a) – il viaggio dell’interpretazione è di
sola andata: dall’enunciato al messaggio; nel secondo caso – da (3b-d) a (4b-d)
– il viaggio dell’interpretazione è di andata e ritorno: dall’enunciato al
messaggio e dal messaggio all’enunciato. Questa volta accade che il messaggio
abdotto e il significato impiegato come indice si ritrovino l’un contro l’altro
armati producendo una sorta di ‘sfrigolio’: che in (3b) e (3c) chiameremmo
«sarcasmo» e in (3d), forse, «effetto estetico». Le cause di questo sfrigolio sono
molto diverse: in (3b) abbiamo la violazione di massime discorsive griceane2; in
(3c) abbiamo qualcosa di molto simile a una cattiva configurazione informativa
della risposta rispetto alla domanda; in (3d) abbiamo la violazione di criteri di
coerenza assai generali. Tuttavia, quello che conta è che se è possibile usare –
magari con effetto brillante – enunciati che contengono attivatori di
presupposizioni per comunicare precisamente i contenuti presupposti (come
avviene in (c)), è altrettanto vero che facendo questo la presupposizione esce
dall’ombra del non detto e si trasforma in qualcos’altro: un’implicatura
conversazionale nata per sfruttamento (flouting) di una massima.
Quando parliamo di presupposizione, dunque, occorre escludere il suo
impiego comunicativo: che è come dire che la presupposizione è incompatibile
con l’implicatura conversazionale. Più precisamente, il concetto di
presupposizione rifiuta la terza caratteristica di un’implicatura conversazionale
(cioè di un atto comunicativo in generale), che potremmo etichettare «principio
di reciprocità intenzionale» (sottolineatura mia):
Di un uomo il quale dicendo (o facendo mostra di dire) p abbia implicato che q, nel
caso in cui (1) si abbia motivo di presumere che egli stia conformandosi al principio di
Il rapporto che intercorre tra (3b) e (4b) è del tipo «regola generale –
esemplificazione»: di conseguenza, come nota O. Ducrot, la ragione per cui il mittente può
aver usato (3b) è far assumere al messaggio non di un’opinione, ma di una constatazione tratto
veristicamente dalle cose stesse. Il locutore avrebbe potuto anche dire Chi passa davanti alle
persone è un prepotente: enunciando la premessa maggiore di un sillogismo di cui l’azione
concreta della persona sarebbe stata la premessa minore.
2
19
cooperazione; (2) per rendere coerente con questa presunzione il fatto che egli dice o
fa mostra di dire p (o che fa l’una o l’altra cosa in quei termini) è richiesta la
supposizione che egli si renda conto che, o che pensi che, q; e (3) il parlante pensa (e si
aspetta che l’ascoltatore pensi che lui pensa) che faccia parte della competenza
dell’ascoltatore inferire, o afferrare intuitivamente, che è richiesta la supposizione
indicata in (2). (Grice 1975, 1978:209)3.
1.3. La strategia retorica di indurre a presupporre
Abbandoniamo dunque la pseudo accezione comunicativa e torniamo a
quella retorica. A differenza di quanto accadeva nell’accezione strutturale,
questa volta il verbo «presupporre» indica un’azione: l’atto del mittente di
indurre surrettiziamente il ricevente a fare affidamento su qualcosa. Certo, a
ben vedere, l’azione in gioco è non già «presupporre» bensì appunto «indurre
qualcuno a presupporre qualcosa». Comunque sia, quest’ultimo è precisamente
il senso sul quale O. Ducrot focalizza l’attenzione:
Egli sostiene che:
Presupporre un certo contenuto è imporre l’accettazione di quel contenuto come la
condizione del dialogo ulteriore (Ducrot 1972: 91).
e che questa imposizione è un atto illocutivo4.
2. La concezione illocutiva di presupposizione
2.0. Introduzione
Sub. 2, metterò alla prova la concezione di O. Ducrot che equipara la
presupposizione a un atto illocutivo. Per farlo, confronterò l’atto di indurre a
presupporre (l’accezione retorica di presupposizione, cfr. § 1.3.) con due tipi di
atti illocutivi: ordinare e salutare. Nel primo caso la presupposizione apparirà
come un atto perlocutivo; nel secondo come un atteggiamento naturale che
consiste nel fare affidamento sul principio di cooperazione. In entrambi i casi,
la presupposizione divergerà da un atto illocutivo.
Quanto all’economia generale del discorso, il primo confronto
suggerirà un indizio sul ruolo linguistico della presupposizione; il secondo
consentirà di introdurre la concezione di R. Stalnaker.
Nella letteratura specializzata, molto spesso, quando si parla di «implicatura
conversazionale» si prescinde dal principio di reciprocità. «Implicatura conversazionale» è
quindi qualsiasi inferenza che può essere tratta a partire da un enunciato e che può essere fatta
cadere contestualmente: l’implicatura conversazionale viene così a sovrapporsi alla nozione di
«inferenza sollecitata». Ma il punto è che l’implicatura conversazionale è definita dal principio
di reciprocità – dall’intenzionalità del parlante – e la presupposizione esclude precisamente
questo. Per quanto riguarda i problemi che il principio di reciprocità collettiva può suscitare –
e la loro soluzione – rimando alla nozione di intenzionalità collettiva in (Searle 1995, 1996: 3336).
4
Le accezioni strutturale e retorica di presupposizione sono distinte nella teoria ma
intrecciate nella pratica. Di solito, infatti, la seconda si sovrappone alla prima cosicché
l’informazione che il mittente si propone di indurre surrettiziamente nel ricevente tende ad
essere una condizione di possibilità del processo apertamente comunicato.
3
20
2.1. Un duplice parallelismo
L’idea alla base dell’analogia tra presupposizione (nell’accezione
retorica) e atto illocutivo è che quest’ultimo sia un’azione sociale: cioè un
intervento che modifica i rapporti tra le persone coinvolte. Se una persona sta
fumando alla fermata di un autobus, non sta certamente facendo nulla di male;
ma se un amico, passando, la saluta e lei resta in silenzio quello stesso silenzio
diventa un gesto di maleducazione. Questo vuol dire che l’amico, con la
semplice azione di salutare, ha istituito contingentemente un rapporto
particolare tra lui e la persona alla fermata dell’autobus: l’ha investita del
dovere di rispondere e le ha aperto la possibilità di essere maleducata non
rispondendo.
Un’azione sociale può modificare i rapporti tra le persone in vari modi:
attraverso il movimento di un braccio (come un saluto), attraverso il battito di
un martello (come in un processo), attraverso l’uso del linguaggio (come in una
domanda). Un atto illocutivo è un’azione sociale che modifica i rapporti tra le
persone usando il linguaggio: chi fa una domanda pone chi la riceve
nell’obbligo di rispondere e quindi gli apre la possibilità di rifiutare di
rispondere; chi dà un ordine, pone chi lo riceve nell’obbligo di obbedire e
quindi gli apre possibilità di disobbedire; chi fa una promessa, pone su se stesso
l’obbligo di adempiere la promessa e quindi si apre la possibilità di mancare
alla parola data; chi compie un’asserzione si assume la responsabilità di aver
detto il vero. E così via.
Questo punto è centrale per O. Ducrot che infatti definisce la nozione
di azione sociale come un «acte juridique», di cui l’illocuzione individuerebbe
un sottotipo:
L’énoncé d’une sentence par un magistrat peut […] être considéré comme un acte
juridique, puisqu’aucun effet vient s’intercaler entre la parole du magistrat et la
transformation de l’accusé en condamné […] De même coup pour le marteau du
commissaire-priseur, dans une vente aux enchères […] L’acte illocutoire apparait
alors comme un cas particulier d’acte juridique, comme un acte juridique accompli par
la parole. […] En donnant un ordre à quelqu’un, je le mets dans une situation
juridique nouvelle […] Avant mon ordre, il se trouvait, vis-à-vis de l’acte en
question, dans l’alternative de faire ou ne pas faire, alternative que ma parole a
transformée en une alternative nouvelle «obéissance - désobéissance» (Ducrot 1972 :
77).
La domanda che si pone, dunque, è la seguente: se la presupposizione è
un atto illocutivo, quali doveri o responsabilità impone e a chi? La risposta di
O. Ducrot suona così:
Presupporre un contenuto X significa presentarlo come tale da dover essere
conservato durante il discorso ulteriore, come tale da non doverne essere il tema, il
punto d’avvio. X, allora, vien messo sullo sfondo dell’atto linguistico: serve a
costituire l’universo di discorso entro il quale, ma non intorno al quale, si parlerà.
Mettendo da parte, nel contenuto di un enunciato, certi elementi che sono oggetto di
un atto di presupposizione, si determina in tal modo il seguito che dovrà darsi al
discorso (Ducrot 1980: 1097).
La citazione precedente può essere riformulata e sintetizzata per mezzo di due
parallelismi.
21
a)
b)
Come «ordinare» vuol dire imporre sul ricevente l’obbligo di compiere
una certa azione e aprirgli la possibilità di disobbedire, così «indurre
una presupposizione» vuol dire imporre sul ricevente l’obbligo di fare
affidamento sul presupposto come base del discorso ulteriore e aprirgli
la possibilità di rompere il dialogo mettendo in discussione il
presupposto.
Come «salutare» vuol dire esprimere il proprio riconoscimento nei
confronti di una persona e contemporaneamente obbligarla a rispondere
al saluto, così «asserire Giorgio ha smesso di fumare» vuol dire
affermare che ora non fuma e contemporaneamente obbligare
l’interlocutore a fare affidamento sul fatto che fumava.
Il parallelismo a) confronta «presupporre» con «ordinare», il parallelismo b)
confronta «presupporre» con «salutare». La ragione della distinzione tra a) e
b) è l’asimmetria tra atti linguistici come ordinare o promettere e atti come
salutare, donare, ringraziare o domandare: mentre i primi sono semplici o a un
solo ‘strato’, i secondi sono complessi o a due ‘strati’. Se prometto mi assumo
un certo dovere, se ordino lo impongo su un’altra persona; e tutto finisce qui.
Ma se saluto o faccio un dono o mi congratulo accadono due cose: da un lato,
manifesto il mio riconoscimento o la mia ammirazione nei confronti di una
persona; dall’altro lato, gli impongo il dovere di rispondere o di ringraziarmi.
Nel seguito, dunque, discuteremo separatamente a) e b).
2.2. Presupporre e ordinare
2.2.1. La presupposizione come atto perlocutivo
Tra i membri del parallelismo a) – indurre una presupposizione e
ordinare – sussiste una differenza evidente. Nel caso di ordinare – nel caso di
un atto illocutivo – il ricevente risulta obbligato per il solo fatto che il mittente
ha proferito un certo enunciato indipendentemente dal suo contenuto. Un atto
illocutivo, cioè, funziona come una bacchetta magica: ordinando, il mittente
tocca il ricevente e lo obbliga a fare qualcosa; promettendo, il mittente tocca se
stesso e si obbliga a fare qualcosa. Fuor di metafora, il tocco della bacchetta è il
proferimento dell’enunciato. Nel caso di indurre una presupposizione, le cose
stanno diversamente. La riuscita di questo atto dipende non dalla mera
enunciazione di un’asserzione, una domanda o un ordine, ma dal contenuto di
questa asserzione, domanda o ordine. E’ solo dopo aver accettato l’asserzione o
la domanda o l’ordine del mittente che il ricevente si troverà obbligato a fare
affidamento sulle condizioni di coerenza del messaggio che gli è stato
comunicato. Per usare ancora una metafora, il mittente fa ingurgitare al
ricevente una pillola e ne aspetta gli effetti: una volta ingoiata la medicina –
una volta accettata la domanda, ad esempio – l’interlocutore non potrà più
tirarsi indietro e rifiutare le condizioni di coerenza di quella stessa domanda.
Qui si applica quanto scrive L. Wittgenstein alla proposizione 143 di Della
certezza (la sottolineatura è mia):
Per esempio, mi raccontano che molti anni fa un tizio ha scalato una montagna. Cerco
sempre di determinare l’affidabilità del narratore, e se questa montagna esistesse già
da molti anni? Un bambino impara che ci sono narratori degni di fede e narratori che
degni di fede non sono, molto dopo aver imparato fatti che gli vengono raccontati.
Non impara affatto che quella montagna esisteva già molto tempo fa; cioè, la domanda
22
se così sia non gli viene affatto in mente. Per così dire, il bambino inghiotte questa
conseguenza insieme con quello che impara (Wittgenstein 1969, 1999: 26).
L’atto di «indurre qualcuno a presupporre» è qualcosa che bisogna
riuscire a fare e per il quale si mettono in pratica mezzi e strategie: è un atto
perlocutivo. Se un mittente decide di usare un enunciato Il marito di Paola sta
arrivando per fare in modo che il ricevente eviti di mettere in discussione l’idea
che Paola sia sposata fa qualcosa di analogo a quando sceglie una formulazione
piuttosto che un’altra per convincere, rassicurare o confortare il suo
interlocutore. Questo punto può essere evidenziato attraverso un breve détour
relativo alla distinzione tra atti locutivi, illocutivi e perlocutivi.
Si considerino due azioni come salutare e promettere. Se muovo una
mano con l’intenzione di salutare un amico, non ho soltanto gesticolato: ho
salutato; e se dico Vengo a trovarti con l’intenzione di venire a trovarti, non ho
soltanto pronunciato delle parole: ho promesso. Si considerino adesso due altre
azioni: come uccidere e convincere. Se colpisco qualcuno con un pugno ed egli
muore, non ho soltanto tirato un pugno: ho ucciso; e se dico a qualcuno che la
terra è quadrata ed egli ci crede, non gli ho solamente detto qualcosa: l’ho
convinto. I gruppi precedenti sono accomunati da una caratteristica: in
entrambi, un’azione di primo livello (il movimento di una mano o l’atto di
tirare un pugno) viene rivestita di un nuovo statuto (un saluto e un omicidio).
Ma i gruppi precedenti si distinguono su un punto centrale.
E’ ragionevole considerare le azioni di tirare un pugno o di sostenere
una tesi come mezzi possibili per uccidere o convincere: infatti, nel secondo
gruppo la condizione alla quale l’azione di primo livello è ridefinita è il
verificarsi di una sua conseguenza materiale. Quando l’azione di primo livello è
un atto illocutivo (ad esempio asserire che la terra è quadrata) e la condizione
alla quale è ridescritta è una sua conseguenza materiale (ad esempio che
qualcuno crede che la terra sia quadrata), l’azione di secondo livello prende il
nome di «atto perlocutivo» (ad esempio convincere). E’ assurdo considerare le
azioni di pronunciare alcune parole o muovere una mano come mezzi possibili
per promettere o salutare: essi sono promettere e salutare. Se questo è vero,
nel primo gruppo considerato, la condizione alla quale l’azione di primo livello
è ridefinita non è una sua conseguenza, ma semplicemente l’intenzione di un
soggetto che abita l’azione di primo livello come l’anima il corpo. Quando
l’azione di primo livello è un atto locutivo (ad esempio, dire «Verrò a trovarti»)
e la condizione alla quale è ridescritta è un’intenzione (ad esempio, prendere
l’impegno di venire a trovarti), l’azione di secondo livello prende il nome di
atto illocutivo (ad esempio, promettere). Con i termini di O. Ducrot il rapporto
tra azione di primo e secondo livello nel caso del perlocutivo è «strategico» o
«tattico», mentre il rapporto tra azione di primo e secondo livello nel caso
dell’illocutivo:
n’est concevable […] que si son énonciation suffit, par elle-même, à accomplir
[l’acte]: [l’acte] ne doit donc pas être une conséquence indirecte – perlocutoire – de
l’énonciation. […] A coup sur, lorsque on dit Je promets on peut viser une multitude
de résultats perlocutoires (réassurer, inquiéter…). […] Mais ces actes perlocutoires
se réalisent seulement comme conséquences d’actes accomplis primitivement par la
parole – comme conséquences du fait que l’on a promis ou que l’on a contré (Ducrot
1972: 76)
Ciò che O. Ducrot chiama «atto di presupposizione» è dunque qualcosa
che può essere sensato e utile insegnare: per questa ragione qui può essere
23
sviluppata una vera e propria arte come quella di convincere o di ottenere
informazioni. Ciò che O. Ducrot equipara a un atto di presupposizione –
ovvero gli atti illocutivi – è invece qualcosa che non ha senso insegnare: non
esiste l’arte di riuscire a fare un’asserzione o a fare una domanda. E’
ragionevole immaginare una scuola che insegni le strategie migliori per
convincere le persone, per rassicurarle o per indurle ad accettare determinate
idee senza che neppure se ne accorgano; oppure, ancora, per domandare o
ordinare in modo educato e rispettoso. Queste arti sono la «retorica» o il
«galateo»: esse ci offrono una serie di opzioni e l’abilità con cui decidiamo di
usarle è un’abilità sintetica, che si apprende e si perfeziona a posteriori con
pratica ed esperienza. E’ assurdo immaginare una scuola che insegni come fare
una domanda, un’affermazione o una promessa. Certo, potremmo pensare a una
scuola di lingua, dove si odono cose come: «in francese le domande si fanno
anteponendo Est-ce que…». Tuttavia, una scuola del genere non fornisce
un’arte o un’abilità ma solo un insieme di regole da seguire: che non ha senso
perfezionare e che si apprendono a priori o per definizione, senza pratica né
esperienza.
Indurre l’interlocutore a dare per scontato determinate informazioni –
cioè «presupporre» nell’accezione retorica – è un’arte che s’insegna nella prima
scuola.
2.2.2. Assenza di una forma performativa esplicita
Nel momento in cui si sposta la presupposizione dal versante
dell’illocutivo a quello del perlocutivo, entrano in gioco due corollari: l’assenza
di una forma performativa esplicita per il presunto atto illocutivo di
presupposizione e il carattere opzionale degli enunciati che impongono
presupposizioni grazie alla propria struttura.
L’assenza di una formula performativa esplicita non sfugge a O.
Ducrot:
[…] l’absence d’un énoncé performatif Je présuppose que… nous rendrait nécessaire
de faire apparaitre le performatif comme un simple cas particulier – particulièrement
spectaculaire d’ailleurs – de l’illocutoire (Ducrot 1972:76).
Più esplicitamente, egli vorrebbe suggerire l’esistenza di atti illocutivi (tra cui
si collocherebbe indurre a presupporre) il cui compimento necessita che la loro
intenzione non venga riconosciuta da parte dell’interlocutore e che si
accompagnano sempre, come parassiti, a un altro atto esibito: alcuni esempi
sarebbero «donare», «salutare» o «domandare». L’idea di O. Ducrot può essere
sintetizzata da due premesse e una conclusione: chiaramente, quando una
persona dona, saluta o domanda, obbliga il destinatario a un sentimento di
gratitudine, a restituire il dono o il saluto e a rispondere; altrettanto
chiaramente, tali imposizioni di obbligo ricoprono una posizione di secondo
piano o ‘sotterranea’ nella struttura dell’atto; per questa ragione, per loro, non
può esistere una forma performativa esplicita.
Sebbene l’analogia tra presupporre (indurre a presupporre) e atti quali
«donare» o «salutare» dovrà essere discussa all’interno del parallelismo b), è
possibile fin da ora criticare l’argomento appena esposto. Quest’ultimo, infatti,
implica la possibilità di una forza illocutiva (secondaria) definita dall’assenza
dal carattere di «apertura» e «trasparenza» costitutivo della nozione stessa di
forza illocutiva. Ma postulare una forza illocutiva di tal sorta è contro
24
intuitivo. La difficoltà, invece, scompare collocando la presupposizione sul
versante degli atti perlocutivi: non esiste la forma performativa esplicita io
faccio presupporre (o io presuppongo5 o con ciò io faccio presupporre o con ciò
io presuppongo) per la stessa ragione per cui non esiste quella io convinco o io
rassicuro…: cioè perché tutte queste sono azioni per compiere le quali non è
sufficiente parlare, ma che bisogna materialmente riuscire a compiere
servendosi di tecniche o stratagemmi.
2.2.3. Una palette di strategie per presupporre
Il secondo corollario summenzionato consente di valorizzare uno degli
aspetti più originali della prospettiva di O. Ducrot. Se la presupposizione è un
effetto perlocutivo, è ragionevole che la lingua metta a disposizione del
parlante una variegata palette di soluzioni per indurre presupposti,
esattamente come offre una serie di strategie per manipolare la gerarchia
informativa. Come scrive O. Ducrot:
[…] la lingua permette di scegliere tra la frase che impone il presupposto, e altre frasi
che non lo contengono (per esempio Pietro non fuma, o da che lo conosco Pietro non
ha mai fumato) oppure lo negano (cfr. Pietro non ha mai fumato). Quando si sceglie di
enunciare [Pietro ha smesso di fumare], [Pietro fumava] non è quindi imposto da un
vincolo costrittivo che abbia origine nella lingua. Dal punto di vista linguistico, il
presupposto è scelto, è oggetto di una volontà di comunicazione (Ducrot 1980: 1086).
In questa prospettiva, i cosiddetti «attivatori di presupposizioni» sarebbero
precisamente le tecniche che la lingua offre per rendere un enunciato lo
strumento adatto a compiere un certo atto di presupposizione.
Paradossalmente, dunque, il carattere strumentale delle presupposizioni (cioè
uno degli aspetti più importanti della proposta di O. Ducrot) viene confermato
e valorizzato non in una prospettiva che considera la presupposizione un atto
illocutivo (cioè nella prospettiva dello stesso O. Ducrot), ma in una che lo
considera un atto perlocutivo: un fine sintetico da raggiungere6.
Per illustrare l’analogia tra presupposizione e struttura informativa, si
immagini un bastone. Un bastone può essere usato come indice per attirare
l’attenzione su un oggetto presente in una situazione comunicativa concreta;
nello stesso modo, un enunciato può essere usato – in una situazione
comunicativa concreta – come indice per compiere un certo atto linguistico o
trasmettere un certo messaggio. Un bastone non ha necessariamente una
forma lineare: ad esempio, può essere ramificato in due corni di diversa
lunghezza; se utilizzo un bastone del genere per indicare un oggetto, il corno
più lungo tenderà spontaneamente a funzionare come punta dell’indice.
Analogamente, un enunciato non ha una struttura lineare, ma gerarchizzata:
capace di presentare alcune informazioni in primo piano, lasciandone altre
sullo sfondo. Se utilizzo un enunciato del genere per indicare un messaggio,
alcune sue parti presenteranno una vocazione naturale a funzionare come
Per quanto riguarda io presuppongo, si noti che qui l’interpretazione privilegiata è
quella che poggia sul ricevente e non sul mittente: in io mi vanto l’interpretazione sollecitata è
quella di un tentativo verso un interlocutore, ma in io presuppongo l’interpretazione
sollecitata è statica (come dire io sono appoggiato qui) e non dinamica (io cerco di indurre il
mio interlocutore a presupporre).
6
Per la nozione di fine sintetico e la sua connessione con il perlocutivo rimando a
(Gross&Prandi 2004, 2005:325-327)
5
25
punte dell’indice e altre no.
Senza dubbio, il modo più evidente di manipolare un enunciato è agire
sulla sua gerarchia informativa:
(7)
a. Perchè Giorgio è entrato dal fioraio?
b. E’ entrato dal fioraio perché voleva fare un regalo a Maria.
c. Poiché voleva fare un regalo a Maria, è entrato da un fioraio.
Gli enunciati (7b) e (7c) sono due alternative che la lingua mette a disposizione
per adattarsi a differenti ambienti comunicativi: ad esempio, (7b) e non (7c) è
una risposta informativamente adatta alla domanda (7a). Tuttavia, un
enunciato è dotato di una gerarchia non solo per quanto riguarda la struttura
informativa, ma anche per quanto riguarda la stratificazione delle informazioni
di cui è composto il suo significato. Ed è qui che, secondo O. Ducrot, entrano
in gioco le presupposizioni: come sarebbe infelice rispondere a (7a) con (7c),
così sarebbe infelice indicare che Giorgio una volta fumava dicendo Giorgio ha
smesso di fumare. Nel primo caso ci sarebbe un problema inerente alla
gerarchia informativa; nel secondo, un problema inerente alla gerarchia
semantica; in entrambi, è un po’ come se indicassimo un oggetto con il corno
più corto di un ramo. Come l’enunciato (7b) è uno strumento con una forma
particolarmente adatta a rispondere a (7a), così l’enunciato Giorgio ha smesso
di fumare è uno strumento con una forma particolarmente adatta a indicare che
Giorgio ora non fuma e – proprio nella misura in cui viene indicato questo
messaggio – si rivela uno strumento particolarmente adatto ad imporre di
accettare l’idea che Giorgio fumava. Nella prospettiva di O. Ducrot,
«presupporre» vuol dire compiere questo secondo atto usando il primo come
schermo: senza quest’ultimo, quindi, non si può avere presupposizione. Nella
prospettiva di O. Ducrot, come la lingua offre strategie per manipolare la
struttura informativa o per marcare un atto di domanda piuttosto che un
ordine, così essa offre una serie di opzioni per marcare le presupposizioni nella
struttura dell’enunciato.
2.3. Presupporre e salutare
2.3.1. La presupposizione e la mossa di un gioco
Il parallelismo b) confrontava la presupposizione con atti quali
«donare», «salutare» o «domandare». Si riconsideri ad esempio la coppia
seguente:
(9)
a. Il marito di Paola ti sta guardando.
b. Paola ha un marito.
Seguendo il parallelismo b), nell’affermare (9a), un locutore compirebbe due
azioni: i) affermerebbe che il marito di Paola sta arrivando nello stesso senso in
cui salutando manifesterebbe il suo riconoscimento verso qualcuno; ii)
obbligherebbe l’interlocutore a fare affidamento su (9b) nello stesso senso in
cui salutando obbligherebbe l’interlocutore a rispondere. Il punto è che mentre
gli atti descritti da i) sono effettivamente azioni che un mittente compie
all’interno di un gioco dialogico, quelli descritti da ii) non lo sono. Un buon
modo per illustrare quello che intendo è impiegare l’analogia degli scacchi.
26
Se un giocatore muove il cavallo giungendo su una casella occupata
dalla torre dell’avversario, si può dire che accadano due cose: un pezzo viene
dichiarato «eliminato» e il rivale viene investito del dovere di muovere. Ciò
che lo spostamento del cavallo ha fatto è stato eliminare una torre; se poi ha
anche passato il turno all’avversario, l’ha fatto perché il gioco degli scacchi
prevede un’alternanza di mosse. L’eliminazione della torre è l’analogon della
forza illocutiva di un saluto; l’imposizione del dovere di muovere è l’analogon
della circostanza che dopo il mio saluto l’interlocutore sia obbligato a
rispondere. Se quindi un saluto obbliga il ricevente a rispondere lo fa perché è
la mossa di un gioco che, nella fattispecie, prevede due turni. Ciò che faccio nel
muovere il braccio è manifestare il mio riconoscimento nei confronti di una
persona, ciò che faccio nel muovere il cavallo è eliminare un pezzo
dell’avversario: che ho compiuto un saluto o che ho mangiato una torre sono
azioni o fatti del gioco degli scacchi o del salutare. Ma è assurdo affermare che
ciò che faccio nel muovere il braccio sia obbligare qualcuno a rispondere e che
ciò che faccio muovendo un cavallo sia obbligare il mio avversario a muovere:
che il mio interlocutore debba rispondere e il mio avversario muovere non
sono azioni o fatti o mosse del gioco degli scacchi o del salutare. Del resto,
posso scegliere se compiere o non compiere una certa mossa (ad esempio
salutare o mangiare la torre), ma non posso scegliere di non obbligare il mio
interlocutore a rispondere o il mio avversario a muovere dopo che ho salutato
o mosso o di non presupporre che (9b) dicendo (9a).
La conclusione è questa: se affermare obbligando il ricevente a
presupporre un certo contenuto è analogo a salutare obbligando il ricevente a
rispondere, questi ‘obblighi’ non sono atti o mosse dello scambio dialogico ma
conseguenze che derivano automaticamente dalla partecipazione ad una certa
azione sociale e dall’atteggiamento naturale di fondo che consiste nel fare
affidamento su tutto ciò che rende possibile questa interazione.
2.3.2. La presupposizione come atteggiamento naturale
Se due persone hanno la macchina in panne e si allontanano per cercare
pezzi di ricambio o litigano su quali pezzi siano necessari, si può dire che siano
impegnati insieme a riparare l’auto; ma se uno dei due mette in discussione se
valga la pena di aggiustarla o se sia possibile farlo, non sta più riparando l’auto
insieme all’altro: ha cominciato un’azione diversa. Nel caso di un locutore che
chieda: Giorgio ha smesso di fumare? – cioè nel caso di un’azione linguistica –
ci troviamo in una situazione analoga. Rispondere si, no, non lo so… vuol dire
partecipare al micro dialogo inaugurato dalla domanda esattamente come
dubitare su quale pezzo della macchina sia da cambiare vuol dire partecipare
all’azione sociale di riparare l’auto. Rispondere Giorgio non ha mai fumato in
vita sua, invece, vuol dire rifiutare di prendere parte a quella particolare azione
sociale che è il micro dialogo inaugurato dalla domanda esattamente come
dubitare che l’auto debba o possa essere riparata vuol dire rifiutare di
continuare a prendere parte all’azione sociale di ripararla.
Se ribatto che Giorgio non ha mai fumato a chi mi chiede quando abbia
smesso o se replico che l’auto non deve essere riparata a chi mi domanda se
cambiare lo spinterogeno sia un buon modo per ripararla, si spezza
l’incantesimo che fondava la nostra reciproca partecipazione alle pratiche di
intrattenere un certo dialogo e aggiustare una certa auto: viene meno, cioè,
l’intero quadro di una particolare interazione sociale. Di conseguenza, quando
27
questo quadro sussiste, il divieto di mettere in discussione le idee che lo
rendono possibile non può essere considerato un atto che compio al suo
interno perché, appunto, è la condizione di possibilità alla quale posso
compiere tutti gli atti consentiti al suo interno.
Per il ricevente, rispettare il presupposto – cioè non mettere in
discussione che Giorgio fumasse – vuol dire dare per scontato che la domanda
sia sensata e quindi essere cooperativo impegnandosi con il mittente nel micro
dialogo inaugurato. Viceversa, non rispettare il presupposto – cioè mettere in
discussione che Giorgio fumasse – vuol dire considerare la domanda insensata
e quindi mostrarsi non cooperativo rifiutandosi di prendere parte all’azione
sociale incominciata dal mittente. E’ perché faccio affidamento sul fatto che chi
asserisce Giorgio ha smesso fumare o il marito di Paola sta arrivando sia
cooperativo – cioè compia azioni sensate – che presuppongo che i suoi
enunciati siano felici e quindi che si diano le condizioni di possibilità degli stati
di cose che descrivono7. Il rispetto del presupposto da parte del ricevente,
dunque, non è la risposta a un’azione del mittente ma è l’atteggiamento di
fondo che consiste nell’assumere il «principio di cooperazione» (con i termini
di H. Grice) o una «intenzionalità collettiva» (con i termini di J. R. Searle) che
garantisce la partecipazione ad una certa pratica sociale.
Come scrive M. Sbisà (sottolineatura mia):
Poiché rifiutare un enunciato come inappropriato o addirittura, in caso di grave
inappropriatezza, non valutabile in termini di verità o falsità equivale a delegittimare
il parlante che l’ha prodotto, emarginandolo dalla situazione comunicativa, gli
interlocutori che vogliano mantenere attiva tale relazione tendono by default, ossia in
assenza di indicazioni in contrario, a prendere l’enunciato come appropriato, e ciò
facendo si trovano a dover accettare le sue presupposizioni. […] Da ciò il carattere di
«dato per scontato» della presupposizione […], ma anche la possibilità di suoi usi
persuasivi [retorici] oltre che informativi [comunicativi] […] (Sbisà 2007: 54-55).
Il passo riportato cattura quello che intendo, con una precisazione. Come la
presupposizione non è una mossa dialogica, così non può essere un oggetto di
volontà all’interno di un dialogo: il mantenimento del principio di
cooperazione (o dell’intenzionalità collettiva) non è qualcosa che vogliamo o ci
proponiamo, ma che va da se: parlando o svolgendo un’attività comune non ci
proponiamo di impegnarci insieme e collaborare (né a riparare un’auto, né a
parlare la stessa lingua), semplicemente lo facciamo e su ciò facciamo
affidamento per volere tante altre cose. La nostra volontà spazia su queste
ultime e – proprio per questo – non sul presupposto di collaborare insieme8.
2.3.3. Riformando O. Ducrot
Lo scopo principale di questa sezione era emendare le posizioni di O.
Questa è la medesima ragione per cui se vi dico Il mio amico Giorgio ha vinto un
posto da ricercatore o La mia Ferrari è tutta graffiata tenderete a fare affidamento sul fatto che
7
esista una tale persona o una tale macchina.
Naturalmente, è chiaro che si può decidere di collaborare ad un progetto comune (ad
esempio, progettare insieme una nuova linea di abbigliamento); tuttavia, dal momento in cui
quella decisione è presa, essa non è più oggetto di volontà. Ci saranno cioè tutta una serie di
desideri, speranze, progetti e decisioni (relativi a come gestire e realizzare la nostra linea di
abbigliamento) che non potranno mettere in discussione il fatto di collaborare a un progetto
comune. Il fatto che quelle speranze desideri progetti decisioni abbiano luogo si basa sul fatto
che l’idea di collaborare allo stesso progetto non sia discussa, non venga a galla.
8
28
Ducrot e R. Stalnaker in modo da preparare il terreno su cui inserire la nostra
idea di presupposizione. Ne abbiamo compiuta la prima parte: quella inerente a
O. Ducrot.
Ciò che rifiutiamo dell’idea di O. Ducrot è che la presupposizione sia un
atto illocutivo secondario o sotterraneo che ne accompagna uno primario o
superficiale. Ciò che riteniamo dell’idea di O. Ducrot, è che presupporre un
certo contenuto voglia dire imporre surrettiziamente l’obbligo di accettarlo
come base del dialogo ulteriore non rendendolo tema del discorso e,
correlativamente, aprire la possibilità di rompere il dialogo incominciato
discutendo quel presupposto. Il modo in cui vorremmo emendare la posizione
di O. Ducrot, dunque, consiste nel sostituire l’idea che quella imposizione di
obbligo derivi da un atto illocutivo con l’idea che derivi da un atteggiamento
naturale: un atteggiamento naturale che consiste nel fare affidamento sul
principio di cooperazione per garantire l’integrità della pratica sociale a cui si
prende parte.
Affermare che la presupposizione sia un atteggiamento conduce a
scontrarsi con l’idea di «presupposizione pragmatica» coniata da R. Stalnaker:
Secondo la concezione pragmatica, la presupposizione è un atteggiamento
proposizionale, non una relazione semantica. In questo senso, si dice che gli uomini
anziché gli enunciati o le proposizioni abbiano o facciano delle presupposizioni. […]
Presupporre una proposizione, in senso pragmatico, significa dare per scontata la sua
verità e assumere che le altre persone nello stesso contesto facciano lo stesso
(Stalnaker 1970, 2001: 520).
[…] la presupposizione è un atteggiamento proposizionale. Più specificatamente, è un
atteggiamento consistente nell’accettare qualcosa come vero (Stalnaker 1973, 1978:
243).
A questo punto, la domanda è: l’atteggiamento naturale che consiste
nell’assumere il rispetto del principio di cooperazione è un atteggiamento
proposizionale?
3.
La concezione pragmatica di presupposizione
3.0. Introduzione
Il § 3.0. è dedicato alla posizione di R. Stalnaker ed è strutturato nel
modo seguente. Sub. § 3.1., risponderò alla domanda con cui si concludeva il §
2.3.3. sostenendo che se la presupposizione può essere considerata (entro certi
limiti) un qualche tipo di atteggiamento, certamente non deve essere
considerata un atteggiamento proposizionale nel senso rigoroso di B. Russell
(Russell 1921, 1940). Sub. § 3.2., discuterò il senso di pragmatico
nell’espressione presupposizione pragmatica, e questo servirà a due scopi: da
un lato circoscrivere la concezione di R. Stalnaker; dall’altro lato, introdurre
rispetto ad essa quella del presente lavoro. Il § 3.3. sarà quindi dedicato a
chiarire ulteriormente come quest’ultima si colloca rispetto a quella di R.
Stalnaker.
3.1. La presupposizione come atteggiamento proposizionale
29
Si immagini un dialogo tra due persone impegnate a discutere se un
loro conoscente – che ha sempre fumato – abbia finalmente smesso. Nel corso
di questo dialogo, certamente, potrebbero alternarsi enunciati come (10):
(9)
(11)
a. E’ probabile che Paolo abbia smesso di fumare.
b. Speriamo che Paolo abbia smesso di fumare.
c. Temo che Paolo non abbia smesso di fumare.
a. Paolo ha smesso di fumare.
b. Paolo fumava.
Di fronte (10), sostenere che la presupposizione sia un atteggiamento (à
la Russell) che accompagna l’enunciazione di una proposizione equivale ad
ammettere: i) un primo atteggiamento assunto dal locutore, diverso per
ciascun enunciato (dalla stima di probabilità, all’invidia), che ha come
contenuto intenzionale (11a); ii) un secondo atteggiamento assunto dal
locutore, comune a tutti gli enunciati, che avrebbe come contenuto
intenzionale (11b) e che consisterebbe nell’accettarne la verità.
Riconoscere i) è corretto, ma affiancare ad esso ii) non lo è. La ragione è
che mentre tutti gli atteggiamenti che hanno come contenuto (11a) possono
variare e alternarsi nel corso del dialogo ipotizzato, quello che avrebbe come
contenuto (11b) deve rimanere necessariamente costante: sarebbe un
atteggiamento proposizionale sui generis, una sorta di super- o metaatteggiamento proposizionale. E questo proprio perché accettare la verità di
(11b) è la condizione alla quale non solo è possibile affermare o negare (11a),
ma anche affermarlo o negarlo con atteggiamento di maggiore o minore
sicurezza, con paura o speranza, con ammirazione o invidia ecc. Se dunque
chiamiamo «atteggiamenti proposizionali» fenomeni come quelli del punto i),
non possiamo chiamare nello stesso modo un fenomeno come quello del punto
ii): fare questo, infatti, vorrebbe dire oscurarne la differenza gettandoli tutti
nello stesso calderone. Questa conclusione è corroborata da diverse
considerazioni intuitive.
Anzitutto, spontaneamente, di fronte a un dialogo come quello
ipotizzato saremmo disposti a chiamare «atteggiamenti» le espressioni di
paura, speranza o ammirazione con cui i parlanti accompagnano un enunciato
come (11a), ma difficilmente chiameremmo «atteggiamento» il fatto che
accettino (11b): quest’ultimo, al contrario, passerebbe del tutto inosservato.
Semmai, considerato il carattere intenzionale di un atteggiamento, l’unico caso
in cui sarebbe appropriato affermare che i parlanti «si atteggino» come se
(11b) fosse vero, sarebbe quello in cui fingessero di dialogare ammettendo tale
presupposto: in una sorta di messa in scena. In secondo luogo, con i termini di
M. Halliday, gli atteggiamenti presentati al punto i) – segnati o meno nella
struttura dell’enunciato – svolgono una funzione interpersonale avvolgendo il
messaggio come un’aura; invece, il presunto atteggiamento di ii) non svolge
alcuna funzione interpersonale a fortiori: perché nell’esempio ipotizzato (11b) è
già condiviso dai parlanti. In terzo luogo, mentre gli atteggiamenti di i) si
manifestano come fenomeni psicologici o morali, ciò non si verifica per ii);
questo è stato colto dallo stesso R. Stalnaker, il quale rileva che chi presuppone
non deve necessariamente:
[…] avere un qualche atteggiamento mentale particolare nei confronti della
proposizione o che debba fare delle assunzioni riguardo agli atteggiamenti mentali di
altre persone che fanno parte del contesto (Stalnaker 1970, 2001:520)
30
sancendo di fatto il carattere sui generis dell’atteggiamento in questione9.
La conclusione, dunque, è che se una presupposizione non può essere
considerata una mossa della pratica che fonda, non può neppure essere
considerata un atteggiamento che accompagna le mosse di quella pratica. Se la
presupposizione consiste nell’accettare il principio di cooperazione, questo – a
rigore – non può essere considerato un atteggiamento proposizionale. Come
scrive R. G. Collingwood:
[…] it a nonsense to say, as some modern logicians do say, that presupposing iso ne
of various ‘attitudes’ which we can take up towards a proposition, where a proposition
means something which can be either true or false (Collingwood 1940, 1998: 33).
3.2. Presupposizione pragmatica: decostruzione dell’espressione
3.2.1. Due accezioni di pragmatico
In linguistica, l’aggettivo «pragmatico» può essere declinato secondo
due accezioni: se opposto a «codificato» significa «extra-linguistico»10; se
opposto a «sistematico» significa «contingente». Queste accezioni tendono ad
essere sovrapposte a causa del pregiudizio che fa coincidere l’ambito di ciò che
è sistematico con l’ambito di ciò che è codificato: in realtà, se tutto ciò che è
codificato è a fortiori sistematico, non tutto ciò che è sistematico è codificato.
Questo punto può essere illustrato attraverso un breve excursus in un tipico
ambito di applicazione dell’aggettivo «pragmatico»: le inferenze.
Si confrontino gli esempi seguenti:
(12)
(13)
a. E’ mezzogiorno.
b. Hai perso il treno.
a. La speranza di Giorgio.
b. La speranza che Giorgio ha.
Con i termini di M. Prandi (2004: 36), l’inferenza che consente di passare da
(12a) a (13b) è «esterna» nel senso che collega un significato complesso già
formato a un messaggio indicato. Poiché è esterna, è a fortiori «extralinguistica» e «contingente». E’ extra-linguistica – cioè «non codificata» –
perché il collegamento tra (12a) e (12b) non è inscritto nel contenuto del primo
ma avviene in base alla valutazione della situazione di enunciazione hic et
nunc. Ed è contingente perché questo collegamento è vincolato a tale
situazione al di là della quale sarebbe diverso (davanti ad una classe
universitaria vuota, (12b) avrebbe potuto essere la lezione è già finita). Invece,
l’inferenza che consente di leggere (13a) come (13b) è «interna» nel senso che
si affianca alla codifica linguistica per completare un significato sottodeterminato. Questa inferenza è extralinguistica e sistematica11. E’
extralinguistica – cioè «non codificata» – perché l’idea che una persona possa
Si confronti la precedente citazione di R. Stalnaker con questa, di R. G. Collingwood:
«[…] one can make presuppositions without knowing what presuppositions one is making.
When I ask: ‘What is that thing for?’ I need not to be aware that I am presupposing that it is
‘for’ something (Collingwood 1940, 1998: 26)»
10 «Codificato», ovviamente, significa che è parte del contenuto linguistico convenzionale di un
lessema.
11
Non tutte le inferenze interne sono ipso facto sistematiche: i casi di disambiguazione,
ad esempio, sono contingenti. Ma questi non sono pertinenti per il nostro discorso.
9
31
provare un sentimento non è certamente inclusa nel significato linguistico di
(13a). Ed è sistematica perché è attiva indipendentemente dalla situazione
enunciativa hic et nunc: anzi, ha un grado di stabilità ben maggiore della
lingua stessa in cui è attivata. Gli antichi Egizi, ad esempio, non parlavano
italiano ma riconoscevano alle persone la possibilità di provare sentimenti
come la speranza. La situazione che permette di interpretare (12a) come (12b)
dura qualche minuto; l’idea motrice che trascina da (13a) a (13b) è la medesima
da millenni: è parte del «solido nucleo centrale del pensiero umano che non ha
storia», per dirla con P. Strawson.
Se a questo punto consideriamo l’impiego dell’aggettivo «pragmatico»,
ci rendiamo conto che c’è un senso in cui le inferenze precedenti sono tutte
pragmatiche: quello – banale – in cui ciò che permette di passare dagli
enunciati (a) a (b) non è codificato nel significato di (a), cioè è extralinguistico.
Ma c’è anche un senso in cui non tutte le inferenze precedenti sono
pragmatiche: quello – più interessante – in cui mentre ciò che consente di
passare da (12a) a (12b) è contingente e quindi pragmatico, ciò che impone di
passare da (13a) a (13b) è sistematico, cioè il contrario che pragmatico.
La domanda cruciale, dunque, è: quale dei due sensi di «pragmatico» R.
Stalnaker impiega nell’espressione «presupposizione pragmatica»?
3.2.2. What is really pragmatic about pragmatic presuppositions?
(Prandi 2004: 50)
Ritengo utile delineare una mappa della nozione di presupposizione
pragmatica. Sia dunque p un contenuto che un mittente, enunciando E,
presuppone in un dialogo:
i)
Se p è condiviso dal ricevente, si aprono due opzioni:
i.i) il mittente può usare un enunciato la cui struttura non contiene
alcun presupposto; ad esempio: può rispondere no alla domanda
Paolo fuma ancora?;
i.ii) il mittente può usare un enunciato che «richiede» (con il lessico
di R. Stalnaker), «segna» (con il lessico di O. Ducrot) p; ad
esempio, può rispondere Ha smesso da un anno alla domanda
Paolo fuma ancora?
ii) Se p non è condiviso dal ricevente, non c’è scelta: il mittente deve usare un
enunciato che richiede il presupposto; in caso contrario, infatti, p non
potrebbe diventare in alcun modo condiviso. Il punto ii) può essere
ulteriormente distinto:
ii.i) il mittente ha intenzione di comunicare p; ad esempio, può
asserire Paolo ha smesso di fumare da una settimana per
comunicare che è sempre stato un grande fumatore; qui usciamo
dal regno della presupposizione: ci troviamo nel caso
dell’accezione che avevamo etichettato «comunicativa»;
ii.ii) il mittente non ha intenzione di comunicare p; ad esempio, in
maniera naif, potrebbe asserire Paolo smesso di fumare da una
settimana per comunicare che ora Paolo non fuma a qualcuno
che ignora che Paolo abbia mai fumato. Questo punto, a rigore,
potrebbe essere ancora sottodistinto in base alla sincerità del
mittente:
ii.ii.i) il fine del mittente è comunicare che ora Giorgio non
32
fuma;
ii.ii.ii) il vero fine del mittente è indurre il ricevente ad
accettare che Giorgio fosse un fumatore incallito; qui
troviamo l’accezione di presupposizione che avevamo
etichettato «retorica».
La prima cosa che la mappa precedente visualizza è una gerarchia tra i
punti i) e ii): cioè che ii) è logicamente dipendente da i). Il punto ii), infatti, non
fa altro che mettere il ricevente nella situazione in cui si troverebbe in i): cioè
nella situazione in cui, essendo p condiviso, l’impiego di un enunciato che
richiede il presupposto (come in i.ii)) è alternativo rispetto a uno che non lo
richiede (come in i.i)). Questa alternativa è il cuore dell’idea di
«presupposizione pragmatica». Paradossalmente, dunque, la funzione di un
attivatore di presupposizioni – in i.ii) come in ii.ii) – consiste nel suggerire la
sua non necessità: il suo carattere potenzialmente alternativo rispetto a un
enunciato che non include il presupposto nella propria struttura semantica.
Quando R. Stalnaker afferma che una presupposizione è «pragmatica»,
allora, afferma che è un fenomeno anzitutto non codificato e che se talvolta
risulta essere tale (ad esempio in i.ii)) è perché non era necessario che lo fosse
(come in i.i)):
In generale, una qualunque presupposizione semantica di una proposizione espressa in
un determinato contesto sarà una presupposizione pragmatica delle persone in quel
contesto ma il reciproco chiaramente non vale (Stalnaker 1970, 2001:520).
Il merito di R. Stalnaker consiste precisamente nell’aver attribuito alla
presupposizione l’aggettivo «pragmatico» nell’impiego opposto a «codificato»
e sinonimo di «extralinguistico».
La seconda cosa che la nostra mappa visualizza è la marginalità degli
sfruttamenti della presupposizione catturati dalle etichette «comunicativa» e
«retorica»: ad esempio, lo sfruttamento della presupposizione per indurre
qualcuno a ingurgitare una certa idea (l’impiego retorico) è relegato al sottosotto-punto ii.ii.ii). Questa osservazione implica che sarebbe sbagliato pensare
che la funzione del ventaglio di attivatori sia specificamente quella di iniettare
presupposizioni nel ricevente. Nella lingua c’è una tavolozza di colori per
adempiere alla funzione ideativa o testuale o interpersonale, ma non c’è un
deposito di armi per approfittarsi delle persone. Se gli attivatori possono essere
sfruttati per indurre qualcuno a dare per scontati certi contenuti (accezione
«retorica») è perché questa non è la loro funzione originale, ma perché così
facendo si sfrutta coscientemente quella che è la loro prima funzione: cioè
fornire le condizioni di coerenza alla pensabilità di un processo.
Per ora, comunque, preferisco sottolineare come R. Stalnaker evidenzi
il potere di finzione della presupposizione (sottolineatura mia):
Una proposizione è presupposta se il parlante è disposto ad agire come se assuma o
creda che la proposizione è vera e come se assuma o creda che anche il ricevente
assuma o creda che sia vera (Stalnaker 1978: 321)
E F. Garcia Murga (1998: 45), a questo proposito, parla di «comportamiento
ficticio». Se vogliamo educare un bambino o giocare ad essere super-eroi, il
modo migliore non è enunciare delle idee, ma incominciare ad agire
coerentemente con quelle idee: cioè compiere azioni che le contengono come
condizioni di coerenza. Insomma: non difendere direttamente la propria causa
33
ma edificare una casa che la incorpora nelle propria fondamenta.
3.2.3. L’insostenibile contingenza degli esempi classici
L’intuizione centrale di R. Stalnaker è stata quella di attribuire alla
presupposizione la proprietà di essere – in primis – pragmatica nel senso di
extralinguistica. Ciononostante, egli ha implicitamente attribuito alla
presupposizione anche il secondo impiego di «pragmatico»: quello opposto a
«sistematico» e sinonimo di «contingente». Per rendersene conto è sufficiente
scorrere gli esempi di presupposizione addotti.
L’enorme quantità di letteratura linguistica e filosofica sul fenomeno
della presupposizione è inversamente proporzionale alla varietà di esempi
considerati. Tra questi si annoverano: che qualcuno sia stato un fumatore, che
sia candidato alla presidenza, che abbia dei figli, che i suoi figli siano calvi, che
lui stesso sia calvo, che sia sposato, che picchi sua moglie, ecc. Ora, l’inferenza
che collegava (12a) a (12b) era definita «pragmatica» – nel senso di
contingente – perché si basava su una situazione comunicativa che aveva la
durata di qualche minuto; analogamente, gli esempi classici di presupposizione
possono essere definiti «pragmatici» – nel senso di «contingenti» – perché
valgono come tali solo per poche battute dialogiche, raramente per un’intera
conversazione. Un fatto contingente non può che dare vita ad una
presupposizione altrettanto contingente.
Non soltanto R. Stalnaker ma pressoché tutti gli autori si sono occupati
solo di presupposizioni che hanno la vita di una farfalla. Si consideri ancora O.
Ducrot. Certo, egli sottolinea come la superficie del mare del discorso sia
formata esclusivamente dai contenuti posti:
[…] tout le mouvement de la pensée, dans un discours, est censé se produire au
niveau du posé. Qu’il s’agisse de la mise en rapport des idées, ou de leur présentation
successive les seules démarches reconnues son celles opérées sur les contenus posés.
(Ducrot 1972:91)
Tuttavia, i contenuti cosiddetti «presupposti» si collocano appena sotto la
superficie: sono le correnti che orientano l’andamento del dialogo. Sia gli uni
che gli altri fanno parte, seppur a diversa profondità, del mare del discorso.
Il dubbio che vorrei insinuare è questo: esistono presupposizioni che –
pur essendo pragmatiche nel senso di extralinguistiche – sono tuttavia
sistematiche? Esistono presupposizioni che valgono per tutta la durata della
vita di una persona e non solo per uno scambio di battute?
3.3. Un punto di avvio
3.3.1. La nozione di common ground
Le presupposizioni contingenti – tutti gli esempi summenzionati – sono
costituite da fatti contingenti e i fatti contingenti possono essere oggetto di
credenze o conoscenze: cioè di dubbio e argomentazione. Focalizzare
l’attenzione su presupposizioni contingenti, dunque, porta a considerare le
presupposizioni contenuti possibili di credenze. Questo ha indotto R. Stalnaker
a coniare la nozione di «insieme presupposizionale» o common ground:
34
[…] è ragionevole richiedere, almeno come ideale razionale, che l’insieme delle
presupposizioni in ogni momento dato sia coerente e deduttivamente chiuso. Se
l’insieme di tutte le presupposizioni in vigore in un momento dato soddisfa queste
condizioni, allora possiamo caratterizzarlo come un insieme di possibili stati di cose o
serie di eventi – se si vuole, di mondi possibili. […] questo insieme di mondi possibili,
che io chiamerò insieme presupposizionale, contiene precisamente le possibilità
alternative che il parlante considera pertinenti agli scopi di chi partecipa alla
conversazione, ovvero le possibilità alternative nell’ambito delle quali ci si aspetta che
i partecipanti alla conversazione abbiano motivo di operare distinzioni con le
proposizioni che potrebbero esprimere. (Stalnaker 1973, 1978:244)
Una volta fissato l’insieme presupposizionale a un dato momento della
conversazione, il passo più naturale è cercare di definire la presupposizione nei
termini di un processo di «aggiornamento» o update di quell’insieme, magari
in opposizione rispetto all’asserzione e all’implicatura convenzionale.
Un esempio particolarmente ingegnoso di update è offerto da J. Jayez,
di cui riporto un passo fortemente sintetizzato (sottolineature mie):
If an agent a asserts that p, she intends that the other agents update their belief states
[l’insieme presupposizionale] with p; If an agent a conventionally implicates that p,
she intends that the other agents update their belief states with the proposition that a
believes p; […] If an agent a presupposes that p, she intends that the other agents
update their belief states with the proposition that […] a already believed p (Jayez
2004:97).
Alla luce della citazione precedente, si consideri:
(14)
(15)
a. Passo a prendere mia sorella.
b. La penna che ho nel cassetto è una Mont-Blanc.
a. Il locutore ha una sorella.
b. Il locutore ha nel cassetto una penna.
Nella prospettiva delineata dalla citazione, un locutore che asserisse (14)
intenderebbe: i) che l’interlocutore aggiorni il suo insieme di credenze (o
insieme presupposizionale) con le proposizioni: i.i) che passerà a prendere la
propria sorella e i.ii) che la sua penna è una Mont-Blanc; ii) che l’interlocutore
aggiorni il suo insieme di credenze (o insieme presupposizionale) con le
proposizioni: ii.i) che prima di asserire (14a) egli credeva già di avere una
sorella e ii.ii) che prima di asserire (14b) egli credeva già di avere una penna. I
problemi riguardano il punto ii).
Cominciamo da ii.i): l’esempio (14a) – abbastanza diffuso in letteratura –
è perlomeno infelice. Pongo una domanda a chi non è figlio unico: quante volte
vi è capitato di pensare qualcosa come: credo che questa persona sia mia sorella
o mio fratello? Un fratello o un figlio fanno affidamento sul fatto che una certa
persona sia propria sorella o propria madre a priori e non come contenuto di
credenza o conoscenza: infatti, nessuno si sognerebbe di dimostrare o
argomentare queste cose. Qui risuona l’ammonimento della proposizione 478
di Della certezza:
Il bambino crede che esista il latte? O sa che il latte esiste? E il gatto sa che esiste un
topo? (Wittgenstein 1969, 1999: 77)
Analogamente: un fratello crede o sa di avere una sorella? E un figlio crede o
sa di avere una madre? Certo, uno potrebbe dubitarne e andare a consultare il
35
registro di qualche anagrafe; tuttavia, facendo questo, sospenderebbe proprio
l’atteggiamento naturale di un fratello o di un figlio, che consiste appunto nel
non esercitare quel dubbio. Il fatto che una certa persona sia nostra sorella o
nostra madre non è vissuto da noi come un contenuto di credenza (un a
posteriori), ma come un a priori.
Passiamo al punto ii.ii). Qui, certamente, troviamo un fatto – possedere
o meno una penna – tanto contingente da poter essere oggetto di dubbio o
argomentazione e quindi di credenza. Tuttavia, proprio questo può trarre in
inganno: infatti, se è corretto affermare che un contenuto come (15b) possa
essere un oggetto di credenza, non lo è affermare che mantenga tale statuto
quando è presentato come presupposizione e cioè ad esempio in (14b). Al
contrario, presentare un contenuto come presupposizione – come accade a
(15b) in (14b) – significa presentarlo non come una credenza o una
informazione, ma come il supporto indiscusso che fonda un’altra credenza o
un’altra informazione. «Presupporre un’idea» vuol dire «dare per scontato
questa idea»: questo non significa che tale idea non possa essere anche il
contenuto dello stato mentale che chiamiamo «credere», ma significa che non
lo è nel momento in cui è data per scontata. Affermare che (15b) in (14b) abbia
lo statuto di una qualche credenza o informazione – magari secondaria,
sotterranea o antecedente rispetto a quella individuata al punto i.ii) – vuol dire
precisamente non comprendere il suo ruolo di presupposizione. Ed è tanto più
facile commettere questo errore quanto più il contenuto (15b) è in se stesso un
fatto contingente che – al di fuori di (14b) dove è presentato come
presupposizione – può essere creduto o dubitato.
Ritornando alla nozione di insieme presupposizionale, si può dire che il
vulnus è ab ovo. Ridurre la presupposizione all’aggiornamento (per aggiunta o
cancellazione) di un common ground, è possibile solo se i contenuti delle
presupposizioni sono considerati anche possibili contenuti di credenze: cioè
elementi integrabili (per aggiunta o cancellazione) in un bagaglio di
conoscenze condivise. In altre parole, il problema dell’aggiornamento del
common ground si pone solo se vengono considerate presupposizioni
contingenti. Ma il punto è: esistono solo le presupposizioni contingenti? E
sono i casi più prototipici di presupposizione?
La mia idea è che esistono anche presupposizioni sistematiche e che
esse individuano il cuore del fenomeno. Le presupposizioni che qui interessano,
insomma, sono proprio quelle che non possono venire integrate in un bagaglio
di credenze condivise perché sono già presenti prima di qualsiasi common
ground: anzi, sono le condizioni alle quali sussiste quel bagaglio. A me
interessano non le presupposizioni che hanno la vita di una farfalla, ma quelle
che hanno la vita di una tartaruga: non le onde e le correnti del mare del
discorso – non l’update – ma il suo fondale immobile.
Questa idea può anche essere espressa ponendo il problema di come
analizzare la nozione di «contesto»: ovvero, come districare quel gomitolo di
conoscenze (a durata più o meno lunga) a cui finora ci siamo riferiti con
l’espressione common ground. In effetti, in linguistica, il contesto è ciò che la
Natura era nell’idealismo di G. W. Hegel: la pattumiera del sistema. Come
rileva M. Prandi:
Since it was first formulated by Malinowski […] and elaborated by Firth […], the
notion of “context of situation” went on growing by simple accumulation, until it
became too composite and elusive to be consistently used. A strategic step on this
path was the inclusion of kind of long-lasting, non contingent extra-grammatical
structures and data independent of any speech situation. […] At the end of the path
36
one easily imagines that “ ‘context’ can be the whole world in relation to an utterance
act” […], that is, everything and nothing. (Prandi 2004:38)
A questo punto, M. Prandi scinde i due principali insiemi di elementi che
hanno prodotto il grumo della nozione di contesto a seconda della loro
funzione (consentire di interpretare espressioni come indici di messaggi vs.
consentire di mettere a punto il significato di quelle espressioni):
The more traditional layer of the notion of context, that is, the contingent
configuration of relevant data responsible for the interpretation of an expression as a
signal of a message, is better described and understood with the help of a specific
notion – namely, the notion of interpretational field.
[…]
The more recent layer acquired by the notion [of context], that is, the composite
universe of long-lasting extra-grammatical data and structures which take part in the
ideation of complex meanings, has to be analyzed into the different factors it contains.
In particular, contextual information in the traditional, narrow sense – that is,
contingent information bound to the utterance situation – has to be kept apart from
long lasting conceptual structures share independently of the utterance situation. In
particular, it has to be kept apart from consistency criteria and shared cognitive
models. (Prandi 2004: 39)
La seconda parte della citazione precedente (sottolineatura mia) traccia due
confini all’interno della nozione di contesto: informazione contingente vs.
modelli cognitivi condivisi e criteri di coerenza generali; tra i modelli cognitivi
condivisi (o conoscenze enciclopediche) e i criteri di coerenza più profondi e
stabili che fondano quegli stessi modelli cognitivi. Il mio interesse verte su
quest’ultimo confine.
3.3.2. Riformando R. Stalnaker
Ecco allora il terreno sul quale si instaura la proposta di questo lavoro.
Tutti i tentativi di definire la presupposizione come aggiornamento di un
common ground condiviso sviluppano l’idea di R. Stalnaker nella direzione
aperta dal concetto di insieme presupposizionale. Rispetto a questi sviluppi,
ritorniamo indietro fino al punto di partenza: l’intuizione che la
presupposizione sia un fenomeno essenzialmente pragmatico nel senso di
extralinguistico. A partire da qui, mentre R. Stalnaker ha considerato solo
presupposizioni pragmatiche anche nel senso di contingenti, noi
considereremo presupposizioni che pur essendo pragmatiche nel senso di
extralinguistiche sono tuttavia sistematiche. Tale estensione del territorio
della presupposizione provoca un ribaltamento di prospettiva: nel momento in
cui è varcata la soglia tra presupposizioni contingenti e sistematiche, ci si
rende conto che le presupposizioni prototipiche sono queste ultime mentre le
prime individuano casi particolari del fenomeno. Questo ribaltamento ha due
conseguenze principali.
In primo luogo, le presupposizioni sistematiche manifestano più di
tutte le altre il loro carattere extralinguistico: in questa prospettiva quindi
l’intuizione di R. Stalnaker non è solo conservata ma valorizzata. In secondo
luogo, collocando le presupposizioni contingenti in una posizione non
prototipica, vengono evidenziate e ricevono una giustificazione proprio le
caratteristiche su cui si è focalizzata l’attenzione degli studiosi. Anzitutto, il
carattere retorico e strumentale degli attivatori che O. Ducrot ha posto al
37
centro del suo lavoro: è solo se qualcosa può anche non essere una
presupposizione – cioè se è una presupposizione contingente – che è
ragionevole pensare di renderla tale con un attivatore e di imporla al ricevente.
Ma anche il carattere di «atteggiamento» sottolineato da R. Stalnaker: è solo
se qualcosa può non essere una presupposizione – cioè se è una
presupposizione contingente – che è ragionevole atteggiarsi ad assumerla.
Tuttavia, non appena si considerano presupposizioni più generali, parlare di
«atteggiamento» diventa fuori luogo: se può essere sensato mostrare di avere
l’atteggiamento di chi assume che Paolo sia stato un fumatore o che Maria sia
sposata, che senso ha dire che due persone che parlano Francese abbiano
l’atteggiamento di chi accetta le regole del Francese? O che una persona che
cammina abbia l’atteggiamento di chi accetta che sia vero che vi sia la terra
sotto i suoi piedi? E in cosa consisterebbero mai tali atteggiamenti?
A questo punto, possiamo ritornare sul paradosso intrinseco al
dibattito filosofico e linguistico accennato nell’introduzione: che tutte le
caratteristiche delle presupposizioni che (giustamente) hanno colpito gli
studiosi sono quelle che derivano dal loro non essere presupposizioni, ma fatti
contingenti in grado, in certe condizioni, di funzionare come presupposizioni.
Criticando O. Ducrot e R. Stalnaker abbiamo constatato che se una
presupposizione è la condizione di coerenza di una pratica, non può essere né
una mossa consentita da quella pratica, né un atteggiamento che accompagna
quelle mosse. Per fare questo, tuttavia, abbiamo dovuto focalizzare l’attenzione
su micropratiche – ad esempio un paio di battute dialogiche – che non
saremmo abituati a considerare tali. Più consideriamo presupposizioni
contingenti, più sembra sensato e ragionevole considerarle «atti» o
«atteggiamenti» e più rimane nascosto il loro comportamento qua
presupposizioni: cioè come condizioni di coerenza di una pratica microscopica.
Viceversa, più consideriamo presupposizioni sistematiche o generali, più
diventa evidente il loro funzionamento qua presupposizioni – cioè come
condizioni di coerenza – e più scompaiono quelle altre caratteristiche.
Considerazioni analoghe si applicano per il principio di cooperazione.
Discutendo la posizione di O. Ducrot, avevamo notato come la presupposizione
consistesse nell’atteggiamento naturale di assumere il rispetto del principio di
cooperazione. Possiamo ora comprendere come anche questa affermazione –
per quanto corretta nelle linee generali – possa apparire limitata al cospetto
delle presupposizioni più generali. Certamente, si coopera nel celebrare un
processo, nel combattere un incontro di pugilato o nel riparare una macchina e,
certamente, si può dire che gli attori facciano affidamento sulla verità di molte
proposizioni che garantiscono la partecipazione ad una stessa azione sociale.
Sebbene questa cooperazione non sia un atteggiamento proposizionale, può
essere sensato considerarla comunque una qualche forma atteggiamento.
Tuttavia, se passiamo alle presupposizioni più generali che costituiscono la
nostra forma di vita, ci rendiamo conto che non ha più senso neppure parlare di
cooperazione: si coopera a riparare un’auto ma non ad essere uomini.
In sintesi, l’immagine che si delinea è quella delle onde concentriche
che si sviluppano quando si getta un sasso in un lago. In effetti, se prendiamo
un’azione sociale qualsiasi (ad esempio riparare un’auto) ci rendiamo conto che
vi sono vari cerchi: quello che si basa sul fatto che ci sia un’auto da riparare;
quello che si basa sul fatto che le due persone parlino la stessa lingua; quello
che si basa sul fatto che le due persone appartengano ad una stessa cultura e a
una stessa epoca; quello che si basa sul ‘fatto’ che i due attori siano entrambi
persone. Via via che si allarga il cerchio, si esce dall’ambito della cooperazione
38
o dell’intenzionalità collettiva e si entra in quello della partecipazione alla
stessa forma di vita: nel caso dell’auto, ad esempio, la cooperazione è limitata al
primo cerchio; l’intenzionalità collettiva invece arriva anche al secondo,
certamente esclude l’ultimo ed è discutibile se possa essere estesa al terzo. Di
conseguenza, data una certa pratica, a seconda del cerchio che andiamo a
colpire, essa crollerà ad un livello più o meno generale.
Questo punto è illustrato da M. Prandi, del quale riporto una citazione
come un tappeto rosso verso il prossimo capitolo:
Generally speaking, a presupposition can be defined in terms of consistency, that is, as
a condition imposed on the consistency of a given practice. If a presupposition
belonging to any layer of the hierarchy is not satisfied the practice which presupposes
it is inconsistent. My promise to lend a bike, for instance, is equally inconsistent if a
discourse presupposition is not satisfied – if I do not own a bike – and if a general
presupposition is not satisfied – if I address my promise to a stone. The difference is
that my act is inconsistent for contingent reasons and as a speech act in the former
case and for more general reasons and simply as an act in the latter. The difference
between discourse presuppositions and general presuppositions does not lie in the
structure of presupposing, which is exactly the same, but in the nature of the
presupposed content. What is presupposed in the former case is a contingent,
empirical datum; what is presupposed in the latter is a systematic ontological
categorisation of beings (Prandi 2004: 227-228).
39
CAPITOLO 2
L’idea centrale:
presupposizioni contingenti vs. presupposizioni di base
40
Indice del capitolo
0. Introduzione
1. Analogie tra presupposizioni di base e discorsive
1.0. Introduzione
1.1. Il funzionamento della negazione
1.2. Il funzionamento dell’interrogazione
1.3. Il funzionamento della frase ipotetica
1.3.0. Introduzione
1.3.1. Inferenze sollecitate sul versante della protasi
1.3.2. Inferenze sollecitate sul versante della apodosi
1.3.3. Il collasso delle inferenze sollecitate in una frase ipotetica
1.4. Il funzionamento di potere
2. Presupposizioni e restrizioni di selezione
2.0. Introduzione
2.1. Verso un modello del fenomeno della presupposizione
2.1.1. La missione della linguistica generativa
2.1.2. La lingua come puzzle
2.1.3. L’idea di lingua della linguistica cognitiva
2.2. Il modello dello specchio
2.3. I pregiudizi dei linguisti
2.3.0. Introduzione
2.3.1. Le presupposizioni di base non sono rilevanti
2.3.2. Le presupposizioni di base non hanno ‘realtà’ linguistica
2.3.3. Il paradosso dello specchio e le sue interpretazioni
3. Differenze tra presupposizioni di base e discorsive
3.0. Introduzione
3.1. Differenze informativo – semantiche
3.1.1. Tematizzazione
3.1.2. Giustificazione
3.1.3. Primo corollario sui sentimenti appropriati
3.2. Differenze pragmatiche
3.2.1. Atti linguistici e modificazioni di atti linguistici
3.2.2. Usi comunicativi e retorici della presupposizione
3.2.3. Contenuti di credenze
3.2.4. Secondo corollario sui sentimenti appropriati
3.3. Una gerarchia di presupposizioni
3.3.0. Introduzione
3.3.1. Dalle presupposizioni discorsive a quelle di base
3.3.2. Presupposizioni mediate vs. presupposizioni immediate
3.3.3. Le forme dell’incoerenza
42
44
44
45
47
48
48
49
50
51
52
55
55
56
56
57
58
59
60
60
61
61
63
64
64
65
65
65
66
67
67
69
70
71
72
72
73
74
75
41
0. Introduzione
Il primo capitolo ha lasciato una domanda e una scommessa. La
domanda è: ci sono presupposizioni che pur essendo pragmatiche nel senso di
extralinguistiche, sono tuttavia sistematiche? La scommessa è che ci sono. Per
vincerla mi propongo tre obiettivi: a) definire un primo tipo di presupposizioni,
che etichetteremo «di base», «del suolo», «di fondo» o «generali»: queste sono
le presupposizioni sistematiche; b) definire un secondo tipo di presupposizioni,
che etichetteremo «discorsive» o «linguistiche»: queste sono le presupposizioni
contingenti; c) confrontare i due tipi di presupposizioni definiti. Il criterio per
distinguere a) da b) consisterà nell’osservare quale tipo di infelicità affligga una
certa pratica sociale al suo cadere: ovvero (riprendendo la metafora con cui si
concludeva il § 3.3. al capitolo 1) a quale livello o ‘cerchio’ venga meno.
Il punto a) cattura quelli che O. Ducrot chiama «presupposti generali»:
[…] che non hanno rapporto con la struttura interna delle frasi. […] Questi
presupposti, che hanno una funzione fondamentale in una filosofia come quella di
Collingwood, sono generalmente tralasciati dai linguisti. (Ducrot 1980:1094).
In questo caso, non concorderemo con i linguisti di cui parla O. Ducrot: dal
nostro punto di vista, infatti, i presupposti «generali» – le «presupposizioni
assolute» di R. G. Collingwood – individuano il cuore del fenomeno della
presupposizione.
Il punto b) – cioè le presupposizioni che etichetteremo «discorsive» –
raccoglie invece un insieme di fenomeni che O. Ducrot distingue in
«presupposti illocutivi» cioè le condizioni di felicità e «presupposti di lingua».
Sono le presupposizioni che R. G. Collingwood chiama «relative». Questi
ultimi, legati a peculiari elementi linguistici che funzionano come attivatori,
individuano un gruppo estremamente variegato a seconda appunto del tipo di
attivatore in gioco12. Si passa così dai presupposti «di esistenza» (attivati dai
sintagmi nominali in posizione referenziale), ai presupposti «verbali» (attivati,
ad esempio, dai verbi di giudizio (Fillmore 1973) o fattivi
(Kyparsky&Kyparsky 1973)), ai presupposti «di costruzione» (attivati da
strutture sintattiche, come la frase scissa13).
La precedente distinzione tra presupposizioni generali e discorsive
cattura la classificazione di rango più elevato all’interno dell’insieme delle
presupposizioni; a questo proposito, gioverà notare come una distinzione
simile sia stata colta da F. G Murga che separa:
(a) Las «presuposiciones lingüísticas», cuyo origen es inmediatamente lingüístico y (b)
las «presuposiciones generales», dependientes de los saberes adoptados por una
comunidad o un individuo. Respecto al discurso, las presuposiciones lingüísticas son
altamente dinámicas – es decir, lo que un hablante puede presuponer lingüísticamente
cambia en cada momento del discurso –. Las presuposiciones generales, por el
contrario, son saberes de fondo arraigados en una comunidad o un individuo y son,
por lo tanto, contenidos muy estáticos en un discurso. Epistemológicamente, la
diferencia entre unas y otras presuposiciones radica en la accesibilidad de las
presuposiciones para el interpelado: Alta en el caso de las presuposiciones lingüísticas,
C. Levinson (Levinson 1993: 188-193) ne riporta ad esempio tredici tipi, sottolineando
però come L. Kartunnen sia giunto a contarne addirittura trentuno.
13
Anche se, a dire il vero, quando la frase scissa focalizza un SN accentua la funzione referenziale (e
quindi la cosiddetta «presupposizione di esistenza») del SN.
12
42
baja en el de las presuposiciones generales (Murga 1998: 165-166)14.
Cominciamo da a). Un filosofo seduto davanti al caminetto può
disquisire tutta la notte sull’inesistenza del libero arbitrio o sul fatto che le
persone, dopo tutto, siano soltanto uno ‘gnommero’ o un sistema di reazioni
chimiche: ad esempio, potrebbe sostenere che tutte le nostre azioni e i nostri
valori siano in realtà determinati da fattori sociali o biologici e concludere che
in ultima analisi non abbia alcun senso parlare di responsabilità. Tuttavia, se la
mattina dopo un gruppo di studenti gli tirasse una secchiata d’acqua gelida,
quello stesso filosofo si arrabbierebbe alquanto: proprio come se quegli
studenti fossero stati liberi di non bagnarlo. La scenetta precedente, nella sua
semplicità, suggerisce come da un punto di vista biologico o fisico o storico
tutto sommato non ci sia ragione per vivere coerentemente con l’idea che le
persone siano dotate di libero arbitrio; ma il fatto è che, semplicemente,
nessuno sarebbe disposto a fare il contrario: rifiutare di vivere coerentemente
con l’idea che le persone siano libere vorrebbe dire rifiutare in blocco tutto il
nostro modo di vivere. Il libero arbitrio o la distinzione tra persone e cose –
cioè idee il cui rifiuto metterebbe in discussione tutta la nostra vita – sono le
presupposizioni più importanti e generali: quelle che esibiscono meglio le
caratteristiche prototipiche del funzionamento di una presupposizione e che
individuano l’oggetto della metafisica descrittiva di P. F. Strawson. Come
anticipato, le etichetteremo «generali» o «di base» o ancora, con un calco
dall’inglese ground, «del suolo» o «di fondo»: esse individuano la base
dell’iceberg del fenomeno delle presupposizioni. Queste ultime, come noto, non
sono né le uniche, né le più studiate.
Per illustrare il punto b) è sufficiente riportare due degli esempi più
triti della letteratura specializzata sul fenomeno delle presupposizioni:
(1)
a. Paolo ha smesso di fumare?
b. I figli di Paolo sono calvi?
Di fronte a (1), le condizioni alle quali l’interlocutore potrà dare una risposta
giusta, sbagliata o essere in dubbio sono le idee che Paolo abbia fumato e che
abbia dei figli. Se l’interlocutore rifiutasse queste idee, infatti, non
risponderebbe alle rispettive domande ma le rigetterebbe mostrando di
considerarle insensate. Si dice allora che gli enunciati (1) presuppongono che
Paolo abbia fumato e che abbia dei figli; al verbo copulativo smettere e al
sintagma nominale in uso referenziale i figli di Paolo viene attribuita l’etichetta
«attivatori presupposizionali». Sono precisamente questi ultimi i fenomeni sui
quali si è focalizzata l’attenzione degli studiosi. Se qualcuno rifiutasse l’idea che
le persone sono dotate di libero arbitrio rifiuterebbe tutta la nostra forma di
vita: infatti nessuno – neppure uno scettico – sarebbe disposto a vivere
coerentemente con questo rifiuto. Certo, un cinico lo farebbe; ma vivere in una
botte in nome di una teoria è già una confutazione pratica di quella teoria.
Invece, se in (1) l’interlocutore rifiutasse che Paolo sia stato un fumatore o che
abbia avuto dei figli, non rifiuterebbe affatto la forma di vita condivisa con il
locutore, ma soltanto di partecipare al dialogo iniziato da quest’ultimo con la
G. F. Murga include nell’insieme delle «presuposiciones generales» le ovvietà à la
Moore, i criteri di selezione e le condizioni di felicità. Dal nostro punto di vista solo le prime
sono davvero presupposizioni di base mentre i criteri di selezione (come vedremo) ne
costituiscono il riflesso e la manifestazione linguistica. Quanto alle condizioni di felicità, esse
rientrano qui nelle presupposizioni discorsive.
14
43
sua domanda. Per questa ragione, chiameremo «discorsive» quelle
presupposizioni il cui rifiuto comporta, come nel caso di (1), il crollo di una
pratica esclusivamente discorsiva: esse individuano la punta dell’iceberg del
fenomeno delle presupposizioni.
Eccoci allora al punto c). La distinzione appena delineata – tra
presupposizioni di base e presupposizioni discorsive – mira a illuminare la
differenza tra due elementi facendo leva su un perno comune. In termini più
espliciti:
i)
ii)
da un lato, le presupposizioni di base e quelle discorsive condividono la
medesima natura di presupposizioni;
dall’altro lato, divergono per l’ampiezza della pratica che fondano: da
tutta la nostra forma vita a un particolare dialogo o atto linguistico.
La congiunzione di i) e ii) – con le sue implicazioni – è l’idea che il presente
lavoro vorrebbe proporre. Questo capitolo è dedicato a prendere in esame i
punti i) e ii) separatamente e a trarne una sintesi.
1. Analogie tra presupposizioni di base e discorsive
1.0. Introduzione
Un modo diretto per suffragare l’idea che le presupposizioni discorsive
e quelle di base debbano essere considerate «presupposizioni» allo stesso titolo
– punto i) sub. § 0 – è mostrare che le classiche ragioni per cui si ritengono
«presupposizioni» le prime valgono anche per le seconde: mi riferisco, in primo
luogo, ai criteri della negazione e dell’interrogazione. Questi criteri non sono
gli unici. G. Chierchia aggiunge il test della frase ipotetica e raccoglie il tutto
in una batteria (la cosiddetta «P-famiglia»):
Data una frase A, chiamiamo P – f a m i g l i a (cioè «famiglia presupposizionale»)
l’insieme delle controparti di A […] che include A, la sua negazione, la domanda
formata a partire da A [dove però si intende non A?, ma la sua struttura scissa è x
che…?] e il condizionale formato con A. […] Perché una frase A presupponga B la
verità di B deve essere una condizione necessaria all’uso di tutti i membri della Pfamiglia di A. (Chierchia 1997:134).
E P. Leonardi arricchisce la P-famiglia con il test della modalità:
Secondo questo test, se 'Il Presidente ha i capelli grigi' presuppone 'C'è un Presidente',
anche 'Può essere che il Presidente abbia i capelli grigi' presuppone 'C'è un
Presidente'. La presupposizione insomma sopravvivrebbe quando la frase sia
incassata in un contesto modale. Questo dipende da una caratteristica della modalità,
che discute di ciò che è possibile per un particolare individuo o per un individuo che
soddisfi una particolare proprietà, e dunque richiede di considerare solo modelli in cui
c'è quell'individuo o quel genere di individuo. (Leonardi 2001, nota 23).
Ecco un esempio di applicazione della p-famiglia allargata su una serie
di enunciati-cavia:
(2)
a. Il re di Francia è calvo.
b. Il re di Francia non è calvo.
44
(3)
c. Se il re di Francia fosse calvo, …
d. Il re di Francia può essere calvo.
e. Il re di Francia è calvo?
C’è un re di Francia.
Molto sinteticamente, la p-famiglia (allargata) dice questo: che se non si
verifica (3), nessuno degli enunciati (2a-e) può venire impiegato sensatamente
e che, per questa ragione, (2a-e) presuppongono (3). In effetti, tutti sappiamo
che attualmente la Francia è una repubblica e che, quindi, (3) è falso: di
conseguenza (2a), come tutte le sue manipolazioni (2b-e), suonano anomali o
incoerenti. Di solito, a questo punto si discute in che misura (2a-e) siano
davvero anomali e se, dopo tutto, non possano comunque essere usati; ma non
ci si chiede mai: come, in concreto, la mancanza del presupposto produce la
suddetta intuizione di anomalia?
La ragione per cui enunciati come (2a), e tutte le modificazioni previste
dalla p-famiglia allargata, risultano anomali al venir meno del presupposto (3)
è che essi non sono sospesi nel vuoto, ma incastonati in un paradigma di
alternative – un modello cognitivo – che poggia su (3)15. Se togliamo (3), il
paradigma si sfascia e le usuali interpretazioni di (2a-e) dileguano: come un
arco al quale si tolga la chiave di volta. Questa è l’idea con la quale ci
accingiamo a considerare i criteri della negazione (sub. § 1.1.),
dell’interrogazione (sub. § 1.2.), della frase ipotetica (sub. § 1.3.) e della
modalità (sub. § 1.4.).
1.1. Il funzionamento della negazione
Si cominci confrontando un esempio (che ritengo prototipico) di
presupposizione di base con uno altrettanto prototipico di presupposizione
discorsiva; rispettivamente, la dicotomia tra persone e cose, e il verbo fattivo
scoprire:
(4)
(5)
a. Maria ha scoperto che Barack Obama è stato eletto presidente.
b. Maria non ha scoperto che Barack Obama è stato eletto presidente.
c. Maria ignora che Barack Obama è stato eletto presidente.
a. Maria è triste.
b. Maria non è triste.
c. Maria è allegra.
Gli esempi (3) e (4) procedono in parallelo. In primo luogo, le affermazioni (a)
– così come le relative domande – sono coerenti. In secondo luogo, sarebbe
ragionevole interpretare gli enunciati (b) nel senso di (c): più tecnicamente, le
interpretazioni (c) sono inferenze sollecitate (Geis&Zwicky 1971) da (b); più
semplicemente: se Maria non ha scoperto che Barack Obama è stato eletto,
allora lo ignora e se Maria non è triste, allora sarà allegra o tranquilla o
preoccupata, ecc. In altre parole, la negazione sintattica in (b) opera all’interno
Questo implica precisamente quanto osserva D. T. Langendoen: «[…] negation test
can be generalized: presuppositions admit of no adverbial modification whatsoever, so the fact
that they are unaffected by negation is merely a special case of this more general principle. To
see this compare: (5) Rocky rightfully criticized Max for spending the loot. (6) Rocky
rightfully accused Max for spending the loot. […] In neither case […] Rocky’s
presupposition [rispettivamente: che abbia scialacquato il denaro e che scialacquare il denaro
sia male] is affected by the adverb» (Langendoen 1971 :341-342).
15
45
di un paradigma di iponimi opposti (antonimi o complementari): in questo
senso, possiamo parlare di «impiego interno della negazione» o semplicemente
«negazione interna».
La condizione di possibilità delle negazioni interne in (4) e (5) è
esplicitata da:
(4)
(5)
d. Barack Obama è stato eletto presidente.
d. Maria è una persona.
Per rendersene conto è sufficiente mutare le proposizioni (d), sostituendo
Maria con un’entità che non è una persona e l’oggetto diretto di scoprire con
un fatto risaputamente falso:
(6)
(7)
a. *Maria ha scoperto che McCain è stato eletto presidente degli Stati
Uniti.
b. Maria non ha scoperto che McCain è stato eletto presidente degli
Stati Uniti.
c. *Maria ignora che McCain è stato eletto presidente degli Stati Uniti.
a. *La luna è triste.
b. La luna non è triste.
c.*La luna è allegra.
Gli esempi (6) e (7) procedono ancora in parallelo. Questa volta, però, non solo
gli enunciati (a) – con le relative domande – sarebbero percepiti come anomali
o incoerenti, ma le negazioni (b) non verrebbero più interpretate nel senso di
(c): in altre parole, gli enunciati (c) non sarebbero più le inferenze sollecitate da
(b). La negazione sintattica, dunque, non opererebbe più all’interno del
paradigma attivo in (4) e (5), ma al suo esterno. E questo perché quel
paradigma è crollato: se è vero che la luna non è triste, infatti, non per questo è
vero che è allegra e se è vero che Maria non ha scoperto che John McCain è
stato eletto presidente, non per questo è vero che lo ignora o che non è riuscita
a scoprirlo16. Il funzionamento della negazione sintattica in (6) e (7) – per
contrasto rispetto a quello in (4) e (5) – può essere etichettato «impiego
esterno» o, in breve, «negazione esterna».
Come si vede, le proposizioni (4d) e (5d) esprimono le condizioni in
grado di accendere o spegnere – e quindi fondare – i paradigmi lessicali o
cognitivi che oppongono essere triste a essere allegro o scoprire qualcosa a
ignorarlo. Per questa ragione, si può affermare che tali paradigmi (o la
predicazione dei loro membri a un soggetto), presuppongano le idee espresse
dagli enunciati (d). La conclusione è che le stesse ragioni che conducono ad
affermare che (4a-c) presuppongono (4d) obbligano ad affermare che (5a-c)
presuppongono (5d). L’enunciato (4d) è il contenuto di una presupposizione
discorsiva, l’enunciato (5d) è il contenuto di una presupposizione di base.
Ci si soffermi un instante sui gruppi (6) e (7). Qui – al contrario di (4) e
(5) – non ci sogneremmo mai di interpretare gli enunciati (b) nei termini di (c):
e la ragione, come abbiamo visto, è il crollo del paradigma che fondava la
possibilità di tali interpretazioni. D’altra parte, di fronte a (6b) e (7b) potrebbe
Queste osservazioni valgono nell’ipotesi che non si rinunci alle nostre conoscenze
enciclopediche condivise (ad es., ipotizzando che McCain sia stato eletto presidente) o alla
nostra ontologia condivisa (ad es., fingendo che la luna sia un essere animato come in una
favola). Naturalmente, la profonda differenza dei procedimenti mentali di queste ‘rinunce’
rivela quella dei loro oggetti.
16
46
risultare spontaneo propendere per letture del tipo Perché (6b)? Perché (7b):
(6)
(7)
b’. Maria non ha scoperto che McCain è stato eletto presidente degli
Stati Uniti perché, effettivamente, McCain non è stato eletto.
b’. La luna non è triste perché gli astri non provano sentimenti.
In effetti, gli enunciati (6b’) e (7b’) potrebbero essere usati per ribattere a (6a) e
(7a) mostrando dunque come questi ultimi, al di là della loro immediata
anomalia, siano stati in qualche modo interpretati. In effetti, parafrasando D.
Wilson (1975: 32), ci si potrebbe chiedere: dovendo provare a qualcuno che
Maria non ha scoperto che Mc. Cain è stato eletto presidente o che la luna non
è scoppiata in lacrime, quale argomento migliore del fatto che Mc. Cain non sia
stato eletto e che la luna non sia una persona ma un astro?17
Il punto, tuttavia, è un altro. In (6b’) e (7b’) – e nelle interpretazioni di
(6a) e (7a) alle quali controbattono – la negazione e la predicazione funzionano
sul vuoto: cioè al di fuori di un paradigma o un modello cognitivo. Quando la
negazione o la predicazione funzionano dentro un paradigma o un modello
cognitivo, la possibilità di interpretazioni come (6b’) e (7b’) è completamente
oscurata. Infatti, mai avremmo pensato di interpretare Perché (4a)? e Perché
(5a)? come:
(4)
(5)
a’. Maria ha scoperto che Barack Obama è stato eletto perché
effettivamente Barack Obama è stato eletto.
a’. Maria è triste perché è una persona.
La ragione per cui in Perché (4a)? e Perché (5a)? non sorgono letture come
(4a’) e (5a’) – cioè la ragione per cui (4b) e (5b) verrebbero interpretati come
(4c) e (5c) – è che si può fare affidamento sul fatto che Obama sia stato eletto e
che Maria sia una persona e su questi presupposti (che rimangono sommersi) si
può attivare il paradigma o modello cognitivo dove pascolano le nostre
interpretazioni naturali. La ragione per cui in Perché (6b)? e Perché (7b)?
sorgono letture come (6b’) e (7b’) è che, questa volta, non c’è più alcun modello
cognitivo o paradigma in grado di nutrire le nostre intuizioni naturali: di
conseguenza, qui non resta altro che portare ad emersione lo scheletro del
mancato presupposto che ha causato il crollo.
1.2. Il funzionamento dell’interrogazione
Si consideri adesso una domanda come la seguente:
(8)
a. Perché Maria ha scoperto che Paolo la tradiva?
Nella letteratura specializzata sarebbe comune sostenere che (8a) seleziona
come risposte possibili solo quelle che non mettono in discussione il
A questo punto, è importante rilevare una differenza. L’apparente appeal
dell’argomento a fortiori di D. Wilson funziona solo per (6b’): qui può sembrare ragionevole
immaginare di usare il fatto che McCain non sia stato eletto come prova del fatto che Maria
non l’abbia scoperto. Ma chi penserebbe di usare l’idea che un astro non è una persona per
provare che la luna non è triste? E più in generale: a chi verrebbe in mente di dimostrare che la
luna non è triste? Il caso di (7b’) rivela la sua assurdità in modo più evidente di (6b’) perché
nell’uno sono in gioco presupposizioni di base mentre nell’altro sono in gioco presupposizioni
contingenti (che non sono altro se non fatti contingenti).
17
47
presupposto: il fatto che Paolo tradisse Maria. Più precisamente, «non mettere
in discussione il presupposto» significa non soltanto negarlo, ma anche
affermarlo. Questa è la ragione per cui, dei due enunciati seguenti, solo il
primo sarebbe una prosecuzione coerente di (8a):
(8)
b. …Perché Paolo ha lasciato in giro un biglietto della sua amante.
c. *…Perché Paolo la tradiva.
Ancora una volta, considerazioni identiche si applicano per una
presupposizione di base:
(9)
a. Perché Maria è triste?
b. …Perché ha perso il lavoro.
c. *…Perché è un essere umano.
Se l’incoerenza o l’effetto di ripetizione in (8c) è un buon motivo per
considerare il fatto che Paolo tradisse Maria un presupposto di (8a), allora non
c’è ragione per non considerare l’idea che Maria sia un essere umano un
presupposto di (8a). Questa idea è il contenuto di una presupposizione di base,
quel fatto è il contenuto di una presupposizione discorsiva18.
1.3. Il funzionamento della frase ipotetica
1.3.0. Introduzione
In astratto, una frase ipotetica può essere rappresentata così:
(9)
Protasi
a. Se x
,
Apodosi
y
E in concreto, in italiano, lo schema (9a) può essere realizzato così:
(10)
(11)
a. Se Maria scopre che Obama è stato eletto presidente, diventa
euforica.
b. Se Maria scoprisse che Obama è stato eletto presidente, diventerebbe
euforica.
c. Se Maria avesse scoperto che Barack Obama è stato eletto
presidente, sarebbe diventata euforica.
a. Se Maria è triste, passeggia nel parco.
b. Se Maria fosse triste, passeggerebbe nel parco.
c. Se Maria fosse stata triste, avrebbe passeggiato nel parco.
I gruppi (10) e (11) presentano rispettivamente periodi ipotetici «della realtà»,
«della possibilità» e «dell’irrealtà». Per brevità, mi concentrerò solo su
quest’ultimo tipo: le medesime osservazioni potranno essere trasferite (mutatis
mutandis) agli altri.
Di fronte agli enunciati (c), abbiamo due ordini di intuizioni: relative
Come si vede, qui si ripetono – anche se a un altro fine argomentativo – le medesime
considerazioni condotte sub. § 1.1.. Questo fatto suggerisce l’intima connessione tra i test della
domanda e della negazione: i quali, in ultima analisi, coincidono. Li ho comunque tenuti
distinti per chiarezza espositiva.
18
48
alla protasi e relative all’apodosi: dapprima, isolerò questi due gruppi di
intuizioni (sub. §§ 1.3.1 e 1.3.2.); quindi, mostrerò come le idee che Barack
Obama sia stato eletto presidente e che Maria sia una persona individuino le
condizioni di possibilità di tali intuizioni (sub. § 1.3.3.). La conclusione sarà che
se la prima idea è una presupposizione perché fonda una matrice di intuizioni
interpretative, si deve riconoscere il medesimo statuto di presupposizione alla
seconda perché fonda la stessa matrice di intuizioni.
1.3.1. Inferenze sollecitate sul versante della protasi
Le intuizioni relative alla protasi sono inferenze sollecitate di
probabilità; più precisamente, gli enunciati (a), (b) e (c) si distinguono per il
grado di probabilità con cui suggeriscono la realizzazione delle rispettiva
protasi: alto, medio, molto basso. In particolare, chi asserisce (10c) e (11c)
induce l’interlocutore a pensare: che Maria non ha scoperto che Obama è stato
eletto presidente ma ha continuato a ignorarlo19; e che Maria non era triste ma
in qualche altro stato d’animo. Queste sono inferenze sollecitate che sotto
pressioni contestuali cadrebbero a favore delle controparti ammesse:
(10)
(11)
c’. Se Maria avesse scoperto che Barack Obama è stato eletto
presidente, sarebbe diventata euforica. Andiamo a vedere come sta.
c’. Se Maria fosse stata triste, avrebbe passeggiato nel parco. Chiediamo
a sua mamma se è uscita.
Il punto, tuttavia, è che quelle inferenze sollecitate illuminano – con
una diversa luce di probabilità – un fatto che si oppone ad altri fatti all’interno
di un paradigma: che Maria scopra qualcosa piuttosto che lo ignori in (10); che
Maria sia triste piuttosto che allegra o serena in (11). Se questo è vero, in
analogia con il caso della negazione, possiamo parlare di «impiego interno
della condizione» o «condizione interna»: «interna», rispetto al paradigma di
possibilità evocato. Lo schema (9a), allora, può essere articolato così:
(9)
b. Se
Protasi
xi
,
x1
α x2
xn
Apodosi
y
dove scrittura xi indica un elemento dell’insieme α (x1…xn) che rappresenta un
paradigma di protasi. Lo schema (9b) visualizza semplicemente le intuizioni
summenzionate: la struttura Se x… illumina con una diversa luce di
probabilità un elemento xi di α evocando, in una sorta di chiaroscuro
concettuale, gli altri elementi del paradigma; in concreto, affermare ad esempio
(10c) significa: a) isolare Maria ha scoperto che Obama è stato eletto all’interno
del paradigma α (Maria ha scoperto che Obama è stato eletto vs. Maria ha
continuato a ignorare che Obama è stato eletto); b) qualificare Maria ha
scoperto che Obama è stato eletto come molto poco probabile rispetto a Maria
ha continuato a ignorare che Obama è stato eletto; c) evocare quindi in
chiaroscuro l’elemento Maria ha continuato a ignorare che Obama è stato
Ovviamente, questo non significa che lo ignori ancora (cioè nel momento di
enunciazione), ma che abbia continuato a ignorarlo allora (cioè al momento di riferimento).
19
49
eletto che apparirà più probabile.
Possiamo raccogliere le nostre intuizioni sul versante della protasi di
una frase ipotetica come segue: c’è un’inferenza sollecitata di verità del
contenuto della protasi; questa inferenza sollecitata (in italiano standard) può
essere di diverso grado di probabilità; questo grado di probabilità è assegnato
rispetto ad altri potenziali elementi – altri potenziali contenuti della protasi –
che condividono un paradigma nel quale si trova anche quello in gioco.
1.3.2. Inferenze sollecitate sul versante della apodosi
Di fronte a un periodo ipotetico, non abbiamo soltanto intuizioni
relative alla protasi ma anche all’apodosi: mi riferisco alla cosiddetta «inferenza
sollecitata di bi-condizionalità». In effetti, chi asserisce (10) e (11) induce
l’interlocutore a pensare che se non si verifica la premessa non si verifica
neppure la conclusione. L’espressione «non si verifica la conclusione» indica,
almeno potenzialmente, qualcosa di preciso.
Chi asserisce (10c) e (11c), ad esempio, induce l’interlocutore a pensare:
che se Maria non ha scoperto che Obama è stato eletto, non è diventata
euforica ma triste; e che se Maria non è triste, allora non passeggia nel parco
ma fa qualche altra cosa (magari lavora o resta a casa). Anche queste,
ovviamente, sono inferenze sollecitate che sotto pressioni contestuali possono
cedere il posto a controparti ammesse. Tuttavia, ancora una volta, il punto è
che le apodosi e le contro-apodosi individuano elementi di paradigmi (rimanere
triste vs. essere euforica e restare a casa vs. lavorare vs. passeggiare nel parco)
ovvero modelli cognitivi pertinenti nella situazione comunicativa concreta. La
prova è che, in linea di principio, è sempre possibile proseguire una frase
ipotetica nel modo seguente:
(10)
(11)
c. Se Maria avesse subito scoperto che Obama è stato eletto presidente,
sarebbe diventata euforica invece di continuare a tenere il broncio
per giorni.
c. Se Maria fosse stata triste, avrebbe passeggiato nel parco invece di
restare in ufficio e concentrarsi sul lavoro.
La congiunzione sostitutiva invece di esplicita, e quindi fissa, un altro elemento
della matrice di apodosi possibili. Per ogni inferenza di bi-condizionalità in una
situazione comunicativa concreta, saremmo sempre in grado di esplicitare la
struttura invece di… esattamente come, per un enunciato quale Maria non
sorride saremmo sempre in grado, in una situazione comunicativa concreta, di
esplicitare se significa che tiene il broncio, che è seria o semplicemente se non è
importante capire con precisione a quale altro comportamento ci si riferisca.
Se questo è vero, lo schema (9b) può essere ulteriormente articolato:
(9)
c. Se
Protasi
xi
,
x1
α x2
xn
Apodosi
yi
y1
y2 β
yn
dove la scrittura yi indica un elemento dell’insieme β (y1…yn) che rappresenta
un paradigma di apodosi. Lo schema (9c) visualizza che, data una certa
50
premessa, si verifica sì una certa conclusione ma in opposizione altre possibili
conclusioni di un paradigma.
Le nostre intuizioni sul versante dell’apodosi di una frase ipotetica
possono dunque essere riassunte così: c’è un’inferenza sollecitata di bicondizionalità; questa inferenza suggerisce che se non si verifica la protasi, non
si verifica neppure la apodosi; «non si verifica la protasi» significa che si
verifica una qualche conseguenza alternativa a – in rapporto paradigmatico
con – la apodosi: una contro-apodosi.
1.3.3. Il collasso delle inferenze sollecitate in una frase ipotetica
A questo punto – dopo aver fissato le intuizioni precedenti relative alla
protasi e all’apodosi – non ci resta che farle saltare. E per farlo, ancora una
volta, è sufficiente modificare il contenuto delle protasi sostituendo Maria con
un’entità inanimata e il fatto che Barack Obama sia stato eletto presidente con
un fatto risaputamente falso:
(12)
(13)
a. *Se Maria avesse scoperto che John McCain è stato eletto presidente
degli Stati Uniti …
a. *Se la luna fosse stata triste …
Riconsideriamo dapprima le intuizioni – le inferenze sollecitate – sul
versante della protasi. La domanda è: chi asserisce (c), induce forse
l’interlocutore a pensare che Maria non ha scoperto che McCain è stato eletto
presidente, ma ha continuato a ignorarlo? O che la luna non era triste, ma in
qualche altro stato d’animo? Il terreno su cui si basavano le inferenze
sollecitate in (10c) e (11c) salta; e le mine che lo fanno saltare sono
precisamente le proposizioni che abbiamo sostituito alle seguenti:
(10)
(11)
d. Barack Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti.
d. Maria è una persona.
Se questo è vero, (10d) e (11d) erano le condizioni di coerenza del paradigma α
a partire dal quale decollavano le nostre intuizioni. Per contrasto rispetto a
(10) e (11), diremo che in (12a) e (13a) la condizione conosce un impiego
«esterno», in breve una «condizione esterna»: «esterna», appunto, rispetto al
paradigma α che è stato fatto saltare.
Volgiamoci ora sul versante dell’apodosi: qui si sarà notato lo spazio
vuoto dopo (12a) e (13a). Questa circostanza non è casuale: quali conseguenze
dovremmo inserire dopo (12a) o (13a)? La difficoltà di rispondere prova che la
sostituzione di (10d) e (11d) ha fatto saltare anche la possibilità di trovare un
paradigma β tra cui pescare le conclusioni possibili. L’assurdità delle premesse
in (12a) e (13a), insomma, ci blocca prima di immaginare possibili conclusioni;
e se ci sforziamo di farlo produciamo enunciati come i seguenti:
(12)
(13)
b. Se Maria avesse scoperto che McCain è stato eletto presidente,
avrebbe abitato su un altro pianeta.
b. Se la luna fosse stata triste, il sole sarebbe andato a bersi una birra.
Gli enunciati (12b) e (13b) – a differenza di (10c) e (11c) – sono costrutti bi
negativi appannati. Per renderli evidenti, occorre spogliarli della forma
51
dell’irrealtà e vestirli di quella della realtà:
(12)
(13)
b’. Se Maria scopre che McCain è stato eletto presidente, abita su un
altro pianeta.
b’. Se la luna è triste, il sole è andato a bersi una birra.
Ora, nei costrutti bi-negativi:
Il nesso tra protasi e apodosi non si istituisce tra i contenuti affermati ma tra diritti di
parola (Prandi 2006: 259)
Questo fatto è rilevante per il nostro discorso perché prova che (12b’) e (13b’)
sono de dicto o metalinguistici: esattamente come la negazione in (6b) e (7b).
Ecco allora la nostra conclusione. Il funzionamento di una frase
ipotetica è caratterizzato da un’inferenza sollecitata di realtà (con un diverso
grado di probabilità) della protasi e un’inferenza di bi-condizionalità; queste
inferenze scelgono un elemento (presentato come più o meno probabile o come
corretto) all’interno di un paradigma di altri elementi in competizione. In (10ac), la condizione di possibilità di queste inferenze sollecitate è (10d): in questo
senso, si può dire che (10a-c) presuppongono (10d). Tuttavia, poiché (11d) è la
condizione di possibilità delle medesime inferenze sollecitate in (11a-c), le
stesse ragioni per cui diciamo che (10a-c) presuppongono (10d) ci obbligano a
concludere che (11a-c) presuppongono (11d). L’enunciato (10d) è il contenuto
di una presupposizione discorsiva, l’enunciato (11d) è il contenuto di una
presupposizione di base.
1.4. Il funzionamento di potere
Si confrontino gli enunciati seguenti:
(14)
a. Maria non ha scoperto che Obama è stato eletto presidente degli
Stati Uniti.
b. Se Maria scopre che Obama è stato eletto presidente degli stati
Uniti, va a Washington a stringergli la mano.
c. Maria può scoprire che Obama è stato eletto presidente degli stati
Uniti.
Sia la negazione sintattica, sia l’ipotesi, sia la modalità, evocano il paradigma
all’interno del quale si colloca la frase ‘neutra’ o il loro contenuto
proposizionale. Sub. § 1.1, abbiamo osservato che la funzione della negazione
sintattica è (grossomodo) selezionare direttamente gli altri membri del
paradigma; sub. § 1.3, abbiamo osservato che la funzione della sospensione
indotta dalla protasi è attribuire al proprio contenuto un certo grado di
probabilità rispetto agli altri membri del paradigma, in vista di un insieme di
possibili conseguenze. In entrambi i casi, il presupposto era ciò la cui presenza
fondava il suddetto paradigma – paradigma, che forniva il piano dal quale
spiccavano il volo le interpretazioni sollecitate – e la cui assenza lo faceva
implodere. Il verbo servile potere non fa eccezione.
Se osserviamo (14c), potere sembra comportarsi in maniera simile alla
protasi del periodo ipotetico, senza però essere finalizzato a una matrice di
conseguenze. Per illustrare questo punto, si consideri:
52
(15)
a. Maria può scoprire che Obama è stato eletto presidente degli stati
Uniti.
b. Ritengo possibile che Maria scopra che Obama è stato eletto
presidente degli stati Uniti.
c. Maria è in grado di scoprire che Obama è stato eletto presidente
degli stati Uniti (benché qualche ostacolo glielo possa impedire).
L’enunciato (15a) riprende (14c) e gli enunciati (15b) e (15c) ne individuano
due interpretazioni naturali: nel primo caso, troviamo una stima di probabilità
e potere riceve la lettura de dicto cosiddetta «epistemica»; nel secondo caso,
troviamo la lettura de re cosiddetta «ontica» o «aletica» o «di capacità» in
quanto l’enunciato verte sulle capacità di Maria. Passiamo ora a:
(16)
a. Maria può sorridere.
b. Ritengo che possa capitare che Maria sorrida.
c’. Maria è in grado di sorridere (nonostante la paresi)
c’’. Maria ha il permesso di sorridere.
Qui, sarebbe spontaneo interpretare (16a) nel senso di (16b) o (16c): nel primo
caso, avremmo nuovamente una lettura epistemica: più precisamente
«sporadica» (Kleiber 1983); nel secondo, avremmo ancora una lettura ontica o
di capacità; nel terzo, una lettura deontica: di permesso20. Ancora una volta, le
condizioni di possibilità delle interpretazioni (b) e (c) di (a), in (15) come in
(16), sono:
(15)
(16)
d. Barack Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti.
d. Maria è una persona.
Si oppongano ai gruppi (15) e (16) rispettivamente, i seguenti:
(17)
(18)
a. Maria può scoprire che McCain è stato eletto presidente.
b. *Ritengo possibile che Maria scopra che McCain è stato eletto
presidente.
c. *Maria è in grado di scoprire che McCain è stato eletto presidente.
a. La luna può sorridere.
b. *Ritengo che possa capitare che la luna sorrida.
c’ La luna è in grado di sorridere.
c’’. *La luna ha il permesso di sorridere.
Qualsiasi cosa si intenda con (17a), certamente non è né (17b) né (17c); e
qualsiasi cosa si intenda con (18a) non è né (18b), né a maggior ragione (18c).
L’enunciato (18c’’) non necessita commento. Gli enunciati21 (17b) e (18b) sono
‘assurdi’; ma non nel senso di «così improbabili da essere assurdi»: qui ciò che è
assurdo è il fatto stesso di dare una stima a queste possibilità22.
Questa complicazione rispetto a (15) non deve inquietare in quanto dipende dal fatto
che sorridere è un’azione che un soggetto compie e di cui è responsabile ma non scoprire
qualcosa. Di conseguenza è sensato permettere o obbligare qualcuno a sorridere ma non a
scoprire qualcosa.
21
Parlo qui di enunciati per semplicità. Tuttavia, gli esempi (b-c) sono tutte
esplicitazioni di interpretazioni di (a).
22
Si noti comunque una differenza tra (17b) e (18b): nel primo c’è un problema inerente
ad una conoscenza condivisa, nel secondo a qualcosa di diverso. Ci si potrebbe ingannare nel
primo caso e credere che le cose siano andate diversamente, ma non nel secondo.
20
53
Qui, tuttavia, può essere sollevata la medesima obiezione segnalata in
chiusura del § 1.1.. Questo punto è delicato e merita un’attenzione particolare.
A questo scopo si osservino da vicino enunciati come i seguenti:
(19)
(20)
a. Maria (non) è in grado di scoprire che Obama è stato eletto
presidente degli stati Uniti.
b. Maria (non) è in grado di sorridere.
a. Maria (non) è in grado di scoprire che McCain è stato eletto
presidente degli stati Uniti.
b. La luna (non) è in grado di sorridere.
Certo, sia in (19) che in (20) potere si lascia parafrasare con essere in grado di o
avere la facoltà di o affini; tuttavia, in (19) e (20), queste espressioni hanno
impieghi radicalmente diversi. Gli enunciati (19) sono contingenti ed
esprimono una possibilità materiale o sintetica; gli enunciati (20) sono
necessariamente falsi (o veri) e quindi non esprimono una possibilità ma una
necessità23. Il fatto che (20) paiano necessariamente falsi (o veri) è causato
dall’assenza di un modello cognitivo su cui può lavorare potere o l’espressione
ad esso sostituita24. Analogamente a quanto avveniva per la negazione, la loro
necessità è il segno della loro infondatezza: del fatto che potere lavora sul
vuoto e non è ancorato ad alcun modello cognitivo condiviso. Ci si chieda: ha
senso considerare l’idea che una certa entità non sia un essere umano come un
«ostacolo» alla sua capacità o «possibilità» di sorridere? Ha senso considerare
il fatto che McCain non sia stato eletto come un «ostacolo» alla capacità o
possibilità di scoprire che sia stato eletto?
Ma si osservino ancora gli enunciati (20): cosa significa qui essere in
grado di… o potere…? E più in generale: significa qualcosa? Certo, se
leggiamo superficialmente i predicati potere o essere in grado in (20) – così
come se leggiamo superficialmente non ha scoperto o non è triste in (6b) e (7b)
– non sembra di notare nulla di particolare. Ma la ragione è che gli impieghi di
questi predicati sono derivati per riduzione a partire da quelli di (19) o, nel
caso di (6b) e (7b) da (4b) e (5b). Intuitivamente, gli impieghi di potere o essere
in grado di in (19) e di non scoprire o non essere triste in (4b) e (5b) sono
‘pieni’, ‘concreti’, ‘reali’; gli impieghi di potere o essere in grado di in (20) e di
non scoprire o non essere triste in (6b) e (7b) sono ‘rarefatti’, ‘astratti’,
‘fantasmatici’. Questi sono derivati da quelli lasciando cadere tutti i tratti di
‘concretezza’ e ‘realtà’: i predicati che troviamo in (20) e in (6b) o (7b) sono cioè
larve di quelli presenti in (19) e in (4b) o (5b), ed è per questo che possono
passare inosservati. La controprova di questo processo di riduzione è che
potremmo proiettare questi stessi tratti su (20) producendo letture
metaforiche: come, ad esempio, se un ostacolo impedisse alla luna di parlare.
Questo mostra che gli impieghi dei predicati in (20) – così come in (6b) e (7b) –
erano il risultato di metafore regressive. Il fenomeno che troviamo qui,
insomma, è analogo agli innumerevoli casi di conflitti metaforici risolti
Questo non significa, naturalmente, che tra (20a) e (20b) non sussistano profonde
differenze: il primo è necessariamente falso rispetto a come sappiamo che sono andate le cose; il
secondo è necessariamente falso rispetto alla nostra ontologia naturale. Ma questo ha a che
fare con le differenze tra presupposizioni di base e discorsive (cfr. § 3.)
24
Si noti che affinché (20a) sia letto nell’interpretazione qui pertinente – e non appaia
invece identico a (19) – occorre tenere fermo un fatto contingente (che Obama sia stato eletto
invece di McCain). Al contrario, nel caso di (20b) non c’è nessun fatto contingente da tenere
fermo, ma l’idea generale e stabile che la luna non è una persona. Questa differenza dipende dal
tipo di presupposizioni in gioco.
23
54
coerentemente: così come non percepiamo il conflitto interno a un’espressione
quale versare denaro, nello stesso modo non percepiamo l’incoerenza
intrinseca di enunciati come (20) o (6b) e (7b)25. Insomma, la frustrazione dei
presupposti non implica affatto che gli enunciati (20), (6b) e (7b) siano percepiti
come incoerenti; ma il punto è che lo sono.
In sintesi, possiamo ripetere un’ultima volta la conclusione dei paragrafi
precedenti: se (15d) – il contenuto di una presupposizione discorsiva – è un
presupposto di (15a-c) perché rende possibile una matrice di interpretazioni
(epistemiche o aletiche), allora anche (16d) – il contenuto di una
presupposizione di base – è un presupposto di (16a-c) perché rende possibile
una matrice di interpretazioni analoghe. I piani sui quale poggiano queste
matrici di interpretazioni – i paradigmi fondati da (15d) e (16d) – sono:
‘scoprire che Obama è stato eletto presidente vs. ignorarlo’ e ‘sorridere vs.
tenere il broncio vs. stare seri’ o qualche altro comportamento.
2. Presupposizioni e restrizioni di selezione
2.0. Introduzione
Paolo tradiva Maria. Barack Obama è stato eletto presidente degli Stati
Uniti. Maria è una persona. Le prime due sono presupposizioni contingenti,
l’ultima è una presupposizioni di base, tutte funzionano come presupposizioni
nello stesso senso. Con ciò può dirsi raggiunto l’obiettivo i) sub. § 0.
Tuttavia, se accettiamo di chiamare Maria è una persona
«presupposizione» – precisamente, «presupposizione di base» – non possiamo
non rilevare che è qualcosa di assai usuale nella letteratura linguistica: è una
«particolare limitazione di selezione» (Harris 1976) o «restrizione di
selezione» (Chomsky 1957) del predicato essere triste. In tal senso, le
presupposizioni di base si manifestano nei criteri di selezione.
Sebbene sia stato percepito, il legame tra presupposizioni e criteri di
selezione ha conosciuto apparizioni piuttosto sporadiche nella letteratura
specializzata26. Ecco ad esempio come viene adombrato da G. Chierchia:
[…] un predicato, per esempio un verbo, seleziona una s o r t a o c a t e g o r i a di
oggetti e vi impone delle restrizioni generali. Per esempio, l’aggettivo pari si può
applicare sensatamente solo ad oggetti astratti e, più in particolare, a numeri. Il verbo
mangiare vuole come oggetti entità concrete e (commestibili), ecc. E’ possibile che
queste intuizioni siano un fenomeno presupposizionale. […] Gli e r r o r i d i c a t e
g o r i a sembrano dunque comportarsi come delle presupposizioni. (Chierchia 2002:
141).
E’ solo con M. Prandi, tuttavia, che il legame tra presupposizioni di base e
criteri di selezione viene per la prima volta teorizzato esplicitamente:
[…] consistency criteria [i criteri di selezione] can naturally be defined as a kind of
general presuppositions […]. This means that their content is bound neither to the
In questi enunciati inoltre, la povertà concettuale di potere (verbo servile) e di non
(operatore) enfatizza il fenomeno.
26
Tra gli autori che hanno sottolineato (più o meno criticamente) questo legame devono
essere segnalati: J. Mc. Cawley (Mc. Cawley 1971), Ch. Fillmore (Fillmore 1969), S.-Y. Kuroda
(Kuroda 1969), S. Soames (Soames 1989: 339), D. Cooper (Cooper 1974: 58-73), F. G. Murga
(Murga 1998).
25
55
specific content nor to the general properties of this or that occasional act, but is
taken for granted as a shared background for any kind of human practice. […]
Discourse presuppositions are by definition contingent conditions for contingent acts.
Consistency criteria hold as conditions for consistent behavior, and hence consistent
discourse, in general. Discourse presuppositions are shared within the limits of an
utterance act by its occasional actors. Consistency criteria are shared by the members
of a whole community irrespective of given, contingent speech acts and acts of
behaviour. If discourse presuppositions define the legal setting of contingent
utterance acts, consistency criteria define the legal setting of our form of life. If the
former are challenged, the concerned speech act becomes senseless [questo è il caso di
chi considera assurda la domanda Paolo ha smesso di fumare? perché sa che Paolo non
ha mai fumato]; if the latter were called into question, the very pillars of our
spontaneous attitude towards the world would collapse [questo è il caso del filosofo
che nega il libero arbitrio, ma che se la prende se uno studente nel mezzo della lezione
gli tira una secchiata d’acqua gelida] (Prandi 2004: 228).
Nella prospettiva di questa tesi, le restrizioni di selezione sono la
manifestazione linguistica centrale del fenomeno della presupposizione. Per
giustificare questa affermazione è necessario compiere un breve excursus sulle
restrizioni di selezione, a cui è appunto dedicato il § 2. Questo excursus avrà la
forma di una parabola o di un arcobaleno: prenderà le mosse dal progetto che
ha animato la linguistica cosiddetta «generativa» (§ 2.1.1) e giungerà
sinteticamente fino a quello alla base della linguistica cosiddetta «cognitiva» (§
2.1.3.). Alla fine dell’arco (sub. § 2.2.), come analogon della tradizionale pentola
di monete d’oro, troveremo un modello per pensare il fenomeno della
presupposizione. Il § 2.3 ne illustrerà l’applicazione e le conseguenze.
2.1. Verso un modello del fenomeno della presupposizione
2.1.1. La missione della linguistica generativa
Il punto di partenza è una missione: «a partire da un insieme sparso di
lessemi di una lingua, trovare le regole che permettono di generare tutte e solo
le frasi corrette di quella lingua». Se questo è l’obiettivo, occorrono due tipi di
regole che, come setacci, separino le frasi accettabili da quelle devianti: a)
regole che escludano combinazioni di parole come Cesare è ma (Carnap 1932);
b) regole che escludano sequenze di parole come Cesare è un numero primo
(Carnap 1932) o Idee verdi senza colore dormono furiosamente (Chomsky
1965).
Il tipo a) ha la forma seguente: «un verbo transitivo richiede due
sintagmi nominali: il primo dei quali è il soggetto e il secondo l’oggetto
diretto», schematizzabile come [SNSOGG] – [ [VerboTRANS] – [SNOGG. DIR.] ].
Il tipo b), invece, suona così: «se il contenuto del verbo è sorridere, il
contenuto del SN soggetto deve essere una persona», oppure: «l’azione di
sorridere richiede che il suo attore sia una persona». Per raggiungere lo scopo,
i due tipi di regole devono essere applicati in successione: il filtro a) esclude
combinazioni di parole come *In sorride o *Paolo sorride Maria ma ammette
sia Paolo sorride sia il sole sorride; il filtro b) esclude il sole sorride e ammette
Paolo sorride; l’applicazione di entrambi i filtri, ci lascia con frasi corrette come
Paolo sorride.
Naturalmente, la diversa natura della scorrettezza degli esempi scartati
– a-grammaticalità o inconsistenza vs. incoerenza concettuale – e quindi la
diversa natura dei tipi di regole in gioco non è sfuggita a studiosi come R.
56
Carnap o N. Chomsky. Tuttavia, se il punto è adempiere alla missione
summenzionata – cioè generare tutte e solo le combinazioni di frasi corrette in
una certa lingua – è naturale affiancare quelle regole: cioè pensarle come due
setacci, da impiegare in un certo ordine, per isolare le pepite d’oro delle frasi
corrette. Così R. Carnap (in Carnap 1932) distingue una «sintassi
grammaticale» da una «sintassi logica» e N. Chomsky (in Chomsky 1965)
distingue la cosiddetta «sottocategorizzazione stretta» dalle «restrizioni di
selezione»: la prima coppia di ciascun membro individua le regole del tipo a), la
seconda le regole del tipo b).
2.1.2. La lingua come puzzle
L’impostazione precedente fa della lingua una specie di puzzle. Poiché
lo scopo di un puzzle è ricostruire un’immagine assemblandone i pezzi, esso
deve soddisfare due requisiti senza i quali sarebbe un gioco truccato: a) non ci
devono essere tasselli non-combacianti che ritraggano porzioni contigue di
immagine; b) non ci devono essere tasselli combacianti che ritraggano porzioni
discontinue di immagine. I requisiti a) e b) possono essere sintetizzati dicendo
che vi deve essere una corrispondenza biunivoca tra la contiguità dei tasselli e
la contiguità delle porzioni di immagine; questa corrispondenza – l’unione di a)
e b) – implica che il gioco sia focalizzato sulla forma dei pezzi: lo scopo di un
puzzle è anzitutto riunire i pezzi di forma complementare, in maniera del tutto
indipendente dalla figura; e se si guarda l’immagine sulla scatola è solo col fine
di trovare i pezzi di forma complementare. Come suggerito dalle etichette a) e
b), i requisiti del puzzle corrispondono rispettivamente ai tipi di regole distinti
sub. § 2.1.1..
La missione alla base dei programmi di R. Carnap e N. Chomsky fa
della lingua un puzzle truccato: cioè un puzzle con la possibilità di avere
tasselli combacianti che ritraggono porzioni discontinue di immagine. Questa è
la ragione per cui le regole del tipo a) non sono sufficienti e occorre introdurre
regole del tipo b). Ma questo fatto prova semplicemente che la lingua non si
lascia ridurre al gioco di R. Carnap e N. Chomsky. Se quindi la studiamo in
un’ottica è probabile che falseremo qualche sua caratteristica centrale. E infatti
è quello che accade.
Per chiarire quello che intendo articolerò più esplicitamente la metafora
del puzzle utilizzandola come modello per ricostruire il funzionamento delle
regole distinte sub. § 2.1.1. Anzitutto si immagini di scindere idealmente il
supporto del puzzle dal disegno: da un lato, abbiamo una serie di tasselli
bianchi di diversa forma; dall’altro lato, una figura con le sue proporzioni di
colore, forme e prospettive. In secondo luogo, si immagini di dipingere su
ciascun tassello una porzione della figura. A questo punto possiamo ricostruire
le nostre regole.
Se cerchiamo di incastrare due pezzi con forme non-combacianti,
compiamo un errore analogo a quello di dire Cesare è ma: i tasselli, con le loro
combinazioni di incastro, sono quindi gli analoga delle regole del tipo a). Se
invece incastriamo pezzi con forme combacianti, si aprono due possibilità. Se li
dipingiamo con porzioni discontinue della figura, compiamo un errore analogo
a quello di dire Il tavolo sorride; se li dipingiamo con porzioni contigue della
figura, ci comportiamo analogamente a quando diciamo Paolo sorride; il colore
impresso sui vari pezzi, dunque, è l’analogon delle regole del tipo b). Ciò che in
questo modello appare banale, è quanto di più centrale si possa dire sui criteri
57
di selezione.
In primo luogo, nel nostro modello, è ovvio che non è la forma dei
tasselli a determinare la figura: la figura, cioè, ha una propria coerenza
indipendente da come il puzzle è ritagliato; e questa coerenza può essere
frustrata o meno a seconda di come noi dipingiamo i tasselli. In secondo luogo,
altrettanto ovviamente, se è vero che la coerenza della figura – le sue
proporzioni – si manifesta nei tasselli una volta che siano stati colorati, è
altresì vero che non è una loro proprietà: resta una proprietà della figura. Le
proporzioni della figura, semplicemente, si riflettono nel puzzle: sarebbe
assurdo pensare che quelle esistano perché esiste questo o che la loro funzione
primaria sia, appunto, permetterci di ricostruire correttamente il puzzle. Fuor
di metafora, le proporzioni della figura sono ciò che R. Carnap e N. Chomsky
chiamano rispettivamente «sintassi logica» e «restrizioni di selezione» e che
considerano come: dati linguistici (cioè forme dei tasselli del puzzle e non
forme di una figura indipendente) e regole per generare frasi corrette (cioè
regole per comporre correttamente il puzzle). Esattamente quello che non
sono.
2.1.3. L’idea di lingua della linguistica cognitiva
Il modello del puzzle rivela l’errore della prospettiva dalla quale è posta
la missione della logica e della semantica generativa. Tuttavia, lascia
indeterminata una questione: se, fuor di metafora, i ritagli dei tasselli del
puzzle sono la sintassi della lingua, cosa è, fuor di metafora, l’immagine
ritratta? Il modello del puzzle si ferma prima di rispondere a questa domanda.
A causa della sua contrapposizione alla linguistica generativa,
l’immagine del puzzle sarebbe immediatamente accaparrata dagli esponenti
della cosiddetta «linguistica cognitiva». L’appeal del modello consisterebbe
precisamente nella sua caratteristica centrale: focalizzare l’indipendenza
dell’immagine (come le sue relazioni e proporzioni interne) dal ritaglio dei
tasselli. E – per loro – fuor di metafora, l’immagine sarebbe tutto il nostro
sistema di «modelli cognitivi», «conoscenze enciclopediche», «frames»,
«schemata», «prototipi» o «stereotipi» e in generale ciò a cui J. Searle si
riferisce con la nozione di Rete – ovvero contenuti possibili di conoscenza,
credenza, teoria – e che oppone allo Sfondo.
J. Searle scrive (sottolineatura mia):
[…] non sembra affatto giusto dire che […] io credo anche che il tavolo su cui sto
lavorando offrirà resistenza al tatto. […] Per me, la durezza dei tavoli si manifesta
nel fatto che io so come sedere a un tavolo, che posso scrivere su un tavolo, che metto
su un tavolo pile di libri, che uso un tavolo come banco di lavoro, e così via. E nel fare
ciascuna di queste cose, in aggiunta non penso inconsciamente tra me e me “offre
consistenza al tatto”. Credo che chiunque possa cercare seriamente di seguire i fili
nella Rete raggiungerà alla fine un fondale di capacità mentali che non consistono in
sé in stati Intenzionali (rappresentazioni), eppure formano non di meno le
precondizioni per il funzionamento degli stati Intenzionali. Lo Sfondo è
“preintenzionale” nel senso che sebbene non sia una forma di Intenzionalità, è
comunque una precondizione o un insieme di precondizioni della Intenzionalità
(Searle 1983, 1985:145-147).
L’espressione «offre consistenza al tatto» cattura una restrizione di selezione
di molti impieghi di verbi come toccare o urtare. Questa restrizione di
58
selezione non è un modello cognitivo (un prototipo, un frame…) di tavolo, ma
è ciò che rende possibile avere tutto un insieme di modelli cognitivi (prototipi,
frames, ecc.) su come si può lavorare su un tavolo, impilare libri e così via. Nei
termini di Searle, questi rientrano nella nozione di Rete, quella nella nozione di
Sfondo. Gettare entrambi nel calderone delle conoscenze enciclopediche – non
distinguere tra una credenza sensata come “penso che questo tavolo sia un
buon banco di lavoro” e una pseudo-credenza come “penso che questo tavolo
sia un oggetto concreto” – vuol dire semplicemente fare confusione.
Tornando alla domanda lasciata aperta dal puzzle, dunque, la nostra
risposta non sarà solo: l’immagine è una rete di modelli cognitivi; bensì anche e
soprattutto: l’immagine è uno Sfondo di a priori che fonda la possibilità di
avere modelli cognitivi. Questa è la risposta data da M. Prandi (sottolineature
mia):
Traditionally, consistency criteria have always been reduced both by linguists and
philosophers, either to linguistic – syntactic or lexical – structures, or to cognitive
models. […] In both cases, an essential property of consistency criteria gets lost: in
the first case, their substantial nature; in the second, their forming a system of nonempirical structures that holds a priori Though substantial like the former and
holding a priori like the latter, consistency criteria are neither cognitive nor linguistic
structures. According to our hypothesis, consistency criteria form the core of natural
ontology – of a system of shared conceptual categories and structures of practical
import which silently govern our consistent behaviour. They circumscribe the
consistent conceptual domain of conceivable things and processes, open to both
language-specific lexical organization and cognitive modeling and processing. (Prandi
2004: 92)
2.2. Il modello dello specchio
I tipi di regole distinti sub. § 2.1.1, lavorano su dimensioni diverse: una
dimensione orizzontale o lineare, quelle del tipo a); una dimensione verticale o
in profondità, quelle del tipo b). Le prime legiferano sulle relazioni tra i tasselli
linguistici chiamati «sintagma nominale», «verbo» ecc. stabilendo le possibilità
combinatorie di una serie di formule vuote. In questo senso, la loro funzione è
davvero setacciare le frasi buone per una certa lingua da quelle cattive.
Tuttavia, sarebbe riduttivo affermare che anche le regole del secondo tipo
svolgano una simile funzione di setaccio: queste ultime legiferano anzitutto su
idee che, eventualmente, potranno riempire delle formule linguistiche ed è solo
di riflesso – cioè una volta che le suddette formule siano state riempite di
contenuti – che vi si può vedere una funzione di setaccio.
Può non essere del tutto scorretto pensare alla sintassi di una lingua –
alle regole del tipo a) – come a un dispositivo per delimitare
convenzionalmente combinazioni possibili di parole; ma lo è senza dubbio
pensare alle regole del tipo b) nello stesso modo. Tuttavia, sarebbe ugualmente
scorretto pensare a queste ultime come a un insieme di modelli cognitivi
condivisi o di conoscenze a lungo termine; al contrario, esse costituiscono la
nostra ontologia naturale che ha l’aspetto di una sintassi o grammatica di
relazioni e che fonda la possibilità di modelli cognitivi più o meno condivisi. A
differenza della sintassi linguistica, la nostra ontologia naturale non è quella
che è per stabilire le strutture possibili in una lingua, e neppure i
comportamenti consentiti in una comunità: ma per delimitare i confini della
nostra forma di vita.
59
Entrambi i tipi di regole a) e b) sono a priori, ma si distinguono per ciò
che governano: le regole del primo tipo agiscono sulle parole, prima che le
parole ricevano l’anima del contenuto; le regole del secondo tipo agiscono sui
contenuti, prima che i contenuti si incarnino nelle parole. Violare una regola
del primo tipo vuol dire agire contro la lingua; violare una regola del secondo
tipo non vuol dire anzitutto agire contro la lingua ma contro natura.
Se questo è vero, il modello più corretto per pensare il concetto di
presupposizione è immaginare un gatto addormentato su una poltrona e uno
specchio che ritrae questa scena. La domanda è: cosa ritrae lo specchio?
Certamente, che il gatto è sopra la poltrona, ma ritrae anche che la poltrona è
solida? Lo stesso discorso si applica per gli enunciati seguenti:
(1)
(2)
a. Paolo ha sorriso.
b. Paolo è una persona.
a. Paolo ha scoperto che Maria lo tradiva.
b. Maria tradiva Paolo.
Gli enunciati (a) sono il corrispettivo della superficie dello specchio che ritrae
il gatto addormentato sulla poltrona; le idee espresse dalle proposizioni (b)
sono il corrispettivo della solidità della poltrona. Certamente, le proposizioni
(b) esprimono condizioni di coerenza dei processi descritti da (a); tuttavia,
queste condizioni di coerenza non sono rappresentate dagli enunciati (a) più di
quanto l’immagine di una gatto su una poltrona rappresenta l’idea che la
poltrona è solida. Più le presupposizioni in gioco sono contingenti come (2b),
più sembrano rappresentate nell’enunciato; più le presupposizioni in gioco
sono generali come (1b), meno sembrano rappresentate nell’enunciato. Da
questo punto di vista, è chiaro che l’idea che Maria tradisse Paolo paia entrare
nell’asserzione Paolo ha scoperto che Maria lo tradiva, ma in realtà non è una
porzione di quanto è asserito più di quanto il fatto che una poltrona è solida è
parte di quanto ritratto dallo specchio. Ciò che confonde è la contingenza della
condizione di possibilità di (2a).
Questo modello – il modello dello specchio27 – è fondamentale e avremo
modo di richiamarlo più volte.
2.3. I pregiudizi dei linguisti
2.3.0. Introduzione
Le presupposizioni di base si riflettono nei criteri di selezione. Tuttavia,
come vedremo, non tutti i criteri di selezione individuano presupposizioni di
base: essere triste, ad esempio, seleziona una persona in posizione di soggetto e
la distinzione tra persone e cose è una presupposizione di base; il predicato
spillare, invece, seleziona un elemento della classe delle bevande alcoliche in
posizione di oggetto diretto, ma la distinzione tra una birra (che è una bevanda
alcolica) e un succo di frutta (che non lo è) non è una presupposizione di base.
Il punto centrale, comunque, è l’idea del nesso tra le presupposizioni di
L’idea dello specchio, sia chiaro, è solo un modello per rappresentare il fenomeno della
presupposizione. Paragonando la lingua a uno specchio, cioè, non intendo condividere l’idea
cognitivista per cui la lingua sia passiva rispetto alla realtà. Per quanto riguarda il carattere
creativo della lingua rimando all’opposizione tra codifica puntuale e relazionale teorizzata da
M. Prandi (Prandi 2004: 61-79).
27
60
base e le classiche restrizioni di selezione. Premere su questo tasto fa scattare
due questioni: da un lato, pone l’interrogativo riguardo alla condizione di
possibilità del parallelismo tra presupposti di base e criteri di selezione;
dall’altro lato, permette di evitare due ordini di pregiudizi. Rimandiamo la
prima questione (più teorica) e ci occupiamo ora della seconda.
Le usuali presupposizioni discorsive sono ancorate a specifici e
rassicuranti attivatori linguistici; le presupposizioni qui etichettate «di base»
paiono fluttuare slegate dalla lingua. Questa considerazione può indurre uno
scetticismo di fondo, che è all’origine del rifiuto dei linguisti di occuparsi delle
presupposizioni di base. Questo scetticismo può essere precisato per mezzo di
due pregiudizi: le presupposizioni di base non sono importanti (§ 2.3.1.); le
presupposizioni di base non si manifestino in fenomeni linguistici (§ 2.3.2.).
Nessuno di questi pregiudizi è fondato.
2.3.1. Le presupposizioni di base non sono rilevanti
Se le presupposizioni di base non sono vincolate a particolari elementi
linguistici, allora non sono fenomeni rilevanti. Questa obiezione poggia
sull’assunto che ciò che è rilevante debba essere inciso nella struttura della
lingua. In realtà, è vero il contrario. Per rendersene conto, è sufficiente
riflettere sull’indeterminatezza della congiunzione perché che, come noto, può
introdurre sia una causa fisica (sintatticamente, un’espansione della frase), sia
un motivo dell’azione (sintatticamente, un’espansione del predicato).
Concludere da tale indeterminatezza la non pertinenza della distinzione tra
causa fisica e motivo, o pretendere che quest’ultima per sussistere necessiti due
congiunzioni specializzate, è semplicemente sbagliato. L’indeterminatezza di
perché non dimostra l’assenza della distinzione tra causa e motivo, ma prova
che tale distinzione è talmente radicata da non avere bisogno di un’impalcatura
linguistica per esistere. Analogamente, il fatto che le presupposizioni di base
non siano legate ad attivatori (a meno di non considerare i predicati
«attivatori» dei proprio criteri di selezione) è una prova non della loro scarsa
importanza, bensì del loro carattere fondamentale.
Ma l’obiezione precedente non è solo scorretta sul versante delle
presupposizioni di base: è anche fuorviante su quello delle presupposizioni
discorsive: la funzione delle presupposizioni discorsive (legate a specifici
«attivatori») può essere apprezzata solo per contrasto rispetto a quelle di base
(slegate da qualsiasi «attivatore»). Il pregiudizio in gioco, insomma, conferisce
alla lingua una posizione di rilievo solo in apparenza: in realtà, impedisce di
valorizzare proprio il ruolo attivo che essa svolge nelle presupposizioni
discorsive. Ritorneremo su questo punto ai capitoli 3 e 4.
2.3.2. Le presupposizioni di base non hanno manifestazioni linguistiche
Il secondo pregiudizio può essere presentato sotto forma di domanda
retorica: se le presupposizioni di base non sono legate ad attivatori, hanno
manifestazioni linguistiche? Il rapporto tra presupposizioni e criteri di
selezione, ovviamente, sradica tale perplessità: sostenere che le presupposizioni
di base non comportino fenomeni linguistici infatti significa sostenere due tesi
ugualmente assurde. La prima è che i criteri di selezione non individuano
fenomeni linguisticamente rilevanti; la seconda è che il diverso funzionamento
61
della negazione in Maria non ha scoperto che Obama è stato eletto vs. non ha
scoperto che McCain è stato eletto e l’incoerenza di Maria ha scoperto che
McCain sia stato eletto individuano fenomeni genuinamente linguistici, invece
il diverso funzionamento della negazione in Maria non è felice vs. La luna non
è felice e l’incoerenza di La luna è felice no. Ma tutto questo è banalmente
assurdo.
Ciononostante, c’è una forte resistenza a riconoscere fenomeni
linguistici che mettano in gioco presupposizioni di base. Si confrontino ad
esempio gli enunciati seguenti:
(3)
(4)
(5)
(6)
(7)
(8)
(9)
a. Perché Maria è triste?
b. Perché Maria è una persona?
a. Quale è la funzione di un chicco di grano?
b. Quale è la funzione di un bambino?
a. Paolo è invidioso della ricchezza del suo vicino?
b. Paolo è invidioso della ricchezza di zio Paperone?
a. Quale era il cibo preferito da Giulio Cesare?
b. Quale era il cibo preferito da Batman?
a. Come si fa a scrivere un sonetto? / Perché la tal poesia è un sonetto?
b. Come si fa a scrivere una poesia bella? / Perché la tal poesia è bella?
a. Perché non si deve adoperare un coltello per mangiare la minestra?
b. Perché non si deve uccidere il prossimo?
a. Perché questo piatto brucia?
b. Perché il fuoco brucia?
Perché c’è una resistenza a riconoscere che mentre gli enunciati (a) sono
coerenti e riceverebbero risposte semplici, gli enunciati (b) contengono una
sorta di incoerenza e avremmo serie difficoltà a rispondere? Perché non si è
disposti a considerare questo un dato, alla stregua dell’incoerenza dell’atto di
domandare se Maria abbia scoperto il tradimento di Paolo sapendo che Paolo
le è sempre stato fedele?
E’ vero che non ha senso domandare se Maria abbia smesso di fumare
nel caso in cui non abbia mai acceso una sigaretta, ma è forse meno vero che
non abbia senso chiedere perché Maria sia una persona o quale sia la funzione
di un bambino? E’ vero che non ha senso domandare se i figli di Paolo siano
calvi nel caso in cui Paolo non abbia figli, ma è forse meno vero che non ha
senso provare invidia per la ricchezza di zio Paperone mentre è sensato
provarla per il proprio vicino di casa?
Si dirà che la difficoltà nel rispondere a chi chieda se Maria abbia
smesso di fumare nel caso in cui non abbia mai cominciato sia più evidente
rispetto alla difficoltà di rispondere a chi chieda cosa sia o come si scriva una
bella poesia o perché non si debba uccidere il prossimo. Ma la storia dell’arte e
i continui tentativi di giustificare le norme morali non sono forse prove
sufficienti a far considerare la difficoltà di rispondere a (7b) e (8b) almeno
paragonabile alla difficoltà di rispondere a Maria ha smesso di fumare? quando
non ha mai cominciato? E perché si accetta di indagare l’origine di questa, ma
non di quella?
Insomma, da qualsiasi lato si guardino gli esempi (3-9) – dal punto di
vista dei comportamenti che ritraggono o semplicemente dal punto di vista
della coerenza linguistica – è assurdo non considerare la differenza tra gli
enunciati (a) e (b) un fenomeno da spiegare. E questa differenza non consiste
nel fatto che le domande (b) siano più difficili rispetto alle domande (a): può
62
essere difficile indagare le ragioni per le quali una persona è afflitta, ma non ha
senso indagare quelle per cui è una persona. La differenza tra gli enunciati (a) e
(b) ha le sue radici nella nozione di presupposizione di base.
Naturalmente, con questo, non intendo sostenere che gli esempi classici
non individuino casi di presupposizione; intendo però suggerire che lo sono – e
prototipicamente – anche gli esempi che ho proposto. Ritengo allora
necessario prendere in considerazione anche – e in primo luogo – questi ultimi.
Paradossalmente, la ragione per cui non lo si fa – per cui non appaiono subito
come presupposizioni – è proprio il loro carattere fondamentale.
2.3.3. Il paradosso dello specchio e le sue interpretazioni
La resistenza nel riconoscere fenomeni linguistici relativi a
presupposizioni di base non è né casuale, né imputabile a una pigrizia teorica
degli studiosi: ma è radicata nella natura stessa delle presupposizioni di base.
Illustrerò quello che intendo utilizzando il modello dello specchio delineato
sub. § 2.2.
Si immagini ancora il gatto sulla poltrona, che gioca con un gomitolo o
che dorme. Questa scenetta, ovviamente, ha una propria coerenza interna: cioè
proprie relazioni e condizioni di possibilità. Ad esempio: la poltrona è collocata
sotto il gatto e offre un supporto solido alla sua azione. Si immagini ora uno
specchio che rifletta la scenetta precedente. Altrettanto ovviamente,
l’immagine sulla superficie dello specchio riproporrà la scenetta con la propria
coerenza interna: con la poltrona sotto al micio, che offre un supporto solido
alle azioni di dormire o giocare. Se infrango lo specchio, la scena riflessa viene
falsata o viene meno: se distruggo la superficie dello specchio, cioè, distruggo
la condizione alla quale potevo avere quell’immagine. Ma l’integrità dello
specchio non è una condizione di coerenza di ciò che vi è ritratto: non bisogna
confondere la poltrona che offre un supporto al gatto con l’integrità della
struttura dello specchio.
Da un lato, considerata in se stessa, l’integrità della struttura specchio
è solo una condizione di sussistenza dello specchio e, in quanto tale, è qualcosa
di molto più contingente delle condizioni di coerenza di una scena come quella
del gatto che gioca o dorme sulla poltrona: che uno specchio sia integro e che
per essere integro debba avere una certa struttura è certamente un fatto più
contingente dell’idea che una poltrona sia un oggetto solido in grado di fornire
un supporto. Dall’altro lato, dal momento in cui la scena del gatto che gioca o
dorme sulla poltrona è riflessa nello specchio, si verifica un ribaltamento
gerarchico: l’integrità dello specchio, cioè, diventa fondamentale mentre le
condizioni di coerenza reali della scena diventano secondarie e subordinate ad
essa. Questo ribaltamento è ciò che chiamo «paradosso dello specchio». Il
paradosso dello specchio può avere due interpretazioni.
La prima interpretazione è negativa. Se uno tiene lo sguardo fisso nello
specchio, l’integrità della sua superficie gli apparirà una condizione di coerenza
dell’immagine stessa: anzi, gli potrà sembrare la più evidente e la più
importante in quanto condivisa da tutte le immagini. Ma se uno alza gli occhi
dallo specchio, si rende conto che l’integrità della superficie è un fatto
contingente come tanti altri: è più contingente, ad esempio, dell’idea che per
dormire o giocare su una poltrona occorre che la poltrona sia concreta. Fuor di
metafora: lo specchio è la lingua; l’immagine riflessa è il mondo: la struttura
dello specchio sono le presupposizioni linguistiche; la coerenza interna
63
dell’immagine sono le presupposizioni di base. Questa interpretazione del
paradosso chiarisce sia perché i linguisti si siano concentrati sulle
presupposizioni discorsive scambiandole per il fenomeno intero, sia l’origine
della loro resistenza nel riconoscere fenomeni linguistici inerenti a
presupposizioni di base. Come vittime di un incantesimo, hanno tenuto lo
sguardo fisso sullo specchio; ma basta distogliere gli occhi e ci si rende conto
che le presupposizioni discorsive sono solo la punta di un iceberg, una
provincia del fenomeno. In questo senso, la funzione del paradosso è negativa:
avverte di non guardare nello specchio, ma al di là di esso.
La seconda interpretazione del paradosso è invece positiva. Infatti, una
volta guardato al di là dello specchio, occorre riportare lo sguardo su di esso:
quando si sia chiarito che le condizioni di integrità della sua superficie non
sono le condizioni di coerenza dell’immagine riflessa, lo specchio diventa uno
strumento prezioso. Fuor di metafora: una volta chiarito che la lingua ha le
proprie presupposizioni discorsive che ne garantiscono l’integrità, il fatto che
rispecchi nei criteri di selezione le presupposizioni di base fa della lingua il
laboratorio migliore per studiare queste ultime. E la ragione è proprio il
ribaltamento gerarchico in cui consiste il paradosso dello specchio. Riflettendo
nei criteri di selezione le presupposizioni di base, la lingua le sottomette alle
proprie condizioni di integrità: di conseguenza, ne diventa autonoma e
permette di manipolarle creando significati incoerenti. L’esperienza – dove le
presupposizioni di base sono in gioco direttamente – non può fornire esempi di
trasgressione perché è sottomessa ad esse: qui le presupposizioni di base
risultano praticamente invisibili. La lingua – dove le presupposizioni di base
sono in gioco di riflesso – può fornire esempi di trasgressione perché,
rispecchiandole, le sottomette alle proprie presupposizioni: qui sono possibili
violazioni di presupposizioni di base che ne rilevano la presenza. Nel primo
caso, le presupposizioni di base sono accettate come scontate; nel secondo,
possono essere problematizzate (sottolineatura mia):
As consistency criteria escape from direct experience, the only way to analyze them is
to pay attention to the effects of their silent work, that is, to focus on instances of
transgression that ignore, or intentionally break, essential conceptual boundaries.
Among these instances, inconsistent linguistic expressions enjoy an indisputable
privilege (Prandi 2004: 104)
In questo senso, la funzione del paradosso dello specchio è positiva: ci indica
nella lingua – e precisamente nei criteri di selezione – il luogo privilegiato per
studiare le presupposizioni di base.
3. Differenze tra presupposizioni di base e discorsive
3.0. Introduzione
Riprendiamo il filo principale del discorso. Sub. § 1, ho addotto ragioni
per considerare «presupposizioni» sia le presupposizioni di base, sia le
presupposizioni discorsive. Ora devo illustrare è l’idea che le presupposizioni di
base e quelle discorsive divergano per l’ampiezza della pratica che fondano: da
tutta la nostra forma di vita a un preciso atto di parola, dal libero arbitrio al
verbo smettere (cioè il punto ii) sub. § 0). Questo scopo può essere raggiunto in
due passi: presentando una serie di differenze tra presupposizioni di base e
discorsive; interpretando queste differenze alla luce del loro comune carattere
64
di presupposizioni.
Come vedremo, le presupposizioni di base sono individuate da proprietà
negative: in genere, cioè, con esse non si può fare qualcosa che si può fare con
quelle linguistiche. Le presupposizioni di base risultano insomma ‘bloccate’ o
‘non-maneggiabili’: usando una metafora ortofrutticola ma vivida, sono patate
bollenti28.
3.1. Differenze informativo – semantiche
3.1.1. Tematizzazione
Mentre i contenuti di presupposizioni discorsive possono essere
tematizzati, ad esempio con una dislocazione a sinistra, i contenuti di
presupposizioni di base non possono esserlo. Questo appare evidente
confrontando:
(1)
(2)
a. Maria ha smesso di fumare?
b. Maria fumava.
c. Visto che Maria fumava, ti chiedo se ora ha smesso.
a. Maria è triste?
b. Maria è una persona.
c. * Visto che Maria è una persona, ti chiedo se è triste.
3.1.2. Giustificazione
Mentre i contenuti di presupposizioni discorsive possono essere
giustificati de re, ovvero sul contenuto proposizionale, i contenuti di
presupposizioni di base non possono esserlo. Partendo dagli esempi precedenti,
si osservi:
(1)
(2)
d. Perché Maria fumava?
d. Perché Maria è una persona?
Di fronte a (1d) si potrebbe rispondere qualcosa come:
(1)
e. Maria fumava perché era insicura.
f. Maria fumava. Lo faceva perché era triste.
Ma di fronte a (2d) non si può che provare una sensazione di imbarazzo:
(2)
e. Maria è una persona perché … Ø
E’ importante rendersi conto come tale «imbarazzo» non sia il sentimento che
proviamo di fronte ad una domanda difficile da rispondere: trovare le ragioni
profonde di (1d) senza accontentarsi di una risposta superficiale come (1e) può
essere estremamente difficile; trovare ragioni per (2d), invece, non è «difficile»:
è assurdo.
La classificazione delle differenze in informativo-semantiche e pragmatiche ha una
funzione illustrativa: tutte le proprietà seguenti sono sfaccettature di un medesimo fenomeno
radicato in ultima analisi nelle intuizioni catturate al § 2. dell’introduzione.
28
65
Certo, all’interno di un dibattito filosofico – dove è sospeso il senso
comune – potrebbe avvenire uno scambio come il seguente:
(3)
a. Quali ragioni hai per sostenere che Maria sia una persona?
b. Maria è una persona perché può provare sentimenti o essere crudele.
L’enunciato (3b), tuttavia, presenta una giustificazione o un tentativo di
giustificazione non de re ma de dicto, come del resto richiedeva la domanda.
Quello che davvero si intende con (3b), insomma, è qualcosa del genere:
(3)
c. (?)Maria è una persona. Lo sostengo perché può provare sentimenti
ed essere crudele.
L’enunciato (3c) è un caso – comunque strano – di motivo del dire abduttivo.
La conclusione, dunque, è che le presupposizioni di base non possono
essere coerentemente giustificate de re; se a tutti i costi – sospendendo il senso
comune – si vuole trovare una giustificazione, essa è possibile esclusivamente
de dicto e anche in questo caso resta un indicativo residuo di incoerenza. Come
scrive R. G. Collingwood:
[…] any question involving the presupposition that an absolute presupposition is a
proposition, such as the questions ‘Is it that true?’ ‘What evidence is there for it?’
‘How can be demonstrated’ ‘What right have we to presuppose it if it can’t?’, is a
nonsense question (Collingwood 1940, 1998: 33)
3.1.3. Primo corollario sui sentimenti appropriati
Soffermarsi sul fatto che le presupposizioni di base si collochino fuori
dallo spazio logico della giustificazione, consente di aprire una parentesi sulla
differenza tra sentimenti appropriati ai contenuti delle presupposizioni di base
e sentimenti appropriati ai contenuti delle presupposizioni discorsive.
Si immagini qualcuno che affermi di aver scoperto o aver capito o
essersi reso conto che (1b):
(4)
a. Oggi ho scoperto che Maria fumava.
L’enunciato (4a) non pone alcun problema. La completiva oggettiva è il
contenuto di una presupposizione discorsiva e quindi un possibile oggetto di
conoscenza. Se questo è vero, chi domanda (1d) esprime un desiderio di
conoscenza – che è la forma più nobile della curiosità – e chi afferma (4a)
spegne quel desiderio di conoscenza.
Si immagini ora qualcuno che affermi di capire o rendersi conto o aver
finalmente scoperto che (2b):
(4)
b. *Oggi ho scoperto che Maria è una persona.
Il pathos che avvolge un enunciato come (4b) non è fuori luogo: se dovessimo
immaginare chi potrebbe pronunciare qualcosa come (4b) non sarebbe fuori
luogo pensare a un innamorato di Maria. La completiva oggettiva di (4b) è una
presupposizione di base e quindi non è un oggetto di conoscenza possibile. Se
questo è vero, chi domanda (2d) non esprime la curiosità di uno scienziato
davanti a un fenomeno; e chi riesce ad afferrare qualcosa come (4b) non sta
66
affatto saziando una curiosità o una sete di conoscenza. Se dovessi dare un
nome al sentimento espresso da chi asserisce qualcosa come (4b), direi
«meraviglia»: la meraviglia di un Santo di fronte al creato, di un innamorato di
fronte alla amata29 e in generale di chiunque di fronte a un miracolo.
Quando una presupposizione di base ci appare improvvisamente davanti
agli occhi come «[…] da un malchiuso portone […] il giallo dei limoni»,
sorge quello a cui forse L. Wittgestein si riferisce con la parola «Mistico» alla
prop. 6.44 del Tractatus:
Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è. (Wittgenstein 1961, 1998: 108)
Il che che precede una presupposizione discorsiva (che Maria fumava, nel
nostro esempio) ci informa su come è fatto il mondo: ci presenta un fatto;
invece, il che a cui L. Wittgenstein fa riferimento è quello che introduce una
presupposizione di base (che Maria è una persona): non ci informa su un fatto
del mondo, ma esibisce un suo fondamento. Il «sentimento Mistico» è il
sentimento espresso dal domandare o affermare una presupposizione di base.
In sintesi, attenendoci allo scopo ristretto di questa sezione – la
differenza tra presupposizioni discorsive e presupposizione di base – la
conclusione è la seguente. La curiosità (curiositas) è il sentimento appropriato
ai contenuti di presupposizione discorsive; il sentimento appropriato alle
presupposizioni di base, invece, sembra essere qualcosa di diverso: che
qualificheremmo come «meraviglia». Poiché le prime sono contingenti, il loro
sentimento (la curiosità) può essere spento come la sete; poiché le seconde sono
sistematiche, il loro sentimento (la meraviglia) non viene spento, ma
tipicamente origina una nuova visione del mondo: hic incipit vita nova, et nova
intelligentia.
3.2. Differenze pragmatiche
3.2.1. Atti linguistici e modificazioni di atti linguistici
Mentre i contenuti di presupposizioni discorsive possono essere
asseriti, interrogati e in generale usati per compiere atti linguistici, i contenuti
di presupposizioni di base non possono esserlo. Per rendersene conto è
sufficiente confrontare:
(5)
(6)
a. Affermo che Paolo fumava!
b. Paolo fumava?
a. *Affermo che Paolo sia una persona!
b. *Paolo è una persona?
Con il lessico di Sperber&Wilson (1986, 2008), mentre il contenuto di una
presupposizione discorsiva è in grado di funzionare come contenuto
proposizionale di un’affermazione o una domanda «pertinente» o «rilevante»
alla situazione comunicativa, il contenuto di una presupposizione di base si
In effetti, l’amore tra due persone è una presupposizione di base delle loro vite: in
questa prospettiva, si spiega perfettamente il carattere immotivato di tale sentimento sul quale
insiste giustamente R. De Monticelli (De Monticelli 2003: 172-175. L’amore di una madre
verso un figlio, di un innamorato o anche di un amico è immotivato perché è una
presupposizione di base.
29
67
comporta come una tautologia che non è in grado di fare questo se non
ripiegando a livello de dicto o meta-discorsivo. Troviamo qui le ragioni delle
differenze inerenti alla giustificazione presentate al paragrafo precedente.
L’enunciato (6a) mostra che il tentativo di giustificazione de dicto di una
presupposizione di base è inevitabilmente fallimentare perché quest’ultima non
può essere il contenuto proposizionale di un’asserzione30. L’enunciato (6b),
invece, mostra che una presupposizione di base non può ricevere giustificazioni
de re per il semplice fatto è già assurdo domandarle. Come scrive R. G.
Collingwood:
[…] absolute presuppositions are never […] propounded. I do not mean that they
sometimes go unpropounded […] I mean that they are never propounded at all. To
be propounded is not their business; their business is to be presupposed (Collingwood
1940, 1998: 32-33).
Ma se il contenuto di una presupposizione di base – a differenza di
quello di una presupposizione discorsiva – non può funzionare come
affermazione, domanda o atto linguistico tout court, allora non può neppure
funzionare come contenuto di un atto linguistico modificato: cioè sospeso,
modalizzato o avvolto da qualche atteggiamento proposizionale. Esaminiamo
allora ciascuno di questi casi.
Se il contenuto di (6a) non può essere il contenuto di un’affermazione,
non può neppure essere il contenuto di un’affermazione sospesa: cioè di
un’ipotesi. E’ quanto mostrato dalla differente coerenza tra:
(5)
(6)
c. Se Paolo fumasse…
c. *Se Paolo fosse una persona…
Del resto, l’esito naturale dello sforzo di ripertinentizzare (6c), magari in sede
di dibattito filosofico, è un’interpretazione de dicto o meta-discorsiva quale:
(6)
c’. Se come tu sostieni «Paolo è una persona», allora…
La differenza tra (5c) e (6c), inoltre, mostra che mentre esistono mondi
possibili o situazioni controfattuali in cui Paolo ha o non ha fumato o in cui è
triste o allegro – cioè mentre esistono mondi possibili in cui si realizzano o
meno i contenuti delle presupposizioni di base – non esistono mondi possibili o
situazioni controfattuali in cui Paolo non è una persona: cioè non esistono
mondi possibili in cui non si verificano i contenuti delle presupposizioni di
base31.
Se il contenuto di (6a) non può funzionare come affermazione, allora
non può neppure funzionare come affermazione modalizzata:
(5)
d. Paolo può aver fumato.
e. Può essere che Paolo abbia fumato.
f. Non può essere che Paolo non abbia fumato.
Ovviamente, questa è anche la ragione per cui le presupposizioni di base non potevano
essere tematizzate (cfr. § 3.1.1.).
31
Da qui sembra immediato concludere che le presupposizioni di base sono vere in tutti
i mondi possibili. Questa conclusione, tuttavia, è sbagliata. L’incoerenza dell’ipotesi (6c) prova
che non ha senso dire che Paolo è una persona in tutti i mondi possibili. Che Paolo sia una
persona – cioè una presupposizione di base – semplicemente non è un’ipotesi: non è un fatto
tout court, ma una condizione alla quale si hanno fatti possibili, impossibili o necessari.
30
68
(6)
d. *Paolo può essere una persona.
e. *Può darsi che Paolo sia una persona.
f. *Non può essere che Paolo non sia una persona.
Confrontando gli esempi (5d-f) con (6d-f), ci rendiamo conto che,
indipendentemente dalle strutture modali impiegate, sapremmo individuare in
modo chiaro il senso di potere nel primo caso ma non nel secondo: in (5d-f),
potremmo parlare di un’interpretazione «epistemica», ma a che tipo di impiego
ci troviamo di fronte in (6e-f)? Come si vede, qui ricadiamo in una situazione
analoga a quella rilevata sub. § 1.4 per enunciati quali: Maria (non) può
sorridere vs. La luna (non) può sorridere.
Se il contenuto di (6a) non può funzionare come affermazione, non può
neppure funzionare come affermazione ammantata da un atteggiamento
proposizionale:
(5)
(6)
g. Sono certo (Credo/Dubito/Temo/Spero…) che Paolo abbia fumato.
g. *Sono certo (Credo/Dubito/Temo/Spero…) che Paolo sia una
persona.
Tutto lo sforzo teorico di L. Wittgenstein in Della certezza è volto a studiare
l’impiego di certo in esempi come (6g) e non (5g): in questi certo si oppone a
credo come stima di certezza; in quelli certo e credo hanno un impiego
completamente diverso, che è il fantasma del precedente.
3.2.2. Usi comunicativi e retorici della presupposizione
Al capitolo 1, avevamo distinto le accezioni comunicativa e retorica di
«presupposizione». Vedremo ora che mentre queste nozioni si applicano per i
contenuti di presupposizioni discorsive, non funzionano per i contenuti di
presupposizioni di base32.
Ecco un esempio di impiego comunicativo della presupposizione
(7)
a. Maria ha mai fatto uso di droghe?
b. Ha smesso di fumare uno spinello da dieci minuti. Fai un po’ tu.
In uno scambio come (7), il messaggio comunicato dal secondo locutore è il
presupposto dell’enunciato impiegato: cioè l’idea che Maria fumasse. La
condizione alla quale questo può avvenire è, il carattere «aperto» (Strawson
1974) o reciprocamente riconosciuto della volontà di comunicare il
presupposto: ciò che al capitolo 1 sub. § 1.2.2., avevamo etichettato «principio
di reciprocità intenzionale». Nulla di tutto questo ha senso nel caso di una
presupposizione di base:
(8)
a. Maria è una persona?
b. Ieri era triste. Fai un po’ tu.
Lo scambio dialogico inscenato in (8) è assurdo: è assurda la risposta perché è
assurda la domanda. La conclusione che le presupposizioni di base – a
differenza di quelle discorsive – non possono essere messaggi: mentre è
Queste sono conseguenze di quanto sostenuto sub § 3.2.1.. Preferisco comunque
illustrarle per ragion di chiarezza espositiva.
32
69
ragionevole pensare di informare qualcuno sul fatto che Maria facesse uso di
droghe (e farlo, per di più, con un salto carpiato come l’enunciato (7b)), non lo
è pensare di informare qualcuno sul fatto che Maria sia o no una persona.
Con l’etichetta «accezione retorica di presupposizione» si intendeva il
fenomeno in base al quale le presupposizioni discorsive possono essere
sfruttate per pilotare la prosecuzione di un dialogo: imponendo
surrettiziamente all’interlocutore di accettare determinate proposizioni.
Questo caso si differenzia dal precedente – l’impiego comunicativo della
presupposizione – per il fatto che l’intenzione del locutore deve restare
nascosta e che, dunque, non ci troviamo di fronte a un atto comunicativo.
Un’illustrazione è offerta dai vanti. In genere, vantarsi consiste nell’indurre
qualcuno ad accettare una certa informazione senza che egli riconosca la
nostra vera intenzione; e un buon modo per fare questo è usare enunciati che
contengono presupposizioni discorsive. Ad esempio, si immagini una persona
che con aria preoccupata asserisca:
(9)
Ho lasciato la Lamborghini in divieto di sosta! Speriamo di non
prendere una multa.
Se ci spostiamo sul versante delle presupposizioni di base, ancora una volta,
tutto questo perde di senso. Infatti, mentre è ragionevole pensare di indurre
surrettiziamente qualcuno ad ingoiare l’idea che possediamo una Lamborghini
(ad esempio, appunto, per vantarci), non lo è pensare di indurre
surrettiziamente qualcuno ad accettare l’idea che Maria sia o no una persona.
In questo senso, possiamo concludere che le presupposizioni di base – a
differenza di quelle discorsive – non possono essere oggetto di insinuazione o
‘informazione’ subliminale.
3.2.3. Contenuti di credenze
Se non ha senso informare qualcuno del fatto che Maria sia una
persona, vuol dire che questo fatto non può essere il contenuto di una
credenza: di quella credenza di cui vorremmo convincere il nostro
interlocutore aggiungendola al suo bagaglio di conoscenze. Se non ha senso
insinuare in qualcuno l’idea che Maria sia una persona, vuol dire che, ancora
una volta, questa idea non può essere il contenuto di una credenza: di quella
credenza che vorremmo che il nostro interlocutore si trovasse obbligato ad
ammettere senza essersi accorto di nulla. In ogni caso, dunque, le
presupposizioni di base non possono essere contenuti di credenze.
Al contrario delle presupposizioni discorsive, le presupposizioni di base
non possono rivestire nessuno dei ruoli che le credenze (le cosiddette
«conoscenze condivise») svolgono nel corso di un dialogo. Anzitutto,
ovviamente, non sono conoscenze che possano essere affermate, negate o
giustificate sul palcoscenico del discorso: il livello in cui si attua la
progressione delle informazioni, che O. Ducrot definisce «del contenuto
posto». Ma, in secondo luogo, le presupposizioni di base non sono neppure
conoscenze collocate dietro le quinte del discorso: elementi di quello sfondo di
credenze dato per acquisito ad un certo momento della conversazione, che O.
Ducrot definisce «contenuto presupposto», che R. Stalnaker cattura con la
nozione di «insieme presupposizionale» e altri con l’etichetta di «common
ground» o «conversational background» (cfr. capitolo 1., § 3.2.3.).
70
Tipicamente, le presupposizioni discorsive cominciano la loro carriera non
come presupposizioni, ma come informazioni collocate sulla ribalta del
contenuto «posto»; dopo, passano in cabina di regia: cioè diventano parte dei
«contenuti presupposti» andando ad alimentare le cosiddette «conoscenze di
sfondo» o appunto common ground. Questa carriera – che è il fulcro di
posizioni come quelle di O. Ducrot e R. Stalnaker – non riguarda le
presupposizioni di base.
In sintesi: i contenuti delle presupposizioni discorsive possono essere
oggetto di credenze e questo implica che possano avere avuto un passato in cui
non erano presupposizioni, ma informazioni esplicitamente asserite; i contenuti
delle presupposizioni di base, invece, non possono in alcun modo essere
oggetto di credenze e questo esclude che possano essere state mai altro che
presupposizioni.
3.2.4. Secondo corollario sui sentimenti appropriati
Le precedenti osservazioni sulle credenze consentono di ritornare
ancora sui sentimenti appropriati alle presupposizioni di base. Si considerino
gli esempi seguenti:
(10)
a. Maria fumava.
b. Credo / sono certo, ecc. che Maria fumava.
Nei termini di J. L. Austin (Austin 1962, 1996: 40), l’enunciato (10a) dà per
implicito (10b): asserire (10a) ma non (10b), «chiaramente è un caso di
insincerità». Nei termini di J. R. Searle (Searle 1969, 2000: 98), l’enunciato
(10b) descrive lo «stato psicologico espresso» da chi afferma (10a). In altre
parole: chi compie un’asserzione si impegna a credere a quello che dice e,
asserendo quello che asserisce, esprime o manifesta quella credenza. Il legame
tra affermazione e credenza dipende da quello tra affermazione e verità: è
perché chi afferma qualcosa fa affidamento sulla verità di questo qualcosa che è
impegnato a credere a quello che dice e che il ricevente è tenuto a prenderlo in
parola. La credenza è il sentimento – o l’atteggiamento o la reazione (se ci
poniamo dal punto di vista del ricevente) – appropriato alla verità. Questa è la
ragione del fatto che (10b) è la condizione di sincerità di (10a).
Ora, l’enunciato (10b) esprime la condizione di sincerità di (10a): e
questo perché (36a) è il contenuto di una presupposizione discorsiva, cioè è un
oggetto di verità. Ma cosa accade nel caso del contenuto di una
presupposizione di base? Quale ‘stato psicologico’ esprime chi cerca di
affermare una presupposizione di base? O ancora: se il sentimento o
l’atteggiamento appropriato alla verità è la credenza, quale è il ‘sentimento’ o
‘l’atteggiamento’ appropriato a una presupposizione di base che non è una
verità? Per rispondere, si osservino gli enunciati seguenti:
(11)
a. Maria è una persona.
b. Credo (Sono certo) che Maria è una persona.
Poiché l’enunciato (11a) non esprime una verità, le espressioni credo o sono
certo in (11b) non esprimono stime di credenza, ma qualcosa di diverso. Se
dovessi caratterizzare questo qualcosa direi che esprimono non una conoscenza
o una credenza ma una «fede».
71
La conclusione è questa: il sentimento appropriato a un contenuto di
presupposizione discorsiva è la credenza, il ‘sentimento’ appropriato al
contenuto di una presupposizione di base è la fede33.
3.3. Una gerarchia di presupposizioni
3.3.0. Introduzione
Eccoci al momento cruciale del capitolo. Sub. § 1. ho sviluppato il punto
i) del § 0 sostenendo che le ragioni che inducono a chiamare «presupposizioni»
le presupposizioni discorsive impongono di chiamare «presupposizioni» le
presupposizioni di base. Sub. §§ 3.1. e 3.2. ho sviluppato il punto ii) del § 0
presentando una serie di differenze tra presupposizioni discorsive e
presupposizioni di base. Ora devo spiegare queste differenze facendo leva sulla
comune natura di presupposizioni.
A questo scopo, si affianchino enunciati precedentemente usati per
esprimere presupposizioni discorsive a enunciati usati per esprimere
presupposizioni di base:
(1)
(2)
a. Paolo ha tradito Maria.
b. Maria fumava.
c. Barack Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti.
d. Ho una Lamborghini.
a. La luna non è una persona.
b. Maria è una persona.
Se non sapessimo che gli enunciati (1) individuavano presupposizioni
discorsive, non penseremmo mai di considerarli presupposizioni: qualsiasi
enunciato può essere una presupposizione discorsiva. Ma non qualsiasi
enunciato può essere una presupposizione di base: infatti, di fronte agli
enunciati (2) percepiamo immediatamente il sapore del commonplace nel senso
di G. E. Moore.
Al contrario di (1), gli enunciati (2) hanno l’aspetto di tautologie;
tuttavia, sono tautologie particolari diverse ad esempio da:
(3)
a. «Scapolo» è un uomo adulto non sposato.
b. Una motosega è un attrezzo che serve per tagliare il legno.
c. O Paolo ha figli o non ne ha.
Gli enunciati (3) sono tautologie: (3a) è una tautologia fondata sul lessico (una
«tautologia lessicale»); (3b) è una tautologia basata su modelli cognitivi
socialmente condivisi (una «tautologia concettuale»): (3c) è una tautologia
basata sulla forma della proposizione (una «tautologia formale»). Gli enunciati
(2) esprimono invece tautologie basate sulla nostra ontologia naturale: sono
«tautologie eidetiche».
Le virgolette indicano che, a rigore, non si tratta di un sentimento. La fede in questo
senso non è un sentimento: se pensata in analogia a una credenza appare una sorta supercredenza, ma questa è una interpretazione metaforica. «Fede» qui è da intendersi nello stesso
senso in cui R. G. Collingwood impiega questo nome nell’espressione «fede cristiana»
(Collingwood 1940, 1998: 225).
33
72
3.3.1. Dalle presupposizioni discorsive alle presupposizioni di base
Perché i contenuti di presupposizioni discorsive – cioè enunciati come
(1) – possono essere tematizzati, giustificati, comunicati, insinuati, creduti,
mentre i contenuti di presupposizioni di base – cioè enunciati come (2) – non
possono essere né tematizzati, né giustificati, né comunicati, né insinuati, né
creduti? E perché sentimenti appropriati ai primi sembrano essere la curiosità
e la credenza, mentre sentimenti appropriati ai secondi sembrano essere la
meraviglia e la fede?
Il modo più semplice per giustificare la lista delle precedenti
caratteristiche ‘positive’ dei contenuti di presupposizioni discorsive è sostenere
che sono proposizioni sintetiche a posteriori: cioè descrivono fatti contingenti,
che avrebbero potuto essere altrimenti. Che descrivano fatti è mostrato dalla
possibilità di inserirle coerentemente come oggetto o soggetto di un verbo
fattivo, ad esempio secondo lo schema:
(4)
a. Ho scoperto che (1).
Questo significa che tali contenuti funzionano come presupposizioni soltanto
rispetto a una pratica particolare o un preciso atto linguistico: al di là di esso,
sono fatti accidentali che richiedono un fondamento.
Il modo più semplice per giustificare la lista delle caratteristiche
‘negative’ attribuite ai contenuti di presupposizioni di base è sostenere che
descrivano non fatti contingenti, ma a priori che costituiscono gli argini di
tutta la nostra forma di vita. Che non descrivano fatti è mostrato
dall’impossibilità di inserirle coerentemente come oggetto o soggetto di un
verbo fattivo, ad esempio secondo lo schema:
(4)
b. *Ho scoperto che (2).
Questo significa che tali proposizioni individuano i fondamenti ultimi o la volta
(a seconda della metafora preferita) della nostra forma di vita, senza aver
bisogno esse stesse di fondamento.
L’idea che si delinea, dunque, è che una pratica possa essere pensata
come una gerarchia di presupposizioni dove ciascun livello funziona in quanto
condizione di coerenza rispetto a un altro fornendone il fondamento. Il
territorio delle presupposizioni è orientato tra due estremi di un continuum o
due poli di una gerarchia:
i)
verso il limite destro del continuum – verso il polo più elevato della
gerarchia – troviamo le presupposizioni che funzionano come tali
rispetto a tutte le nostre azioni: queste sono le regole dell’ontologia
naturale o, con i termini di P. F. Strawson, le «proposizioni della
metafisica descrittiva» o l’oggetto dell’analisi metafisica di R. G.
Collingwood:
The analysis which detects absolute presuppositions I call metaphysical analysis […]
(Collingwood 1940, 1998: 40)
ii)
verso il limite sinistro del continuum – verso il polo più basso della
gerarchia – troviamo le presupposizioni che funzionano come tali
soltanto rispetto ad azioni particolari, al di là delle quali sono esse
73
stesse semplici fatti contingenti: queste sono le presupposizioni
linguistiche o discorsive individuate dalle condizioni di felicità o
ancorate ai vari «attivatori».
I livelli di questo continuum non si distinguono per il funzionamento in quanto
presupposizioni – cioè in quanto condizioni di coerenza – ma per l’ampiezza del
dominio rispetto al quale funzionano come tali: da tutta la nostra vita alla
battuta di un dialogo, dal libero arbitrio al verbo smettere. Le presupposizioni
al polo i) funzionano come presupposizioni di tutta la nostra forma di vita e
nella misura in cui fanno questo passano sotto silenzio: infatti, non possono
essere oggetto di comunicazione o argomentazione. Le presupposizioni al polo
ii) invertono queste caratteristiche: introducono presupposizioni che
funzionano come tali solo in rapporto ad una pratica particolare e, nella misura
in cui fanno questo, emergono sulla superficie dell’espressione. In questa
prospettiva, le presupposizioni discorsive continuano sì a individuare un caso
interessante del fenomeno ma certamente non prototipico.
3.3.2. Presupposizioni mediate vs. presupposizioni immediate
Riprendiamo gli enunciati seguenti:
(5)
(6)
a. Maria ha scoperto che Paolo l’ha tradita.
b. Paolo tradiva Maria.
a. Maria sorride.
b. Maria è una persona.
Sub. § 1. ho accomunato (5b) a (6b) sulla base del fatto che affermando,
negando, interrogando, giustificando, ipotizzando, modalizzando (5a) e (6a)
non si afferma, nega, interroga, giustifica, ipotizza o modalizza né (5b) né (6b).
Sub. § 3 ho differenziato (5b) da (6b) sulla base del fatto mentre il primo in se
stesso – cioè al di fuori di (5a) – può essere affermato, negato, interrogato,
giustificato, ipotizzato o modalizzato, il secondo non può mai esserlo. La
domanda che si pone ora è: come giustificare tutto questo?
Il modo più semplice è il seguente. Il fatto che sia sensato affermare,
negare, interrogare, ecc. (5b) prova che (5b) in se stesso – cioè al di fuori di (5a)
non è una presupposizione: l’enunciato (5b) manifesta i comportamenti tipici di
una presupposizione solo rispetto a (5a). Il fatto che sia strano affermare,
negare, interrogare, ecc. (6b) prova che (6b) – indipendentemente da qualsiasi
situazione – è una presupposizione: (6b) manifesta il comportamento tipico di
una presupposizione allo scoperto. Se (5b) è una presupposizione solo rispetto
a (5a), (6a) è una presupposizione sempre: in se stesso. Il nostro accesso a (5b)
qua presupposizione è mediato o indiretto o a posteriori: affinché si
manifestino i sintomi della presupposizione, è necessario che intervenga
qualche attivatore; al contrario, il nostro accesso a (6b) qua presupposizione è
immediato o diretto o a priori: qui i sintomi della presupposizione si
manifestano subito, senza che debba intervenire alcun attivatore.
L’impossibilità di tematizzare, giustificare, comunicare, insinuare o credere
enunciati come (6b) – le caratteristiche che sub § 3 distinguevano le
presupposizioni di base da quelle discorsive – non erano nient’altro se non
l’esibizione, a nudo, di un comportamento presupposizionale.
Se questo è vero, i punti i) e ii) sub § 3.1, possono essere ulteriormente
74
riformulati:
i)
ii)
ci sono contenuti – come (5b) – che sono percepiti immediatamente
come presupposizioni: questo è l’ambito dei presupposti di base ed è il
cuore del fenomeno della presupposizione;
ci sono contenuti – come (4b) – che per essere percepiti come
presupposizioni necessitano di strutture linguistiche: questo è l’ambito
dei presupposti discorsivi, che individuano casi del tutto peculiari del
fenomeno.
Dal punto ii) segue il corollario:
ii.i)
gli «attivatori» esistono per rendere presupposizioni – per lo spazio
limitato di una certa pratica – contenuti che in se stessi non sono affatto
presupposizioni. E’ proprio perché tali contenuti, in se stessi, non sono
presupposizioni che può essere sensato renderli tali; ed è proprio perché
tali contenuti sono fatti contingenti (cioè oggetti possibili di credenza)
che può essere sensato pensare di renderli presupposizioni col fine
preciso di indurre l’interlocutore a darli per scontati (come se, appunto,
condividesse quelle credenze).
In sintesi: «presupposizione» è una funzione, la funzione di condizione
di coerenza svolta da un’idea rispetto a una pratica. Ci sono idee che svolgono
questa funzione in modo contingente: in se stesse, cioè, non sono
presupposizioni ma per diventarlo necessitano di attivatori. Queste idee
funzionano come condizioni di coerenza di pratiche ristrette (ad es. un singolo
atto linguistico) e sono le presupposizioni discorsive: quando non svolgono la
funzione di presupposizione, sono fatti contingenti che possono essere
giustificati, asseriti, creduti o inferiti. Ci sono idee che svolgono la funzione di
presupposizione in modo necessario: cioè sono, in se stesse, presupposizioni.
Queste idee funzionano come condizioni di coerenza di tutta la nostra forma di
vita e sono le presupposizioni di base: poiché non possono essere altro che
presupposizioni, non sono mai oggetto di giustificazione, asserzione, credenza
o inferenza.
3.3.3. Le forme dell’incoerenza
Sub. § 2.1.1. avevamo accennato alle due classiche forme di anomalia: la
a-grammaticalità di Cesare e ma e l’incoerenza di Idee verdi senza colore
dormono furiosamente. Nel primo caso, non si ha una struttura di frase in
grado di costruire un significato; nel secondo, si ha un significato ma un
significato incoerente. Questa differenza si manifesta anche nelle sensazioni
che avremmo di fronte all’una e all’altra forma di fallimento: possiamo trovare
la seconda affascinante, inquietante o addirittura bella, ma non arriveremmo a
provare alcunché di fronte alla prima.
Se ci domandiamo cosa significhi che un enunciato come Idee verdi
senza colore dormono furiosamente sia incoerente, possiamo offrire due
risposte. La prima risposta è teorica: in questo senso, che un enunciato sia
incoerente significa che viene meno il presupposto che fonda il modello
cognitivo sul quale poggia la sua predicazione. La seconda risposta è pratica e
consiste nell’addurre i fenomeni che ne conseguono: cioè il fatto che l’enunciato
75
in questione non può essere sensatamente affermato, negato, interrogato,
giustificato, ipotizzato, modalizzato.
Si considerino ora gli enunciati seguenti:
(7)
a. La luna sorride.
b. Paolo sega un fiore.
c. Paolo ha scoperto che McCain è stato eletto presidente.
d. Paolo è una persona.
Dal punto di vista della definizione pratica di incoerenza, tutti gli enunciati (7)
sono incoerenti perché (lo abbiamo visto sub. § 1) nessuno può essere
affermato, negato, ipotizzato, giustificato, modalizzato coerentemente. Ciò, sia
chiaro, non significa che non si possano tracciare distinzioni.
Si considerino anzitutto gli enunciati (7a-c). Questi enunciati sono
incoerenti perché contengono la violazione di una presupposizione; ma (7a)
contiene la violazione di una presupposizione di base, (7b-c) no. La
presupposizione violata in (7b) è un modello cognitivo ad ambito di
condivisione piuttosto esteso: la differenza tra erbe e piante ad alto fusto; la
presupposizione violata in (7c) è un modello cognitivo ad ambito di
condivisione più ristretto del precedente: l’esito delle elezioni presidenziali
americane di un certo anno. Se confrontiamo i presupposti violati in (7a-c)
notiamo una gerarchia: quello violato in (7a) è l’a priori più generale e stabile;
quello violato in (7b) è ancora un a priori ma più limitato del precedente (e si
fonda su quest’ultimo); quello violato in (7c) non ha per nulla l’aspetto di un a
priori ma di un fatto a posteriori e contingente: se può risplendere della luce di
un a priori è solo limitatamente all’enunciato in cui compare. La
presupposizione violata in (7a) – una presupposizione di base – è collocata al
limite alto del continuum delineato sub. § 3.1.: l’effetto tipico della sua
frustrazione è la produzione di incoerenza concettuale par excellence e può
essere accompagnata da effetti estetici. Qui è in gioco un a priori condiviso
dalla forma di vita umana in quanto tale. La presupposizione violata in (7b) si
colloca a un livello intermedio: qui è in gioco un modello cognitivo che
funziona come a priori all’interno di una comunità sociale o linguistica.
L’effetto tipico della sua frustrazione è una sensazione d’inappropriatezza
nell’impiego di un termine. La presupposizione violata in (7c) è il limite più
basso del continuum delineato sub. § 3.1: è una presupposizione discorsiva e
questo è l’ambito di applicazione degli attivatori. Qui troviamo un mero fatto
contingente che assume temporaneamente lo statuto di a priori per lo spazio di
alcune battute dialogiche. L’effetto tipico della sua frustrazione oscilla tra la
percezione di un impiego inappropriato dell’enunciato (Fillmore 1969: 120121) e – proprio in virtù del carattere effimero – la considerazione del suddetto
enunciato come semplicemente falso.
Ma ora il punto è: che dire di (7d)? A differenza di (7a-c) non sembra
incoerente: in apparenza, cioè, non si penserebbe di doverlo escludere nel gioco
del puzzle del § 2.1.2.. E tuttavia, a ben guardare, è incoerente. Questa
incoerenza è rivelata dalla definizione pratica: cioè dal sostanziale blocco di
tutte le manipolazioni sottolineate al sub. § 3. La domanda, allora, diventa:
perché (7d) – che enuncia direttamente una presupposizione di base – sembra
coerente anche se in pratica non lo è, mentre (7a) – che contiene una
presupposizione di base violata – appare subito come incoerente? Come scrive
L. Wittgenstein alla proposizione 252 delle Ricerche filosofiche:
76
Alla proposizione: «Questo corpo ha un’estensione» potremmo rispondere:
«Insensato!» – ma siamo propensi a rispondere: «Naturalmente!» – Perché?
(Wittgenstein 1953, 1999: 121)
La risposta la otteniamo rivolgendoci alla definizione teorica di
coerenza. Gli enunciati (7a) e (7d) sono entrambi incoerenti nel senso che
entrambi non poggiano su nessuna presupposizione di base: il primo perché le
distrugge, il secondo perché le predica e cioè le pone come oggetto di discorso.
In entrambi i casi, all’enunciato mancano le fondamenta. La differenza è
questa: in (7a), dove l’incoerenza è evidente, al di sotto ci sono macerie; in (7d),
dove l’incoerenza passa inosservata, al di sotto c’è soltanto il vuoto. Il caso di
(7d) è tipico di quando si porta ad emersione una presupposizione di base; di
conseguenza, riprendendo la terminologia avanzata sub. § 1.1., possiamo dire
che la predicazione in (7d) sia «esterna»: «esterna» a qualsiasi paradigma34.
Il caso di Maria è una persona è quindi analogo ai casi di Maria non può scoprire (non
ha scoperto) che McCain è stato eletto o La luna non sorride (non può sorridere) discussi sub.
34
§ 1.1. e 1.4.: in entrambi, abbiamo un impiego fantasmatico o larvale della predicazione. La
differenza è questa. Nei secondi, il predicato può anche avere un impiego pieno o concreto ma
non nel primo caso, dove si fa emergere una presupposizione di base. In un esempio come La
luna non sorride (può sorridere) il predicato è usato facendo astrazione dai giochi linguistici o
dagli impieghi in cui ha un significato reale; ma, appunto, ci sono giochi linguistici o impieghi
in cui ha un significato reale: precisamente quelli dove sono rispettate le presupposizioni di
base. In un esempio come Maria è una persona, invece, il predicato non può che essere usato
facendo astrazione da tutti i possibili giochi linguistici o impieghi: e questo perché porta ad
espressione un presupposto che li fonda tutti. Un predicato come sorridere / potere sorridere
ammette sia usi coerenti (che fanno affidamento sulle presupposizioni di base) sia usi metaforici
(che violano sulle presupposizioni di base), e in quest’ultimo caso ammette sia usi dissolutivi
(che spostano in un’ontologia fittizia con diverse presupposizioni di base come nelle favole), sia
usi proiettivi (che mantengono aperto il conflitto), sia usi regressivi (che risolvono il conflitto
nel senso della coerenza mantenendo le presupposizioni di base), sia usi che chiamerei «iperregressivi» i quali mettono direttamente in gioco le presupposizioni di base. Un predicato
come essere una persona, invece, non può che essere usato in maniera metaforica (cioè senza
fare affidamento sulle presupposizioni di base) per la semplice ragione che esprime lui stesso
una presupposizione di base: di conseguenza, ammette – a fortiori – solo gli impieghi iperregressivi.
77
PARTE II
Discesa alle presupposizioni discorsive
L’interesse di questa tesi sono le presupposizioni di base. Tuttavia, dopo aver
relegato quelle discorsive in una provincia dell’impero non possiamo
abbandonarle. Al contrario occorre suggerire come la nostra impostazione
consenta di comprenderle e valorizzarle. La Parte II è dedicata a questo scopo.
La Parte II consta di cinque capitoli (capitolo 3, capitolo 4, capitolo 5, capitolo
6, capitolo 7) che affronteranno rispettivamente le questioni seguenti: la natura
del dibattito sulla presupposizione; le funzioni linguistiche degli attivatori; il
rapporto tra presupposizione e struttura informativa; il cosiddetto «problema
della proiezione»; il rapporto tra presupposizione e inferenza.
78
CAPITOLO 3
Presupposizionalisti vs. anti-presupposizionalisti
79
Indice del capitolo
0. Introduzione
1. La distaccabilità (detachability) tra posto e presupposto
1.1. Esposizione dell’idea di distaccabilità
1.2. Critica all’idea di distaccabilità
2. Presupposizionalisti vs. anti-presupposizionalisti
2.0. Introduzione
2.1. Un dibattito basato su un equivoco
2.2. Un riassunto romanzato del dibattito
3. Per una dissoluzione dei principali punti di scontro
3.1. La presupposizione come fenomeno extra-linguistico
3.2. Il fardello delle presupposizioni discorsive
3.3. L’inversione tra posto e presupposto linguistico
3.4. Presupposizioni riflesse e presupposizioni create
3.5. Sul legame tra presupposizione e inferenza
4. Una sintesi e un prospetto
81
82
82
83
84
84
84
85
86
86
87
88
89
91
92
80
0. Introduzione
Ci sono due sguardi che si possono gettare sul fenomeno della
presupposizione: da rana e da aquila. Il campo visivo di una rana è orizzontale
e limitato al suo stagno: in questa prospettiva, esistono solo i presupposti
contingenti e la presupposizione appare come un fenomeno essenzialmente
discorsivo. Il campo visivo di un’aquila è verticale ed esteso a tutta la valle: in
questa prospettiva le presupposizioni discorsive individuano solo una regione
del fenomeno e il territorio principale è individuato dalle presupposizioni di
base. Per una rana un esempio tipico di presupposizione è che Paolo fumava in
Paolo ha smesso di fumare; per un’aquila è che Paolo è una persona in Paolo è
felice. L’intero dibattito, linguistico e filosofico, sul concetto di presupposizione
è stato condotto in una prospettiva da rana.
La presupposizione non è un’idea che lascia indifferenti ma che, in
qualche modo, riesce a toccare la personalità di chi la incontra: o la si ama o la
si odia. Alcuni autori – ad esempio, G. Frege, P. F. Strawson, J. L. Austin, P. &
C. Kyparsky e Ch. Fillmore – ne sono stati conquistati e hanno cercato di
illustrarla calcando il più possibile la distinzione tra posto e presupposto. Altri
– ad esempio B. Russell e D. Wilson – ne sono stati insospettiti e hanno
cercato di mostrare che, a un esame più attento, la distinzione tra presupposto
e posto non risulta né logicamente motivata né empiricamente
(linguisticamente) tracciabile. Etichetterò «presupposizionalisti» i primi autori
e «anti-presupposizionalisti» i secondi: la storia del dibattito sulla
presupposizione è la storia dello scontro tra queste fazioni.
Una miniatura di questo scontro è la celebre querelle Frege-Strawson
vs. Russell, il cui nocciolo consiste nella collocazione dei presupposti rispetto
alle condizioni di verità o al significato (Sinn) degli enunciati. Secondo la linea
‘Frege-Strawson’ (secondo i presupposizionalisti) le presupposizioni ne sono
esterne: in questa prospettiva, le presupposizioni sono precondizioni dell’uso di
un enunciato e quindi dell’applicazione delle sue condizioni di verità. Secondo
la linea ‘Russell’ (secondo gli anti-presupposizionalisti) le presupposizioni sono
interne alle condizioni di verità o comunque al significato di un enunciato: in
questa prospettiva, i contenuti presupposti non hanno uno statuto particolare e
quindi, in ultima analisi, la stessa distinzione tra posto e presupposto è
negata35.
Ovviamente, la precedente è una sintesi estrema: che trascura tutta la ricchezza di
sfumature del dibattito reale. E tuttavia credo che ne catturi il cuore teorico. Devo comunque
compiere due precisazioni. La prima riguarda l’espressione «condizioni di verità»: ho usato
questa espressione per semplicità, pensando a B. Russell che discute asserzioni; tuttavia, vi si
può sostituire l’espressione più generica «condizioni di adeguazione» per coprire il caso degli
altri tipi di atti linguistici. La seconda precisazione è più essenziale. Essa riguarda l’espressione
«…collocazione dei presupposti rispetto alle condizioni di verità o al significato (Sinn) degli
enunciati»: «significato» non è qui una mera riformulazioni di «condizioni di verità» ma si
riferisce alla particolare posizione teorica di D. Wilson (1975). A questo proposito, il titolo del
suo volume – Presuppositions and Non-Truth-Conditional Semantics – è rivelatore. L’autrice
vi sviluppa una teoria della presupposizione come un tipo di implicazione non-logica: tale cioè
da rientrare nella semantica di un enunciato, ma non in quella parte di semantica che
includerebbe le condizioni di verità (nel qual caso sarebbe un’implicazione logica). Se un
significato fosse un atomo, nella prospettiva di D. Wilson le condizioni di verità si
troverebbero nel nucleo e le presupposizioni vi ruoterebbero attorno come elettroni. D.
Wilson è dunque anti-presupposizionalista come B. Russell perché include le presupposizioni
nel significato e quindi nega realtà alla distinzione tra posto e presupposto; tuttavia, si
differenzia da B. Russell perché non include le presupposizioni nel cuore del significato ma in
una posizione marginale.
35
81
Ciò che mi propongo di mostrare è che questo scontro è basato su un
equivoco e che questo equivoco nasce da uno sguardo da rana.
1. La distaccabilità (detachability) tra posto e presupposto
1.1. Esposizione dell’idea di distaccabilità
Si considerino tre esempi classici di presupposizioni:
(1)
a. Il ladro è riuscito ad aprire la cassaforte.
b. Ho risparmiato a Paolo un aumento di stipendio.
c. Paolo ha smesso di fumare.
Come noto, di fronte agli enunciati (1) sarebbe usuale distinguere due parti
etichettate rispettivamente «posto» e «presupposto»:
(2)
(3)
a. Il ladro ha aperto la cassaforte.
b. Non ho aumentato lo stipendio a Paolo.
c. Paolo non fuma.
a. Il ladro si è sforzato di aprire la cassaforte.
b. Per Paolo, un aumento di stipendio è male.
c. Paolo fumava.
La querelle presupposizionalisti vs. anti-presupposizionalisti riguarda
lo statuto di queste ‘parti’. Secondo i presupposizionalisti, enunciando (1) si
compirebbe un atto linguistico che consiste nell’asserire (2) avendo (3) come
condizione di felicità. Di conseguenza, mentre (2) individuerebbe una
componente genuinamente semantica di (1), (3) individuerebbe una precondizione pragmatica del suo impiego. Secondo gli anti-presupposizionalisti,
invece, sia (2) che (3) esibirebbero informazioni interne al significato (alla
semantica) di (1) in quanto la separazione tra posto e presupposto si rivela
empiricamente inconsistente. A questo proposito la posizione di D. Wilson è
esemplare. Dapprima l’autrice cattura la scomposizione di (1) in (2) e (3) per
mezzo della nozione di «distaccabilità» (detachability):
[…] where a presupposition is associated with an item occurring in an embedded
sentence, the correct analysis is produced by detaching the presupposition from its
embedded position, and from the content of the speech act itself, and allowing it to
function independently as precondition of the total speech act performed. I shall refer
to this type of analysis as detachability […] (Wilson 1975: 67-68)
Quindi, critica tale distaccabilità mostrando come in concreto sia impossibile
da tracciare.
Dal mio punto di vista, la questione è un po’ diversa. Il fatto è che gli
enunciati (2) e (3) mirano a formulare, rispettivamente, le informazioni che di
fronte a (1) considereremmo intuitivamente poste e presupposte. Questa
formulazione non è altro che un modo per dar corpo all’intuizione alla base
dell’idea di presupposizione. Tuttavia, distinguere (2) da (3) non significa né
che (1) sia davvero composto dalla somma di (2) e (3), né che asserendo (1) si
asserisca esclusivamente (2). Qui vale il motto della psicologia della Gestalt
per cui il tutto è più della somma delle parti; oppure, l’avvertimento che se è
vero che la luce bianca può essere scomposta in un arcobaleno di colori è
82
altrettanto vero che in questo modo se ne distrugge l’integrità. Di
conseguenza, dal mio punto di vista, l’equivoco che vizia la querelle tra
presupposizionalisti e anti-presupposizionalisti consiste nel fatto che entrambe
le parti hanno cristallizzato o reificato la distinzione tra (2) e (3).
Paradossalmente, sebbene la distaccabilità tra posto e presupposto paia
il fulcro dagli autori presupposizionalisti (che infatti cercano di difenderla),
essa non è in alcun modo essenziale al concetto di presupposizione. Al
contrario, il concetto di presupposizione implica che (1) non sia analizzabile
come (2) e (3). Per rendersene conto è sufficiente riflettere proprio sulla
concezione pragmatica di presupposizione.
1.2. Critica all’idea di distaccabilità
Come noto, nella concezione pragmatica la presupposizione è
considerata una condizione di felicità di un atto linguistico. Ora, certamente, la
condizione di sincerità di una promessa non è una sua condizione preparatoria:
non è, ad esempio, il fatto che la promessa sia desiderabile per l’interlocutore.
E in questo senso, in sede di analisi, è senz’altro corretto distinguerle.
Tuttavia, nella pratica concreta del promettere, non troviamo un rosario di
condizioni di felicità (preparatorie, di contenuto proposizionale, di sincerità,
ecc.), ma la promessa in quanto entità unica. In questo senso, la distinzione che
prima era corretta diventa assurda.
Ma se un presupposto è una condizione di felicità, allora vale lo stesso
discorso. In sede di analisi, è corretto distinguere (2) da (3); tuttavia, ciò non
impegna a sostenere che, in concreto, (2) venga asserito indipendentemente da
(3): perché ciò che è asserito non è né (2) né (3), ma (1). L’acqua è composta da
idrogeno e ossigeno, ma mentre l’idrogeno e l’ossigeno bruciano l’acqua
disseta e lava: sarebbe assurdo sostenere che l’acqua lava per l’ossigeno e
disseta per l’idrogeno. La distinzione di (2) da (3) ha un valore euristico e non
costituisce un’analisi di (1): le proposizioni (2) e (3) sono modi approssimativi
per ritrarre ciò che in (1) è posto e presupposto, ma non sono essi stessi il
posto e il presupposto di (1). Detto altrimenti: gli enunciati (1) sono oggetti
primi in se stessi, e se li scomponiamo in (2) e (3) non facciamo altro che
distruggerli.
Il viola deriva dalla mescolanza di rosso e blu, ma nel momento in cui
separo il rosso dal blu, il viola scompare; e quando ho il viola, non ho né il
rosso né il blu. Da un lato – in astratto – è corretto e utile analizzare il viola
nel rosso e nel blu: in questa prospettiva, sarebbe assurdo obiettare che
all’interno del viola il rosso e il blu non sono separabili. Questa è la parte di
ragione che i presupposizionalisti hanno nei confronti degli antipresupposizionalisti. Dall’altro lato, è altrettanto corretto rilevare che – in
concreto – all’interno del viola, non si riesce a scindere il rosso dal blu: in
questa prospettiva, è pretendere di compiere tale distinzione che è assurdo.
Questa è la parte di ragione che gli anti-presupposizionalisti hanno nei
confronti dei presupposizionalisti.
In sintesi, le posizioni di presupposizionalisti e anti-presupposizionalisti
riposano sulla medesima interpretazione errata della distaccabilità tra posto e
presupposto. E questo errore è la conseguenza di uno sguardo da rana.
83
2. Presupposizionalisti vs. anti-presupposizionalisti
2.0. Introduzione
Mi propongo ora di chiarire in che senso l’interpretazione errata (cioè
cristallizzata) dell’idea di distaccabilità tra posto e presupposto derivi da uno
sguardo da rana: cioè dal considerare esclusivamente proposizioni contingenti.
Il risultato consisterà nel proporre un’interpretazione del dibattito tra
presupposizionalisti e anti-presupposizionalisti tale di rivelarlo, in ultima
analisi, privo di senso.
A questo scopo userò due idee: l’accezione strutturale di
presupposizione presentata al capitolo 1 sub. § 1.1. e la distinzione tra
presupposizioni di base e contingenti delineata al capitolo 2. Quanto alla
prima, essa ha due aspetti centrali: definisce la presupposizione come una
funzione (la funzione di condizione di coerenza di un’idea nei confronti di una
pratica); considera la presupposizione una relazione extra-linguistica. Sfrutterò
qui il primo aspetto. Quanto alla distinzione tra presupposizioni di base e
contingenti, la impiegherò nella formulazione del § 3.3.2. del capitolo 2. In
base ad essa, i presupposti degli esempi (1) – rappresentati in (3) e oggetto di
contesa tra presupposizionalisti e anti-presupposizionalisti – non sono
presupposizioni di base o immediate, ma presupposizioni mediate: cioè fatti
contingenti che, nella fattispecie, funzionano come presupposizioni. E i fatti
contingenti sono il contenuto tipico delle asserzioni e del loro atteggiamento
appropriato: la credenza.
Date queste premesse, le dispute tra presupposizionalisti e antipresupposizionalisti si dissolvono: come fantasmi della notte alla luce del
mattino.
2.1. Un dibattito basato su un equivoco
Separando la funzione di (3) qua presupposto di (1) e tenendo conto che
(3) è un fatto contingente, diventa naturale pensare che chi asserisce (1) possa
essere ritenuto responsabile anche dell’asserzione di (3) e della relativa
credenza: diventa cioè comprensibile l’idea di considerare la presupposizione
come un’asserzione secondaria rispetto alla principale36 con la conseguente
sovrapposizione tra presupposizione e credenza. Con questo non intendo dire
che asserendo (1) un locutore asserisca contemporaneamente (3); al contrario,
nell’asserire (1), la sua mente sarà rivolta a qualcosa come (2) e non (3): un po’
come quando, parlando di un nostro amico, non pensiamo a tutte le cose che
sappiamo su di lui e che (se interrogati) saremmo disposti ad ammettere. Più
semplicemente, intendo dire che può essere ragionevole ritenere il locutore di
(1) responsabile di credere (3) come se, in sostanza, avesse asserito anche
questo: e ciò precisamente nella misura in cui i presupposti (3) sono in se stessi
fatti contingenti. Data la contingenza di (3), è cioè naturale oscillare tra
considerare quei fatti qua presupposizioni (cioè per quello che sono
relativamente agli atti linguistici compiuti mediante (1)) e qua contenuti di
asserzioni o credenze (cioè per quello che sono normalmente).
Lo scontro tra presupposizionalisti e anti-presupposizionalisti è un
pendolo che oscilla tra le alternative appena delineate; e il perno di questo
Oltre al già citato O. Ducrot, si consideri anche M. Black (Black 1973: 55) che parla di
asserzione primaria (primary assertion) e secondaria (secondary assertion).
36
84
pendolo è il fatto di considerare solo presupposizioni contingenti: cioè quello
che abbiamo stigmatizzato come uno sguardo da rana. Se si fosse adottato uno
sguardo da aquila – se si fossero considerate presupposizioni di base – il
motivo dello scontro sarebbe venuto meno: da un lato, gli antipresupposizionalisti non avrebbero avuto problemi a riconoscere quelle
caratteristiche che i loro avversari cercano di isolare chirurgicamente nelle
presupposizioni discorsive; dall’altro lato, i presupposizionalisti non avrebbero
avuto problemi ad ammettere che le presupposizioni discorsive (in virtù della
loro natura contingente e non-prototipica) sono soggette a tutti i fenomeni
rilevati dai loro avversari. Adottando uno sguardo da aquila, insomma, può
diventare ragionevole – e nella misura in cui se ne riconoscono i limiti persino
corretto – includere (3) nelle condizioni di verità o nel significato di (1).
A questo proposito, si consideri un problema – microscopico ma
emblematico – discusso da D. Wilson (Wilson 1975): il rapporto fra i tratti
maschio-adulto e non-sposato rispetto al lessema scapolo. Il punto non è che il
tratto maschio-adulto non abbia una posizione particolare rispetto a nonsposato; il punto è che, data la contingenza del presupposto, è ragionevole
pensare di introdurre anche maschio-adulto nel significato del lessema scapolo
o rilevare che, talvolta, è possibile comunicare (cioè ‘porre’) proprio quel tratto
(che chiameremmo «presupposto»). Tale possibilità cessa di costituire motivo
di scandalo proprio nella misura in cui, accanto alle presupposizioni
contingenti (come appunto maschio-adulto in scapolo), si riconoscono le
presupposizioni di base e le si considerano prototipiche. Se l’idea di maschioadulto in scapolo è una presupposizione contingente e se una presupposizione
contingente è una presupposizione non-prototipica, è del tutto ragionevole che
sia possibile usare scapolo per comunicare che una certa persona è un maschio
adulto e includere questo tratto nella definizione di scapolo, senza con ciò
cancellarne la differenza rispetto a non-sposato. Viceversa, se l’idea di essere
umano è una presupposizione di base e se una presupposizione di base è una
presupposizione prototipica, allora non sarà affatto ragionevole usare idraulico
per comunicare che una certa persona è un essere umano e a nessuno verrebbe
mai in mente di inserire essere umano nella definizione di idraulico. Ma questo
è esattamente quello che accade.
La conclusione è che i fenomeni rilevati dagli anti-presupposizionalisti
non sono obiezioni all’idea di presupposizione, bensì corollari derivati dalle
peculiari caratteristiche di un tipo di presupposizione: precisamente, il
carattere contingente delle presupposizioni discorsive.
2.2. Un riassunto romanzato del dibattito
A questo punto possiamo condensare il dibattito sulla presupposizione,
in maniera romanzata ma corretta, come segue. L’idea di presupposizione – la
distinzione tra presupposto e posto – ha folgorato alcuni autori: i
presupposizionalisti. Ma questi autori hanno avuto uno sguardo da rana:
hanno cioè considerato solo presupposizioni contingenti scambiandole per i
casi prototipici. Questo errore ha fomentato il sospetto di un’altra schiera di
autori i quali, esaminando gli esempi di presupposizioni presentatigli, hanno
potuto mettere in luce come le intuizioni dei presupposizionalisti si rivelassero
piuttosto vaghe. Questi autori sono gli anti-presupposizionalisti. Tutto ruota
intorno alla distaccabilità (detachability): la distinzione tra presupposto e posto
è l’intuizione alla base dell’idea di presupposizione; questa distinzione è chiara
85
per le presupposizioni di base (prototipiche) e appannata per le presupposizioni
contingenti (non-prototipiche); lo scontro tra presupposizionalisti e antipresupposizionalisti si è concentrato esclusivamente su queste ultime.
Entrambe le fazioni hanno cioè adottato lo sguardo della rana.
In una prospettiva da aquila, invece, sarebbe apparso che la distinzione
tra posto e presupposto – così come la differenza tra presupposizione e
asserzione o tra presupposizione e credenza – si applica anzitutto alle
presupposizioni di base e non alle presupposizioni contingenti. Queste ultime
sono il pallido riflesso di quelle altre: come gli oggetti del mondo rispetto alle
idee platoniche. Se fissiamo lo sguardo sulle presupposizioni contingenti –
proprio a causa del loro carattere effimero – non possiamo che osservare la
manifestazione transeunte e depotenziata delle proprietà tipiche delle
presupposizioni di base: non appena ci sembra di averne colto l’aspetto di
presupposizioni, cioè, hanno già assunto quello di comuni asserzioni e
credenze.
In sintesi, i colpevoli sono stati proprio i presupposizionalisti: perché
hanno inquinato la propria intuizione con il germe che ne ha sviluppato le
critiche. Da un lato – poiché il nucleo della loro intuizione è corretto – la
nozione di presupposizione continua a riproporsi risorgendo come un’araba
fenice; dall’altro lato – poiché quell’intuizione è viziata da uno sguardo da rana
– continuano a riproporsi anche le relative critiche condotte col medesimo
sguardo. Di conseguenza, lo scontro tra presupposizionalisti e antipresupposizionalisti può continuare all’infinito o spegnersi per esaurimento. Si
è verificata la seconda ipotesi.
3. Per una dissoluzione dei principali punti di scontro
3.1. La presupposizione come fenomeno extra-linguistico
Ritorniamo all’accezione strutturale di presupposizione. La sua seconda
caratteristica consisteva nel collocare il nesso di presupposizione in rebus:
facendone una relazione extra-linguistica. Se questo è vero, ciò che troviamo
nella lingua non è la relazione di presupposizione in quanto tale ma un suo
riflesso. Come scrive Ö. Dahl:
It is said that the sentence John knows that Peter loves Mary presupposes Peter loves
Mary. However, one could as well say that Peter’s love for Mary is a presupposition
for John knowledge of Peter’s love, and John’s knowledge is a non-linguistic entity. In
the same way, the property of being similar to one’s brother presupposes that one has
a brother, and a property can also be regarded as something non-linguistic (Dahl
1973: 411).
Da un lato ci sono fatti, ad esempio: che Paolo abbia un’amante e che Maria lo
scopra. Il rapporto tra questi fatti è di presupposizione nel senso che il primo è
una condizione di possibilità dell’accadimento del secondo. Dall’altro lato ci
sono enunciati, ad esempio:
(5)
a. Maria scopre che Paolo ha un’amante.
b. Paolo è sposato.
La domanda è: quale rapporto sussiste tra (5a) e (5b)? Naturalmente si
potrebbe considerare (5b) un’implicazione logica di (5a). Tuttavia, qui interessa
86
il concetto di presupposizione. E usando questo concetto potremmo
rispondere: l’atto di asserire (5a) presuppone il fatto descritto da (5b). Ma
sarebbe sbagliato. Il fatto che Paolo abbia un’amante è presupposto dal fatto
che Maria lo scopra e non dal fatto di asserire che Maria lo scopra.
Un fatto può accadere o non accadere: Maria, ad esempio, può scoprire
che Paolo ha un’amante oppure ignorarlo. Anche un’asserzione è un fatto:
‘accade’ se è asserita e ‘non-accade’ se non è asserita. Ma se viene asserita può
essere vera o falsa: vera se il fatto che descrive accade, falsa se non accade. Il
punto è che un’asserzione falsa è qualcosa, ma un fatto non accaduto non è
niente: la verità o falsità di un’asserzione, cioè, non sono la sussistenza o meno
di un fatto. Quando il sole sorge, la terra è invasa dalla luce; quando il sole
tramonta, la terra è invasa dal buio; la luce e il buio non sono la presenza o
assenza del sole nel cielo. Tra l’asserzione (vera o falsa) e il fatto (accaduto o
non accaduto) c’è la stessa distanza che separa la terra dal sole.
Ora, l’accadere e il non accadere di un fatto possono avere condizioni di
possibilità o presupposizioni: nel nostro esempio, che Maria scopra o ignori
che Paolo abbia un’amante presuppone che Paolo abbia un’amante. Come è un
fatto – e non un’asserzione – ad accadere o non accadere, così è un fatto – e
non un’asserzione – ad avere presupposizioni. La domanda è: se il sussistere o
meno di un fatto si riflette nella verità o falsità di un’asserzione, in cosa si
riflettono le presupposizioni di quel fatto?
La risposta è: in rebus il presupposto è una condizione di possibilità
dell’accadimento di un fatto; nella lingua, quel presupposto si riflette in quanto
condizione di possibilità dell’impiego di un certo enunciato. Il presupposto in
quanto tale rimane fuori della pratica linguistica: lassù, nelle cose. Quaggiù,
nella pratica linguistica, troviamo non il presupposto ma il suo riflesso sotto
forma di informazione discorsivamente richiesta per l’impiegabilità di un
enunciato. In (5), (5b) è un’informazione discorsivamente richiesta per asserire
coerentemente (5a).
Un topos della letteratura sulle presupposizioni riguarda il soggetto di
presupporre. Sono le frasi a presupporre? O sono le persone che usano quelle
frasi a presupporre? Nella prospettiva qui delineata, non sono né le frasi né le
persone a presupporre ma le cose. Gli enunciati che ideano processi riflettono
le presupposizioni di quei processi sotto forma di informazioni richieste per la
coerenza del loro impiego: requisiti discorsivi. In questo senso, la lingua è una
sorta di Ade o regno dei morti per le presupposizioni. Se guardiamo alla realtà
– in rebus – troviamo le presupposizioni in quanto tali: vive. Se guardiamo agli
enunciati, non troviamo più le presupposizioni in carne ed ossa, ma la loro
ombra: i requisiti discorsivi per l’impiego coerente di un enunciato non sono
presupposizioni ma fantasmi di presupposizioni.
Presenterò ora una serie di conseguenze di questa idea.
3.2. Il fardello delle presupposizioni discorsive
Nel momento in cui le presupposizioni ‘passano’ dalla realtà alla lingua,
da entità reali diventano entità cognitive: il genere di cose che una persona può
gestire. In altre parole, se nella lingua non ci sono presupposizioni vere e
proprie ma informazioni che funzionano da requisiti discorsivi per l’impiego
degli enunciati, è chiaro che coloro che usano gli enunciati dovranno farsi
carico di reperirle. E potranno farlo o addossandosene il fardello, oppure
scaricandolo altrove: nel primo caso si dirà che stanno presupponendo o
87
condividono il presupposto, nel secondo caso che non condividono il
presupposto o che la presupposizione è sospesa o cancellata.
Ecco due esempi (che discuteremo in dettaglio più avanti):
(6)
a. Mario ha scoperto che Maria lo tradiva.
b. Mario ha sognato di scoprire che Maria lo tradiva.
L’enunciato (6a) è un esempio in cui il locutore si sobbarca il presupposto: la
responsabilità di ammettere che Maria tradisse Mario. L’enunciato (6b),
invece, è un esempio in cui il locutore tende a scaricare la responsabilità del
presupposto nel mondo onirico di Mario. Il fatto che Maria tradisse Mario è
sempre e comunque un presupposto del fatto che Mario lo scopra;
semplicemente, questo presupposto non entra nella lingua in quanto tale
(perché nella lingua non troviamo i fatti ma le loro rappresentazioni), bensì in
quanto informazione discorsivamente richiesta per l’impiego di un enunciato.
Ed è precisamente per questa ragione che può essere gestito dal locutore nei
modi summenzionati.
Ecco un paio di altri esempi tratti da D. Wilson:
(3)
I’ve deprived my children of sweets between meals, because sweets between
meals are bad for them.
(4)
I’ve spared my students my views on the A over A principle, although it
would do them a lot of good to hear them.
The suggestions conveyed by (3) and (4) have to do not with the speaker’s attitude to
the things withheld but with the children and students attitudes to them. (3) suggests
that the children see the sweets as desirable, and (4) suggests that the students regard
my views on the A over A principles as undesirable. (Wilson 1975: 114)
Qui, analogamente a (6b), diremmo che il locutore non prenda sulle proprie
spalle i presupposti – che i dolci siano qualcosa di ‘positivo’ e che le opinioni
del professore siano qualcosa di ‘negativo’ – ma che li scarichi sui bambini e
sugli studenti. Due casi in cui, invece, sarebbe stato il locutore ad addossarsi i
presupposti sono gli esempi discussi dall’autrice appena prima:
(1)
(2)
Children used to be deprived of tuition in creative writing, but the situation is
very different today.
Children used to be spared tuition in creative writing, but the situation is very
different today (Wilson 1975: 113).
Non è quindi casuale che D. Wilson metta in relazione la presupposizione col
discorso indiretto libero:
It suggests an interesting way of handling the semantic interpretation of indirect
discourse […] (Wilson 1975: 148)
3.3. L’inversione tra posto e presupposto linguistico
Un presupposto vivo – in rebus – svolge una funzione strutturale nei
confronti di una certa pratica. Di conseguenza, il suo rapporto con la pratica
fondata è rigido: il fatto che Paolo abbia un’amante, ad esempio, è sempre e
solo un presupposto del fatto che Maria l’abbia scoperto. Un presupposto
morto – nella lingua – perde la precedente funzione strutturale e diventa un
88
mero requisito discorsivo per l’impiego di un enunciato. Di conseguenza, il suo
rapporto con il contenuto posto può essere invertito: ciò che è presupposto
nella realtà può diventare ciò che è posto nella lingua e ciò che nella realtà è
fondato sul presupposto può diventare ciò che è presupposto nella lingua.
Questo è quanto sottolinea D. Wilson (e che al capitolo 1, sub. § 1.2.2.
abbiamo catturato con l’accezione comunicativa di presupposizione):
Imagine a situation in which all teachers are unmarried, and all teachers are therefore
known to be either bachelors or spinsters. The point of (28) [Point out to Jemina that
Bill’s teacher is a bachelor] when used to make an order in such circumstances would
clearly be that Jemina be told that Bill’s teacher is male, which she may not know,
rather than that he is unmarried, which would be common knowledge (Wilson 1975:
80)
Ancora una volta, l’autrice ha perfettamente ragione. Tuttavia, ancora una
volta, il fenomeno che rileva non è un’obiezione all’idea di presupposizione. Il
fatto che il rapporto tra presupposto e posta possa essere invertito
linguisticamente non prova che non esiste: al contrario, prova che nella realtà è
rigido e che può essere invertito linguisticamente proprio perché – nella lingua
– i presupposti sono riflessi in quanto condizioni di impiego degli enunciati.
3.4. Presupposizioni riflesse e presupposizioni create
Nel momento in cui ritraiamo un fatto in un enunciato, ciò che abbiamo
davanti non è più quel fatto in carne ed ossa, ma la sua rappresentazione: il suo
fantasma. Prima era questione di vita o di morte: di accadere o non accadere;
ora (se l’enunciato è un’asserzione) è solo questione di vero o falso. La stessa
cosa accade per le presupposizioni di quel fatto: esattamente come passando
dalla realtà alla lingua un fatto perde ‘corporeità’, così perdono ‘corporeità’
anche le sue presupposizioni. Se prima erano condizioni di possibilità
dell’accadere o non accadere di uno stato di cose, ora sono solo informazioni
richieste per l’impiego coerente o appropriato di enunciato. Questo è quanto
sostenuto sub. § 3.1.
Come scrive Totò (riprendendo un classico topos letterario) la morte è
n’a livella. Qualcosa del genere si applica anche alle presupposizioni nel senso
che, se la lingua rende le presupposizioni requisiti discorsivi, tutti i requisiti
discorsivi in quanto tali sono sullo stesso piano. Ciò che intendo dire è che, fino
ad ora, abbiamo dato per scontato che i requisiti discorsivi siano fantasmi di
presupposizioni extralinguistiche. Ma nella lingua ci sono fantasmi che non
hanno mai avuto un corpo: puri requisiti discorsivi ai quali nella realtà non
corrispondono presupposizioni.
Per illustrare quello che intendo, si riprendano gli enunciati seguenti:
(7)
(8)
(9)
a. Paolo è riuscito ad aprire la cassaforte.
b. Paolo ha aperto la cassaforte.
c. Paolo si è sforzato di aprire la cassaforte.
a. Paolo ha risparmiato a Maria la visione delle diapositive.
b. Paolo non ha mostrato a Maria le diapositive.
c. La visione delle diapositive è noiosa.
a. Paolo ha scoperto che Maria è uscita.
b. …
c. Maria è uscita.
89
Apparentemente, applicando i criteri di interrogazione e negazione, gli esempi
(c) verrebbero considerati presupposizioni di (a). Tuttavia, a ben guardare, la
funzione di (c) rispetto ad (a) è diversa a seconda che si consideri (7-8) o (9). In
(9), se Maria non è uscita, l’atto di Paolo è impensabile: infatti, in (9b), è
difficile formulare il contenuto posto, ma è facile formulare quello presupposto.
In (7-8), invece, è difficile sostenere che la falsità di (c) provochi il crollo
dell’atto di Paolo: cioè la semplice azione di aprire una cassaforte o non far
vedere delle diapositive. E infatti, in (7b) e (8b), non abbiamo difficoltà a
formulare il contenuto posto ma abbiamo molta più difficoltà a formulare
quello presupposto. In questo senso, se è vero che cose come (7c) e (8c) sono
presupposti di (7a) e (8a), è anche vero che non intrattengono con essi un
rapporto di fondamento ma più marginale.
Ma se a questo punto ci interroghiamo sulla funzione di riuscire o
risparmiare, la risposta naturale è che sembra essere quella di unire posto e
presupposto in un solo processo. Più precisamente, riuscire o risparmiare –
grazie a una sorta di compressione lessicale – rendono alcune informazioni
condizioni di coerenza di altre producendo un processo superordinato. Il punto
è che sono riuscire e risparmiare che rendono (7c) o (8c) condizioni di coerenza
di processi come (7b) o (8b), rispetto ai quali in natura sarebbero del tutto
irrelate. E’ perché ci sono le parole riuscire, risparmiare che (7c) e (8c) possono
entrare nell’orbita di (7b) e (8b) producendo il sistema solare (7a) e (8a). Ma
ovviamente non ha senso sostenere la stessa cosa per (9): non è l’esistenza del
verbo scoprire che fa in modo che l’accedere di un fatto sia una condizione di
possibilità della sua scoperta. E’ la natura delle cose.
A questo proposito si deve notare che, nei termini di M. H. K. Halliday,
il contenuto cosiddetto «presupposto» di lessemi quali risparmiare o deprivare
sarebbe considerato veicolo della «funzione interpersonale»:
Language serves to establish and maintain social relations: for the expression of social
roles […] Through this function, which we may refer as interpersonal, social groups
are delimited, and the individual is identified and reinforced, since by enabling him to
interact with others language also serves in the expression and development of his
own personality (Halliday 1970: 143).
Se questo è vero, le osservazioni condotte per risparmiare o deprivare si
applicano a tutti i lessemi che svolgono la suddetta funzione interpersonale. Il
significato dei lessemi mamma e papà, ad esempio, può essere immaginato
come composto da un nucleo (individuato da una precisa posizione all’interno
di una rete di parentele) e da un margine (le note sfumature affettive associate).
In primo luogo, è sensato considerare le sfumature affettive presupposti
discorsivi e il nucleo un contenuto posto. In secondo luogo, è altrettanto chiaro
che tali sfumature sono attaccate al nucleo in virtù della lingua: è la presenza
dei lessemi mamma e papà che compatta insieme il margine e il nucleo. In terzo
luogo, è proprio perché quei due generi di informazioni sono tra loro
logicamente irrelati che la loro fusione, ad opera del lessico, è sensata.
In sintesi, una delle caratteristiche fondamentali della lingua è quella di
essere autonoma rispetto alla realtà. Quando la lingua riflette un processo che
ha un presupposto, riflette anche la relazione di presupposizione sottoforma di
requisito discorsivo all’impiego dell’enunciato. Questo è precisamente quanto
accade con scoprire qualcosa. Ma può anche darsi il caso che la lingua non
rifletta nulla. E’ quanto accade ad esempio con lessemi come mamma o
deprivare o riuscire. In questo caso, i cosiddetti presupposti sono
90
semplicemente requisiti di appropriatezza dell’impiego di un termine senza
alcuna corrispondente relazione di presupposizione nella realtà. Sono
presupposti (o meglio requisiti discorsivi) creati dalla lingua che compatta
alcune informazioni nel significato di un lessema facendole entrare nella sua
orbita come satelliti. E lo fa per svolgere una funzione interpersonale o, come
vedremo, testuale37.
3.5. Sul legame tra presupposizione e inferenza
Nella lingua non troviamo le presupposizioni più di quando non vi
troviamo il profumo delle rose: essa incorpora le presupposizioni contingenti
sottoforma di requisiti discorsivi. Nella realtà troviamo i fatti e le loro
presupposizioni; nella lingua troviamo enunciati e le informazioni richieste per
l’impiego coerente di questi enunciati. Se questo è vero, è ragionevole
aspettarsi che accanto ai requisiti discorsivi che sono il riflesso di
presupposizioni extralinguistiche, ve ne siano altri che la lingua crea
autonomamente. In quanto requisiti discorsivi, entrambi funzionano in modo
identico: è in questo senso che la lingua è una livella. Tuttavia, da ciò, sarebbe
sbagliato pensare che la loro differenza – il fatto che gli uni siano il riflesso di
una presupposizione reale e gli altri no – non abbia alcuna conseguenza.
Se un requisito discorsivo è il corrispondente di una presupposizione
nella realtà – se cioè è riflesso dalla lingua – apparirà come un’implicazione che
intuitivamente definiremmo «logica», «forte», «hard-core» o «difficilmente
eliminabile»: la ragione è che svolge un ruolo fondamentale alla pensabilità del
processo ideato. Ne è un esempio il predicato scoprire qualcosa. Viceversa, se
un requisito discorsivo non corrisponde a una presupposizione nella realtà – se
cioè è creato dalla lingua – è ragionevole che possa apparire come
un’implicazione che definiremmo «non-logica», «debole», «soft-core» o
«eliminabile»: e la ragione è che non svolgerà necessariamente un ruolo
fondamentale per la pensabilità del processo. Ne sono esempi deprivare o
risparmiare, e in generale i lessemi che svolgono una funzione interpersonale38.
Con ciò, tuttavia, non intendo dire che i requisiti discorsivi creati dalla
lingua si manifestino esclusivamente come implicazioni ‘deboli’: è ragionevole
che questo accada, ma non che sia necessario. Ne è un esempio l’implicatura
convenzionale di sebbene:
37
Un corollario è che sarebbe un errore paragonare l’informazione (7c) veicolata da
risparmiare in (7) a un’apposizione, una relativa appositiva, una parentetica o qualsiasi forma di
inciso (cfr. Wilson 1975: 144). Un inciso non è legato alle condizioni di verità dell’enunciato in
cui compare: non ha nulla a che fare con esse; un presupposto (o un requisito discorsivo)
invece, fonda la possibilità stessa delle condizioni di verità. L’esistenza di risparmiare o riuscire
conferisce alle informazioni presupposte precisamente lo statuto che non avrebbero se fossero
incisi.
38
Non solo, ma in tal modo possiamo anche cogliere un equivoco abbastanza diffuso in
letteratura. Le presupposizioni che si manifestano come implicazione hard-core indurrebbero
diversi autori a parlare per esse di «convenzione» o di «regole convenzionali». Ecco un
esempio: «[…] in proportion as the implication is less precisely determined by conventional
rules for implication, the speaker has correspondingly greater license to avow or repudiate the
implication» (Black 1973: 66). Questo è un equivoco che contiene un’intuizione corretta.
L’intuizione corretta deriva dal carattere difficilmente eliminabile delle suddette implicazioni;
l’equivoco nasce dal fatto che questo carattere derivi necessariamente da una convenzione. Nel
caso dei requisiti discorsivi ereditati dal presupposizioni reali, infatti, non deriva da una
convenzione ma dalla natura delle cose. Non per convenzione linguistica che scoprire qualcosa
richiede l’esistenza di questo qualcosa.
91
(10)
a. Sebbene avesse chiesto aiuto a Maria, Paolo non ha risolto il suo
problema.
b. Paolo ha chiesto aiuto a Maria e non ha risolto il suo problema.
c. Maria avrebbe dovuto risolvere il problema di Paolo.
Il presupposto (10c) è creato dalla lingua – da sebbene – e assume l’aspetto di
un’implicazione hard core di (10a)39.
Le osservazioni precedenti comportano una conseguenza relativamente
al rapporto tra presupposizione e inferenza o implicazione (che esamineremo
più avanti). Appare cioè che l’inferenza e la presupposizione non sono nozioni
alternative, ma collocate su piani diversi. Guardare a un requisito discorsivo in
quanto tale significa interrogarsi sulla sua funzione rispetto all’enunciato:
funzione di condizione di coerenza del suo impiego. Guardare allo stesso
requisito come implicazione vuol dire interrogarsi sul rapporto logico (più o
meno forte) che sussiste tra quel requisito e ciò che esso fonda. Il punto,
semmai, è che questo rapporto (e quindi il tipo di inferenza) dipende entro certi
limiti dalla funzione di condizione di coerenza: se il requisito discorsivo è il
riflesso di una presupposizione in rebus avrà la forma di una inferenza hard, se
è creato dalla lingua non necessariamente. E’ il tipo di presupposizione che
influenza il tipo di inferenza in cui essa si manifesta.
4. Una sintesi e un prospetto
Se le presupposizioni vere e proprie (contingenti o di base) vi sono solo
nella realtà extralinguistica, ha senso parlare di presupposizioni linguistiche o
discorsive? E se alcuni requisiti discorsivi non corrispondono a presupposti
reali, in questi casi non è a fortiori assurdo parlare di presupposizioni? In
effetti, a rigore, dovremmo riservare l’etichetta «presupposizioni contingenti»
all’ambito extralinguistico; mentre dovremmo usare «requisiti discorsivi» sia
per le presupposizioni contingenti riflesse nella lingua, sia per le
‘presupposizioni’ create dalla lingua senza alcuna controparte nella realtà.
Tuttavia, la questione rischia di diventare terminologica. Ciò che
occorre tenere presente è quanto segue. Le presupposizioni vere in quanto tali
sono relazioni in rebus; nella lingua si riflettono nelle restrizioni di selezione
(le presupposizioni di base) e in ciò che abbiamo etichettato «requisiti
discorsivi» (le presupposizioni contingenti). Chiarito questo, per i requisiti
discorsivi, si può anche continuare a parlare di presupposizioni linguistiche o
discorsive tenendo conto, appunto, che:
i)
ii)
iii)
le presupposizioni linguistiche sono requisiti discorsivi e non
presupposizioni in senso rigoroso: fondano cioè non il processo ideato
dall’enunciato ma l’uso di quell’enunciato (e questo precisamente perché
nella realtà fondano il suddetto processo);
ci sono presupposizioni linguistiche (requisiti discorsivi) ai quali non
corrispondono presupposizioni reali: che non sono riflessi dalla lingua
ma creati da essa;
le presupposizioni linguistiche del punto i) si manifestano come
implicazioni hard core e non dipendono da convenzioni; quelle del
Se al posto di sebbene avessimo avuto ma, l’implicazione sarebbe stata un’inferenza
sollecitata.
39
92
punto ii) possono manifestarsi sia (tipicamente) come implicazioni soft
core (inferenze sollecitate) sia come implicazioni hard core (implicature
convenzionali).
Questi punti sono una sintesi delle osservazioni presentate lungo il § 3., e mi
sembrano importanti per due ragioni.
In primo luogo, perché consentono di soddisfare le esigenze che gli
anti-presupposizionalisti (nel nostro caso D. Wilson) attribuiscono a una teoria
della presupposizione senza però implicare (come invece essi vorrebbero)
alcuna obiezione all’idea di presupposizione:
First, given a sentence which carries a suggestion and an associated sentence which
expresses the content of the suggestion, there is no logical relationship between the
truth of the first and the truth-value of the second. It is for this reason that solutions
in terms of truth-conditions and logical presuppositions fail (Wilson 1975: 141)
The second fact which any adequate solution must take into account is the fact that
the speaker is not necessarily committed to the truth of the suggested sentence. This
is, in part, a corollary of the first fact. Since what is suggested need not be true, the
speaker is free to cancel the suggestion: if he does, and occasionally if he does not, the
suggestion will then be seen as expressing the views of someone other than the
speaker (Wilson 1975: 142).
The third fact which must be taken into account by any adequate solution is that the
suggestions are properly speaking semantic (Wilson 1975: 143)
Il terzo requisito è garantito dalla considerazione che – nel caso delle
presupposizioni contingenti – può essere ragionevole pensare di includere il
presupposto all’interno del significato. Il secondo e il primo requisito sono
garantiti dalla considerazione che nella lingua troviamo non presupposizioni in
quanto tali, ma requisiti discorsivi: e questo è ciò che fornisce al locutore la
possibilità di ‘gestirli’. In concreto poi, questa possibilità è influenzata dal fatto
che i suddetti requisiti siano creati dalla lingua (nel qual caso la ‘gestione’ del
locutore potrà essere particolarmente ampia) o ereditati da presupposizioni
reali (nel qual caso la gestione tenderà ad essere piuttosto ristretta).
La seconda ragione per cui i punti i), ii), iii) summenzionati mi
sembrano importanti è che consentono di delineare un prospetto dei capitoli
seguenti. In essi mi occuperò delle presupposizioni linguistiche – in particolare
di quelle a cui corrispondono presupposti reali – intese come requisiti
discorsivi e lo farò a partire dalle osservazioni condotte lungo i §§ 3.1.-3.5. Più
precisamente:
-
al capitolo 4, affronterò la questione della funzione linguistica degli
attivatori (qui toccata sub. § 3.4);
al capitolo 5, svilupperò le conclusioni del capitolo 4 descrivendo
l’interazione tra presupposizioni linguistiche e struttura informativa;
al capitolo 6, affronterò il cosiddetto problema della proiezione (qui toccato
dalle osservazioni sub. § 3.2);
al capitolo 7, prenderò in esame il rapporto tra presupposizione e inferenza
(qui toccato sub. § 3.5.).
93
-
CAPITOLO 4
Sulle funzioni linguistiche degli attivatori
94
Indice del capitolo
1. Paradossi di uno sguardo da rana
96
1.1. Requiem for presuppositions
96
1.2. Perché ci sono gli attivatori di presupposizioni?
97
1.3. Come classificare gli attivatori?
98
2. Le funzioni linguistiche degli attivatori
99
2.1. Verso un continuum di attivatori
99
2.1.1. Riflessioni su due gruppi di attivatori
99
2.1.2. Il dritto e il rovescio di una medaglia
101
2.2. Risoluzione (linguistica) del fenomeno della presupposizione 103
2.3. La funzione testuale
104
3. La stratificazione della coerenza testuale
105
95
1. Paradossi di uno sguardo da rana
1.1. Requiem for presuppositions (Karttunen&Peters 1977)
In una prospettiva da rana, gli attivatori non sono manifestazioni
linguistiche di un fenomeno più ampio, ma sono – essi stessi – il fenomeno
della presupposizione: studiare quest’ultimo, quindi, vuol dire sostanzialmente
farne l’inventario. Pensare che un tale censimento esaurisca lo studio della
presupposizione non solo è come pensare che l’individuazione dell’identità
storica di Beatrice (figlia di Folco Portinari) esaurisca lo studio della Divina
Commedia ma conduce a diversi esiti paradossali.
Uno di questi è che se il fenomeno della presupposizione coincide con
gli attivatori, e se gli attivatori si rivelano numerosi e di natura diversa, il
fenomeno si disintegra. Questa è la posizione di L. Karttunen e S. Peters
(sottolineatura mia)
We believe that a wide range of different things have been lumped together under
this single label [l’etichetta «presupposizione»] and that this fact is more than
anything else responsible for the continuing controversy about how to analyze
presuppositions. To resolve it we propose to do the sensible thing, namely to divide
up this heterogeneous collection and to put the particular cases into other categories
of phenomena, such as particularized and generalized conversational implicatures,
preparatory conditions on speech acts and conventional implicatures. Since something
is already known about the nature of these other phenomena, in this way we may
actually be able to explain some of the diverse behaviour of different things that
various linguists have at one and the same time called presuppositions
(Karttunen&Peters 1979: 2).
L’assunto di questo programma è che la presupposizione individui una nozione
alternativa rispetto a «inferenza sollecitata», «condizione preparatoria» o
«implicatura convenzionale». Da una parte, qualora un certo fenomeno fosse
riconducibile a un esempio di queste ultime, non sarebbe più necessario
analizzarlo come un caso di presupposizione; dall’altra parte, si può scegliere di
ridurre la presupposizione a uno solo di quei fenomeni (ad esempio,
l’implicatura convenzionale). In entrambi i casi, il concetto di presupposizione
in quanto tale scompare.
L’assunto precedente confonde i mezzi con i fini. E’ vero che la
presupposizione (discorsiva) si incarna linguisticamente nelle nozioni di
implicatura convenzionale, inferenza ammessa, sollecitata ecc., ma è falso che si
riduca ad esse: se p è un presupposto e se si manifesta sulla superficie della
lingua, non potrà che assumere l’aspetto di un’implicatura convenzionale,
ammessa o sollecitata perché tale è il ‘materiale’ della lingua; ma questo non
intacca affatto la sua funzione qua presupposto. Le etichette «inferenza
sollecitata» o «implicatura convenzionale» riguardano il modo e la forza con
cui un certo contenuto è introdotto in un contesto; «presupposizione», invece,
designa la funzione – precisamente la funzione di condizione di coerenza – di
un certo contenuto: le prime etichette designano dei mezzi, la seconda una
funzione. Qui entra in gioco l’accezione strutturale o funzionale di
presupposizione individuata al capitolo 1 sub. § 1.1. La funzione di
presupposizione di un certo contenuto – cioè il suo funzionamento in quanto
condizione di coerenza di una pratica – deve essere tenuta distinta dal modo in
cui tale contenuto è iniettato nel discorso, sebbene sia del tutto ragionevole
96
che tra i due sussista una ‘convergenza’ fenomenologica.
In una prospettiva da rana, la varietà delle fonti di presupposizione
diventa un problema insormontabile: tale da dissolvere il fenomeno stesso
riducendolo a un’aria di famiglia tra diversi fatti. In una prospettiva da aquila,
invece, la varietà di mezzi linguistici che incarnano le presupposizioni non
dissolve l’unità del fenomeno – radicato nello zoccolo extralinguistico della
nostra ontologia naturale condivisa – ma apre un territorio da descrivere e
valorizzare40. In una prospettiva da rana, il problema della natura della
presupposizione assume l’aspetto di domande come le seguenti: Le
presupposizioni sono implicature convenzionali? Sono implicature
conversazionali? Sono implicazioni logiche? Che tipo di implicazioni sono?
Ecc. In una prospettiva da aquila, queste domande sono assurde per la semplice
ragione che, potenzialmente, non ci sono limiti ai mezzi con cui raggiungere
un fine condiviso. In una prospettiva da aquila, le domande centrali sono: quale
funzione linguistica svolgono le presupposizioni discorsive? Perché in certi
casi sono preferiti alcuni mezzi piuttosto che altri?
1.2. Perché ci sono gli attivatori di presupposizioni?
Un altro paradosso di uno sguardo da rana è che se lo studio della
presupposizione è incentrato sugli attivatori, risulta impossibile rispondere alla
domanda: perché esistono gli attivatori di presupposizioni? Questo paradosso è
ancora esemplificato da L. Karttunen e S. Peters che dichiarano:
At present we have no answer to questions like “Why is that there are conventional
implicatures?” and “Why are there words like even which mean something but which
have no effect on truth conditions?” […] we concentrate on HOW this aspect of
meaning can be described in an explicit way (Karttunen&Peters 1979: 15).
La domanda precedente può intesa in due sensi: retrospettivo o causale e
prospettivo o finale.
Nel primo senso, assume questa forma: quale è la condizione di
possibilità degli attivatori linguistici? Qui, rispondere significa addurre la
condizione che rende sensato parlare di «attivatori» per le presupposizioni
discorsive e lo esclude invece per le presupposizioni di base.
Nel secondo senso, la domanda assume quest’altra forma: quali funzioni
linguistiche svolgono gli attivatori? Ovvero, con le parole di S. Soames:
Why are there linguistically expressed presuppositions at all – what functions do
presuppositions have in representation of communication of information? (Soames
Nella letteratura specializzata è usuale etichettare «pragmatica» la proposta di L.
Kartunnen e S. Peters per via dell’utilizzo della nozione di un insieme di presupposizioni (o
common ground) che viene aggiornato. Tuttavia, le osservazioni precedenti sottolineano come
tra la proposta di L. Kartunnen e S. Peters e lo spirito di quella avanzata da R. Stalnaker in
Pragmatic presuppositions sussistano almeno due differenze essenziali. In primo luogo, ciò che
per L. Kartunnen e S. Peters costituisce un problema per la nozione di presupposizione (la
varietà delle fonti), per R. Stalnaker è una conseguenza naturale dell’idea di «presupposizione
pragmatica». In secondo luogo, la proposta di L. Kartunnen e S. Peters consegue dalla
premessa di una sostanziale coincidenza tra il fenomeno della presupposizione e i cosiddetti
«attivatori» mentre per R. Stalnaker è vero il contrario. Egli scrive: «Penso che sia importante
non compiere questa identificazione. Anzitutto, perché essa cela la diversità tra le fonti dei
requisiti di presupposizione e dei veri tipi di inappropriatezza che da essi possono discendere»
(Stalnaker 1973, 1978: 246).
40
97
1989: 555)
Del primo senso me ne sono già occupato al capitolo 2, sub. § 3.3.2; il secondo,
invece, è quanto ho anticipato al capitolo 3 sub. § 4.
1.3. Come classificare gli attivatori?
Il paradosso appena menzionato sub. § 1.2. ne implica immediatamente
un altro. Se il fenomeno della presupposizione coincide con gli attivatori, allora
la presupposizione è una funzione per cui la lingua offre precisi strumenti:
questi strumenti (gli attivatori) sarebbero l’organo della presupposizione così
come i polmoni sono l’organo della respirazione. Sennonché, i tentativi di
studiare quest’organo sono approdati all’esito seguente:
One of the most striking lessons of recent work is that there are many kinds and
sources of presuppositions; so many that there may be no single theory capable of
incorporating them all (Soames 1989: 602).
Una prospettiva da rana, insomma, rende impossibile rispondere alla domanda
(paradosso precedente): quale funzione linguistica svolgono gli attivatori di
presupposizioni discorsive? E se non è possibile rispondere a questa domanda
non è neppure possibile fornire un buon criterio di classificazione degli
attivatori (nuovo paradosso): in effetti, nella letteratura specializzata, si
trovano sì inventari ma raramente classificazioni.
Una classificazione è offerta da O. Ducrot41:
a) Presupposti generali [praticamente le nostre presupposizioni di base] […].
b) Presupposti illocutivi [le condizioni di felicità austiniane] […].
c) Presupposti di lingua, legati all’esistenza, nella frase, di morfemi ben determinati.
Tra le molte categorie si hanno:
c1) Presupposti esistenziali [la presupposizione di esistenza del referente dei
sintagmi nominali referenziali] […].
c2) Presupposti verbali [verbi fattivi (scoprire, rimpiangere…), continuativi
(smettere, cominciare…), implicativi (riuscire…), ecc.] […].
c3) Presupposti di costruzione [frasi scisse, subordinate] […].
c4) Presupposti avverbiali [avverbi come perfino, ancora, anche, più ecc.]
(Ducrot 1980: 1094-1906)
Nella classificazione riportata, i gruppi a) e b) raccolgono presupposizioni che
non sono (o non paiono chiaramente) legate a particolari elementi linguistici;
tutte le sotto-articolazioni di c), invece, ricalcano le principali forme
linguistiche (morfologiche, lessicali, sintattiche) assunte dagli attivatori. Il
precedente è un tentativo di classificare gli attivatori senza tener conto della
loro funzione: escludendo quest’ultima, infatti, l’unico criterio che resta è il
tipo di manifestazione linguistica. Ma scegliere un simile criterio, è un po’
come decidere di classificare gli strumenti da lavoro (ad es. martello, cacciavite,
sega, scalpello, metro, ecc.) basandosi esclusivamente sulla loro forma:
certamente, si potrà ottenere qualcosa perché la forma di uno strumento è
legata alla funzione.
Una classificazione degli attivatori che non incorpora il riferimento alla
loro funzione linguistica avrà l’aspetto di una griglia di caselle basate sulla loro
41
Altre classificazioni sono offerte ad esempio in (Murga 1998: 166) e (Hajicová 1972)
98
categoria linguistica: una classificazione di questo genere risulterà ad hoc in
quanto non si riuscirà a comprendere perché alcuni attivatori abbiano proprio
quella forma piuttosto che un’altra. Al contrario, una buona classificazione
degli attivatori deve incorporare il riferimento alla loro funzione linguistica:
una classificazione del genere non avrà l’aspetto di un casellario ma di un
continuum e giustificherà la loro forma in base alla suddetta funzione. Nel
seguito, il mio scopo non sarà delineare questo continuum nei dettagli, ma
fornire le linee guida per la sua costruzione.
2. Le funzioni linguistiche degli attivatori
2.1. Verso un continuum di attivatori
2.1.1. Riflessioni su due gruppi di attivatori
Si considerino le seguenti liste di attivatori:
(α)
(β)
pure, perfino, anche, già42, ormai, ancora, più, smettere, cominciare, ecc.
riuscire, deprivare, risparmiare, costringere, scoprire, rendersi conto,
accusare, criticare, comprare, vendere, costruire, demolire, ecc43.
Tutti gli elementi di (α) e (β) introducono in un processo sfumature di
significato che sarebbero definite «presupposizionali» in quanto «non-verocondizionali». Ecco due semplici esempi:
(5)
(6)
a. Perfino Paolo fuma.
b. Paolo fuma ancora.
c. Paolo fuma.
a. Paolo ha risparmiato a suo figlio una gita al lago.
b. Paolo ha deprivato suo figlio di una gita al lago.
c. Paolo non ha portato suo figlio in gita al lago.
Intuitivamente, le condizioni di verità di (c) sono le stesse degli enunciati (a-b).
Intuitivamente, questi ultimi si distinguono da (a) in quanto introducono
sfumature di significato che si adattano a particolari situazioni comunicative44:
(5a), ad esempio, sarebbe adatto laddove si stimasse Paolo come la persona che
A parte che già pare una valutazione esterna, del locutore: non esiste un processo del
tipo arrivare già; diverso il caso di un processo come arrivare velocemente. Si noti anche
l’incompatibilità di già con la negazione (?Paolo non è già arrivato): ma questa sembra dovuta
a motivi cognitivi.
43
Confrontando (β) con (α) emerge immediatamente l’omogeneità morfologica di (β)
rispetto ad (α). Inoltre, si possono rilevare incroci di caratterizzazioni: criticare ad esempio è
anche fattivo (la presupposizione della responsabilità sull’oggetto indiretto si cumula sulla sua
fattività); costringere richiede come oggetto diretto una persona e l’implicatività si cumula su
questo (o meglio, è fondata su questo).
44
Si noti il diverso ruolo svolto dalle suddette sfumature: un verbo copulativo
cominciare modifica l’aspetto del verbo principale; gli avverbiali perfino e già introducono
informazioni che hanno a che fare piuttosto con una valutazione del locutore sul processo
descritto (con una funzione interpersonale, appunto). Ne deriva che nel primo caso, la presenza
di informazioni contestuali contrastanti può produrre un’inappropriatezza molto più forte che
nel secondo: proprio perché, nel primo caso, viene modificata la struttura azionale del processo
descritto. Inoltre, può essere interessante chiedersi cosa modifica persino? Il nome o l’intero
processo?
42
99
meno probabilmente potrebbe fumare; (6a), invece, sarebbe adatto laddove si
considerasse una gita al lago come qualcosa di noioso. Il punto, per il nostro
discorso, è che se osserviamo separatamente gli elementi di (α) e (β) possiamo
compiere due ordini di considerazioni opposte.
Incominciamo da (α). In primo luogo, ovviamente, tutti gli elementi di
(α) sarebbero tranquillamente chiamati «attivatori di presupposizioni». In
secondo luogo, tutti gli elementi di (α) sembrano condividere un caratteristico
aspetto ‘formale’: da un lato, cioè, sono poveri di contenuto positivo vero e
proprio; dall’altro lato, si ‘riempiono’ di un processo qualsiasi al quale
applicano la modificazione prevista dal proprio contenuto45. In terzo luogo,
appare ragionevole pensare che le informazioni (stati di cose, processi o
valutazioni) cosiddette «presupposte» siano attaccate agli elementi (α)
convenzionalmente, e che la loro funzione consista nel collocare un certo
processo in un contesto comunicativo in cui siano presenti quelle informazioni.
Ad esempio, si confrontino gli enunciati seguenti:
(7)
a. Giorgio fumava e ora non fuma.
b. Giorgio fumava e ora non fuma più.
c. Giorgio fumava e ora ha smesso.
L’enunciato (7a) non segna il presupposto nella sua struttura; e questo,
naturalmente, non impedisce che si possa utilizzarlo comunque facendo
affidamento su di esso pragmaticamente (à la Stalnaker). Tuttavia, se
paragoniamo (7a) a (7b-c) – dove il presupposto è marcato nell’enunciato – ci
accorgiamo che questi ultimi risultano molto più scorrevoli. Gli attivatori in
gioco fanno leva su un contenuto presupposto ripetendolo e lubrificando il
flusso della comunicazione.
Passiamo a (β). In primo luogo, constatiamo che qui saremmo disposti a
parlare di «attivatori» con forza decrescente: idealmente, giungeremmo fino a
criticare. Certo, si può ammettere che anche costruire, demolire siano
attivatori (il primo presuppone che qualcosa non sia ancora costruito, il
secondo che lo sia); ma in questo modo si mostra una generosità eccessiva: che
espone il fianco all’obiezione per cui non si riesce più a fissare alcun limite tra
ciò che è «attivatore» e ciò che non lo è. In secondo luogo, ci accorgiamo che in
(β) aumenta il contenuto positivo dell’elemento e diminuisce il suo aspetto
‘formale’. In particolare, saldando (α) e (β) in un continuum, il discrimine pare
individuato dai verbi copulativi (gli aspettuali di (α) e gli implicativi di (β)), in
quanto già i verbi fattivi (scoprire e rendersi conto) sono predicativi a tutti gli
effetti. In terzo luogo, per gli elementi di (β), diventa via via meno sensato
affermare: sia che la presupposizione consista in una componente codificata
convenzionalmente, sia che la loro funzione consista nel collocare un certo
processo in un background di informazioni condivise. Ad esempio, se può
essere sensato affermare che la funzione del significato di più fosse collocare
una certa informazione nel contesto lubrificando il discorso, mi sembra una
forzatura sostenere la stessa cosa per scoprire o accusare. Si confronti:
(8)
a. Paolo non fuma più.
b. Paolo ha scoperto che Maria lo tradiva.
L’osservazione precedente, del resto, è confermata dal fatto che sintatticamente sono
tutti elementi borderline: gli elementi di (α), cioè, non sono connettori ma neppure parole
piene (emblematico, il caso dei verbi copulativi).
45
100
In entrambi i casi, il presupposto è difficilmente eliminabile; tuttavia, mentre è
sensato affermare che la presupposizione sia attaccata al significato di più in
base a una convenzione linguistica, come abbiamo visto al capitolo 3 sub. § 3.4
non lo è affermare la stessa cosa per scoprire. Nel primo caso, è la lingua che
rende qualcosa un presupposto allo scopo di poterlo sfruttare per funzioni
linguistiche; nel secondo caso, invece, la lingua eredita un presupposto
naturale. Nel primo caso, ciò che ‘compatta’ quelle informazioni al processo è la
semplice presenza di un lessema; nel secondo caso, invece, è questione di come
le cose sono in loro stesse. Nel primo caso parleremmo di convenzione
linguistica, nel secondo no46.
I due ordini di osservazioni appena condotte sono il dritto e il rovescio
di una stessa medaglia.
2.1.2. Il dritto e il rovescio di una medaglia
Ritorniamo ad (α). Come anticipato al capitolo 3 sub. § 3.4.,
l’impressione è che gli elementi di questa lista paiono progettati per
collaborare alla coerenza informativa del discorso e cioè per svolgere una
funzione testuale, simile a quella di M. H. Halliday:
[…] language has to provide for making links with itself and with features of the
situation in which it is used. We may call this the textual function, since this is what
enables the speaker or writer to construct ‘texts’ […] and enables the listener or
reader to distinguish a text from a random set of sentences. One aspect of the textual
function is the establishment of cohesive relations from one sentence to another in a
discourse. (Halliday 1970: 143).
Usando una metafora vegetale, possiamo pensare a un enunciato quale (5b)
come a una piantina, e alle modificazioni introdotte dagli elementi di (α) come
a radici e barbe che vi crescono sopra. La funzione di queste radici e barbe è
precisamente aggrappare l’enunciato a un determinato habitat comunicativo;
quando un locutore asserisce (5a) ex abrupto – laddove non c’è l’habitat adatto
– è come se trapiantasse una piantina con il pezzo di terra necessaria alla sua
sopravvivenza attaccata alle radici. Insomma, è naturale pensare che una
lingua sviluppi forme lessicali specializzate – come appunto la lista (α) – per
svolgere una funzione di collocazione testuale dei contenuti: risulta naturale,
cioè, che una lingua abbia un avverbio focalizzante come perfino o un avverbio
come più che consentono di far accomodare un certo contenuto (quello
«posto») sullo sfondo di un altro (quello «presupposto»). Ritorniamo ora a (β).
Così com’è ragionevole che una lingua convenzionalizzi la funzione di
collocazione testuale summenzionata, è altrettanto ragionevole che vi siano
alcuni attivatori la cui presupposizione non è innescata convenzionalmente; ad
esempio, appunto, i «verbi fattivi» o «di giudizio», come scoprire, rimpiangere,
E questa osservazione aumenta di evidenza mano a mano che ci si sposta verso gli
estremi del continuum. Analogamente, se dico Paola ha promesso a Giacomo di invitarlo faccio
affidamento sul fatto che l’invito sia qualcosa di desiderabile per Giacomo, ma sarebbe assurdo
dire che questo accade per una sorta di convenzione linguistica. Insomma, non bisogna
confondere la forza con cui questa idea è legata al lessema con una codificazione; e d’altra
parte, qualora si trovassero ipotetiche eccezioni (tali da far pensare, appunto, che la suddetta
presupposizione sia solo un’inferenza sollecitata), sarebbe sbagliato considerarle obiezioni.
Questo è precisamente ciò a cui può condurre la nozione di implicatura convenzionale.
46
101
dispiacersi, accusare, criticare.
Più in generale, l’impressione che si ricava dalle liste (α) e (β) è la
seguente. Quanto più i fatti presupposti sono contingenti, tanto più sembrano
esistere attivatori specializzati a codificare quella presupposizione e tanto più
quest’ultima sembra svolgere una funzione linguistica: è il caso, ad esempio,
degli avverbi come ancora o perfino. Quanto più le idee presupposte
aumentano di generalità, tanto meno sembrano esservi attivatori specializzati a
codificare tali presupposizioni e tanto meno queste ultime risultano svolgere
una funzione linguistica. Per quanto riguarda i verbi fattivi o di giudizio, ad
esempio, troviamo ancora degli elementi lessicali ma diventa assai più difficile
sostenere che la presupposizione vi sia legata convenzionalmente; se passiamo
alle presupposizioni di base, troviamo i criteri di selezione che è assurdo
considerare codificati e che non a caso, in genere, non si pensa di considerare
implicature convenzionali.
Se uniamo (α) e (β) in continuum, otteniamo lo schema seguente:
Pres. discorsive
Pres. di base
(α)………………………………. (β)
+ contingenza ............................................................................................ - contingenza
+ codifica ..................................................................................................... - codifica
+ funz. linguistiche.................................................................................... - funz. linguistiche
Lo schema precedente non è altro che un’esplicitazione del continuum tra i
punti i) e ii) individuati al capitolo 2 sub. § 4.1. Il carattere più esplicito
consiste nel fatto che questo schema mostra che più ci si sposta verso il polo
sinistro, più è ragionevole parlare di «implicatura convenzionale», più la
frustrazione del presupposto diventa simile ad una sconnessità linguistica, più
ha senso parlare di «attivatori» e di «funzione testuale». Viceversa, più ci si
sposta verso il polo destro, meno ha senso parlare di convenzione, più la
frustrazione del presupposto prenderebbe il nome di «metafora», meno ha
senso parlare di «attivatori» e di «funzione testuale»47. Riprendendo il modello
dello specchio delineato al capitolo 2, sub. § 2.2., possiamo dire che: più ci si
avvicina al polo sinistro del continuum più si sale alla superficie e alla struttura
dello specchio, più ci si avvicina al polo destro del continuum più si sprofonda
nelle condizioni di coerenza dell’immagine ritratta.
In sintesi, il fenomeno della presupposizione si riflette in modo
prototipico nelle restrizioni di selezione e riverbera fino alle condizioni di
coerenza di scoprire ecc. Se poi scendiamo giù fino a più o deprivare, ci
rendiamo conto di due cose: da un lato, il legame con le presupposizioni
prototipiche si offusca e comincia a diventare analogico; dall’altro lato, e
contemporaneamente, emergono le funzioni linguistiche che quelle strutture
possono svolgere nel discorso. Viceversa, se pensiamo alle funzioni linguistiche
(in particolare alla funzione testuale) constatiamo che funziona bene per
interpretare il ruolo degli elementi verso il lato sinistro del continuum e che
invece sfuma, assumendo l’aspetto di una mera analogia mano a mano che si
procede verso destra.
E’ chiaro infatti che mentre può essere sensato dire che il contenuto di un pure o di
uno smettere riprenda o si appoggi su qualche informazione, non lo è dire che sorridere
riprenda l’idea che qualcuno è una persona o che questa idea collabori alla coerenza del
discorso.
47
102
2.2. La risoluzione (linguistica) del fenomeno della presupposizione
Se osserviamo il continuum delineato sub. § 2.1.3., ci rendiamo conto
che c’è una parola come deprivare che veicola una presupposizione discorsiva
che svolge una funzione interpersonale e c’è una parola come sorridere che
veicola una presupposizione di base48. Certo, intuitivamente chiameremmo
«attivatore» il primo ma non il secondo; tuttavia, questo non deriva da una
differenza strutturale, bensì dal fatto che la presupposizione del primo, essendo
più contingente è anche più evidente. Ma se questo è vero, allora non esistono
gli «attivatori di presupposizioni» qua categoria linguistica per la semplice
ragione che nella lingua non esiste il fenomeno della presupposizione.
Riprendendo la metafora medica del § 2.1.1., non esiste nel corpo della
lingua un organo della presupposizione perché la presupposizione non è una
funzione linguistica: nella lingua ci sono la funzione ideativa, la funzione
testuale e la funzione interpersonale, ma non la presupposizione. Di
conseguenza esistono attivatori di requisiti discorsivi inerenti alla funzione
ideativa, testuale o informativa ma, rigorosamente parlando, non esistono
attivatori di presupposizioni. Questo non vuol dire che non esista il fenomeno
della presupposizione, ma che non è un fenomeno linguistico bensì un
fenomeno extralinguistico che si riflette nella lingua: e qui può assumere
l’aspetto, ad esempio, della funzione testuale o interpersonale. Di conseguenza
quelli che fino ad ora sono stati pensati e studiati come attivatori di
presupposizioni devono essere pensati come attivatori di requisiti discorsivi
inerenti a queste funzioni.
Il Requiem for presuppositions menzionato sub. § 1.1. consisteva nel
disintegrare il fenomeno della presupposizione in una congerie di altri
fenomeni (più o meno noti) come implicature convenzionali, inferenze
sollecitate, condizioni di felicità. Questa mossa, tuttavia, sposta soltanto il
problema dal comprendere perché vi sia il fenomeno della presupposizione, al
perché vi siano i fenomeni nei quali è stata frammentata: perché, ad esempio, ci
sono parole che veicolano implicature convenzionali? Come abbiamo visto sub.
§ 1.2., questa è precisamente la domanda che L. Kartunnen e S. Peters evitano.
Ma evitare questa domanda priva anche di senso l’obiettivo che i due autori si
propongono: al di là di un mero gioco accademico, infatti, che senso ha
descrivere come funzionano le implicature convenzionali o le inferenze
sollecitate senza interrogarsi sul loro ruolo all’interno della lingua? La
prospettiva qui proposta è diversa. Lo studio della presupposizione linguistica
deve essere abbandonato e sostituito semplicemente con quello delle funzioni
linguistiche à la Halliday (ideativa, testuale, interpersonale); di conseguenza,
coerentemente con quanto sostenuto sopra, i cosiddetti attivatori devono
essere ripensati in quanto requisiti testuali al servizio di quelle funzioni e la
loro manifestazione (sotto forma di implicature convenzionali piuttosto che
inferenze sollecitate ecc.) deve essere giustificata in base ad esse.
Ovviamente i due tipi di presupposizione possono anche essere contemporaneamente
veicolati dalla stessa parola. Si noti, per inciso che se ci chiediamo da cosa derivi il fatto che
alcune informazioni appaiano come implicazioni logiche e altre no, la risposta è immediata: dal
rapporto che intrattengono col resto del processo. Nel caso di deprivare, le informazioni
suggerite non fondano nulla ma esprimono semplicemente un’attitudine: svolgono una
funzione assimilabile a quella interpersonale. Viceversa, nel caso di scoprire, le informazioni
suggerite fondano la possibilità stessa del processo: svolgono un’autentica funzione di
presupposizione. Di conseguenza è ragionevole che nel secondo caso, e in esso soltanto,
appaiano come implicazioni logiche. Come si vede, parlare di «implicazione» non impedisce
affatto di vederli come presupposizioni.
48
103
Apparentemente, il fenomeno della presupposizione sembra scomparire
in entrambi i casi; tuttavia, vi è una profonda differenza. Nel primo caso, si
smette di parlare di «presupposizione» perché non la si riesce a comprendere
come un fenomeno unitario; nel secondo caso, si smette di parlare di
«presupposizione linguistica» perché si comprende che è un fenomeno
extralinguistico e che nella lingua si incarna nelle funzioni testuale e
interpersonale. Di conseguenza, nel primo caso abbiamo davvero la morte
della presupposizione; nel secondo, invece, abbiamo la sua resurrezione
sottoforma dello studio delle funzioni linguistiche.
2.3. La funzione testuale
L’interesse principale di questo capitolo è rispondere alla domanda:
quale è la funzione linguistica degli attivatori? Ecco, dunque, come si articola
la nostra risposta. Da un lato, porre quella domanda ha senso solo per le
presupposizioni contingenti. Dall’altro lato, più ci spostiamo verso il polo
sinistro del continuum delineato sub. § 2.1.3. – più ci concentriamo su
presupposizioni che hanno come contenuto un fatto contingente – più sembra
naturale interpretarle come svolgenti una funzione analoga a quella testuale49.
Viceversa, più ci spostiamo verso il polo destro del continuum delineato sub. §
2.1.3. più questa analogia sfuma: risultando dapprima forzata e poi
completamente assurda.
Qui diventa utile la terminologia, pedante ma accurata, elaborata al
capitolo 3 sub. § 4. Affermando che le presupposizioni discorsive «si lasciano
interpretare sul modello della funzione testuale» o che «svolgono una funzione
analoga a quella testuale» intendo dire che la funzione linguistica dei requisiti
discorsivi ai quali corrispondono presupposizioni contingenti è semplicemente
un riflesso della funzione di queste ultime. E questo è semplicemente il punto i)
anticipato al capitolo 3 sub. § 4. Le presupposizioni contingenti sono fatti che
funzionano come condizioni di coerenza (sussistenza) di pratiche
extralinguistiche. La lingua è uno spazio concettuale: tali presupposizioni,
quindi, vi sono riflesse in quanto informazioni che funzionano come condizioni
di coerenza (pensabilità) di processi50. Ma la lingua non è solo uno spazio
concettuale immobile: è la pratica di enunciarlo. Di conseguenza, la funzione
linguistica di quelle informazioni è collaborare alla coerenza testuale fornendo
le condizioni di coerenza dell’atto di enunciare il processo di cui sono
condizioni di pensabilità: è in questo senso che sono requisiti discorsivi.
E infatti non è un caso che una buona parte degli ultimi sviluppi del dibattito sulle
presupposizioni – da L. Kartunnen (1974, 1991:406-415) a I. Heim (1988, 1991: 397-405) a R.
Van der Sandt (1992: 333-377) – si siano sviluppati proprio in questa direzione. E M. Sbisà
rileva (sottolineatura mia): «La presupposizione gioca un ruolo centrale nell’economia di un
testo. Quando ha un chiaro antecedente nei segmenti precedenti del medesimo testo o in testi
in qualche modo collegati e recuperabili, contribuisce alla sua connessità. […] Una
presupposizione risolta rinsalda i legami dell’enunciato e che contiene l’attivatore
presupposizionale con uno o più enunciati, o espressioni linguistiche, emessi precedentemente
nel corso della stessa attività (Sbisà 2007: 89) ».
50
La lingua è un luogo di idee e di manipolazione di idee: è chiaro. Tuttavia, all’interno
del nostro discorso, questo luogo comune assume un rilievo particolare perché rappresenta il
punto di distacco tra il piano reale e linguistico: e quindi il punto di svolta a partire dal quale il
secondo diventa autonomo. E’ in virtù di questo passaggio che i requisiti discorsivi a cui
corrispondono presupposizioni e quelli creati dalla lingua si collocano tutti sullo stesso piano
e, in quanto tali, collaborano tutti alla coerenza testuale. Da qui derivano inoltre le
caratteristiche discusse al capitolo 3, sub. §§ 3.2., 3.3., 3.4.
49
104
Questo punto è centrale perché apre una nuova questione; e cioè: se gli
attivatori di requisiti discorsivi collaborano alla coerenza testuale, in quali
limiti lo fanno? E soprattutto: con cosa collaborano? La necessità di porre
questo problema, del resto, può essere mostrata confrontando le citazioni
seguenti:
[…] il est considéré comme normal de répéter un élément sémantique déjà présent
dans le discours antérieur – pourvu qu’il soit repris sous forme de présupposé. […]
La redondance est assurée par la répétition des éléments présupposés. Quant au
progrès, c’est au niveau du posé qu’il doit se faire, par la présentation, à chaque
énoncé, d’éléments posés inédits. (Ducrot 1972: 88-89).
Sviluppare coerentemente il tema di un testo vuol dire introdurre gradualmente
informazioni nuove appoggiandosi a informazioni note. La progressione tematica di
un testo si riflette in ogni singolo enunciato e più in particolare nella sua prospettiva
comunicativa. (Prandi 2006: 178)
I passi riportati sembrano parlare della stessa cosa: si potrebbe addirittura
pensare di sovrapporre «éléments présupposés» a «informazioni note» e
«éléments posés inédits» a «informazioni nuove». Ma non è così: il primo si
riferisce alle presupposizioni discorsive innescate da attivatori e quindi alla
gerarchia posto/presupposto; il secondo si riferisce alla struttura informativa
dell’enunciato e quindi a categorie come «tema/rema/fuoco» o «sfondo/primopiano». Di conseguenza, ecco la necessità di porre la domanda: che legame c’è
tra la struttura informativa e il fenomeno della presupposizione? In che limiti
collaborano entrambe alla coerenza testuale?
Tuttavia, per rispondere a questa domanda occorre dire qualcosa sulla
natura della coerenza testuale.
3. La stratificazione della coerenza testuale
Al capitolo 1, sub. § 1.1., abbiamo sottolineato che le presupposizioni
sono condizioni di coerenza di pratiche e si distinguono in base all’ampiezza
della pratica che fondano. La questione, dunque, è il tipo di pratica fondata. Le
nostre interazioni con un albero o una persona sono pratiche basilari della
nostra vita: di conseguenza, le idee che le fondano (che un albero non provi
dolore e una persona sì, o che una persona sia responsabile e un albero no)
funzionano come presupposizioni in modo stabile, sono presupposizioni di
base. Smettere di fumare o scoprire che un barattolo di Nutella è stato vuotato
sono pratiche contingenti: di conseguenza le idee che le fondano (che qualcuno
abbia fumato o che il barattolo sia vuoto) funzionano come presupposizioni in
modo limito a quelle pratiche, sono presupposizioni contingenti. In entrambi i
casi, ciò che le presupposizioni fondano è la coerenza concettuale di una pratica
extralinguistica: di fondo o effimera che sia51. Ma nel momento in cui ci
interroghiamo sul ruolo linguistico che le presupposizioni possono svolgere,
entra in gioco una nuova pratica: il discorso. E il discorso ha una propria
coerenza: non esclusivamente quella concettuale delle precedenti pratiche
extralinguistiche, che si limita a riflettere, ma una coerenza testuale specifica,
retta da criteri immanenti.
Questo, per inciso, è anche il senso di «pragmatica» che condividiamo con l’idea di
presupposizione pragmatica di R. Stalnaker (cfr. capitolo 1, § 3.2.1.).
51
105
Il discorso – la comunicazione – è una delle pratiche più contingenti
che si possano immaginare: come mette in luce M. Prandi, la sua struttura non
è un sistema ma un campo, un campo di interpretazione (Prandi 2004: 18-32).
Qui entra in gioco il modello dello specchio delineato capitolo 2 sub. § 2.2.: il
discorso è sì una pratica effimera, ma con la particolarità di riflettere dentro sé
la coerenza concettuale di ciò che è extralinguistico. E qui si attua il paradosso
dello specchio delineato al capitolo 2 sub. § 2.3.3.: se è vero che il discorso è
una pratica più contingente di tutte le pratiche extralinguistiche che riflette, è
altrettanto vero che, nel momento in cui le riflette, la loro immagine risulta
vincolata alle sue condizioni di coerenza, alla coerenza testuale.
La coerenza testuale, dunque, è stratificata. In profondità, riverberano
le condizioni di coerenza delle pratiche extralinguistiche riflesse – cioè ideate –
nella lingua. In superficie, troviamo le condizioni di coerenza della pratica
discorsiva in quanto tale: cioè, in ultima analisi, la configurazione informativa
degli enunciati. La coerenza testuale è composta da due ingredienti: condizioni
di coerenza dei contenuti ideati (cioè il riflesso nella lingua delle condizioni di
coerenza di pratiche e processi extralinguistici); condizioni di coerenza del
susseguirsi degli enunciati nel discorso (cioè la struttura informatica con i suoi
rapporti tra le nozioni di dato/nuovo, tema/rema-fuoco, sfondo/primo piano).
Il primo ingrediente è concettuale o, nella terminologia di M. H. Halliday,
«ideativo»; il secondo ingrediente è informativo o, nella terminologia di M. H.
Halliday, «testuale»: l’uno ha a che fare con la pensabilità dei contenuti, l’altro
col modo di porgerli. Il segno di un problema a livello del primo è
l’impressione di saltare di palo in frasca (con i termini di O. Ducrot un senso
«rabâchage»); il segno di un problema a livello del secondo è la disconnessità
tematica. Il segno del buon funzionamento del primo ingrediente è l’avanzare
del discorso su uno sfondo di informazioni via via acquisite (con i termini di O.
Ducrot la «redondance»); il segno del buon funzionamento del secondo è la
coerenza tematica.
E’ in questa prospettiva che deve essere formulato il problema aperto
sub § 2.3.; la domanda diventa: in quale ingrediente della coerenza testuale
confluiscono gli attivatori di presupposizioni discorsive? O, più precisamente:
in quale ingrediente della coerenza testuale si collocano i requisiti discorsivi
che riflettono presupposizioni contingenti? La risposta è immediata. I requisiti
discorsivi – e in particolare quelli che riflettono presupposizioni contingenti
come smettere o scoprire – fanno parte dell’ingrediente ideativo della coerenza
testuale: interagiscono con le categorie di dato/nuovo, tema/rema-fuoco,
sfondo/primo-piano (cioè con l’ingrediente informativo o testuale stricto
sensu) al fine della coerenza testuale. Questa era precisamente l’impressione
intuitiva suscitata al capitolo 1 in chiusura del § 2.2.3. Così, usando la nozione
di «dinamismo comunicativo» messa a punto da J. Firbas (Firbas 1987, 1991),
possiamo precisare la nostra idea come segue: i cosiddetti «attivatori di
presupposizioni» sono mezzi ideativi, le categorie testuali di dato/nuovo,
tema/rema-fuoco, sfondo/primo-piano sono mezzi informativi; entrambi sono
rivolti al fine comune della coerenza testuale agendo, per vie diverse, sul
dinamismo comunicativo.
Ora non ci resta che descrivere l’interazione tra questi due ordini di
mezzi: sarà il tema del prossimo capitolo.
106
CAPITOLO 5
Presupposizioni discorsive e struttura informativa
107
Indice del capitolo
1. Distinzioni preliminari
1.0. Introduzione
1.1. Presupposto vs. dato
1.2 Categorie informative della frase semplice
1.2.2. Tema vs. dato
1.2.3. Tema vs. presupposto
1.3. Categorie informative della frase complessa
2. Struttura informativa e presupposizioni discorsive
2.0. Introduzione
2.1. Prospettiva interna
2.1.1. Frase semplice
2.1.2. Frase complessa
2.1.3. Un bilancio
2.2. Prospettiva esterna (frase semplice)
2.2.1. Ripetizione (rabâchage) e incoerenza (incohérence)
2.2.2. Accomodamento e rottura del dialogo
2.2.3. Erosione del tema e presupposizione pragmatica
2.2.4. Attivatori e strategie di focalizzazione
2.2.5. Un bilancio
3. Presupposizione e ripresa anaforica
3.0. Introduzione
3.1. Presuppositions are just anaphors
3.2. Anaphors are just presuppositions
3.2.1. Presupposizioni metalinguistiche
3.2.2. Un accenno alla presupposizione di esistenza
3.2.3. La rigerarchizzazione delle presupposizioni
3.3. Un bilancio generale
109
109
109
110
110
111
112
113
113
114
114
116
117
118
118
120
121
122
124
125
125
125
127
127
128
129
129
108
1. Distinzioni preliminari
1.0. Introduzione
Descrivere la collaborazione al risultato comune della coerenza testuale
tra mezzi ideativi (attivatori, gerarchia presupposto/posto) e mezzi informativi
(dato/nuovo, tema/rema-fuoco, sfondo/primo-piano) significa evidenziarne le
analogie nel rispetto della differenza di livelli ai quali si collocano. Ma per
evidenziare quelle senza sovrapporre questi occorre tenere distinte le seguenti
coppie di nozioni: «presupposto vs. posto», «dato vs. nuovo», «tema vs. rema»,
«sfondo vs. primo-piano». Certamente, esiste una naturale affinità elettiva tra i
membri di ciascuna coppia; tuttavia, ciascuna nozione ha un proprio ambito di
pertinenza che non deve essere appiattito su quello delle altre.
1.1. Presupposto vs. dato
«Presupposto» indica un’idea che funziona come condizione di coerenza
di una pratica. «Dato» indica le informazioni disponibili nel cosiddetto
common ground a un certo stadio del discorso. Sebbene sia naturale trovare
un’affinità elettiva tra dato e presupposto (e nuovo e posto), le due nozioni
devono rimanere distinte. In primo luogo, ovviamente, tra la massa di
informazioni date durante un discorso, non tutte funzionano come presupposti:
e in questa prospettiva la funzione degli attivatori è renderne qualcuna, di
volta in volta, presupposto di una certa battuta. In secondo luogo, certamente,
è ragionevole che l’informazione a funzionare come presupposto sia
un’informazione data; ma non è necessario. Un attivatore può introdurre
presupposti che consistono in informazioni discorsivamente nuove:
[…] supposons que mon interlocuteur me demande des renseignements sur telle
personne qu’il ne connait pas du tout, mais dont j’ai prononcé le nom. Je réponds que
son fils est camarade de classe de mes enfants. Ma réponse – qui présuppose que la
personne en question a un fils – constitue un acte d’information complet, que ne
frappe pas aucune «infelicity». Et pourtant mon locuteur, d’après le contexte, ne
pouvait pas connaitre le présupposé – puisqu’il ne savait rien de la personne en
question. Il est donc tout à fait courant, et tenu pour légitime, de présupposer, dans un
acte d’affirmation, des connaissances que l’auditeur n’a pas encore. (Ducrot 1972: 5152).
Ecco un esempio:
(1)
a. Cosa è successo?
b. Gianni ha smesso di picchiare sua moglie.
L’idea che Gianni picchiasse sua moglie non è in nessun modo contenuta nella
domanda o derivabile da essa, a meno di non postulare un contesto ad hoc.
Certo, se un attivatore introduce un presupposto nuovo lo introduce:
[…]in un modo particolarissimo: esso cioè non viene presentato come la cosa che si
vuole dire. […] il contenuto presupposto sembra essersi insinuato nel messaggio,
109
piuttosto che essere affermato da esso (Ducrot 1980: 1086-1087) 52.
Tuttavia, a meno di non falsare il significato delle parole, resta il fatto che il
presupposto insinuato dall’attivatore può benissimo non esser dato nel
discorso precedente, come in (1). Introdurre un’informazione come se fosse
data non significa che sia stata effettivamente data.
1.2 Categorie informative della frase semplice
1.2.1. Le nozioni di tema, rema e fuoco
Un modo sintetico per descrivere il rapporto tema/rema/fuoco è
pensare a un enunciato come alla superficie terrestre: con zone d’ombra e zone
più o meno soleggiate. Il rapporto tema/rema/fuoco è analogo al rapporto
ombra/luce: è un rapporto di gradi di visibilità comunicativa.
La funzione del tema è ‘tematizzare’: cioè fare di un’informazione un
argomento di discorso. Il tema svolge questa funzione implicando il rema: la
posizione informativa di tema impone sul suo contenuto un profilo
comunicativo tale da presentarlo come il punto più basso del dinamismo
comunicativo dell’enunciato; facendo questo, crea l’aspettativa di un crescendo
del suddetto dinamismo; questo crescendo è il rema e il suo culmine è il fuoco.
In questo senso il tema implica il rema.
Per quanto semplici, le osservazioni appena condotte sono sufficienti a
tenere distinta la nozione di tema da quelle di presupposto e dato.
1.2.2. Tema vs. dato
Sebbene un tema possa ospitare un contenuto dato, le nozioni di tema e
dato devono essere tenute distinte53.
Certo, ovviamente, possono essere tematizzate informazioni già date
nel discorso: magari appena asserite nel fuoco dall’enunciato precedente. In
questo senso, la funzione del tema è distillare (ricapitolare, riassumere,
descrivere, ecc.) le informazioni date per innestarvi il rema e far proseguire il
discorso54. Tuttavia, altrettanto ovviamente, un tema può intavolare
informazioni nuove. Ecco due esempi:
(2)
a. Ma cosa è accaduto?
b. Durante la cerimonia, la sposa ha avuto una crisi isterica55.
c. Un idraulico ha ammazzato la moglie.
In altre parole, il presupposto viene presentato da un attivatore come dato a priori (a
priori rispetto a quanto asserito): precisamente perché l’attivatore ne fa una condizione di
52
coerenza di quanto è asserito.
53
Sulla non coincidenza di dato e tema si veda Sgall (1972, 1991 : 261), che però
sovrappone dato a presupposto.
54
Si noti, per inciso, che si può tematizzare anche una informazione presupposta: Ora
Paolo ha smesso di fumare. Il fatto che abbia fumato per tanti anni è sempre stato un cruccio
per i suoi genitori Si noti che con le presupposizioni di base non funziona. Paolo sorride. Il
fatto che Paolo sia una persona… E si noti anche che la ripresa anaforica con questo non
avrebbe funzionato.
55
Per inciso, durante la cerimonia deriva la propria pertinenza a ritroso, traendola da la
sposa.
110
In (2b-c), senza dubbio, il setting o il tema introducono informazioni nuove56.
Del resto, più in generale, il fatto che un tema non contenga necessariamente
un contenuto dato è mostrato dalla semplice considerazione che, se così fosse,
nessun romanzo potrebbe mai avere inizio: infatti, rispetto a cosa il tema della
prima frase sarebbe un contenuto dato?57 In (2b-c), ciò che viene introdotto è
nuovo rispetto a quanto precede e, nello stesso tempo, individua il punto dal
peso comunicativo più basso rispetto al rema seguente. Tra queste due
prospettive non c’è conflitto.
1.2.3. Tema vs. presupposto
Sebbene possa capitare di trovare un presupposto discorsivo
tematizzato58, le nozioni di tema e presupposto devono essere tenute distinte.
Se il tema presenta un contenuto come il punto dal peso informativo più basso
tra ciò che si vuol comunicare, lo presenta comunque come parte di ciò che si
vuole comunicare. Ma questo è esattamente il contrario di quello che fa un
attivatore. Infatti, come suggerito dalla precedente citazione di O. Ducrot, un
attivatore non presenta il presupposto come la parte meno importante di ciò
che si vuol dire: non lo presenta affatto come una parte di ciò che si vuol dire.59
Certo, né un tema, né un presupposto sono ciò che è comunicativamente più
rilevante; tuttavia, sono collocati su piani incommensurabili: il primo è una
zona d’ombra sulla crosta dell’enunciato, il secondo è un fondamento
sotterraneo. Per descrivere il rapporto presupposto/posto, si può ancora
pensare all’enunciato come alla superficie terrestre, ma questa volta opponendo
la crosta (il «posto») al sottosuolo (il «presupposto»). Se la dimensione
tema/rema è superficiale o orizzontale, la dimensione presupposto/posto è
profonda o verticale. Il presupposto non è parte della crosta terrestre
dell’enunciato, ma è al di sotto di essa.
Può essere utile soffermarsi sulle differenze tra un attivatore di
presupposizioni discorsive e un tema. In primo luogo, la funzione del tema è
collocare un’informazione (data o nuova che sia) sulla superficie dell’enunciato:
precisamente, nel punto dal dinamismo informativo più basso. Al contrario, un
attivatore inietta un’informazione (data o nuova che sia) sotto la superficie
dell’enunciato: e ciò a fortiori, perché fornisce una condizione di coerenza al
processo espresso dall’enunciato. In secondo luogo, il rapporto tra tema e
contesto è ‘prospettivo’: tipicamente, il tema distilla informazioni già presenti
(date o inferibili) innestando su di esse il rema. Al contrario, il rapporto tra
attivatore e contesto è ‘retrospettivo’: tipicamente, l’attivatore sembra imporre
o proiettare le informazioni presupposte sul contesto o, come anche si dice,
sembra «richiedere» un contesto che contenga quelle informazioni. Da ciò
deriva la sua interpretazione nei termini della nozione griceana di implicatura
convenzionale. Naturalmente, come abbiamo visto, questo non significa che un
tema o un attivatore non possano introdurre informazioni nuove. Tuttavia,
Senza contare che talvolta l’innesto di informazioni nuove nel tema può essere
impiegato per deviare il discorso.
57
Certo, si potrebbe però rispondere qualcosa come: un insieme di conoscenze che si
suppongono condivise a largo raggio.
58
Questo (sub. § 3.1 del capitolo 2) era un test per distinguere le presupposizioni
discorsive da quelle di base.
59
E la ragione è che la funzione del presupposto iniettato da un attivatore è fornire una
condizione di coerenza a un processo: è perché il punto è quest’ultimo che la condizione di
coerenza si impone surrettiziamente
56
111
resta il fatto lo fanno in modo radicalmente diverso: il primo, alla luce del sole,
deviando il corso del dialogo; il secondo, di nascosto, introducendo
informazioni che si è obbligati ad ammettere. La terza differenza –
fondamentale – è che un tema non è una condizione di coerenza del contenuto
del rema; al contrario, il presupposto iniettato da un attivatore è una
condizione di coerenza del processo asserito.
1.3. Categorie informative della frase complessa
Consideriamo gli esempi seguenti:
(3)
a. Paolo ha incontrato un vecchio amico.
b. In Colombia, Paolo ha incontrato un vecchio amico.
c. Durante le vacanze in Colombia, Paolo ha incontrato un vecchio
amico.
d. Mentre trascorreva le vacanze in Colombia, Paolo ha incontrato un
vecchio amico.
Da un punto di vista informativo, scorrendo gli enunciati (3a-d) si percepisce
un climax. In (3a), Paolo è il tema e ha incontrato un suo vecchio amico è il
rema; (3b) presenta la medesima configurazione informativa di (3a), con in più
l’aggiunta del circostanziale anteposto In Colombia. Quest’ultimo cumula due
funzioni: come un tema è un punto dal basso dinamismo comunicativo (una
zona d’ombra), a differenza di un tema non introduce un argomento ma una
scena. Per questo motivo, in (3b) troviamo una nuova categoria informativa
etichettata «setting». L’enunciato (3c) presenta esattamente la medesima
configurazione informativa di (3b): l’unica differenza consiste in un
ampliamento del setting. Se ora passiamo (3d), ci rendiamo conto che amplia
ulteriormente il setting di (3c) trasformandolo in una frase.
Questo ulteriore ampliamento del tema, tuttavia, ha un effetto anche sul
resto dell’enunciato. In (3d), infatti, la struttura informativa della frase
semplice (che ormai è principale) assume un’autonomia informativa sua propria
a un livello superiore: assume l’aspetto di un primo piano che si oppone a uno
sfondo. Passando da (3a) a (3d), dunque, sono nate due nuove categorie
informative: il primo piano e lo sfondo. Seguendo M. Prandi, possiamo
immaginare due casi estremi:
(4)
a. Paolo è uscito per andare a comprare un uovo di Pasqua.
b. Benché fosse nevicato tutta la notte, le strade erano pulite.
Gli enunciati (4) esemplificano i poli estremi del continuum di configurazioni
informative di un periodo. In (4a) – una finale implicita intonativamente
integrata – troviamo una progressione informativa che si adagia su quella di
una frase semplice non-marcata. In (4b) – una concessiva esplicita anteposta
alla principale – emergono invece le due categorie informativa nuove, proprie
del periodo: lo sfondo (la subordinata) e il primo piano (la principale). Con una
bella immagine di M. Prandi, se confrontiamo (4b) con (4c)
(4)
c. Era nevicato tutta la notte, e le strade erano pulite.
abbiamo l’impressione di un grande affresco nel primo caso e di un bassorilievo
112
nel secondo. La differenza tra sfondo e primo-piano può essere netta o sfumata,
a seconda dell’interazione tra: ordine di principale e subordinata, aspetto
perfettivo o imperfettivo dei verbi, Aktionsart puntuale o durativa dei loro
processi.
Come si vede, dunque, la configurazione informativa «sfondo vs. primo
piano» può essere pensata come una proiezione, a livello del periodo, della
struttura informativa della frase semplice. Di conseguenza, se è vero che le
categorie informative della frase complessa devono essere distinte da quelle
della frase semplice, è altrettanto vero che ne sono imparentate. E per quanto
riguarda il nostro discorso, in particolare, sono più importanti le somiglianze
che le differenze. Anzitutto, la distinzione «sfondo vs. primo-piano» non deve
essere confusa né con «presupposto vs. posto» né con «dato vs. nuovo» per
ragioni analoghe alla distinzione «tema vs. rema». Analogamente a un tema,
uno sfondo non è un presupposto perché è parte di ciò che è ritratto sulla
scena: come sfondo, appunto. Analogamente a un tema, uno sfondo può
introdurre informazione nuova. Inoltre, come vedremo, le categorie sfondo e
primo-piano amplificano alcune funzioni delle categorie informative della frase
semplice facendo risaltare ancora più le analogie con gli attivatori di
presupposizioni discorsive.
2. Struttura informativa e presupposizioni discorsive
2.0. Introduzione
Avendo fissato le distinzioni precedenti, possiamo delineare le analogie
tra attivatori di presupposizioni discorsive e struttura informativa. Nel fare
questo, le direzioni lungo le quali procederemo ricalcano i confini che possono
essere tracciati all’intero della struttura informativa.
Anzitutto, c’è il confine tra frase semplice e frase complessa: qui si
oppongono tema/rema/fuoco (pertinenti a livello della frase semplice) e
sfondo/primo-piano (pertinenti al livello della frase complessa). Al di là del
diverso livello di pertinenza, tutte queste categorie sono informativosemantiche perché si ricavano dalla struttura degli enunciati: per rispondere a
domande come quale è il fuoco? o quale è lo sfondo? è necessario osservare
l’ordine dei costituenti o la posizione reciproca di subordinata e principale.
Le categorie di tema/rema/fuoco e sfondo/primo-piano possono essere
guardate non solo da un punto di vista interno all’enunciato (semplice o
complesso), ma anche esterno: cioè in rapporto al contesto. Questa distinzione
tra prospettiva interna ed esterna all’enunciato è il secondo confine di cui
dobbiamo tener conto: è solo in quest’ottica, infatti, che diventa pertinente la
dimensione dato/nuovo. A differenza delle precedenti, le categorie di
«informazione data» e «informazione nuova» sono informativo-pragmatiche
perché non si ricavano dalla struttura della frase ma dal suo habitat: per
rispondere alla domanda questo è un contenuto nuovo?, infatti, non basta
guardare alla struttura della frase ma occorre guardare il contesto.
Relativamente alla struttura informativa, si possono compiere due tipi
di errori. Si può sovrapporre «tema» a «sfondo» e «rema» (o «fuoco») a «primo
piano»: violando il confine tra frase semplice e frase complessa. Oppure, si può
sovrapporre «dato» a «tema» o «sfondo», e «nuovo» a «rema», «fuoco» o
«primo piano»: violando il confine tra interno ed esterno dell’enunciato. Il
primo errore consiste nel confondere categorie che hanno ambiti di pertinenza
113
diversi: rispettivamente, frase semplice e complessa; il secondo errore consiste
nel confondere categorie qualitativamente diverse: rispettivamente, strutturali
o semantiche e comunicative o pragmatiche.
Intersechiamo le due distinzioni precedenti, si può ottenere una mappa
del territorio della struttura informativa come questa:
i)
ii)
Prospettiva interna:
i.i)
frase semplice;
i.ii)
frase complessa;
Prospettiva esterna:
ii.i)
frase semplice;
ii.ii) frase complessa.
Relativamente alle analogie tra presupposizioni discorsive e struttura
informativa, non si rivelerà necessario esplorare tutti i punti allo stesso modo.
In effetti giungeremo solo fino a ii.i): la ragione è che (considerando la
parentela tra le categorie di sfondo e setting) ci concentreremo sulla frase
complessa solo laddove amplifica (e non ripete semplicemente) le
caratteristiche della frase semplice salienti per il nostro discorso.
2.1. Prospettiva interna
2.1.1. Frase semplice
Come noto, per separare il contenuto posto da quello presupposto si
usano i test dell’interrogazione e della negazione: il contenuto posto è quello
che può essere colpito con naturalezza dalla negazione (sintattica), il contenuto
presupposto è quello che invece tende a sfuggirvi60. E, d’altra parte, rispondere
a una domanda presentando l’informazione richiesta come presupposto sarebbe
considerato fuori luogo. Come altrettanto noto, per separare il fuoco e il rema
dal tema, si usano la negazione e l’interrogazione: il rema (in una struttura
non-marcata) coincide con la predicazione e cioè, a fortiori, con quella porzione
dell’enunciato esposta alla negazione sintattica, mentre il tema chiaramente
no61. D’altra parte, di fronte a una domanda, ci si aspetta che la risposta
presenti l’informazione richiesta nel fuoco: se la presenta nel tema, lo scambio
è informativamente incoerente. E’ a questo punto che scatta l’analogia: può
essere un caso che l’interrogazione e la negazione svolgano un ruolo così
centrale sia per la presupposizione sia per la struttura informativa?
Si considerino gli esempi seguenti:
(5)
a. Paolo ha comprato una grammatica da Mondadori.
b. Paolo ha comprato una grammatica proprio da Mondadori.
L’enunciato (5a) presenta una struttura informativamente non-marcata: il
dinamismo comunicativo procede in maniera equilibrata da un minimo (il tema,
Paolo) a un massimo (il fuoco, da Mondadori). L’enunciato (5b), invece,
presenta una struttura informativamente marcata per via del focalizzatore
Si veda, ad esempio, Hajicová (1973, 1991).
Non solo, ma spesso il rema è considerato la rampa di lancio della forza illocutiva di
un enunciato.
60
61
114
proprio che colpisce da Mondadori. Immaginiamo ora di proseguire gli esempi
(5) con: …e non da Feltrinelli. Tale prosecuzione è possibile per entrambi, ma
è particolarmente adatta a (5b). Immaginiamo poi di ribattere a (5): Non è vero:
Paolo non ha comperato nessuna grammatica. Una simile battuta si
accosterebbe bene a (5a), ma meno a (5b) dove acquisterebbe un tipico sapore
‘metalinguistico’:
(5)
a. Paolo ha comprato una grammatica da Mondadori. Non è vero:
Paolo non ha comprato nessuna grammatica.
b. *Paolo ha comprato una grammatica proprio da Mondadori. Non è
vero: Paolo non ha comprato nessuna grammatica.
Nel caso di (5a), la negazione tende a colpire il fuoco, ma riesce a investire
senza difficoltà tutta la predicazione (tutto il rema); nel caso di (5b), invece, la
negazione intacca solo l’elemento focalizzato da proprio mentre il resto le
sfugge. In entrambi i casi, comunque, lo scope della negazione investe il fuoco
e non il tema.
Si accostino ora agli enunciati (5) i seguenti:
(6)
a. Paolo ha smesso di fumare.
b. Paolo fuma.
c. Paolo fumava.
Il comportamento della negazione descritto per (5) non è analogo a quanto
accadrebbe in (6) per (6b) e (6c)? E se lo è perché non chiamare «posto» il
fuoco e «presupposto» il tema in analogia a (6b) e (6c)?62 In altre parole, per
(5), si potrebbe proporre un’analisi sul modello di (7):
(7)
a. Paolo ha comprato una grammatica proprio da Mondadori.
b. Paolo ha comprato da Mondadori.
c. Paolo ha comprato una grammatica.
Perché non sostenere che (7c) sia un contenuto presupposto e (7b) un
contenuto posto alla stregua di (6c) e (6b)?
Se lo facciamo emerge un fatto paradossale. Da un lato, (6a) non può
essere davvero analizzato in (6b) e (6c); dall’altro lato, la scomposizione di (7a)
in (7b) e (7c) funziona benissimo. Per rendersene conto, si confronti:
(6)
(7)
d. ?Paolo fumava e non fuma.
d. Paolo ha comprato una grammatica e l’ha comprata da Mondadori.
Da un punto di vista ideativo, l’enunciato (6d) non è affatto equivalente a (6a);
ma l’enunciato (7d) è perfettamente equivalente a (7a). Dunque, se l’analisi
precedente fosse essenziale al concetto di presupposizione, ci troveremmo nel
paradosso di dover concludere che (6a) – caso classico di presupposizione – non
sia per nulla un caso di presupposizione, e che lo sia invece (7a). Tuttavia –
come rilevato al capitolo 3 sub. § 1.2. – ciò che è essenziale al concetto di
presupposizione è precisamente il non funzionamento di un’analisi come la
La differenza tra (5a) e (5b) sarebbe una mera questione di gradi: mentre in (5b)
l’accento di intensità induce una separazione netta tra posto (il fuoco) e presupposto (tutto il
resto), in (5a) la struttura non marcata assume l’aspetto di un continuum da un estremo
presupposto (il tema) a un estremo posto (il fuoco).
62
115
precedente. Di conseguenza, il fatto che (6d) non funzioni prova che (6a) è un
caso prototipico di presupposizione discorsiva63, mentre il fatto che (7d)
funzioni prova che (7a) non è una (o non è un caso prototipico di)
presupposizione discorsiva.
In effetti, non è difficile accorgersi che tra (5) o (7) e (6) sussiste una
differenza profonda: mentre (6c) è una condizione di coerenza della pensabilità
di (6a), (7c) non è una condizione di pensabilità di (7a). In (6), il rapporto tra
(6c) e (6a) è di ‘fondamento’: di conseguenza non posso togliere (6c) da (6a)
senza distruggere (6a). Questa è la ragione per cui l’analisi di (6a) come (6b) e
(6c) non funziona e ha un valore meramente euristico. Al contrario, in (7), il
rapporto fra (7c) e (7b) è di ‘aggiunta di informazioni’. Di conseguenza, posso
togliere (7c) da (7a) e analizzare (7a) come la somma di (7b) e (7c).
Ma l’analogia delineata può anche essere riformulata da una prospettiva
opposta. E cioè: sopra, avevamo interpretato la gerarchia tra rema e tema come
un fenomeno presupposizionale; ma perché non interpretare la gerarchia tra
posto e presupposto in (6) come un fenomeno di focalizzazione? Perché non
sostenere che smettere ‘focalizzi’ in certo qual modo (6b)? Anche in questo
caso, il limite emerge con chiarezza. Da un lato, sarebbe forzato considerare
(6c) una sorta di tema; dall’altro lato, mentre la struttura informativa è fatta
per manipolare il rapporto tra tema, rema e fuoco, un attivatore non è fatto per
manipolare la gerarchia tra posto e presupposto. Un attivatore come smettere,
determina rigidamente la gerarchia concettuale tra (6b) e (6c): come abbiamo
visto, infatti, non esiste l’alternativa (6d). Al contrario, la struttura informativa
è ricca di tecniche per agire sull’equilibrio tra tema, rema e fuoco: in questo
senso, l’enunciato (7d) è proprio un’alternativa informativa a (7a). Il fatto che
(6d) non sia una reale alternativa a (6a) prova – contra O. Ducrot (cfr. capitolo
1, § 2.2.3) – che un attivatore come smettere non svolge una funzione testuale
o informativa in primis; al contrario, il fatto che (7d) – cioè la sequenza di (7b)
e (7c) sia una reale alternativa a (7a) prova che una tecnica di focalizzazione si
giustifica in base a una funzione testuale o informativa.
2.1.2. Frase complessa
Se passiamo alla frase complessa ritroviamo amplificate osservazioni
analoghe alle precedenti. Ecco una coppia di esempi che ne riprendono uno
classico di G. Frege:
(8)
a. Dopo la separazione dello Schleiswig-Holstein dalla Danimarca, la
Prussia e l’Austria si scontrarono?64
b. La Prussia e l’Austria si scontrarono dopo la separazione dello
Schleiswig-Holstein dalla Danimarca?
In (8a) troviamo la subordinata anteposta in posizione di sfondo e la principale
in primo piano; in (8b), invece, la precedente prospettiva primo piano sfondo è
manipolata: la subordinata è posposta e integrata intonativamente.
Rispondere a (8a) significa andare a vedere se la Prussia e l’Austria si
Naturalmente, con la terminologia del § 4 del capitolo 3, dovremmo parlare di
«requisito discorsivo al quale corrisponde una presupposizione contingente». In genere, qui e
nel seguito, espliciteremo questa terminologia solo dove necessario.
64
Ovviamente, questo non è un periodo, ma una frase semplice. Tuttavia, dopo le
precisazioni sub. § 1.3., questo fatto non dovrebbe essere fonte di imbarazzo.
63
116
scontrarono dopo la separazione dello Schleiswig-Holstein dalla Danimarca o
se, invece, dopo la separazione dello Schleiswig-Holstein dalla Danimarca, non
si scontrarono. Rispondere a (8b) significa andare a vedere se la Prussia e
l’Austria si scontrarono effettivamente dopo la separazione dello SchleiswigHolstein dalla Danimarca o prima. L’asserzione corrispondente a (8a) sarebbe
una risposta alla domanda: Cosa fecero la Prussia e l’Austria dopo la
separazione dello Schleiswig-Holstein dalla Danimarca?; e potrebbe essere
fatta seguire da: …e non restarono alleate. L’asserzione corrispondente a (8b)
sarebbe una risposta alla domanda: Quando si scontrarono la Prussia e
l’Austria?; e potrebbe essere fatta seguire da …e non prima. Ribattere a (8a)
esclamando: Guarda che lo Schleiswig-Holstein non si è mai separato dalla
Danimarca, e ribattere a (8b) esclamando: Guarda che la Prussia e l’Austria
non entrarono mai in guerra tra loro significherebbe denunciare
metalinguisticamente l’inappropriatezza delle relative domande. Come si vede,
in (8a) facciamo affidamento sulla verità della subordinata e il punto in
questione è se la principale si verifica o meno; in (8b) facciamo affidamento sia
sulla verità della subordinata sia sulla verità della principale e il punto in
questione è il nesso temporale tra le due65.
Ma tutto questo ripropone – a livello della frase complessa – le
osservazioni compiute relativamente alla frase semplice. Se ci interroghiamo
sulla funzione dello sfondo in (8a), ad esempio, è naturale pensare che delimiti
l’ambito di pertinenza dell’asserzione compiuta in primo piano (con la
principale). Questo è evidente per (8a) che si differenzia da:
(8)
c. La Prussia e l’Austria si scontrarono?
proprio per la limitazione dell’ambito di pertinenza della domanda a partire da
un certo momento. Ma non è meno evidente per (8b). Per rispondere a (8b) – o
valutare le condizioni di verità dell’asserzione corrispondente – occorre:
‘prendere in mano’ il fatto che la Prussia e l’Austria si scontrarono; ‘prendere
in mano’ il fatto che lo Schleiswig-Holstein si è separato dalla Danimarca;
vedere se il primo fatto si colloca dopo il secondo. Quest’ultimo passaggio – la
valutazione delle condizioni di verità di (8b) – è precisamente ciò che fa
affidamento sulla verità della principale e la subordinata. Insomma, in
entrambi i casi, la struttura informativa – il rapporto primo piano sfondo – ci
guida al modo di valutare l’enunciato: tendendo fermo un aspetto e
valutandone un altro.
2.1.3. Un bilancio
Le conclusioni dei paragrafi §§ 2.1.1. e 2.1.2., possono essere
sintetizzate riprendendo gli enunciati seguenti:
(9)
(10)
a. Paolo ha comperato una grammatica proprio da Mondadori.
b. Da Mondadori, Paolo ha comprato una grammatica.
a. Dopo la separazione dello Schleiswig-Holstein dalla Danimarca, la
Prussia e l’Austria si scontrarono.
La verità della principale, quindi, pare essere sempre in discussione ma può venire
data per scontata se posta in sfondo (cioè se è posta in primo piano la subordinata); la verità
della subordinata, invece, è sempre data per scontata: al limite – se la subordinata è posta in
primo piano – il punto in questione diventa il legame con la principale.
65
117
b. La Prussia e l’Austria si scontrarono dopo la separazione dello
Schleiswig-Holstein dalla Danimarca.
Gli enunciati (a) e (b) in (9) e (10) sono ideativamente equivalenti, la differenza
riguarda la strutturazione della prospettiva informativa: degli equilibri tra
tema/rema/fuoco da un lato, e sfondo/primo-piano dall’altro. Quest’ultima, da
un punto di vista interno («interno» nel senso chiarito sub. § 2.0.), influisce
sull’esposizione dei contenuti alla negazione in maniera analoga a quanto
accade per la gerarchia tra presupposto e posto: come il presupposto, ad
esempio, il tema (o lo sfondo) è fuori dallo scope della negazione; come il posto,
il fuoco è dentro lo scope della negazione. Riprendiamo per semplicità il caso di
(9). L’enunciato (9b) è configurato in modo da essere valutato vero se una
grammatica è stata effettivamente comprata e falso se non è stata comprata.
L’enunciato (9a), invece, è configurato in modo da essere valutato falso se la
grammatica è stata comprata altrove rispetto a Mondadori e vero se è stata
comprata da Mondadori. Proprio per questo, d’altra parte, gli enunciati (9a) e
(9b) non sono progettati per essere valutati in tutti casi: (9a), ad esempio, mal
si adatta a essere valutato nel caso in cui Paolo avesse sì acquistato qualcosa da
Mondadori ma non una grammatica; e (9b), dal canto suo, mal si adatta ad
essere valutato nel caso in cui Paolo avesse sì acquistato una grammatica ma
non da Mondadori. Considerazioni speculari valgono per (10).
Il punto centrale è questo. A differenza di un attivatore, la struttura
informativa offre una palette di opzioni con cui modificare il suo equilibrio e
manipolare l’esposizione dell’enunciato alla negazione. Di conseguenza,
possiamo dire che – da un punto di vista interno – la funzione del gioco di luci
e ombre tra tema, rema e fuoco o sfondo e primo-piano sia precisamente
orientarci su come valutare le condizioni di verità dell’enunciato, ovvero
delimitare l’ambito di pertinenza o felicità dell’asserzione che decolla dal rema
o dal fuoco (o dal primo piano). Certo, sia il presupposto attivato da smettere,
sia la struttura informativa hanno un’influenza sullo scope della negazione.
Tuttavia, quell’influenza individua precisamente la funzione della struttura
informativa (da un punto di vista interno all’enunciato), ma non la funzione del
presupposto. E la ragione è che la struttura informativa offre appunto tecniche
diverse per esporre in modi differenti la superficie dell’enunciato allo scope
della negazione; ma questo non vale per un attivatore. Nel caso di un attivatore
(un requisito discorsivo a cui corrisponde una presupposizione) l’influenza
sulla negazione è semplicemente un riflesso secondario del fatto che la sua
funzione è fornire una condizione di pensabilità di un processo.
E se ora riguardiamo le considerazione svolte al capitolo 4 sub. § 3,
ritroviamo esattamente (in relazione alla prospettiva interna) quanto si era
anticipato. E cioè che gli attivatori e le categorie tema/rema-fuoco o
sfondo/primo-piano finiscono per collaborare alla stesso fine comune (nella
fattispecie l’esposizione dell’enunciato allo scope della negazione); ma per
strade diverse: gli uni indirettamente, per via ideativa; le altre direttamente,
per via informativa.
2.2. Prospettiva esterna (frase semplice)
2.2.1. Ripetizione (rabâchage) e incoerenza (incohérence)
O. Ducrot sostiene che la funzione delle presupposizioni discorsive è
118
garantire che si abbia ridondanza (redondance) senza ripetizione (rabâchage):
Il est admis généralement qu’un discours (monologue ou dialogue) tend à satisfaire
aux conditions suivantes :
a) Une condition de progrès. Il est interdit de se répéter : chaque énoncé est censé
apporter une information nouvelle, sinon il y a rabâchage.
b) Une condition de cohérence. Nous n’entendons pas seulement par là l’absence de
contradiction logique [consistency], mais l’obligation, pour tous les énoncés, de se
situer dans un cadre intellectuel relativement constant, faut du quel le discours se
dissout en coq à l’âne. Il faut donc que certaines contenus se réapparaissent
régulièrement au cours du discours, il faut, en d’autres termes, que le discours
manifeste une sorte de redondance.
La conciliation de ces deux exigences pose le problème d’assurer la redondance
nécessaire tout en évitant le rabâchage. (Ducrot 1972: 87-88).
In altre parole, per O. Ducrot la funzione delle presupposizioni discorsive è
creare un’eco di informazioni che costituisce lo sfondo sul quale avanza il
discorso. Ecco un paio di esempi di ripetizione (rabâchage) e ridondanza
(redondance) :
(11)
(12)
a. *I figli di Paolo sono calvi e Paolo ha figli.
b. *Paolo ha smesso di fumare e fumava.
a. Paolo ha figli e i suoi figli sono calvi.
b. Paolo fumava e ha smesso.
In (11) si ha l’impressione di ripetizione (rabâchage) perché il secondo
congiunto asserisce esplicitamente (o «pone») l’informazione che era già
presupposta dal sintagma nominale referenziale del primo; in (12) il secondo
congiunto riprende in qualità di presupposto l’informazione che era stata posta
nel primo congiunto innestandovi una nuova predicazione. La ridondanza
(redondance) di (12) – contrapposta alla ripetizione (rabâchage) di (11) –
consiste dunque nel fatto che il contenuto posto nel primo congiunto diventa
presupposto nel secondo. L’ordine violato in (11) e rispettato in (12) è: dal
posto al presupposto.
L’analogia con la struttura informativa appare considerando gli esempi
seguenti:
(13)
a. Dove ha comprato la grammatica Paolo?
b. *Da Mondadori, Paolo, ha comprato la grammatica.
c. Paolo ha comprato la grammatica da Mondadori.
A meno di non leggere un accento di intensità su Da Mondadori, la risposta
(13b) a (13a) è informativamente incoerente. Se dovessimo spiegare questo
fatto, sarebbe naturale dire quanto segue. Il tema presenta una naturale affinità
elettiva a ospitare un contenuto dato; il rema presenta una naturale affinità
elettiva a ospitare un contenuto nuovo66. In quest’ottica, il problema di (13b) è
duplice. Da un lato, viene presentato come dato (nel tema) ciò che invece
dovrebbe essere presentato come nuovo (nel rema): da Mondadori. Dall’altro
lato, viene presentato come nuovo (nel rema) ciò che in (13a) era già asserito:
ha comprato la grammatica. L’ordine violato in (13b) e rispettato in (13c)
sembra dunque essere dal rema-nuovo al tema-dato e non viceversa,
esattamente come l’ordine violato in (11) e rispettato in (12) era dal posto al
66
Tenendo naturalmente conto dei punti che abbiamo fissato all’inizio.
119
presupposto e non viceversa.
Certo, la violazione dell’ordine «dal posto al presupposto» e «dal remanuovo al «tema-dato» origina in entrambi i casi una forma di incoerenza.
Tuttavia, i fenomeni in gioco sono diversi perché diverse sono le pratiche
fondate. Intuitivamente, di fronte a (11), proviamo la sensazione di una
ripetizione di informazioni: interpretando la coordinazione come un’inferenza
dal primo al secondo membro, non ne comprendiamo il punto. Nel caso di (11),
insomma, il problema riguarda un rapporto tra contenuti: «ripetizione», infatti,
è il nome di una relazione tra contenuti. Siamo al livello dell’ingrediente
ideativo della coerenza testuale. Qui troviamo un corrispettivo discorsivo della
violazione della coerenza di una pratica extralinguistica contingente67. Ma di
fronte a (13b) in risposta a (13a) non proviamo la sensazione di una ripetizione:
qui l’impressione è piuttosto quella di una nota stonata. La struttura
informativa di (13a) crea un’aspettativa melodica; la struttura informativa di
(13b) frustra questa aspettativa mettendo toni alti laddove ci si aspettava toni
bassi, e viceversa. Siamo al livello dell’ingrediente testuale della coerenza
testuale. Qui troviamo un’incrinatura sulla superficie dello specchio: una
violazione delle condizioni di coerenza del discorso, cioè della pratica – in atto
– di far susseguire gli enunciati in modo tematicamente coerente.
Come si vede dunque sia l’ordine tra presupposto e posto, sia l’ordine
tra tema-dato e rema-nuovo collaborano alla coerenza testuale. Ma in modi
diversi. Un fenomeno di rabâchage è inerente alla ripetizione di informazioni: è
dunque ‘concettuale’ o ideativo. Un fenomeno di incoerenza informativa è
inerente al rilievo comunicativo delle informazioni: è una stonatura. Se la
comunicazione fosse uno scambio di doni, porgendo l’enunciato (13b) a chi
domanda (13a) porgeremmo un pacco male incartato; invece, porgendo gli
enunciati (11) gli porgeremmo un pacco il cui contenuto è rotto.
2.2.2. Accomodamento e rottura del dialogo
Si considerino gli esempi seguenti:
(14)
a.
b.
c.
c’.
A: Cosa ha fatto Marco?
B: (?)In Colombia, ha comprato un tappeto.
A: Ah, è stato in Colombia? Non lo sapevo!
A: Ma Marco non è mai stato in Colombia!
Asserita ex abrupto, la risposta (14b) a (14a), potrebbe essere percepita come
informativamente incoerente. D’altra parte, una risposta come:
(14)
b’. Ha comprato un tappeto in Colombia.
sarebbe percepita come informativamente coerente per un motivo speculare:
questa volta in Colombia (cioè l’informazione non contenuta e non derivabile
dalla domanda) è presentata come elemento focale (cioè nella posizione
informativa con le caratteristiche sintattiche e intonative adatte ad ospitare
un’informazione, appunto, nuova). Come suggerito da (14c-c’), di fronte a
(14b), si possono immaginare due diverse reazioni da parte di colui che aveva
domandato (14a): da un lato, può ingoiare il rospo e pensare qualcosa come:
La pratica è: smettere di fumare. La violazione consiste nel fatto che la condizione di
coerenza della pratica è presentata dopo la pratica stessa
67
120
Ah… allora Marco è stato in Colombia e non me l’ha neppure detto; dall’altro
lato, può esclamare qualcosa come: Ah! Non sapevo che fosse stato in
Colombia!. Ma questi sono effetti tipici degli attivatori di presupposizioni.
Si considerino infatti gli esempi seguenti:
(15)
a.
b.
c.
c’.
A: Cosa è accaduto a Marco?
B: Ha smesso di fumare.
A: Ah, fumava? Non lo sapevo!
A: Ma Marco non ha mai fumato!
La prima reazione menzionata per (14) assomiglia a ciò che nella letteratura
sulle presupposizioni è chiamato «accomodamento di un presupposto» (Lewis
1979, 1991): e che ritroviamo in (15c) ribattuto a (15b). La seconda reazione
menzionata per (14) assomiglia a ciò che nella letteratura sulle presupposizioni
verrebbe indicato con «rottura del dialogo»: e che ritroviamo in (15c’)
ribattuto a (15b). C’è di più. Se è vero che (14b) in risposta a (14a) potrebbe
sorprendere come informativamente incoerente, è anche vero che questa
incoerenza può essere facilmente dissolta: basta immaginare il caso in cui, per
entrambi i locutori, fosse già noto che Marco si è recato in Colombia. In un
contesto del genere, (24b) diventerebbe informativamente coerente e (14b’),
viceversa, diventerebbe informativamente incoerente. Ma, ancora una volta, la
stessa cosa accade in (15): qualora (15b) ci colpisse come informativamente
incoerente, basterebbe immaginare un contesto che implica che Paolo fumava
per risolvere il problema. Se questo è vero, il fatto che sia stata un’implicazione
del contesto a dissolvere l’incoerenza informativa di (14b) assomiglia al caso in
cui un’implicazione del contesto determina la «risoluzione di una
presupposizione» à la Karttunen (Karttunen 1974).
Ancora una volta, al di là della somiglianza segnalata, occorre rilevare
una differenza. A ben guardare, sembra più spontaneo percepire come
informativamente incoerente (14b) in risposta a (14a) piuttosto che (15b) in
risposta a (15a). Questo fatto non è casuale. La ragione è che se è vero che in
entrambi i casi viene introdotta una informazione nuova in una posizione poco
adatta, è altrettanto vero che tale informazione viene introdotta alla luce del
sole nel primo caso e non nel secondo. Introdurre un’informazione in tema,
infatti, significa sì collocarla in una zona dal basso dinamismo comunicativo ma
comunque sulla superficie del discorso. La funzione del tema è introdurre
un’informazione (data o nuova) in una zona della superficie del discorso dal
basso dinamismo comunicativo. Di conseguenza, ciò che introduco nel tema
salta subito agli occhi: e può accadere che mal si incastri col contesto
precedente o che si incastri bene riprendendo una informazione data o che
determini un graduale cambiamento tematico. Al contrario, se un attivatore
introduce un’informazione (data o nuova) lo fa come conseguenza del fatto che
presenta un altro processo e che quell’informazione è una condizione di
coerenza di quest’ultimo.
2.2.3. Erosione del tema e presupposizione pragmatica
Si rilegga la seguente citazione di R. C. Stalnaker:
In generale, una qualunque presupposizione semantica di una proposizione espressa in
un determinato contesto sarà una presupposizione pragmatica delle persone in quel
contesto, ma il reciproco chiaramente non vale (Stalnaker 1970, 1995: 520)
121
Quindi, si osservino gli esempi seguenti:
(16)
(17)
a. Paolo fuma ancora?
b. Ha smesso da un anno.
c. No, da un anno.
a. Dove ha comprato la grammatica Paolo?
b. La grammatica, Paolo, l’ha comprata da Mondadori.
c. Da Mondadori.
La citazione di R. Stalnaker è pensata per esempi come (16); ma perché
non estenderla a (17)? Da un lato, rispondendo (16b) o (16c) a (16a), il locutore
fa affidamento sul presupposto che Paolo fumava: questo presupposto è attivo
semanticamente (a fortiori pragmaticamente) in (16b), ma solo
pragmaticamente in (16c). Dall’altro lato, rispondendo (17b) o (17c) a (17a) si
potrebbe dire che il locutore faccia affidamento sul dato che Paolo ha comprato
una grammatica: questo dato sarebbe attivo semanticamente (a fortiori
pragmaticamente) in (17b), ma solo pragmaticamente in (17c). L’erosione a cui
può essere sottoposto il contenuto dato assomiglia dunque a una
presupposizione pragmatica.
Certo, sia un presupposto innescato da un attivatore, sia un tema – se
sono dati – possono essere ‘segnati’ o meno nella semantica dell’enunciato.
Tuttavia, un tema entra in conflitto con la presenza della medesima
informazione nel contesto e, per questa ragione, la sua erosione è spesso
obbligata. Una sequenza come Dove ha comprato la grammatica Paolo? Paolo
ha comprato la grammatica da Mondadori è comunicativamente ridondante, e
sarebbe scartata a favore della sola attualizzazione del fuoco (da Mondadori).
Al contrario, l’informazione innescata da un attivatore non entra in conflitto
con la presenza della medesima informazione nel contesto: una sequenza come
Paolo fumava e ha smesso, infatti, è perfetta.
2.2.4. Attivatori e strategie di focalizzazione
Se escludiamo la frase passiva – in quanto tecnica indiretta – tra le
strategie di manipolazione informativa, troviamo tecniche (sintattiche) per
tematizzare e tecniche (sintattiche e prosodiche) per focalizzare. Ecco qualche
esempio:
(18)
(19)
a. Da Mondadori, Paolo ha comprato una grammatica.
b. Paolo ha comprato una grammatica, da Mondadori.
a. Paolo ha comprato una grammatica da Mondadori.
b. E’ da Mondadori che Paolo ha comprato una grammatica.
Gli enunciati (18) presentano manipolazioni informative volte a isolare il tema:
rispettivamente, una dislocazione a sinistra e a destra. Gli enunciati (19),
invece, presentano manipolazioni informative volte a isolare il fuoco:
rispettivamente, un accento d’intensità (tecnica prosodica) e una frase scissa
(tecnica sintattica). Tra le strategie di tematizzazione e focalizzazione sussiste
un’asimmetria. Usando la metafora dell’illuminazione, una dislocazione sposta
un elemento da una zona soleggiata a una d’ombra lasciando inalterati tutti gli
altri giochi di luce. Al contrario, una strategia di focalizzazione come l’accento
122
di intensità o la frase scissa altera la struttura informativa dell’enunciato
facendo stagliare un solo elemento che si impone come un picco su una
pianura: illuminando questo elemento, però, crea un effetto di chiaroscuro. Un
enunciato come (19b), ad esempio, proietta un’ombra quale:
(19)
c. Paolo ha comprato una grammatica da qualche parte.
Nella letteratura specializzata è usuale attribuire a quest’ombra il nome di
«presupposizione» e alla struttura che l’ha prodotta quello di «attivatore».
In una prospettiva interna, valgono le medesime osservazioni condotte
sub. § 2.1.1.:
(19)
d. Paolo ha comprato una grammatica da qualche parte. L’ha comprata
da Mondadori.
Se (19b) si lascia analizzare in (19d) – se cioè (19c) è la sostituzione del fuoco di
(19b) con una variabile68 – allora il rapporto tra (19c) e (19b) non è un rapporto
di ‘fondamento’ (cioè di presupposizione, come quello tra (6c) e (6a)), bensì di
‘aggiunta di informazioni’ (come quello tra (7b) e (7c)). Tuttavia, è in una
prospettiva esterna che le tecniche di focalizzazione – e in particolare la frase
scissa – possono essere valorizzate.
In effetti, la funzione di una focalizzazione come (19b), in competizione
ad esempio con (19d), sembra essere precisamente quella di adagiare il proprio
contenuto su uno sfondo contestuale di aspettative e informazioni note
rappresentato da (19c). Detto altrimenti, la funzione testuale di (19b) pare
essere quella di adattare il suo contenuto a un contesto in cui sia presente
(19c). Si dirà: ma questa non è esattamente la funzione di un attivatore come
smettere? Smettere, cioè, non sembra avere la funzione di adagiare il contenuto
posto su un contesto che contenga il presupposto? Certo, ma ancora una volta
(come sub. § 2.1.1) a fare la differenza è che la focalizzazione è uno strumento
specificamente destinato a quella funzione, mentre il verbo smettere finisce per
svolgere quella funzione in maniera indiretta: cioè attraverso il fatto di
delineare un processo che richiede determinate condizioni di coerenza per la
sua pensabilità.
Una questione che vale la pena menzionare è la differenza tra la
focalizzazione indotta dalla frase scissa e quella indotta dall’accento di
intensità. Anche qui si possono distinguere le due prospettive interna ed
esterna. Da un punto di vista interno, la frase scissa focalizza la relazione tra il
referente e il resto del processo:
La frase scissa isola sintatticamente il fuoco. Tuttavia, la sua funzione non consiste nel
mettere in rilievo il fuoco come elemento isolato, ma nel sottolineare il suo rapporto
con il processo che fa da sfondo. Osserviamo un esempio: Lo vedi quel ragazzo? E’ lui
che mi ha rubato il borsellino. Se pensiamo che la frase scissa sottolinea il fuoco in
quanto elemento isolato, la prospettiva del messaggio è incomprensibile […] Ciò che
la frase scissa mette in rilievo non è il referente, ma la sua relazione con l’informazione
di sfondo, e quindi il suo ruolo di autore del furto del borsellino (Prandi 2006: 170).
Da un punto di vista esterno, la frase scissa tende ad adattare l’enunciato ad un
contesto contrastivo. Si considerino gli esempi seguenti:
68
Per questa analisi si veda Sperber&Wilson (1979)
123
(20)
a. Dove hai comprato la grammatica?
b. (La grammatica, l’ho comprata) da Mondadori.
c. (La grammatica, l’ho comprata) da Mondadori.
d. *E’ da Mondadori che ho comprato la grammatica.
Di fronte alla domanda (20a), l’enunciato (20b) è sicuramente la risposta non
marcata. L’enunciato (20c), dove l’accento di intensità cade su da Mondadori, è
ancora informativamente coerente con (20a): in particolare, sarebbe adatto al
caso in cui la risposta fosse ripetuta per l’ennesima volta. Ma se passiamo a
(20d), ci rendiamo conto che non è una risposta informativamente coerente con
(20a): in particolare, indurrebbe a ribattere qualcosa come E chi ha detto il
contrario? Ho solo chiesto. Se questo è vero, la frase scissa richiede un contesto
in cui sia saliente un’ipotesi contrastiva rispetto a quanto asserito.
2.2.5. Un bilancio
Se un’informazione è data – cioè condivisa – si aprono due possibilità:
possiamo appoggiarci su di essa usando un attivatore come smettere, oppure
un tema o uno sfondo. Queste mosse sono molto diverse. Nel primo caso,
l’attivatore si appoggia su quell’informazione per fondare la pensabilità di un
certo processo (ingrediente ideativo della coerenza testuale); nel secondo caso,
invece, il tema o lo sfondo attualizzano quell’informazione sulla superficie
dell’enunciato per aggiungere ad essa il contenuto del rema o del primo piano
(ingrediente testuale della funzione testuale). Nel primo caso, l’informazione è
una condizione di coerenza del processo enunciato (e di conseguenza dell’atto
di asserirlo); nel secondo caso, invece, l’informazione è una condizione di
coerenza dell’arricchimento informativo prodotto dal rema o dal primo piano.
Nel primo caso, l’informazione funziona come presupposto del processo
descritto dall’enunciato e di conseguenza come presupposto dell’atto di
asserirlo (o interrogarlo ecc.); nel secondo caso, l’informazione funziona come
presupposto dell’atto di presentare altre informazioni in rema (fuoco) o in
primo piano.
Se un’informazione non è data – cioè non è condivisa – si aprono ancora
due possibilità: possiamo introdurla usando un attivatore come smettere,
oppure un tema o uno sfondo. Nel primo caso, quell’informazione è una
condizione di coerenza della pensabilità di un processo: di conseguenza, la sua
introduzione è ‘violenta’ (ingrediente ideativo della coerenza testuale). Nel
secondo caso, quell’informazione è una condizione di coerenza della
predicazione del rema o del primo piano: di conseguenza, la sua introduzione
non è affatto violenta ma è una sorta di sfondo che si comincia a dipingere
(ingrediente testuale della coerenza testuale). Nel primo caso, l’informazione è
introdotta come se, in un certo senso, fosse già stata data; nel secondo caso,
invece, l’informazione è semplicemente data (come un tema o uno sfondo) in
quel preciso momento. Se questo è vero, ne derivano due corollari.
Il primo è questo: se un’informazione è una condizione di coerenza della
pensabilità di un processo descritto – come l’informazione attivata da smettere
– allora presenterà una vocazione naturale a funzionare come condizione di
coerenza della pratica di far susseguire gli enunciati in quel particolare
discorso69. In questo senso, sia l’attivatore, sia il tema (o lo sfondo) collaborano
Tendendo naturalmente conto della possibilità dell’inversione tra posto e presupposto
discussa al capitolo 3, § 3.3.
69
124
alla compattezza della coerenza testuale: il primo operando via concetti
(ideativamente), i secondi operando direttamente sulla struttura informativa.
Ritroviamo qui quanto anticipato al capitolo 4 sub. § 3.
Il secondo corollario, invece, ci consente di compiere un passo ulteriore.
Lungo tutto il § 2 abbiamo cercato di descrivere una serie di analogie tra i
mezzi ideativi (attivatori) e quelli informativi della coerenza testuale, con la
costante preoccupazione di portarne allo scoperto i limiti. E abbiamo visto che
questi limiti dipendono dal fatto che gli uni riflettono nella pratica del discorso
le condizioni di coerenza di pratiche extralinguistiche, mentre gli altri sono
precisamente le condizioni di coerenza della superficie del discorso. Ma se
questo è vero, il passo più naturale è rendersi conto che la struttura
informativa può essere pensata come il caso più superficiale di ‘attivatori’ di
presupposizioni. Le informazioni tematizzate o poste in sfondo, cioè,
funzionerebbero come condizioni di coerenza non del contenuto focalizzato o
in primo piano ma dell’atto di asserirlo in quello scambio dialogico. Tornando
alla nostra metafora dello specchio, queste sarebbero le presupposizioni più
superficiali della lingua: le presupposizioni della coerenza della pratica di far
susseguire gli enunciati in un particolare scambio dialogico.
3. Presupposizione e ripresa anaforica
3.0. Introduzione
Con il paragrafo precedente la questione della funzione linguistica degli
attivatori sarebbe chiusa. Tuttavia, discutendo dei rapporti tra il fenomeno
della presupposizione e la struttura informativa in prospettiva esterna, c’è
un’analogia alla quale deve essere dedicata un’attenzione particolare. Infatti, se
è vero che le presupposizioni discorsive collaborano alla funzione testuale
svolta dalla struttura informativa garantendo la ridondanza necessaria alla
coerenza del discorso, è altrettanto vero che garantire tale coerenza è
esattamente la funzione delle riprese anaforiche che, appunto, sono uno dei
mezzi di coesione testuale più potenti. Ma che legame c’è tra anafora e
presupposizione?
Questa domanda si impone per due ragioni: in primo luogo, perché è al
centro del recente revival del dibattito sulla presupposizione; in secondo luogo,
perché rispondervi consentirà (spero) di corroborare e chiarire ciò che
intendevo sub. § 2.2.5.
3.1. «Presuppositions are just anaphors» (van der Sandt 1992: 345)
Per illustrare il legame tra presupposizione e anafora (o anche soltanto
la deissi) è sufficiente considerare:
(22)
a. Paolo fumava. Questa cattiva abitudine gli ha nuociuto alquanto.
b. Paolo fumava e ora ha smesso di rovinarsi la salute.
Di fronte a (22a), sarebbe spontaneo affermare che l’anafora incapsulante
(Questa cattiva abitudine) riprende e riassume il processo precedente facendolo
accedere alla posizione informativa di tema; di fronte a (22b), invece, sarebbe
spontaneo affermare che smettere in (22b) imponga surrettiziamente di
125
accettare che il soggetto si rovinava la salute (e che il cotesto soddisfi questa
idea). Tuttavia, le descrizioni precedenti possono essere incrociate.
Da un lato, è sensato sostenere che questa cattiva abitudine in (22a)
imponga di accettare che vi sia un referente discorsivo. Questa è la ragione per
cui se il secondo enunciato di (22a) dovesse essere asserito ex abrupto o ci
troveremmo in imbarazzo (a causa del fallimento del riferimento), oppure
dovremmo ingoiare il rospo: ovvero (come abbiamo visto) accomodare l’idea
che vi sia una qualche cattiva abitudine pertinente. Dall’altro lato, è anche
sensato pensare che il primo congiunto di (22b) introduca un fatto (il fatto che
Paolo si rovinasse la salute) ripreso nel secondo congiunto sottoforma del
presupposto del verbo smettere. Ma se in (22a) e (22b) possiamo usare
entrambe le descrizioni per entrambi gli enunciati, allora il fenomeno della
ripresa anaforica (esemplificato nel primo enunciato) e il fenomeno della
presupposizione discorsiva (esemplificato nel secondo) vengono a sovrapporsi.
Del resto, riprendendo le analogie delineate ai paragrafi precedenti, il
fallimento di una deissi (o di una ripresa anaforica) e di una presupposizione
sembrano molto simili: se chiedo Paolo fumava? a qualcuno che non conosce
alcun Paolo, la reazione immediata consiste nello scacco della domanda: qui
l’interlocutore ribatterebbe chi? Se – a qualcuno che conosce Paolo ma che non
sospetta che sia uno spacciatore – chiedo Paolo ha smesso di spacciare? la
reazione immediata è ancora una volta lo scacco della domanda: qui,
l’interlocutore ribatterebbe perché (mi chiedi questo)? Spacciava?70. In sintesi:
perché non pensare avverbiali quali perfino, anche, più ecc. o verbi quali
smettere come aventi una funzione di ripresa anaforica dei contenuti cosiddetti
«presupposti»? E quindi: perché non estendere questa idea anche a tutti gli
altri attivatori?
L’idea della connessione tra il fenomeno della presupposizione
discorsiva e la funzione testuale conduce con naturalezza a sovrapporre i
fenomeni della presupposizione discorsiva e della ripresa anaforica. Tuttavia, ci
sono due modi di fare questo: si può includere la presupposizione discorsiva
nella ripresa anaforica e sostenere che le presupposizioni siano solo anafore
(presuppositions are just anaphors); si può includere la ripresa anaforica nella
presupposizione discorsiva e sostenere che le anafore siano un caso particolare
di presupposizioni. La prima strada, ancora una volta, finisce per dissolvere il
fenomeno della presupposizione perché lo riduce a quello della ripresa
anaforica. Essa è percorsa da R. A. van der Sandt71:
Presuppositions are simply anaphors. They only differ from pronouns or other kinds
of semantically less loaded anaphors in that they contain enough descriptive content
to establish a reference marker in case discourse does not provide one. In this case the
lexical material will be accommodated. (van der Sandt 1992: 345)
Ma che differenza c’è – se c’è – tra una classica ripresa anaforica e un attivatore
come smettere di fumare? E nel caso in cui si rivelino fenomeni diversi come si
giustifica la loro analogia?
Questa osservazione, tra l’altro, non suggerisce solamente che ci troviamo di fronte
allo stesso fenomeno, ma alla manifestazione dello stesso fenomeno a livelli diversi: infatti,
affinché sia possibile il secondo scacco (affinché sia possibile ribattere esterrefatti Paolo
spacciava?) è necessario avere identificato Paolo. Il presupposto di esistenza del referente di
Paolo, dunque, risulta gerarchicamente superiore rispetto a quello del fatto che fumava.
71
Questo legame con le riprese anaforiche è stato anticipato da S. Kripke (cfr. Soames
1989: 614).
70
126
3.2. Anaphors are just presuppositions
3.2.1. Presupposizioni metalinguistiche
Si considerino due predicati – tipici attivatori di presupposizioni – come
smettere di fumare o scoprire che la marmellata è finita. Qui, ciò che impegna
al presupposto è il processo stesso di smettere di fumare o scoprire che la
marmellata è finita: è il semplice pensarli o immaginarli ad impegnare al
presupposto. Si consideri ora un atto di riferimento realizzato attraverso un
sintagma nominale: come, appunto, Questa cattiva abitudine in (22a). Qui, ciò
che impegna al presupposto non è il semplice pensare al contenuto del
sintagma, bensì l’impiegare quel sintagma in un’enunciazione per fare
riferimento. Nel caso di un attivatore come smettere – il ‘portatore’ del
presupposto era il processo descritto: il processo in quanto tale; nel caso di una
deissi o un’anafora – nel caso di un atto di riferimento – il ‘portatore’ del
presupposto è un’azione compiuta dal locutore durante l’enunciazione.
La ripresa anaforica è un atto di riferimento e un atto di riferimento è
un atto come tutti gli altri: ha come condizione di coerenza l’esistenza di un
referente discorsivo nello stesso modo in cui l’atto di smettere di fumare ha
come condizione di coerenza il fatto che qualcuno abbia fumato. La differenza è
che il primo costituisce un testo, ma il secondo no. La presupposizione di una
ripresa anaforica non rende possibile (in primo luogo) pensare un’azione ma
compierla: e precisamente l’azione in gioco è produrre un testo; la
presupposizione di un predicato come smettere di fumare rende possibile (in
primo luogo) pensare quel concetto o quell’azione e solo di riflesso può servire
alla costituzione della coerenza di un testo..
Di conseguenza, l’ipotesi che le presupposizioni siano anafore non solo
è sbagliata per quanto riguarda le presupposizioni di base – che evidentemente
non sono anafore – ma è sbagliata anche per quanto riguarda le
presupposizioni discorsive. E l’errore non consiste nell’istituire un rapporto tra
queste ultime e il fenomeno della ripresa anaforica, ma nell’invertire i termini
di questo rapporto. Non sono le presupposizioni discorsive a coincidere con le
riprese anaforiche, ma sono le riprese anaforiche – in quanto fenomeni di
riferimento – a individuare un caso particolare di manifestazione del fenomeno
della presupposizione. E precisamente la loro particolarità consiste nell’essere
presupposizioni della coerenza linguistica: presupposizioni testuali o
metalinguistiche. Questo è il secondo corollario del bilancio stilato sub. § 2.2.5.
Insomma, ciò che è presupposto da una ripresa anaforica è che il
referente sia individuabile in un universo di discorso: che sia dato. I verbi
smettere o scoprire portano le presupposizioni che portano perché le ereditano
dalle rispettive azioni descritte; un sintagma nominale referenziale porta la
presupposizione che porta72 perché essa è una condizione di felicità dell’atto
che si sta compiendo usandolo: cioè del compiere un atto – quel preciso atto
contingente – di enunciazione. Le presupposizioni di smettere o scoprire (e a
maggior ragione i criteri di selezione) sono riflesse dalla lingua, in vitro. La
presupposizione di identificazione di un referente è viva – in carne ed ossa – e
fonda l’atto di parola che si sta compiendo.
Naturalmente, sarebbe più corretto dire che è il parlante che si fa carico di questa
presupposizione.
72
127
3.2.2. Un accenno alla presupposizione di esistenza
Ci occuperemo molto più avanti della cosiddetta «presupposizione di
esistenza del referente», ma può essere utile accennarvi ora, brevemente,
perché scinde le dimensioni ‘metalinguistica’ e ‘oggettuale’ summenzionate. In
effetti, un conto è la presupposizione di esistenza qua condizione di coerenza di
un atto linguistico; un altro conto è la presupposizione di esistenza qua
condizione di coerenza di un atto tout court. L’azione di equipaggiarsi per
intraprendere un viaggio alla ricerca di Atlantide, ad esempio, presuppone
l’esistenza reale – oggettuale – di Atlantide. L’azione di domandare Platone ha
cercato Atlantide? presuppone la reperibilità linguistica – cioè l’esistenza o la
‘datità’ linguistica – di un referente in un universo di discorso73. In entrambi i
casi, la presupposizione di esistenza in quanto tale è la stessa: solo che nel
primo fonda l’atto di prender armi e bagagli e andare (è cioè ‘oggettuale’), nel
secondo fonda l’atto di parlare di ciò (è cioè metalinguistica). Quest’ultima non
è altro che la prima ‘ritorta’, per così dire, sulla lingua74: cioè, appunto,
«metalinguistica». Si consideri un esempio come il seguente:
(23)
a. Paolo ha detto che il re di Francia è calvo.
b. Il re di Francia è calvo.
Sarebbe usuale dire che (23a) «non presuppone» o «non eredita» il
presupposto esistenziale (23b). Questa affermazione confonde – e quindi
permette di illustrare – i due sensi precedenti di esistenza. Ciò che non è
presupposta è l’esistenza ontologica: e questo perché tale esistenza è annullata
dal verbo dire; ciò che è presupposta è l’esistenza linguistica (la possibilità di
individuare un referente): perché se non fosse presupposta l’enunciato sarebbe
inutilizzabile. Il fatto che la prima esistenza sia annullata prova che entra in
relazione con il contenuto del verbo dire e questo perché è una presupposizione
ontologica riflessa dalla lingua; il fatto che la seconda esistenza non sia
annullata prova che non entra in relazione con contenuto del verbo dire e la
ragione è che è una condizione di coerenza della struttura stessa della lingua o
dell’integrità della superficie dello specchio, per riprendere la nostra metafora.
In sintesi: il fenomeno della presupposizione non si esaurisce con
l’anafora, ma è esterno alla lingua e si riflette in essa. Le presupposizioni di
base si riflettono nei criteri di selezione; presupposizioni più contingenti come
quelle dell’azione di scoprire si riflettono comunque nella semantica dei
rispettivi verbi; le presupposizioni di esistenza delle riprese anaforiche non
consistono in un riflesso di qualcosa di extralinguistico, ma sono esse stesse le
presupposizioni che fondano l’atto di enunciazione. Queste collaborano alla
coerenza testuale in primo luogo: cioè agendo sul piano informativo; quegli
altri, invece, in secondo luogo: cioè agendo sul piano ideativo o della coerenza
concettuale.
Su questo punto si veda A. Bonomi (Bonomi 1979), ma vi ritorneremo più
diffusamente.
74
Ciò che è presupposto dal sintagma nominale referenziale Atlantide o La città
misteriosa di cui parlava Platone è non l’esistenza reale di una città, ma la reperibilità
linguistica di un referente al quale poi viene attribuita quella etichetta: e infatti l’etichetta può
risultare conflittuale rispetto al referente stesso. Ciò che è presupposto dall’azione di andare a
cercare Atlantide è proprio la realtà di Atlantide: è presupposta la realtà del referente stesso e
non la sua reperibilità linguistica, perciò qui non ha senso parlare di metafora.
73
128
3.2.3. La rigerarchizzazione delle presupposizioni
La discussione dell’analogia tra anafora e presupposizione è forse la più
vivida illustrazione del paradosso dello specchio, perché implica che nella
lingua si verifichi una rigerarchizzazione dei presupposti: le riprese anaforiche
– le presupposizioni di identificazione dei referenti – diventano cioè più
importanti delle altre e rivestono un ruolo a parte. Certo, il fatto che un
referente discorsivo sia reperibile per un parlante è un fatto contingente;
tuttavia, all’interno della pratica di conversare, diventa fondamentale e
acquisisce un ruolo gerarchico più elevato anche rispetto a una
presupposizione di base: la ragione è che la presupposizione di base si riflette
nell’enunciato, mentre l’identificazione di un referente costituisce l’enunciato.
Per questo, se viene frustrata una presupposizione di base ho un enunciato
incoerente, ma se viene frustrata una presupposizione di identificazione non ho
neppure più un enunciato.
Non è dunque un caso che il riferimento – cioè una rottura nella
superficie dello specchio – sia stata la prima forma di presupposizione ad
attirare l’attenzione degli studiosi. Poi, sono seguiti i fenomeni relativi a verbi
come quelli di giudizio o i fattivi o gli aspettuali, e difficilmente si arriva ai
criteri di selezione. Del resto, il carattere metalinguistico (o ‘superficiale’) della
presupposizione di esistenza (linguistica) di un referente è alla base della sua
onnipresenza o ubiquità. Questa caratteristica è stata usata ad esempio di O.
Ducrot contro Fillmore:
Il y a donc une différence très apparente entre les présupposés «traditionnels»
(comme celui d’existence) – qui sont liée à tout acte de parole – et les autres qui
concernent seulement un acte particulier. Et cela pourrait suggérer que, s’ils
fonctionnent les uns et les autres comme conditions d’emploi, ils n’ont pas cette
propriété au même titre. (Ducrot 1972: 49).
Ed è un problema al quale fu sensibile anche J. L. Austin; come scrive M. Sbisà:
[…] secondo Austin, anche atti linguistici diversi dall’asserzione possono risultare
nulli a causa della mancata soddisfazione di una presupposizione di esistenza: non si
può lasciare in testamento il proprio orologio d’oro quando non si possiede un
orologio d’oro, e quindi l’espressione «il mio orologio d’oro» usata nel testamento non
si riferisce a nulla. Non c’è però nessuna considerazione, nel suo lavoro, su quanto si
estenda quest’esigenza del riferimento: se si trattasse di una condizione di felicità,
sarebbe plausibile che essa riguardi solo alcuni tipi di atti linguistici; se fosse
ubiquitaria, potremmo essere indotti a sospettare che non si tratta di un fenomeno
legato a condizioni di felicità. […] Austin, in effetti, mostra di considerare la
presupposizione d’esistenza come una sorta di cortocircuito, di difficile soluzione, tra i
livelli «locutorio» e «illocutorio» dell’atto linguistico da lui definiti. (Sbisà 2007: 29).
3.3. Un bilancio generale
Se distendo il braccio, punto il dito indice e affermo Guarda che
cappello buffo che indossa quel tipo, presuppongo l’esistenza di un referente
nella situazione comunicativa che condivido con il mio interlocutore. Se mi
chiedo cosa stia facendo una certa persona in questo momento, se mi sento
preoccupato per come possa trovarsi o speranzoso che possa essere felice
presuppongono che quella persona sia reale. L’azione di indicare un oggetto in
un campo indicale o di provare determinati sentimenti nei confronti di una
129
persona presuppongono – non dimostrano – la realtà di un oggetto o di quella
persona. In questo senso, una persona o un oggetto è tanto più presupposta
come reale quanto più vi faccio affidamento per compiere atti o provare
sentimenti di quel genere. Su tutti questi punti dovremo tornare. Ma per il
nostro discorso, ora, è sufficiente questo: la deissi presuppone la realtà esterna;
l’anafora no. Come scrive M. Prandi:
Il riferimento di un’espressione anaforica si compie in due tempi: in un primo tempo si
identifica l’antecedente, e successivamente il referente comune. Per questo l’anafora, a
differenza della deissi, crea relazioni interna al testo (Prandi 2006: 192)
Una ripresa anaforica è un atto di riferimento che non presuppone l’esistenza
reale di un oggetto, ma presuppone la sua esistenza linguistica: cioè il fatto che
sia dato.
E’ in questa luce che le riprese anaforiche devono essere paragonate agli
attivatori (in particolare, requisiti discorsivi che riflettono presupposizioni
contingenti); ed è in questa luce che i medesimi attivatori devono essere
considerati. Se lo facciamo ci accorgiamo ancora una volta del fatto che gli
attivatori non esistono: nella lingua, cioè, non vi sono elementi la cui funzione
è innescare presupposizioni (cfr. capitolo 4 § 2.2.). Certo, noi possiamo
sfruttare in questo modo alcuni elementi linguistici; ma quello non è il loro
scopo. Ai requisiti discorsivi che riflettono presupposizioni si adattano
insomma i versi della poetessa polacca W. Szymborska:
Lo chiamiamo granello di sabbia.
Ma lui non chiama se stesso né granello, né sabbia.
Ci sono processi che hanno particolari condizioni di coerenza; di conseguenza,
asserendo quei processi vengono imposte direttamente anche le loro condizioni
di coerenza. Tutto il resto – tutte le analogie, coi loro limiti, delineate sub. § 2
– va da sé. A questo punto, è naturale che si instauri un’affinità elettiva tra
queste condizioni di coerenza e le informazioni date: da un lato (lo abbiamo
visto) le due nozioni non coincidono necessariamente, la condizione di
coerenza richiesta non deve necessariamente essere data; dall’altro lato, è
chiaro che: le cose funzioneranno assai meglio se quella condizione di coerenza
è data; e se non è data si avrà l’effetto di una sua introduzione (da cui l’idea di
implicatura convenzionale, e di accomodamento).
Il caso della ripresa anaforica, ancora una volta, è emblematico. La
ripresa anaforica è un atto di riferimento compiuto da una persona. La
condizione di coerenza di questo atto di riferimento non è il fatto che un certo
oggetto sia reale o un certo fatto sia accaduto, ma che un certo contenuto sia
dato e identificabile in un universo di discorso. Ora, che qualcuno abbia fumato
è la condizione di coerenza di smettere di fumare; che un certo individuo o una
certa informazione sia data nell’universo del discorso è una condizione di
coerenza dell’atto di riferirsi ad essa o di predicare qualcosa su di essa. E’
chiaro che, nel momento in cui il processo smettere di fumare entra in un
discorso, il suo presupposto acquisterà l’aspetto di un’informazione data: ma
questo è un riflesso del fatto che smettere di fumare ha come condizione di
coerenza che qualcuno fumasse e del fatto che stato calato in un discorso. Nel
caso di un attivatore, insomma, il legame tra presupposto e dato avviene ‘in
seconda battuta’. Nel caso di una ripresa anaforica, invece, la situazione è
diversa. Una ripresa anaforica, a differenza di smettere di fumare, è in primis
un atto discorsivo: e il suo presupposto non è un fatto extralinguistico che può
130
essere poi tradotto intra-linguisticamente in un’informazione data, ma è
immediatamente un fatto intra-linguistico: e cioè il fatto che una certa
informazione sia data. Il fatto che una certa informazione sia data è il
presupposto di una ripresa anaforica (e quindi della coerenza informativa)
esattamente come il fatto che qualcuno fumava è un presupposto di smettere di
fumare. Nel primo caso ho un presupposto linguistico di un atto linguistico; nel
secondo caso, ho un presupposto extra-linguistico di un atto extra-linguistico.
Se poi porto quest’ultimo dentro la lingua – cioè lo enuncio, lo rappresento, ne
faccio discorso dicendo smettere di fumare – è chiaro che il suo presupposto
sarà anch’esso trasportato dentro la lingua e qui tenderà a comportarsi come
informazione data.
131
CAPITOLO 6
La proiezione delle presupposizioni
132
Indice del capitolo
0. Introduzione
1. Cordinazioni e subordinazioni non-completive
1.1. Presenza vs. percezione del presupposto
2.2. Due corollari
2. Subordinate completive
2.1. Presupposti derivati o originari?
2.2. Presupposto vs. portatore del presupposto
2.3. I predicati intenzionali
134
136
136
137
138
138
139
140
133
0. Introduzione
Nel capitolo 3, sub. § 4, ho anticipato che le osservazioni relative a ciò
che ho etichettato «fardello del presupposto» (cfr. capitolo 3 § 3.2.) avrebbero
orientato la discussione del problema della proiezione. A ciò è dedicato il
presente capitolo.
Ho chiamato «da rana» uno sguardo che riduce il fenomeno della
presupposizione agli attivatori linguistici. Nel § 1., del capitolo 4 ho illustrato
alcuni esiti paradossali di una simile prospettiva: il requiem per la
presupposizione, l’impossibilità di comprenderne la funzione e la conseguente
impossibilità di fornirne una classificazione. Il problema della proiezione è
un’altra conseguenza di uno sguardo da rana. Se il fenomeno della
presupposizione si riduce agli attivatori linguistici, è naturale farli passare uno
per uno al microscopio dell’analisi. E se lo facciamo, possiamo compiere due
ordini di ‘esperienze’.
Ecco il primo. Immaginiamo di porre sul vetrino l’attivatore smettere:
(1)
a. Giorgio ha smesso di pagare gli alimenti alla sua ex-moglie.
Se guardiamo (1a), vediamo che il locutore presuppone – e quindi si impegna
eventualmente ad ammettere – che Giorgio pagasse gli alimenti alla propria
ex-moglie. Prepariamo ora un altro vetrino incassando (1a) in posizione di
oggetto diretto di un verbo come dire:
(1)
b. Paolo ha detto che Giorgio ha smesso di pagare gli alimenti alla sua
ex-moglie.
Questa volta il locutore di (1b) non presuppone necessariamente che Giorgio
pagasse gli alimenti alla propria ex-moglie, e neppure che abbia una ex moglie.
La ragione è che, dopo tutto, Paolo potrebbe dire quello che dice senza alcun
fondamento. Ma prepariamo ancora un altro vetrino:
(1)
c. Giorgio ha esitato a smettere di pagare gli alimenti alla sua exmoglie75.
In (1c), il locutore torna a presupporre che Giorgio pagasse gli alimenti all’exmoglie come in (1a). Insomma, il primo ordine di esprimenti conduce
all’osservazione seguente: ci sono verbi (come dire) che ‘annullano’ o ‘bloccano’
o ‘sospendono’ (a seconda delle scuole di pensiero) le presupposizioni innescate
da un attivatore; e ce ne sono altri (come esitare) che le ‘lasciano passare’.
Ecco ora un secondo ordine di ‘esperienze’. Immaginiamo di mettere
sotto la lente del microscopio quest’altro enunciato:
(2)
a. I figli di Paolo sono mori e i figli di Giorgio sono biondi.
Si noti per inciso come esitare muti le proprie caratteristiche presupposizionali a
seconda dell’aspetto e del tempo. In enunciati come Paolo ha esitato a correre e Paolo non ha
esitato a correre si presuppone che Paolo abbia corso; in enunciati come Paolo esiterà a
correre, Paolo non esiterà a correre si presuppone ancora che Paolo correrà; in enunciati come
Paolo esita / sta esitando / esitava a correre la presupposizione sembra sospesa. D’altra parte,
nelle negazioni la presupposizione ricompare: Paolo non esita a correre (con lettura
preferenzialmente abituale), Paolo non esitava a correre, ?Paolo non stava esitando a correre.
75
134
In (2a), troviamo due sintagmi nominali referenziali (i figli di Paolo e i figli di
Giorgio) che attivano, rispettivamente, la presupposizione che Paolo abbia figli
e che Giorgio abbia figli. Chi asserisce (2a), dunque, presuppone quello che
presupporrebbe se asserisse separatamente gli enunciati componenti:
(2)
b. I figli di Paolo sono mori
c. I figli di Giorgio sono biondi.
Ma osserviamo adesso un enunciato come:
(2)
d. Paolo ha figli e i figli di Paolo sono mori.
Intuitivamente, l’enunciato (2d) non pare presupporre ciò che si presupponeva
in (2a) e (2b): cioè che Paolo avesse dei figli. Assistiamo allora ad un fenomeno
analogo a quello rilevato dal primo tipo di esprimento: una congiunzione come
(2a) ‘eredita’ le presupposizioni dei suoi membri (2b) e (2c), mentre una
congiunzione come (2d) ‘blocca’ o ‘sospende’ o ‘annulla’ (ancora, secondo le
varie scuole di pensiero) la presupposizione del suo membro (2b).
In sintesi, se osserviamo le presupposizioni discorsive al microscopio, ci
sembra che vi siano alcuni elementi (come il verbo esitare) che le lasciano
passare, altri elementi (come il verbo dire) che le bloccano e altre strutture
ancora (come la congiunzione con e) che alle volte le lasciano passare e altre
volte no. Si configura, cioè, quello che nella letteratura specializzata prende il
nome di «problema della proiezione » (cfr. Langendoen&Savin 1971). L’idea è
questa: come il significato di una proposizione complessa consiste nella somma
dei significati delle proposizioni componenti, così le presupposizioni di una
proposizione complessa dovrebbero consistere nella somma dei presupposti
delle proposizioni componenti. Scrive N. Burton- Roberts:
A solution to the projection problem for presuppositions has come to seem a coherent
autonomous objective – perhaps even the most important one. […] A look through
the papers in Oh & Dinneen (1979), perhaps the largest collection on the single
subject of presupposition, gives a good idea of how pervasive are the preoccupation
with providing a projection solution […]. Two papers in that collection […]
actually contain ‘A solution to the projection problem’ in their titles […] (BurtonRoberts 1989: 29).
Il proliferare di ‘soluzioni’, naturalmente, deve essere guardato con ironia: è il
segno più chiaro che non esiste qualcosa di coerente etichettabile come
«problema della proiezione delle presupposizioni».
La metafora della «proiezione» suggerisce che i presupposti si
trasmettano come gioielli di famiglia da una proposizione a un’altra: il
problema, di conseguenza, è ricostruire le regole del loro diritto dinastico. Ma
il fatto è che non esiste qualcosa come un passaggio di presupposizioni tra
‘generazioni’ di enunciati. Questa è l’idea alla base del presente capitolo.
Affronterò la questione della proiezione nel modo seguente. Anzitutto,
smembrandola: separando le coordinate e le subordinate non-completive (sub.
§ 1) dalle subordinate completive (sub. § 2)76. In secondo luogo,
stigmatizzando una tre equivoci: la sovrapposizione tra presenza di un
Usando i termini di M. Prandi, dovrei distinguere più correttamente tra regime di
codifica puntuale e relazionale (Prandi 2004: 61-63).
76
135
presupposto e percezione del presupposto (sub. § 1.1), l’idea che i presupposti
di un enunciato possano essere derivati da un altro (§ 2.1.), la sovrapposizione
tra presupposto e portatore del presupposto (§ 2.2).
1. Cordinazioni e subordinazioni non-completive
1.1. Presenza vs. percezione del presupposto
Torniamo agli esempi (2):
(2)
a. I figli di Paolo sono mori e i figli di Giorgio sono biondi.
b. I figli di Paolo sono mori.
c. I figli di Giorgio sono biondi.
d. Paolo ha figli e i figli di Paolo sono mori.
La domanda è: perché l’enunciato composto (2a) eredita le presupposizioni
degli enunciati componenti (2b) e (2c), mentre l’enunciato (2d) non eredita la
presupposizione del suo componente (2b)?
La prima risposta – che in realtà è una ri-descrizione del problema – è
stata offerta da L. Karttunen (Karttunen 1973) e suona così: se il primo
membro di una congiunzione o disgiunzione o la subordinata di un periodo
ipotetico implicano un presupposto del secondo membro o della principale,
questo presupposto non è ereditato dall’intera struttura. Le strutture che si
comportano in questo modo – cioè e, o, se… allora… – prendono il nome di
«filtri». Il motivo per cui ho affermato che la precedente è una descrizione, e
non una spiegazione, del problema è che lascia senza risposta due domande:
perché tutti i «filtri» funzionano proprio nello stesso modo? Perché
l’implicazione del presupposto da parte di un membro (il primo o la
subordinata) annullerebbe l’effetto di presupposizione?
Comunque sia, la domanda di partenza è fuorviante perché fuorviante è
la metafora dell’eredità. Più precisamente, è sbagliato affermare che un
enunciato come (2d) non erediti – cioè non abbia – la presupposizione di (2b)77:
così facendo, infatti, si confonde la presenza di un presupposto con la
percezione di quel presupposto. Una presupposizione discorsiva è percepita
(con forza crescente) in due casi: o quando è imposta su un contesto che la
ammette o quando è imposta su un contesto che la rifiuta. Asserendo (2b), ex
abrupto, ad esempio, la presupposizione che Paolo ha figli si noterà nella
misura in cui risulterà difficile o inaspettato aggiornare il proprio insieme di
credenze con quell’informazione. E’ per questo che si dice che (2b) ha la
presupposizione che ha ed è per questo che uno dei primi esempi di
presupposizione sia stato Il re di Francia è calvo: cioè una presupposizione
frustrata, e quindi particolarmente evidente.
Nell’enunciato composto (2d), il punto non è che non si abbia la
Un’idea simile mi sembra implicita – e comunque confermata – nelle seguenti
osservazioni di N. Kadmon: «On the filtering approach (= the Stalnaker-Karttunen-Heim
approach), a ps [una presupposizione] is not “defeasible”; it absolutely must be satisfied. […]
On the filtering approach, ps(q) is not “defeasible”. The reason that the matrix sentence does
not inherit ps(q) is that this ps is satisfied internally – it it satisfied by the p. I use the term
“filtering” precisely and solely to refer to the phenomenon that I’ve just mentioned […]
(Kadmon 2001: 132)» (Kadmon 2001: 117-119). E quindi, ovviamente nella sua critica alla
nozione contro G. Gazdar relativa alla nozione di «cancellazione di una presupposizione» (cfr.
Kadmon 2001: 136-137).
77
136
presupposizione che Paolo ha figli: il punto è che passa inosservata perché il
primo membro crea un contesto che già introduce la condizione di coerenza
necessaria al sintagma nominale seguente. Quest’ultimo, allora, può adagiare il
suo presupposto sul contesto creato dal primo membro senza suscitare alcuno
shock.. La differenza tra (2d) e (2a), dunque, non consiste nel fatto che (2a)
presuppone qualcosa che (2d) non presuppone, ma nel fatto che il primo
membro di quest’ultimo prepara già alla presupposizione necessaria al suo
secondo membro: in (2d), insomma, il presupposto del secondo membro si
adagia sul contesto locale (nella fattispecie, sul primo membro) e non è
percepito; in (2a), invece, il presupposto del secondo membro deve essere
innestato sul contesto modificandolo (esattamente come accade per il primo) e
quindi passa meno inosservato.
Per questa ragione, rispetto alla metafora dell’eredità mi pare più
corretta quella della «soddisfazione» avanzata da L. Karttunen (Karttunen
1974) e ripresa da I. Heim (Heim 1988), fino a giungere a van der Sandt (van
der Sand 1992) che parla di «neutralizzazione»78. Il punto, dunque, è questo: è
vero che in (2c) il contesto (locale) ‘soddisfa’ la presupposizione del secondo
congiunto, ma deve essere chiaro che questo non vuol dire che in (2c) non vi
sia la presupposizione che Paolo abbia figli; al limite, si può dire che (2c) non
richiede un contesto extralinguistico che già includa questa informazione.
Come si vede, qui, trova semplicemente applicazione l’idea della funzione
testuale svolta dalle presupposizioni discorsive.
2.2. Due corollari
A conferma delle osservazioni precedenti, si noti come consentano di
rispondere alle due domande lasciate aperte dall’impostazione originale di L.
Karttunen (Karttunen 1973).
In primo luogo, possiamo comprendere perché una stessa regola di
filtraggio si ripeta per tutti gli operatori e, o, se. La ragione è che quella regola
non deriva da ciò che questi operatori hanno di diverso, ma da ciò che hanno in
comune: cioè dal semplice fatto di connettere due enunciati. Gli enunciati
complessi non fanno altro che unire due enunciati creando un micro-contesto a
uno dei due; il fenomeno della presupposizione discorsiva riguarda la
ridondanza (nel senso di O. Ducrot) delle informazioni da un enunciato
all’altro; l’ordine che garantisce la ridondanza è dal posto (nell’enunciato che
costituisce il micro-contesto) al presupposto (nell’enunciato di cui il
microcontesto è micro-contesto). Il primo membro della coordinazione e una
subordinata, dunque, si comportano nello stesso modo: entrambi forniscono il
micro-cotesto al secondo membro o alla principale. Se questo è vero, il primo
membro è il correlato nella coordinazione della subordinata nella
subordinazione: come se la coordinazione fosse una subordinazione che fissa la
subordinata a sinistra e la subordinazione fosse una coordinata che svincola il
primo congiunto conferendogli mobilità. Nel caso della coordinazione quale sia
Da un punto di vista storico, mi pare si possa individuare una linea di sviluppo ideale
che comincia con l’idea di ‘soddisfazione’ di L. Karttunen o ‘aggiornamento’ dell’insieme
presupposizionale di R. Stalnaker ed evolve naturalmente nell’idea di presupposizione come
ripresa anaforica di R. van der Sandt. In effetti, dal dire che «una presupposizione ps di una
proposizione p deve ‘essere soddisfatta’ dal contesto c precedente» al dire che «una
presupposizione ps di una proposizione p deve essere ‘avere un antecedente’ nel contesto c
precedente» il passo sembra davvero molto breve. Tanto, che potremmo formulare queste idee
nei termini l’una dell’altra.
78
137
il micro-cotesto dipende dall’ordine lineare: è il primo enunciato, mentre
l’enunciato al quale si crea il micro-cotesto è il secondo; nel caso della
subordinazione (non completiva), quale sia il micro-cotesto non dipende
dall’ordine lineare: esso è la subordinata, mentre l’enunciato al quale si crea il
micro-cotesto è la principale.
In secondo luogo, possiamo comprendere la ragione per cui la
presupposizione sembra scomparire anche se non coincide direttamente con il
primo membro ma risulta inferibile da esso: il fenomeno è analogo a quello
dell’introduzione dei referenti testuali o alla possibilità di riprendere
anaforicamente una parte o una conseguenza di un processo dopo che è stato
nominato solo il processo nella sua globalità.
2. Subordinate completive
2.1. Presupposti derivati o originari?
Ritorniamo ora agli esempi (1):
(1)
a. Giorgio ha smesso di pagare gli alimenti alla sua ex-moglie.
b. Paolo ha detto che Giorgio ha smesso di pagare gli alimenti alla sua
ex-moglie.
c. Giorgio ha esitato a smettere di pagare gli alimenti alla sua exmoglie.
La domanda è: perché l’enunciato (1c) eredita la presupposizione di (1a) – cioè
l’idea che Giorgio pagasse gli alimenti alla propria ex moglie – ma non (1b)?
L. Karttunen ha definito «predicati-tappo» o più semplicemente «tappi»
(plugs) i predicati che si comportano come dire:
The first group, plugs, contains verb that are commonly called “verbs of saying” or
“performatives”, such as say, mention, tell, ask, promise, warn, request, order, accuse,
criticize, blame etc. What is common to them is that they can be used to report what
has been said or what illocutionary act […] has been performed (Karttunen 1973:
174).
Quanto ai predicati che si comportano come esitare, L. Karttunen li ha definiti
«predicati-buco» o più semplicemente «buchi» (holes):
The class of holes contains all ordinary run-of-the-mill complementizable predicates,
such as know, regret, understand, surprise, be significant, begin, stop, continue,
manage, avoid, be able, be possible, force, prevent, hesitate, seem, be probable, etc.
[…] If the main verb of the sentence is a hole, then the sentence has all the
presuppositions of the complement sentences embedded in it (Karttunen 1973: 175176).
Intuitivamente, osservando la distinzione tra «buchi» e «tappi» emerge
una perplessità. Per illustrare quello che intendo, si considerino gli esempi
seguenti:
(3)
a. Giorgio picchiava sua moglie.
b. Giorgio ha smesso di picchiare sua moglie.
138
Il fatto che Giorgio abbia una moglie è una presupposizione sia di chi asserisce
(3a), sia di chi asserisce (3b). D’altra parte, chi asserisce (3b) presuppone anche
che Giorgio picchiasse sua moglie che, nella fattispecie, coincide con (3a). Ora,
rispetto a (3b), l’idea che Giorgio abbia una moglie e che la picchiasse sono
entrambe presupposizioni. Ma che senso ha sostenere che una di queste
(precisamente che Giorgio abbia una moglie) sia ‘ereditata’ da (3a)? In altri
termini, che senso ha sostenere che smettere in (3b) sia un «buco» rispetto alla
presupposizione di (3a)? A me pare più naturale guardare alle presupposizioni
di (3b) come originarie e non derivate da altrove: non è che smettere sia un
«buco», è smettere di picchiare la propria moglie presuppone che qualcuno
abbia una moglie e che usasse picchiarla esattamente come picchiare la propria
moglie presuppone semplicemente di avere una moglie.
E di fronte a (3c):
(3)
c. Paolo ha detto che Giorgio ha smesso di picchiare sua moglie.
vale un discorso analogo. Non è che dire blocchi le presupposizioni di smettere
di picchiare la propria moglie; semmai, è il processo dire che qualcuno ha
smesso di picchiare la propria moglie, pensato come un tutto, che può non
comportare quelle presupposizioni. Ma su questo punto conviene soffermarsi
un istante. Affermare che in (3c) non vi sia o sia sospesa la presupposizione che
Giorgio picchiasse sua moglie significa confondere il presupposto con colui che
si fa carico del suo fardello. Questo equivoco sarà il tema del paragrafo
seguente.
2.2. Presupposto vs. portatore del presupposto
Si consideri:
(4)
a. Gianna rimpiange di essersi sposata.
b. Mario ha sognato che Gianna rimpiangeva di essersi sposata.
c. Ho sognato che Gianna rimpiangeva di essersi sposata.
Intuitivamente, chi asserisce (4a) presuppone che Gianna si sia sposata; chi
asserisce (4b-c) non necessariamente. La differenza è che, in (4b-c), (4a) entra
come complemento di sognare. Vediamo i dettagli. Anzitutto, possiamo
immaginare due situazioni.
Supponiamo che Gianna sia una nostra amica e che sia sposata. In
questa ipotesi, asserendo (4b-c), faccio affidamento – mi appoggio – sull’idea
che Gianna sia sposata. In questo caso, è vero che il rimpianto di Gianna è
onirico, ma è altrettanto vero che il suo presupposto risulta ancorato al
bagaglio di informazioni condivise tra locutore e interlocutore.
Supponiamo ora che Gianna sia una nostra amica, ma che sia zitella. In
questa ipotesi, ovviamente, non si può più dire che asserendo (4b-c) faccia
ancora affidamento sull’idea che Gianna sia sposata. In questo caso, non solo il
rimpianto di Gianna è onirico ma lo è anche il suo presupposto.
Ci sono due punti da tenere presenti. In primo luogo, in entrambe le
situazioni immaginate, il rimpianto di Gianna è solo un sogno perché appare
come oggetto diretto di sognare. In secondo luogo, il rimpianto di essersi
sposati (onirico o reale che sia) ha come condizione di coerenza l’essersi
sposati. Ed è qui che le due letture di (4b-c) divergono. Nella prima lettura –
139
laddove è noto che Gianna sia sposata – questo presupposto è trovato in una
conoscenza condivisa; nella seconda lettura – laddove è noto che Gianna sia
zitella – questo presupposto è introdotto: ed è introdotto come un fatto
meramente onirico, giacché contraddice il dato condiviso per cui Gianna –
nella realtà dei fatti – non è sposata.
A questo punto possiamo introdurre una terza lettura. Immaginiamo
che (4b-c) siano asseriti da un locutore verso un interlocutore che ignora se
Gianna sia o non sia sposata. La domanda è: come verrà accomodato il
presupposto? Il rimpianto (onirico) di Gianna dove troverà il puntello
necessario alla sua pensabilità? La risposta è che tenderà a trovarlo nel
bagaglio di conoscenze relativo alla realtà dei fatti: l’interlocutore, cioè,
tenderà ad accomodare il presupposto introducendo nel suo bagaglio di
conoscenze l’informazione che Gianna sia – davvero – sposata. E quindi si
ricade nel caso della prima situazione immaginata.
In sintesi, le scenette immaginate ci permettono di concludere quanto
segue: ciò che rimane fisso è che il processo rimpiangere di essersi sposati
abbia come condizione di coerenza il fatto di essersi sposati; ciò che varia è il
luogo in cui viene reperita o situata questa presupposizione. Il punto, quindi,
non è la presenza o assenza della presupposizione ma chi ne porta il carico.
2.3. I predicati intenzionali
Sub. § 2.2., abbiamo discusso (4b-c): dove il rimpianto di Gianna era a
priori onirico in quanto oggetto diretto di sognare. Passiamo ora all’esempio
(4a): dove il rimpianto di Gianna non è l’oggetto diretto di un verbo come
sognare ma è l’oggetto diretto dell’azione di dire del locutore. Naturalmente, le
condizioni di coerenza di rimpiangere di essere sposati restano invariate:
bisogna essere sposati per poterlo rimpiangere. La domanda è: questa volta,
dove può essere trovato il presupposto al quale appoggiarsi? La risposta è
immediata: intuitivamente, chi asserisce (4a) si fa carico dell’idea che Gianna
sia sposata; dunque il presupposto tende ad essere reperito nel bagaglio di
conoscenze relative al mondo reale condivise con l’interlocutore. In questa
prospettiva, non c’è una differenza sostanziale tra (4a) e un esempio come:
(4)
d. Mario ha scoperto che Gianna è sposata.
Il locutore di (4a) sembrerebbe farsi carico del presupposto che Gianna è
sposata esattamente come il locutore di (4d). Ma allora la domanda è: c’è
qualche differenza tra (4a) e (4d)? Qui entra in gioco il tipo di predicato: dotato
di un contenuto intenzionale o meno.
L. Karttunen coglie questo punto per mezzo della tripartizione
seguente (sottolineature mie):
Verbs of saying: say, ask, tell, announce, etc. […]
Verbs of propositional attitude: believe, fear, think, want, etc.
All other kinds of complementizable verbs: factives, semi-factives, modals,
one- and two- way implicatives, aspectual verbs […]
Essentially this amounts to a distinction between verbs that are “transparents” with
respect to presuppositions of their complements (type III) and verbs that are “opaque”
to one degree or another (types I and II). These distinctions of course are not
arbitrary but presumably follow from the semantics of verb complementation in some
manner yet to be explained. […] For verbs of propositional attitudes we need a
I.
II.
III.
140
condition […] for the set of beliefs attributed to [the subject of the predicate]
(Karttunen 1974, 1991, pag. 410)
I gruppi I e II, in effetti, possono essere raccolti in un’unica classe: quella dei
predicati proposizionali o intenzionali, che potremmo etichettare «verba
cogitandi». I processi descritti da questi predicati (ad es. dire, credere, sognare)
sono esattamente come i processi descritti da predicati quali picchiare, correre
o scoprire nel senso che in tutti i casi ci troviamo di fronte a processi o alla
descrizione di processi. La differenza è che un processo dotato di un contenuto
intenzionale contiene in se stesso la descrizione di un processo: un processo
‘pensato’ da un soggetto umano. Correre è il dipinto di una corsa, credere o
sognare sono come quadri di Velasquez: dipinti di dipinti79.
Ma torniamo alla questione della differenza tra (4a), che contiene un
predicato intenzionale, e (4d) che non contiene un predicato intenzionale. Si
immagini la situazione seguente. Mario è il padre di Gianna, e soffre di
schizofrenia. Ora, un amico ci chiede Come sta Mario e noi, scuotendo il capo
desolato, rispondiamo (4a) o (4d). La domanda è: posto che scoprire e
rimpiangere condividano la medesima condizione di coerenza, dove viene
recuperata quest’ultima? La risposta è chiara. Intuitivamente, la differenza tra
(4a) e (4d) è che nel primo caso (dove ho un verbo con un contenuto
intenzionale) è più facile relativizzare il presupposto al mondo fittizio che si è
creato il povero Mario; in (4d), invece, è più difficile farlo: infatti, tenderemmo
a mettere tra virgolette scoprire ma non rimpiangere (anche se per noi è del
tutto chiaro che quello che prova Mario è davvero ‘rimpianto’ ma solo la sua
allucinazione). Ma a questo punto sorge un’altra domanda.
Ora, se questo è vero, si può delineare un’analogia tra «gruppi I -II vs. gruppo III» e
«usi temporali narrativi vs. usi temporali deittici». Mi spiego.
Prendiamo il presente. E’ generalmente ammesso che per interpretare un presente
occorra un punto di riferimento: il momento dell’enunciazione. In questo senso, si dice che il
presente conosce un impiego «deittico». Con i termini di M. Prandi (Prandi 2006: 202), il
presente è il «tempo base» della tonalità testuale che egli chiama «discorsiva»: «Se il tempo
base è il presente, l’anteriorità è espressa dal passato remoto o dall’imperfetto, mentre la
posteriorità è espressa dal futuro […] (Prandi 2006: 203)».
Prendiamo ora l’imperfetto. Per interpretare l’imperfetto è usuale riconoscere la
necessità di due punti di riferimento: il momento dell’enunciazione e un altro momento, che
spesso (ad esempio da P. M. Bertinetto) è etichettato «momento di riferimento». Quando il
momento di riferimento dell’imperfetto coincide con il momento dell’enunciazione, ci
ritroviamo nella tonalità che M. Prandi chiama discorsiva: dove cioè l’imperfetto esprime
anteriorità rispetto al presente (deittico). Qui, naturalmente, anche l’imperfetto conosce un
impiego deittico. Quando invece il momento di riferimento dell’imperfetto non coincide con il
momento dell’enunciazione, ci troviamo nella tonalità testuale che M. Prandi chiama
«narrativa», il cui tempo base è lo stesso imperfetto (insieme al passato remoto): «Se il tempo
base è l’imperfetto o il passato remoto, l’anteriorità è affidata al trapassato, mentre la
posteriorità è espressa dal condizionale composto […] (Prandi 2006: 203)». In quest’ultimo
caso, altrettanto ovviamente, l’imperfetto non conosce un impiego deittico ma «narrativo».
L’analogia a cui alludevo è questa. Come un imperfetto necessita di due punti di
riferimento per essere interpretato, così anche i predicati dei gruppi I e II – proprio per la loro
struttura ‘intenzionale’ – necessitano di due punti di riferimento: il locutore e il soggetto del
predicato. Il primo è l’analogon del momento dell’enunciazione, il secondo è l’analogon del
momento di riferimento. Come un imperfetto conosce un impiego deittico e uno narrativo, così
accade per i predicati I e II. Possiamo parlare di «impiego deittico» quando il locutore e il
soggetto appartengono alla stessa dimensione spazio-temporale; possiamo parlare di «impiego
narrativo» quando il locutore e il soggetto non appartengono alla stessa dimensione spaziotemporale. Nel primo caso, il locutore non può che farsi carico dei presupposti del contenuto
del predicato intenzionale; nel secondo caso, invece, no. Quanto ai predicati del gruppo I, essi –
poiché non hanno una struttura intenzionale – conoscono tendenzialmente solo gli impieghi
deittici.
79
141
Abbiamo appena visto che il presupposto di rimpiangere in (4a) può
essere relativizzato al mondo fittizio di Mario; sub. § 2.2., avevamo visto che il
presupposto di rimpiangere in (4b) poteva essere relativizzato al mondo
onirico del sogno di Mario. La nuova domanda è: c’è una differenza tra questi
due casi? La risposta è sì: perché in un caso la nostra ‘tonalità’ discorsiva è
incentrata sul mondo reale (condiviso con l’interlocutore), ma nell’altro caso
no. Per chiarire quello che intendo, si rifletta sui diversi sentimenti che
potrebbero suscitarci gli enunciati (4a) e (4b). Di fronte a (4a), sarebbe naturale
provare un senso di compassione per Mario; ma di fronte a (4b) questo senso di
compassione risulterebbe del tutto inibito. Sia in (4a), sia in (4b) –
nell’interpretazione qui discussa – il presupposto di rimpiangere è relativizzato
al mondo fittizio di Mario; la differenza è che in (4a) – ma non in (4b) – questo
entra in tensione col fatto che il nostro discorso è incentrato sul mondo reale e
che lì ci saremmo aspettati di reperire il presupposto.
142
CAPITOLO 7
Presupposizione e inferenza
143
Indice del capitolo
0. Introduzione
1. Tre equivoci sulle nozioni di inferenza e presupposizione
1.1. Inferenza vs. implicito
1.2. Inferenza vs. presupposizione
1.3. Presupposizione vs. condizione necessaria
2. L’inferenza in logica
2.1. Funzionamento della definizione logica di presupposizione
2.2. Scacco della definizione logica di presupposizione
2.3. Impieghi analogici di vero e falso
3. L’inferenza in linguistica
3.0. Introduzione
3.1. Presupposizione vs. inferenza esterna
3.2. Presupposizione vs. inferenza interna
145
145
145
146
148
149
149
150
151
152
152
153
153
144
0. Introduzione
L’ultimo punto anticipato al § 4 del capitolo 3 riguardava il rapporto
tra presupposizione e inferenza. Questo rapporto è l’ultima conseguenza dello
sguardo da rana che prenderò in considerazione.
Il capitolo dedicato alle presupposizioni del manuale La pragmatica di
S. C. Levinson comincia così (sottolineature mie):
Nel capitolo precedente abbiamo definito le implicature conversazionali come tipi
particolari di inferenza pragmatica. […] In questo capitolo prenderemo in esame un
altro tipo di inferenza pragmatica, la presupposizione […] (Levinson 1983, 1993:
175)
Il passo riportato considera la presupposizione un caso particolare di inferenza:
un’inferenza pragmatica. Facendo questo (come del resto la maggioranza degli
studiosi) assume che la presupposizione consista in un tipo di inferenza: che
procede da un contenuto (quello che presuppone) a un altro (quello che è
presupposto). Ma presupposizione e inferenza sono nozioni incommensurabili.
Intuitivamente questo è chiaro. Operando un’epoché nei confronti del
dibattito logico-filosofico, infatti, l’idea di presupposizione e l’idea di inferenza
si orientano in direzioni contrarie: l’una focalizza, a monte, il fondamento di
qualcosa; l’altra focalizza, a valle, la conclusione di un ragionamento. Non a
caso, il nome «inferenza» designa non solo il processo di deduzione (o
induzione o abduzione) ma anche il risultato. Un presupposto è una verità che
dobbiamo ammettere affinché lo stato di cose rappresentato da un enunciato
stia in piedi; un’inferenza è una verità che deriviamo a partire da
quell’enunciato assunto come vero. La prima è qualcosa su cui facciamo
affidamento; la seconda è un risultato. Queste osservazioni suggeriscono che le
idee di presupposizione e di inferenza si collocano su dimensioni diverse in
quanto la prima delimita lo spazio delle possibili inferenze o implicazioni.
Se la presupposizione è apparsa immediatamente come un tipo di
inferenza, è stato a causa dell’ossessione per le presupposizioni che hanno
contenuti contingenti: e cioè della prospettiva da rana.
1. Tre equivoci sulle nozioni di inferenza e presupposizione
1.1. Inferenza vs. implicito
In linguistica, la nozione di «inferenza» o «implicatura» è tipicamente
connessa a quella di «implicito». Questa connessione è un equivoco.
Immaginiamo un parlante che dica E’ mezzogiorno per comunicare che la
lezione è finita. Certamente, il ragionamento che permette di interpretare
quell’enunciato come quel messaggio è un’inferenza: un’abduzione (nei termini
di Ch. Peirce), un’inferenza esterna (nei termini di M. Prandi), un’implicatura
conversazionale (nei termini di H. P. Grice). Ma ha senso parlare di
«implicito»?
La risposta è no, per due ragioni. Primo: «implicito» suggerisce l’idea
di un elemento contenuto dentro un altro; ma l’enunciato E’ mezzogiorno non
contiene affatto l’informazione che la lezione è finita. Secondo: «implicito»
145
associa all’idea precedente quella di un elemento nascosto in un altro; ma se un
locutore proferisce un enunciato per indicare un messaggio, lo fa per
comunicare quel messaggio il più apertamente e chiaramente possibile.
Ovviamente, egli può progettare la distanza e la difficoltà del cammino che il
ricevente dovrà percorrere per afferrare il messaggio: può cioè tarare il grado
di allusività; ma lo farà in modo adeguato alla situazione. Non c’è differenza di
principio tra una comunicazione aperta o esplicita e una allusiva o implicita: in
quanto le ragioni che (la maggior parte delle volte) inducono a propendere per
la prima sono le stesse che (qualche volta, ma non così raramente) inducono a
propendere per la seconda. L’idea di un messaggio implicito, insomma, è autocontraddittoria: un messaggio non è mai implicito, è quanto più esplicito in
quella situazione può essere.
Si considerino ancora due casi. L’enunciato E’ mezzogiorno può essere
impiegato per indicare il messaggio che le lancette dell’orologio sono rivolte a
mezzogiorno: qui si parlerebbe – erroneamente (cfr Prandi 2004: 11-18) – di
«significato letterale». E un enunciato come Paola ha smesso di fumare può
essere impiegato per comunicare che Paola era una fumatrice: qui avremmo
l’uso della presupposizione etichettato «comunicativo». Questi casi sembrano
prestare il fianco a un’obiezione. Se l’enunciato E’ mezzogiorno comunica che
la lezione è finita, il messaggio non è certamente contenuto nell’enunciato; ma
se E’ mezzogiorno è usato letteralmente, il messaggio sembra contenuto
nell’enunciato a fortiori: perché vi coincide. E anche escludendo questo caso
come banale, resta il fatto che dicendo Paola ha smesso di fumare per
comunicare che fumava il messaggio è un’informazione chiaramente contenuta
nell’enunciato o, con i termini di P. Grice «implicata convenzionalmente».
L’obiezione precedente applica l’aggettivo «implicito» sia al significato,
sia all’inferenza che conduce al messaggio: la prima applicazione può essere
giustificata, la seconda è assurda. E’ vero che Paola ha smesso di fumare
implica convenzionalmente che Paola fumava; ma questa idea non diventa un
messaggio qua implicatura convenzionale, bensì in seguito a un ragionamento
abduttivo che può essere ricostruito come un’implicatura conversazionale. Se è
vero che un’informazione può essere contenuta o implicita nell’enunciato, non
è in quanto tale che quell’informazione viene comunicata. E’ mezzogiorno
usato per comunicare che è mezzogiorno piuttosto che la lezione è finita, Paola
ha smesso di fumare usato per comunicare che era una fumatrice piuttosto che
è riuscita a perdere il vizio, subiscono sempre e comunque lo stesso destino:
devono cioè essere vagliati dal tribunale del ricevente che decide come
integrarli nel suo campo di interpretazione e quali caratteristiche considerare
salienti alla luce di un criterio di coerenza testuale comunicativa contingente.
Può certamente capitare che concluda che il locutore volesse comunicare
proprio un’informazione implicita nel suo enunciato: ma ciò che è implicito era
quell’informazione e non questa conclusione. Nel momento in cui
quell’informazione implicita diventa il risultato della conclusione del ricevente,
non ha più senso considerarla implicita. Non è scavando dentro all’enunciato
che troviamo il messaggio, ma è partendo dall’enunciato: il messaggio non è un
tesoro sepolto nell’enunciato ma la meta di un viaggio che parte da esso.
1.2. Inferenza vs. presupposizione
Si consideri il seguente passo di D. Wilson:
146
Let me first illustrate the two different approaches in action, by considering how each
of them deals with sentences (1)-(3):
(1) Priscilla stopped reading Model Theory for Two-Year-Olds
(2) Priscilla didn’t read Model Theory for Two-Year-Olds
(3) Priscilla had been reading Model Theory for Two-Year-Olds
According to the presuppositional approach, (1) and (2) both presuppose (3). Hence, if
either (1) or (2) is true, (3) must also be true, and if (3) is false, both (1) and (2) must
lack a truth value. According to the entailment analysis which I am proposing (1)
entails (3). Hence, if (1) is true (3) must also be true, but if (3) is false (1) will also be
false and (2), the negation of (1) will be true. (Wilson 1975: 17-18).
La citazione precedente presenta due prospettive – «presupposizionale» e
«inferenziale» – come alternative esclusive. L’assunto di questa opposizione è
che le nozioni di inferenza e presupposizione appartengano a uno stesso
paradigma: cosicché, se x una presupposizione allora non è un’inferenza e
viceversa. Ma le nozioni di inferenza e presupposizioni sono incommensurabili
(cfr. capitolo 3, § 3.5.).
I concetti di presupposizione e implicazione non sono contrari o
antonimi: «implicazione» indica una relazione logica di deduzione o abduzione
o induzione; «presupposizione» indica una funzione, la funzione di condizione
di coerenza. Tornando alla citazione di D. Wilson, dunque, nulla impedisce di
affermare sia che (1) implica (3), sia che (1) presuppone (3) perché in questo
modo si esprimono idee diverse. Parlare di «implicazione» significa prendere
un enunciato, smontarlo e vedere quali altri enunciati si possono dedurre
applicando leggi logiche; parlare di «presupposizione» significa prendere un
enunciato, smontarlo e chiedersi quale funzione intrattengano le sue parti:
precisamente, se l’una sia una condizione di coerenza dell’altra. La prima
prospettiva ha senso in logica, dove si studia un linguaggio artificiale; la
seconda prospettiva ha senso in linguistica, dove si studia il linguaggio
naturale. Nulla impedisce di guardare alle presupposizioni come a relazioni
logiche di implicazione: semplicemente, facendo questo si prescinde dalla loro
funzione.
Un corollario del mancato riconoscimento della differenza di livello su
cui si collocano presupposizione e inferenza è che cercando di interpretare la
prima nei termini della seconda si giunge a una definizione come la seguente:
A presupposes B if and only if
(a) if A is true then B is true,
(b) if A is false then B is true.
From a this equivalence it is clear that presupposition is a trivial semantic relation if
we hold to the principle of bivalence (that every sentence is, in any possible situation,
either true or false). In that case, every sentence presupposes all and only the
universally valid sentences (van Fraassen 1968, 1973: 97).
Sennonché, in questo modo, si perde la possibilità di distinguere – rispetto a un
enunciato come Maria ha smesso di fumare – la presupposizione Maria fumava
dalla tautologia Domani piove o non piove. Ed è inutile bollare quest’ultima
come «presupposizione triviale»: su un piano logico, infatti, Domani piove o
non piove e Maria fumava intrattengono con Maria ha smesso di fumare
esattamente lo stesso rapporto80. La differenza emerge esclusivamente sul
L’implicazione tra Maria ha smesso di fumare e la tautologia è formale, l’implicazione
tra Maria ha smesso di fumare e Maria fumava riguarda invece i contenuti. Ma nel momento in
80
147
piano della funzione: Maria fumava è una condizione di coerenza di Maria ha
smesso di fumare; Domani piove o non piove no.
1.3. Presupposizione vs. condizione necessaria
In logica è usuale sovrapporre le nozioni di presupposizione e
condizione necessaria. Questa sovrapposizione è implicita nel celebre passo di
P. F. Strawson (sottolineatura mia):
E’ auto-contraddittorio congiungere A con la negazione di A’ se A’ è una condizione
necessaria semplicemente della verità di A. Un diverso genere di assurdità logica si ha
quando si congiunge A con la negazione di A’ se A’ è una condizione necessaria della
verità o falsità di A. La relazione fra A e A’ nel primo caso è che A esige A’. Abbiamo
bisogno di un nome differente per la relazione fra A e A’ nel secondo caso; diciamo
[…] che A presuppone A’. (Strawson 1952, 1961: 225)
E, forse, l’idea che la presupposizione sia una sorta di condizione necessaria si
riflette anche nell’etichetta «necessitation», che van Fraassen (van Fraassen
1973) impiega per definire la relazione logica nei termini della quale analizza la
presupposizione. Ma ha senso equiparare una condizione necessaria per verità
di una proposizione a una condizione necessaria sia per la verità che per la
falsità di quella proposizione? Ha senso chiamare entrambe «condizioni
necessarie»? Ad esempio, se mi chiedo quali siano le condizioni necessarie al
fatto che il mio gatto stia in buona salute, mi verranno in mente cose come che
respiri, che mangi le crocchette prescritte dal veterinario, ma non che sia un
essere vivente. Ora, che senso ha considerare quest’ultima «condizione
necessaria» alla stregua delle prime?
Come la presupposizione non è un genere di implicazione, così non è
neppure una condizione necessaria. Si considerino due enunciati come:
(1)
a. *Paolo è triste perché è una persona.
b. *Maria ha smesso di fumare perché fumava.
Gli enunciati (1) sono strani non perché il fatto di essere una persona o di
fumare non sia sufficiente a rendere Paolo stanco o a farlo smettere, ma perché
quelle non sono ragioni, cause, motivi – né necessari, né sufficienti – ad essere
triste o a smettere di fumare. Ancora una volta, in linea di principio, nulla
impedisce di considerare quelle presupposizioni condizioni necessarie: ma in
questo modo si confondono semplicemente le acque rispetto a quelle che sono
davvero condizioni necessarie e sufficienti. Insomma, ancora una volta, una
presupposizione non è una condizione necessaria: è la condizione che rende
possibile la ricerca delle condizioni necessarie (e/o sufficienti) a un effetto. Si
noti, per inciso, che negli enunciati (1) – così come in Visto che Paolo fumava,
ha smesso? – l’interpretazione privilegiata è de dicto. E l’interpretazione de
dicto nasce tipicamente quando quella de re non è disponibile: cioè quando
quest’ultima risulta incoerente o non pertinente. Se questo è vero, tra l’altro, la
relazione di presupposizione non è una relazione concettuale (o transfrastica)81.
cui traduciamo tutto in simboli, la differenza viene obliterata.
81
Più in generale, temo che la presupposizione non possa consistere in una relazione
logica di qualche tipo. E’ lo stesso carattere formale della logica che mi sembra inadatto a
catturare la presupposizione. Non si può formalizzare l’idea di presupposizione perché ciò
148
2. L’inferenza in logica
2.1. Funzionamento della definizione logica di presupposizione
Riprendiamo la cosiddetta «definizione logica» di presupposizione:
(α)
p presuppone q se e solo se:
(a) se è vero p, è vero anche q;
(b) se è vero non-p, è vero anche q.
e applichiamola a un esempio come:
(2)
a. Maria ha smesso di fumare.
b. Maria continua a fumare.
c. Maria fumava.
Applicata a (2), la definizione (α) pare funzionare: se (2a) è vero, siamo in
qualche modo impegnati ad ammettere che (2c) è vero; se (2b) è vero siamo
ugualmente impegnati ad ammettere che (2c) è vero. Del resto, quali siano le
condizioni di verità di (2c) è chiaro: applicando la formula di A. Tarski,
l’enunciato Maria fumava è vero se e solo se Maria fumava. Per questa ragione,
può sembrare naturale considerare (2c) come parte delle condizioni di verità di
(2a) e (2b).
Certo, questo sembra naturale perché (2c) ha chiare condizioni di verità;
tuttavia, si potrebbe obiettare che il punto è definire le condizioni di verità di
(2a) e (2b). Immaginiamo, ad esempio, di stilare una lista di tutte le situazioni o
i mondi possibili in cui (2a) è falso. Se lo facessimo, potremmo immaginarne un
numero indefinito: in alcuni, Maria non avrà neppure mai desiderato smettere;
in altri, non vi sarà riuscita per qualche ragione. Ma avrebbe senso includere in
quella lista anche le situazioni (i mondi possibili) in cui Maria non è una
fumatrice o in cui non vi è nessuno di nome Maria? Intuitivamente, questi non
sarebbero casi che prenderemmo in considerazione.
Comunque sia, di fronte a (2), si aprono le note alternative
presupposizionalista e anti-presupposizionalista (cfr. capitolo 3., § 2):
i)
ii)
si può analizzare (2a) o (2b) come congiunzioni di più enunciati tra cui
rientra (2c): questa è l’alternativa anti-presupposizionalista;
si può ipotizzare che gli enunciati (2a) e (2b) abbiano due tipi di
condizioni:
ii.i)
condizioni di verità: in base ad esse, (2a) sarebbe vero o falso
esattamente nei casi in cui lo sarebbe Maria ora non fuma
(questo punto, quindi, è ciò che accomuna (2a) a Maria non
fuma);
ii.ii) condizioni di felicità: in base ad esse, interrogarsi sulle
condizioni di verità di (2a) sarebbe sensato solo nel caso in cui
Maria sia stata una fumatrice (questo, quindi, è ciò che distingue
(2a) da Maria non fuma);
significherebbe interpretarla come un qualche tipo di relazione logica in un sistema; ma
«presupposizione» sarebbe precisamente ciò che rende possibile le relazioni logiche in quel
sistema. Da questo punto di vista, un tentativo interessante è (Burton-Roberts 1989).
149
questa è l’alternativa presupposizionalista.
Si noti che – nel caso in cui non si verifichi (2c) – i punti di forza e debolezza di
i) e ii) sono speculari. La posizione i) giustifica l’intuizione in base alla quale
saremmo propensi a considerare (2a) e (2b) falsi piuttosto che veri; tuttavia,
paga questo fatto frustrando l’intuizione in base alla quale (2a) e (2b), piuttosto
che falsi, nell’immediato, suonerebbero fuori luogo. La posizione ii) giustifica
l’intuizione dell’immediata assurdità di (2a) e (2b); tuttavia, si trova in
imbarazzo di fronte all’intuizione che, pensandoci bene, (2a) e (2b) sembrano
avere l’aspetto di falsità82.
Dal nostro punto di vista, occorre giustificare entrambe le intuizioni:
l’intuizione in base alla quale se (2c) fosse falso, (2a) e (2b) apparirebbero fuori
luogo; l’intuizione in base alla quale se comunque dovessimo attribuire un
valore di verità a queste ultime propenderemmo per il falso e non per il vero.
2.2. Scacco della definizione logica di presupposizione
Proviamo ora ad applicare la definizione come (α) del § 2.1. agli esempi
seguenti:
(3)
a. Maria è triste.
b. Maria è allegra.
c. Maria è una persona.
Se (3a) è vero, è vero (3c)? E se (3b) è vero, è vero (3c)? Più in generale: è vero
(3c)? Questa volta la formula (α) non è più applicabile perché (3c) non è né
vero né falso. Per rendersene conto, ci si domandi quali siano le condizioni di
verità di (3c).
Certo, apparentemente, si potrebbe ripetere pappagallescamente la
formula taskiana: «l’enunciato Maria è una persona è vero se e solo se Maria è
una persona». Tuttavia, questa volta la formula sarebbe vuota: in concreto,
infatti, quale stato di cose verifica o falsifica (3c)? La domanda – che aveva una
risposta per (2c) – è ora assurda: non si può rispondere nulla di quello che
siamo abituati veder fare alle persone perché tutte queste cose presuppongono
appunto il concetto di persona. Questo è semplicemente un altro modo per dire
che una presupposizione di base non può essere giustificata (cfr. capitolo 2, §
3.1.2.). In altre parole, l’enunciato (3c) – una presupposizione di base – non ha
condizioni di verità: e questo è semplicemente un altro modo per dire che non
può essere il contenuto proposizionale di un’asserzione (cfr. capitolo 2, §
3.2.1.). Una presupposizione di base, cioè, non è una proposizione:
Prop. 5 Absolute presuppositions are not propositions (Collingwood 1940, 1998: 33)
Ma se questo è vero, allora non ci sono premesse rispetto alle quali una
presupposizione di base può essere conseguenza e quindi una presupposizione
di base non può essere un’inferenza.
Ciò che trae in inganno in un esempio come (2) è il fatto che (2c) è una
presupposizione discorsiva: (2c) funziona come presupposizione solo
limitatamente a una pratica circoscritta. L’esempio (3) manifesta in maniera più
Quest’ultima osservazione, del resto, è precisamente una delle perplessità che induce
P. F. Strawson (Strawson 1864) a rivedere parzialmente le sue posizioni originarie.
82
150
evidente la proprietà che in (2) rimane offuscata perché siamo abituati a
pensare a (2c) come un fatto contingente e ci riesce difficile afferrarlo come
presupposizione; invece, (3c) non è altro mai che una presupposizione (cfr.
capitolo 2, § 4.2) ed esibisce stabilmente le caratteristiche che (2c) acquisisce
solo quando è usato come presupposto (magari grazie a qualche attivatore).
Tornando alla formula (α), dunque, l’attributo vero risulta predicato di due
cose delle quali non può essere predicato contemporaneamente: in particolare
non può essere predicato di (3c) perché può esserlo di (2c). L. Wittgenstein
cattura tutto questo con la proposizione 205 di Della certezza:
Se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero, né falso
(Wittgenstein 1969, 1999: 35).
2.3. Impieghi analogici di «vero» e «falso»
A questo punto, come anticipato in chiusura del § 2.1., è spontaneo
chiedersi da dove derivi l’intuizione in base alla quale – nel caso in cui non si
verifichi (2c) – saremmo disposti a chiamare (2a) «falsa» piuttosto che «vera».
La risposta è che deriva da un’analogia: da un’interpretazione metaforica.
Si immagini che Maria sia una fumatrice e che qualcuno affermi (2a).
Intuitivamente, le condizioni di verità di (2a) potrebbero essere schematizzare
così: diremmo (2a) «vera» nel caso in cui si verifichi il passaggio da uno stato
di cose p’ in cui Maria fumava abitualmente a uno p’’ in cui non fuma più;
diremmo (2a) «falsa» nel caso in cui si fosse protratto p’ senza il verificarsi di
p’’. Se questo è vero, si immagini ora che qualcuno affermi (2a) laddove Maria
non abbia mai fumato in vita sua. La domanda è: in questa situazione, (2a)
sarebbe vera o falsa?
Naturalmente, potremmo rispondere che se Maria non ha mai fumato,
il problema non si pone e la domanda è fuori luogo83. Ma immaginiamo che il
nostro interlocutore, un po’ tirannicamente, insista e dica: «sì, ma dovendo
scegliere, quell’affermazione ti sembra più ‘vera’ o più ‘falsa’?». Qui ci sono due
possibilità, a seconda che si punti l’attenzione sul verificarsi del passaggio da p’
a p’’ o sul verificarsi di p’’. Nel primo caso potremmo dire che Maria ha smesso
di fumare è falso: la ragione è che il passaggio da p’ a p’’ non è avvenuto, come
non sarebbe avvenuto qualora Maria avesse continuato a fumare. Nel secondo
caso, potremmo valutare l’affermazione Maria ha smesso di fumare come vera:
in fondo, dopo tutto, Maria non fuma esattamente come non fumerebbe se
avesse smesso. Certo, probabilmente propenderemmo per la prima risposta; ma
il punto è un altro: entrambe le interpretazioni che hanno assegnato un valore
di verità a (2a) in assenza del presupposto (2c) sono scattate per analogia
Ci si soffermi un istante sull’espressione fuori luogo (o simili). Nel capitolo 3, sub. §
3.1. abbiamo introdotto l’idea che le presupposizioni siano requisiti discorsivi. Da un lato, c’è la
relazione di presupposizione extralinguistica; dall’altro lato, questa relazione si riflette nella
lingua come requisito discorsivo che collabora alla coerenza testuale. Ora, un’espressione del
tipo questa domanda è fuori luogo include implicitamente l’idea che il presupposto violato è un
requisito testuale: fuori luogo significa infatti che la sua enunciazione è incoerente rispetto al
campo di interpretazione in cui è stata calata. Fuori luogo è cioè un’espressione che si riferisce
alla coerenza testuale. Ma se questo è vero, allora è del tutto ragionevole che di fronte a una
domanda fuori luogo (come Paolo ha smesso di fumare? quando non ha mai fumato) si possa
decidere di mettere tra parentesi la sua incoerenza testuale e tentare comunque di offrire una
risposta. E in questo caso il fatto che il requisito discorsivo sia il riflesso di una
presupposizione in rebus – cioè il fatto che ricalchi un’effettiva relazione concettuale – spinge a
rispondere no.
83
151
rispetto a quelle che si avrebbero avute in presenza del presupposto84.
A proposito dei precedenti impieghi analogici di vero e falso, si
osservino gli enunciati seguenti:
(4)
(5)
a. Il cielo non è gioioso.
b. Non si dà il caso che il cielo sia gioioso.
a. Il re di Francia non è calvo.
b. Non si dà il caso che il re di Francia sia calvo.
Tipicamente, strutture come Non si dà il caso che… vengono impiegate per
rappresentare la negazione cosiddetta «esterna» (cfr. capitolo 2, § 1.1): un po’
come se fossero formule magiche in grado di negare le presupposizioni.
Tuttavia, da un punto di vista ideativo, non c’è nessuna differenza tra gli
esempi (a) e (b). E questo a maggior ragione se osserviamo enunciati coerenti:
(6)
(7)
a. Il cielo non è luminoso.
b. Non si dà il caso che (Non è vero che) il cielo sia luminoso.
a. Il re di Spagna non è calvo.
b. Non si dà il caso che (Non è vero che) il re di Spagna sia calvo.
Da un punto di vista ideativo, la differenza riguarda non la distinzione tra gli
enunciati (a) e (b), ma tra i gruppi (4-5) e (6-7). Riprendendo la terminologia
impiegata al capitolo 2, sub. §§ 1.1. e 1.4, la predicazione funziona sul ‘vuoto’
ed è ‘astratta’ in (4-5), mentre funziona su un sostrato di modelli cognitivi ed è
‘concreta’ in (6-7). La differenza tra gli enunciati (a) e (b) non è ideativa, ma
inerente alla funzione interpersonale: la funzione di formule come Si dà il caso
che… E’ vero che… E’ accaduto che… ecc., cioè, è analoga a quella di Ti dico
che…, Sostengo che… ecc. ed sottolinea un atteggiamento proposizionale del
locutore85.
3. L’inferenza in linguistica
3.0. Introduzione
L’inferenza in linguistica gioca due ruoli distinti a cui avevamo già
accennato al capitolo 1, sub. § 3.1. Tuttavia, vale la pena di riprenderli ora più
diffusamente (sottolineature mie):
Inferencing interacts with verbal communication at two distinct levels. It can act
either outside the expression, connecting its form and meaning to an occasional
message, or inside it, taking part in drawing the network of relations that form
complex maning. Owing to the function they perform we can distinguish an external
and internal kind of inferential interpretation. Internal and external inferencing are
Per quanto riguarda l’intuizione per la quale (3c) ci sembra «vera» piuttosto che
«falsa» rimando al capitolo 2 sub. § 4.3. Ancora una volta, comunque, diciamo vero un
enunciato come (3c) in analogia rispetto al senso in cui un può esserlo uno come (3a) e (3b).
Una proposizione come (3c), insomma, non è «vera» ma assomiglia a una proposizione che è
vera. In generale, quando diciamo che una presupposizione di base è vera o quando diciamo
che una proposizione con una presupposizione frustrata è falsa, lo diciamo in analogia alle
proposizioni che realmente sono vere e false. Riapplichiamo queste categorie – le uniche
all’interno delle quali pensiamo – nel vuoto.
85
Non a caso sono tutte formule illocutivamente trasparenti.
84
152
complementary devices. The interpretation of an expression as the signal of a
message presupposes a process of decoding and, in most cases, of internal inferencing.
Like decoding, internal inferencing belongs to ideation, and is a preliminary step
towards the contextual definition of a message. The question underlying internal
inferencing is ‘What is the content of this expression?’ [cioè la stessa domanda a cui
risponde la codifica]. The question underlying external inferencing is ‘What the
speaker mean using this expression?’ [cioè la domanda delle implicature
conversazionali] […] (Prandi 2002: 36).
La presupposizione non può essere considerata né un’inferenza esterna,
né un’inferenza interna: ancora una volta, questo fatto appare in maniera
particolarmente evidente per le presupposizioni di base.
3.1. Presupposizione vs. inferenza esterna
Se dico Paolo ha bruciato il suo cane (povero cane) posso facilmente
implicare conversazionalmente o comunicare il messaggio che l’ha ucciso; ma
se dico Paolo ha bruciato la quercia non riesco ad implicare
conversazionalmente o comunicare che l’ha uccisa. Con questo enunciato posso
comunicare un numero quasi infinito di messaggi – che ha distrutto qualcosa
di antico e prezioso, che ha rovinato un parco, che è un terrorista ecologico,
ecc. – ma non quello. Il punto è: cosa chiamiamo «inferenza» e cosa
«presupposizione»?
«Inferenza» è l’abduzione che consente di passare da Paolo ha bruciato
il suo cane a l’ha ucciso e da Paolo ha bruciato la quercia a ha rovinato il parco;
la distinzione tra vegetali e animali non è inferita ma è la condizione che ha
reso possibili queste inferenze: è una presupposizione. Non afferrare il
messaggio nel primo caso – sbagliare l’inferenza – vuol dire non capire che il
locutore voleva comunicare che il cane è morto; non afferrare il messaggio nel
secondo caso – sbagliare l’inferenza – vuol dire non capire che il locutore
voleva comunicare che il parco è stato rovinato; la condizione alla quale è
possibile inferire correttamente o scorrettamente questi messaggi è la
distinzione tra vegetali e animali: questa distinzione quindi non è un’inferenza.
3.2. Presupposizione vs. inferenza interna
Consideriamo due enunciati come:
(8)
(9)
a. Andiamo a giocare a boccette con Maria.
a. Paolo è entrato in casa con le chiavi.
L’enunciato (8) può essere oggetto di un’inferenza interna che arricchisce la
preposizione con di una relazione di compartecipante:
(8)
b. Andiamo a giocare a boccette insieme a Maria.
L’arricchimento di (8a) in (8b) è un’inferenza (interna); la condizione che l’ha
resa possibile è l’idea che Maria sia una persona. Questa idea – sebbene non
codificata nell’enunciato – non è stata in alcun modo inferita, ma ha reso
possibile quell’inferenza. Questo fatto è provato dalla constatazione che di
fronte a (8a) non avremmo mai pensato di inferire un nesso strumentale: l’idea
153
che Maria sia una persona è la condizione che ha tagliato via la possibilità di
una simile inferenza. D’altra parte se forziamo una simile interpretazione su
(10a) ci rendiamo conto di considerare surrettiziamente Maria non come una
persona ma come una cosa.
L’enunciato (9a) è ancora più rivelatore perché possono essere
individuati due arricchimenti inferenziali a seconda del campo di
interpretazione (cfr. Prandi 2004: 18-26) in cui è calato:
(9)
b. E’ stato commesso un furto a casa di Maria e Paolo è il principale
sospettato. Noi sappiamo che egli, precedentemente, le aveva
sottratto le chiavi. Qualcuno ci chiede: come sarebbe riuscito Paolo a
entrare in casa di Maria?
c. Paolo ha smarrito le chiavi dell’auto. Stiamo facendo mente locale per
ricostruire dove possa averle lasciate.
L’enunciato (9a) proferito nel campo di interpretazione (9b) sarebbe arricchito
con una relazione di strumento; l’enunciato (9b) proferito nel campo di
interpretazione (11c) sarebbe invece arricchito con una relazione di unione.
Concettualmente, questi due arricchimenti inferenziali non sono slegati. Il
primo può essere pensato come una versione più complessa del secondo: uno
strumento, cioè, non è solo un oggetto che accompagna un’azione ma è un
oggetto che viene usato per compierla. Concettualmente, dunque, possiamo
pensare l’unione e lo strumento come stazioni che su una linea percorsa dal
treno dell’inferenza: sbagliare l’inferenza in (9b), ad esempio, vuol dire fermarsi
all’unione, la stazione precedente allo strumento; sbagliare l’inferenza in (9c),
invece, vuol dire scendere allo strumento, la stazione dopo l’unione. La
domanda è: a quale condizione il treno dell’inferenza può scorrere lungo il suo
binario? A quale condizione possiamo sbagliarci e scendere prima o dopo?
La risposta è: l’idea che le chiavi siano entità inanimate. Questa idea
non è certo codificata in (9a), ma non per questo è inferita: essa è invece ciò che
determina lo spazio logico delle possibili inferenze che si possono avere su
(9a)86.
Questo suggerisce, tra l’altro, che le linee che vanno dall’unione allo strumento e dalla
compagnia all’agente sono due linee diverse fondate su diverse presupposizioni: la compagnia
non è un tipo di unione arricchita.
86
154
PARTE III
Ascesa alle presupposizioni di base
I capitoli di cui si compone questa tesi possono essere pensati come un
percorso. Per i primi due (Parte I) questo percorso è lineare: dalla discussione
di due concezioni classiche della presupposizione alla presentazione di una
nuova, di ‘fondo’. Qui il cammino si biforca: un sentiero scende alle
presupposizioni discorsive, l’altro sale alle presupposizioni di base. Il primo
sentiero è stato percorso con la Parte II. Con la Parte III, invece, si ritorna al
bivio e si imbocca il secondo. La Parte III di questa tesi consta di quattro
capitoli: il capitolo 8, il capitolo 9, capitolo 10 e il capitolo 11. I primi tre
capitoli rispondono ciascuno a una domanda fondamentale riguardo alle
presupposizioni di base: quale è lo statuto ‘logico’ delle presupposizioni di
base? quale è l’ambito di funzionamento delle presupposizioni di base? come si
possono studiare le presupposizioni di base? Il quarto capitolo ha il compito di
offrire un esempio di esplorazione del territorio delle presupposizioni di base:
lungo il confine tra vegetali, cose, animali e persone.
155
CAPITOLO 8
Lo statuto ‘logico’ delle presupposizioni di base
156
Indice del capitolo
1. Il patto di ferro tra a priori e necessità
158
1.2. Esiste un nesso tra a priori e necessità?
159
1.2.1. Un modello per la nozione di a priori relativo
159
1.2.2. Verità necessaria a posteriori: decostruendo l’espressione 160
1.3. In difesa della nozione di designatore rigido
161
1.4. Presupposizione e necessità
163
2. Presupposizioni di base e giudizi sintetici a priori
164
2.0. Introduzione
164
2.1. Coppie di nozioni
165
2.1.1. Motivato vs. immotivato
165
2.1.2. Convenzionale vs. non-convenzionale
165
2.1.3. Analitico vs. sintetico
166
2.2. Distinzione tra tipi di giudizi
167
2.2.1. Giudizi a posteriori sintetici
167
2.2.3. Giudizi a priori
168
2.3. Una differenza illusoria?
169
3. Presupposizioni del suolo morale
170
3.0. Introduzione
170
3.1. Imperativi ipotetici, regole costitutive, imperativi categorici 170
3.2. Regole costitutive di giochi vs. imperativi categorici
171
3.3. Conclusioni
172
157
1. Il patto di ferro tra a priori e necessità
1.1. A priori relativo
Quale è lo statuto ‘logico’ delle presupposizioni di base? Le
presupposizioni di base sono giudizi sintetici a priori. I concetti di
presupposizione e di a priori sono legati da una naturale affinità elettiva: l’idea
di una gerarchia di presupposizioni si traduce dunque nell’idea di una gerarchia
di a priori. Se spogliamo l’immagine della rana e dell’aquila (cfr. capitolo 3) del
suo carattere metaforico, otteniamo due modi diversi di pensare i concetti di
presupposizione e a priori: binario e gerarchico. Nel primo caso, la domanda
pertinente è «il tal contenuto è un presupposto o un a priori?»; nel secondo la
domanda pertinente diventa: «rispetto a quale pratica e in quali limiti il tal
contenuto funziona come presupposto o come a priori?». Nel primo caso ci
troviamo in una concezione «assoluta» di presupposizione (o a priori); nel
secondo in una concezione «relazionale» o «funzionale»:
If the concept of a priori is defined through the concept of presupposition, the
functional and relational structure of the latter is extended to the former. While an
absolute and essential definition states that a given structure or content is in itself a
priori, a functional-relational definition states that a given structure or content holds
as a priori when it is taken as the ground for a given practice. The relevant question
about a priori is no longer: what is a priori – for instance, are the phonemes of
English, or our shared consistency criteria, kinds of a priori? – but: what holds a
priori with regard to what – for instance, do the phonemes of English hold as a priori
structures if looked from within English language? Do our shared consistency criteria
hold as a priori structures if looked at from within our form of life? (Prandi 2004:
241).
Pensare l’a priori gerarchicamente – ovvero in modo relazionale e
funzionale – consente di dissolvere un’obiezione classica contro la definizione
di presupposizione cosiddetta «logico–semantica», che riporto:
(α)
p presuppone q se e solo se:
(a)
(b)
in tutti i mondi possibili in cui è vero p, è vero anche q;
in tutti i mondi possibili in cui è vero non-p87, è vero anche q.
L’obiezione è la seguente. Se, per definizione, ciò che è vero in tutti i mondi
possibili è necessario e se tra p e non-p tertium non datur, ne consegue che
qualora q fosse una presupposizione di p sarebbe anche una verità necessaria.
Tuttavia, il fatto che Maria abbia fumato – pur essendo un presupposto di
Maria ha smesso di fumare – non è una verità necessaria ma contingente. In
una concezione relazionale di presupposizione un’obiezione del genere non
sorge neppure. La circostanza che qualcuno fumasse, infatti, è necessaria solo
relativamente alla possibilità di smettere o continuare a fumare: all’interno di
questo paradigma si tratta certamente di una verità necessaria, ma non è
necessario che lo sia anche al di fuori di esso. Si applica qui la celebre sentenza
di Epicuro: la necessità è un male ma non v’è necessità di vivere nella necessità.
La concezione relazionale di presupposizione condivide con la sua
avversaria assoluta l’idea dell’esistenza di un legame essenziale tra ciò che è a
87
Con la scrittura «non-p» intendo il contrario di p nel quadrato logico.
158
priori e ciò che è necessario: a differenza di quest’ultima, semplicemente,
relativizza quel legame all’ambito di una certa pratica. A questo punto però
sorge una questione: esiste davvero un nesso essenziale tra i concetti di a priori
e di necessità? La domanda s’impone dopo che S. Kripke (Kripke 1980, 1999)
ha argomentato contro quel nesso suggerendo la possibilità di «verità
necessarie a posteriori»88. Nei paragrafi seguenti affronterò la questione in due
passi: presenterò un esempio che funzionerà da modello intuitivo dell’idea di a
priori relazionale (sub. § 1.2.1.); applicherò a questo modello la nozione di
verità necessaria a posteriori (sub. § 1.2.2.); ne risulterà che l’espressione
«verità necessaria a posteriori» è un ossimoro, a meno che «necessaria» e «a
posteriori» abbiano un impiego divergente.
1.2. Esiste un nesso tra a priori e necessità?
1.2.1. Un modello per la nozione di a priori relativo
Un buon modo per esemplificare il concetto di a priori relativo è
descrivere le dicotomie saussuriane «sincronia vs. diacronia» e «langue vs.
parole». A questo scopo, si immagini una partita di scacchi e la si consideri da
due prospettive diverse: dal punto di vista – esterno – di uno storico che
guarda e descrive la partita; dal punto di vista – interno – di una persona
impegnata a giocare.
Dal punto di vista dello studioso, il fatto che il cavallo si muova a L è il
risultato contingente e a posteriori di una deriva storica: più in generale, il
fatto che il gioco degli scacchi abbia le regole che ha è il risultato di una serie
di eventi fortuiti o del capriccio di coloro che l’hanno inventato o perfezionato.
In tal senso, si può dire che se la storia fosse stata diversa il cavallo ora si
muoverebbe diversamente: magari in diagonale. Dal punto di vista di chi sta
giocando a scacchi, invece, il fatto che il cavallo si muova a L è una regola
costitutiva: un dato necessario e a priori che rende possibile giocare a scacchi.
E’ «necessario» perchè questa volta non ha più senso dire che le regole sono
tali a causa di una deriva storica e che avrebbero potuto essere diverse: se nel
mezzo di una partita sposto il cavallo in diagonale, infatti, non posso
giustificarmi dicendo che se la storia fosse andata diversamente il cavallo ora si
muoverebbe diversamente. Non solo, ma questa volta le regole sono anche a
priori: è chiaro che se una persona non sa giocare a scacchi deve imparare le
regole; ma sarebbe un errore concludere che, per questo, tali regole siano a
posterori. Per rendersene conto, si confronti un dilettante con un campine: la
differenza non consiste nella conoscenza delle regole del movimento dei pezzi,
ma nell’abilità ad usarli. Chi non conosce le regole degli scacchi, non è ancora
un giocatore di scacchi: né buono, né cattivo; di conseguenza, giocando si
possono imparare le strategie migliori per vincere, ma non le regole del gioco
perché quando si imparano queste ultime non si sta ancora giocando una vera
partita.
Spostandosi dagli scacchi alla lingua valgono le stesse osservazioni: la
prospettiva di chi è fuori dal gioco – dello storico – è la prospetta diacronica ed
è esplicativa; la prospettiva di chi è dentro al gioco è la prospettiva sincronica
M. Prandi (2004: 234) scrive: «Unlike formality, necessity is a necessary condition for
something to be a priori». Al che S. Kripke (1980, 1999 :278) risponderebbe: «[…] non è
affatto scontato che, proprio per il fatto di essere necessaria una […] asserzione possa essere
conosciuta a priori».
88
159
ed è descrittiva. Dal punto di vista della diacronia, il fatto che una lingua abbia
i suoni, i significati, le strutture sintattiche e morfologiche che ha è il frutto di
derive storiche accidentali e imprevedibili, che possono essere ricostruite
soltanto a posteriori. Dal punto di vista della sincronia – cioè di chi, qui e ora,
sta usando la propria lingua – quelle stesse strutture non valgono come dati
empirici e contingenti, ma come condizioni a priori che rendono possibile la
pratica e l’esercizio della parola. L’oggetto di studio della linguistica diacronica
è la lingua nella sua evoluzione storica; l’oggetto di studio della linguistica
sincronica è la lingua – che F. de Saussure chiama Langue – in quanto sistema
di condizioni a priori e necessarie che rendono possibili le mosse del gioco
della comunicazione: cioè gli impieghi concreti di un enunciato o di un lessema,
che F. de Saussure chiama actes de parole. Come scrive M. Prandi:
[…]the object of syncronic linguistic description – Saussere’s langue – is not a sort of
theoretical fiction based on a rough simplification of the rich phenomenology of
historical and sociological data, but a real object of the eiedetic order, that is, a share
system of formal presuppositions. This system is real insofar as it is practically relied
upon by users and makes speaking possible (Prandi 2004: 242).
1.2.2. «Verità necessaria a posteriori»: decostruendo l’espressione
Traducendo le osservazioni precedenti nel lessico di S. Kripke, il fatto
che il cavallo si muova a L o che l’italiano abbia le regole fonologiche che ha
sono «verità necessarie a posteriori»: «necessarie», perché nel gioco degli
scacchi o nell’italiano non può darsi una situazione diversa (in quanto si
commetterebbe un errore); «a posteriori», perché sono il frutto di una deriva
storica e si imparano con l’esperienza. Il § 1.2.1. consente di smontare
l’espressione «verità necessaria a posteriori»: l’attribuzione del primo
aggettivo avviene in una prospettiva sincronica; l’attribuzione del secondo in
una prospettiva diacronica.
L’espressione «verità necessaria a posteriori», dunque, è non
contraddittoria solo se i due aggettivi sono impiegati in modo divergente: uno
deve puntare all’interno di una certa pratica, l’altro all’esterno. Ma un impiego
divergente di «necessario» e «a priori» non esclude affatto – e anzi implica – la
possibilità di un impiego convergente: cioè non impedisce di affermare che le
precedenti verità siano «necessarie» e «a priori». «Necessarie», perché da un
punto di vista sincronico non avrebbero potuto essere altrimenti; «a priori»
perché da un punto di vista sincronico sono precondizioni alle quali possiamo
fare esperienza di una buona o cattiva partita o di un buono o cattivo impiego
della lingua. L’impiego convergente degli aggettivi «a priori» e «necessario»
nell’espressione «verità necessaria a priori», tra l’altro, garantisce la presenza
di due aspetti distinti: da un lato, non annacqua la differenza tra queste nozioni
perché ne conserva il carattere rispettivamente epistemologico e ontologico;
dall’altro lato, sottolinea il sussistere tra esse di un patto di ferro. Come
controprova, si osservi che quest’ultimo viene rispettato facendole convergere
entrambe verso l’esterno, ovvero verso la diacronia: qui «necessario» diventa
«contingente» e «a priori» diventa «a posteriori». Insomma, la nozione di
verità necessaria a posteriori nasce semplicemente dal mescolare un tratto
dell’ambito sincronico (necessario) con un tratto dell’ambiato diacronico (a
posteriori).
La differenza tra un principiante e un grande scrittore (per tornare al
parallelismo con gli scacchi) non consiste nella conoscenza delle struttre
160
lessicali, fonologiche o sintattiche dell’italiano, ma nell’abilità ad usarle. Chi
non conosce la morfologia di una lingua, non è ancora un parlante o uno
scrittore: né buono, né cattivo; di conseguenza, parlando o scrivendo si
possono imparare le strategie migliori per ottenere certi effetti comunicativi o
stilistici, ma non si imparano le regole della grammatica; e quando invece si
imparano queste ultime (ad esempio studiando una lingua straniera a scuola)
non si sta ancora usando quella lingua per vivere e comunicare davvero. Certo,
il gioco di parlare una lingua madre lo si impara giocandolo; tuttavia, la
differenza tra apprendere la propria lingua e lo studiarla (o impararne una
straniera a scuola) è che nel primo caso – e in esso soltanto – il modo di
acquisizione non consiste nell’imparare regole, ma nel comportarsi come se di
fatto già le si possedessero: cioè come se di fatto già si appartenesse ad una
certa comunità linguistica. M. de Montaigne direbbe che «le succhiamo col
latte» e L. Wittgenstein di Della Certezza direbbe che le «inghiottiamo» e non
le impariamo; ma il più preciso è Dante: la lingua materna è quella sine omni
regula nutricem imitantes accipimus. Qualcosa di analogo avverrebbe, ad
esempio, se cominciassimo a giocare a scacchi senza che nessuno ci spieghi le
regole, ma provando una sensazione sgradevole ad ogni mossa che le viola.
Per molti aspetti, la nostra situazione assomiglia a quella di pezzi di un
gioco che ignorano le proprie regole. Se fossimo scacchi, ad esempio, come ci
apparirebbero le regole del gioco? Ci sono tre possibilità che vale la pena di
menzionare. La prima è che queste regole rappresentino la fisica del nostro
mondo: in questo caso, se tentassimo di violarle proveremmo la stessa
sensazione che proviamo quando sbattiamo contro un muro. Una seconda
possibilità è che quelle regole rappresentino la grammatica della nostra lingua:
in questo caso, se le violassimo proveremmo una sensazione analoga a quella
che proverebbe un francese nel sentire qualcuno pronunciare George se souffle
le nez al posto di George se mouche. La terza possibilità è che le regole del
gioco individuino la nostra ontologia o deontologia condivisa: in questo caso,
se ne violassimo una proveremmo la sensazione che proviamo se vedessimo
qualcuno che parla alla luna o che compie un’ingiustizia, un sentimento di
straniamento (o incoerenza) e ingiustizia. Questo triplice parallelismo, per
quanto semplice, mette in relazione i limiti fisici del nostro mondo con quelli
della nostra ontologia, della nostra morale e della nostra lingua. Le rispettive
sensazioni che abbiamo infrangendo le regole di uno di questi ultimi ambiti
sono il correlato della facciata che prenderemmo se provassimo a infrangere
una regola del primo, e viceversa. Questo vuol dire che – indipendentemente
dal tipo di sensazioni in cui è radicata ciascuna grammatica (fisica, ontologica,
morale o linguistica) – il grado, la forza o la sicurezza del fondamento è
identico.
1.3. In difesa della nozione di «designatore rigido»
Le osservazioni precedenti risultano confermate dal fatto che l’idea di a
priori relazionale consente di comprendere la nozione di «designatore rigido»,
che S. Kripke impiega per sostenere il carattere necessario dei giudizi di
identità e il cui cuore teoretico è appunto la verità necessaria a posteriori. La
nozione di «designatore rigido» può essere riassunta così: i) è un fatto che
possiamo asserire con naturalezza enunciati quali Se Aristotele non avesse
conosciuto Platone, non sarebbe diventato un filosofo oppure Se Aristotele non
fosse esistito, oggi staremmo un po’ peggio; ii) è un fatto che in tutti questi casi
161
ci riferiremmo alla medesima persona indipendentemente da ciò che di lei
predichiamo; iii) dunque – una volta ‘fissato’ il riferimento del nome Aristotele
– lo impieghiamo in qualsiasi situazione (contro-fattuale o meno) facendo
affidamento sull’idea che designi sempre il referente che abbiamo appunto
‘fissato’. Nel lessico tecnico di S. Kripke, Aristotele prende il nome di
«designatore rigido»: «rigido» proprio perché, una volta agganciato il
riferimento, designa sempre quello in qualsiasi situazione possiamo
immaginare o mondo possibile.
Nella nostra prospettiva – all’interno del gioco linguistico di usare gli
enunciati sopra menzionati – il fatto che Aristotele designi la persona che
designa è necessario e a priori; tuttavia – all’esterno del gioco linguistico di
usare quel nome – il fatto che Aristotele designi la persona che designa è
contingente e a posteriori. S. Kripke – ponendosi all’interno di un particolare
gioco linguistico in cui si usa il nome Aristotele – ha perfettamente ragione a
dire che quel nome inerisce a un certo individuo necessariamente; obiettargli
che quello stesso nome può essere impiegato per indicare diverse persone o che
Aristotele avrebbe potuto chiamarsi Giorgio significa semplicemente sparare
in un luogo dove S. Kripke non si trova: cioè fuori da quel particolare gioco
linguistico in cui è usato il nome proprio Aristotele. Se passiamo dai nomi
propri a un enunciato come Maria ha smesso di fumare, la situazione è analoga:
con i termini di S. Kripke – rispetto all’impiego di tale enunciato – Maria
fumava è una verità necessaria. Chi obietta che quella presupposizione è
contingente e non necessaria si pone fuori dal gioco linguistico o dalla pratica
in cui invece quella presupposizione è tale: cioè necessaria (e a priori).
Naturalmente, in questa sede, non interessa la discussione sui nomi
propri in quanto tale ma solo nella misura in cui è utile ad illustrare il
funzionamento del concetto di a priori relazionale: ovvero, la nostra idea di
presupposizione. Per questa ragione, non sarà del tutto fuori luogo delineare
un rapidissimo confronto limitato ai nomi propri e ai nomi comuni. Un nome
proprio ha un significato non-categoriale: cioè non contiene un concetto in
grado di originare metafore1; un nome comune o anche una descrizione definita
ha un significato categoriale: cioè contiene un concetto in grado di originare
metafore. A questa differenza corrisponde una diversa funzione elettiva: quella
dei nomi propri è attribuire un’etichetta stabile a un individuo, quella dei nomi
comuni è classificare. Quando un nome proprio e un nome comune sono usati
in un atto di riferimento (ad esempio Giulietta e stella per indicare una donna)
funzionano entrambi come designatori rigidi: in entrambi i casi infatti – dopo
che ho individuato o ‘fissato’ il referente e risolto l’eventuale metafora – posso
dire in tutta naturalezza Se Giulietta non fosse stata una Capuleti… o Se la
mia stella non fosse stata una Capuleti… La differenza tra Giulietta e stella
consiste nell’ampiezza dell’ambito per il quale vale la rigidità (o la ‘fissazione’
del riferimento) e che dipende dal fatto che un nome proprio, ma non un nome
comune, attribuisce un’etichetta stabile a un individuo1. Questo vuol dire che
tra la fissazione (assai contingente) del riferimento di stella usato per indicare
qui e ora una persona, la fissazione del riferimento (meno contingente) di un
nome proprio e la ‘fissazione’ (assai meno contingente) delle regole lessicali o
fonologiche di una lingua esiste un continuum e una differenza di ampiezza o
stabilità.
Al livello più elevato e stabile, la lingua fissa storicamente le sue regole,
che per i parlanti valgono a priori e necessariamente; questo apre la possibilità
di usare nomi propri e comuni per fare riferimento. La fissazione del
riferimento dei nomi propri apre la possibilità di giocare a giochi linguistici
162
abbastanza estesi in cui essa vale a priori e necessariamente; la fissazione del
riferimento dei nomi comuni, invece, apre la possibilità di giocare a giochi
linguistici estremamente limitati (di solito a poche battute) per il breve spazio
dei quali essa comunque vale a priori e necessariamente. Il punto è l’ampiezza
della pratica fondata. Il funzionamento a priori e necessario di un nome proprio
è sì più esteso di quello di un nome comune, ma è comunque limitato. E’ quindi
senz’altro un merito di S. Kripke quello di essersi accorto del loro carattere
necessario all’interno del gioco linguistico che comincia dopo che è stato
fissato il riferimento; ma proprio per questo occorre riconoscere anche la
relatività – a quei giochi linguistici – di quel carattere necessario. Il fatto che
Aristotele si chiami Aristotele è a priori e necessario solo all’interno del gioco
linguistico in cui è fissato il suo riferimento; al suo esterno il fatto che si chiami
Aristotele è del tutto contingente: esistono certamente mondi possibili in cui
Aristotele si chiama diversamente. Questo è mostrato dalla coerenza di una
protasi come Se Aristotele non si chiamasse Aristotele… Se invece ci
spostiamo verso il confine assoluto dell’a priori (verso le presupposizioni di
base) ci rendiamo conto che qui ciò che è necessario non è relativo ad una
pratica ma a tutte; è per questo che una protasi come Se Aristotele non fosse
una persona… suona assurda: non esistono mondi possibili in cui Aristotele è
ad esempio un cactus.
1.4. Presupposizione e necessità
Le osservazioni precedenti hanno come corollario quello di spingere a
usare la nozione di presupposizione come modello per pensare la nozione di
necessità. Ma se la nozione di necessità è pensata sul modello di quella di
presupposizione, ne deriva che tra i concetti di necessità e possibilità sussiste
un salto qualitativo nel senso che è sbagliato definire l’una nei termini
dell’altra. E’ chiaro che si può immaginare un enunciato vero su una serie di
mondi possibili, ma a posteriori: si pensi, ad esempio, al caso in cui per tutta la
durata della storia dell’umanità nascessero soltanto persone disoneste. D’altra
parte, è altrettanto chiaro che un enunciato può essere vero in tutti i mondi,
ma a priori: questo è il caso, ad esempio, del fatto che le persone siano dotate di
libero. Se la necessità è definita come «verità in tutti i mondi possibili», ci
troviamo davanti a un’impasse: da un lato, i casi precedenti dovrebbero essere
considerati necessari allo stesso titolo; dall’altro lato, tuttavia, esclusivamente
il secondo cattura la nozione di necessità: il primo è solo una coincidenza
estesa su tutti i mondi possibili.
Si risponderà che la lista di questi ultimi deve essere concepita come
costitutivamente aperta e che, nel nostro esempio, l’insieme di mondi popolati
da persone disoneste non era – né poteva essere – completo. Questa idea può
essere argomentata in tre passi: i) pensare che una persona sia disonesta vuol
dire avere presente il caso in cui sia onesta; ii) ma ciò equivale a riconoscere
l’esistenza di mondi possibili in cui ci sono persone oneste; iii) questi ultimi,
dunque, devono essere aggiunti alla lista di partenza che perciò non era
esaustiva.
Una risposta del genere, tuttavia, implica proprio che la necessità non
possa essere raggiunta tramite un’estensione della possibilità: perché pensare
la possibilità significa pensare qualche mondo in cui ciò che è possibile non si
verifica e, viceversa, pensare che qualcosa sia necessario vuol dire pensare
qualcosa che si verifica in tutti i mondi ma a priori e non come estensione della
163
possibilità. Dunque, definire la necessità come un’estensione della possibilità
vuol dire catturare soltanto il caso in cui qualcosa si verifica in tutti i mondi a
posteriori e accidentalmente. E’ vero che per salvare l’idea di necessità occorre
mantenere aperta la lista dei mondi possibili; ma fare questo vuol dire
trasformare la precedente idea di necessità in qualcosa d’altro: in ciò che guida
– a priori – la generazione dei mondi possibili, ovvero in una presupposizione.
Dire che ciò che è necessario è vero in tutti i mondi possibili, invece, è come
dire che lo spazio è ciò che si trova in tutti i luoghi: ovvero che lo spazio è
l’insieme di tutti i possibili luoghi.
Il punto precedente può essere illustrato anche ragionando come segue.
Si immagini di cominciare a esplorare o stipulare, a partire dal primo, una serie
di mondi abitati da esseri umani. Facendo questo ciò che cominceremmo a
scoprire o stipulare sarebbe la presenza di persone oneste piuttosto che
disoneste, ma non che esse siano dotate di libero arbitrio. Si immagini ora di
continuare per un numero indefinito di mondi. Facendo questo, ad un certo
punto, potremmo avere alle nostre spalle tutti mondi in cui le persone sono
disoneste; tuttavia, quando si tratterà di affrontare il prossimo, si porrà
nuovamente il problema se capiterà di trovarlo o se decideremo di crearlo
come i precedenti. Invece, non si porrà mai il problema di dipingere o scoprire
il fatto che le persone siano dotate di libero arbitrio. Questo fatto è necessario e
a priori ma non è un’estensione del numero dei mondi: è ciò che ne determina il
corso. L’autentica relazione tra necessità e possibilità è dunque di
presupposizione.
2. Presupposizioni di base e giudizi sintetici a priori
2.0. Introduzione
La concezione relazionale di presupposizione contiene l’idea
dell’esistenza di un legame essenziale tra ciò che è a priori e ciò che è
necessario, ma la relativizza all’ambito di una certa pratica. Se questa pratica
coincide con l’impiego di un nome proprio o con il compimento di un atto
linguistico, troviamo le presupposizioni discorsive; se questa pratica si estende
a tutta la nostra vita, troviamo le presupposizioni di base89. Come scrive M.
Prandi (sottolineature mie):
The second advantage of the functional-relational definition is that it is ready to make
room for a a priori structures of the essential kind, if ever there are any. Looked at
from a functional.relational point of view, the essential definition of a priori structures
may simply be considered as the limit of a relational and functional definition. When
saying that some structure is a priori, in other words one imagines a sort of ultimate,
absolute a priori which is necessary in itself, with regard to any conceivable practice
(Prandi 2004 :242)
Quando la pratica fondata da una presupposizione è contingente (come l’uso di
Noel Burton-Roberts scrive: «[…] the tautologies of a language are precisely those
propositions whose truth the speakers of that language are committed to without being able to
countenance the possibility of that they may be false. Such presuppositions define the language
of which they are presuppositions; they are not and […] cannot be presented as, subject to
debate in that language; they define the ‘limits to debate’ (Burton-Roberts 1989: 27)». Qui
l’autore sta pensando alle tautologie formali (trivial presuppositions), ma la citazione si applica
benissimo – e anzi, prototipicamente – per le presupposizioni di base: tautologie concettuali.
89
164
un nome proprio o il compimento di un atto linguistico) la proposizione che
esprime quella presupposizione assume l’aspetto di un giudizio sintetico a
posteriori. Quando la pratica fondata da una presupposizione si estende a tutta
la nostra forma di vita, la proposizione che esprime quella presupposizione
assume l’aspetto di qualcosa che chiameremmo «giudizio sintetico a priori».
Per illustrare questo punto passerò attraverso tre coppie di nozioni:
«motivato vs. immotivato» (sub. § 2.1.1.); «convenzionale vs. nonconvenzionale» (sub. § 2.1.2.); «analitico vs. sintetico» (sub. § 2.1.3.).
2.1. Coppie di nozioni
2.1.1. Motivato vs. immotivato
La coppia «motivato vs. immotivato» è usata tipicamente in semiotica
distinguendo tra indici e icone da un lato e simboli: la relazione tra un indice e
il suo referente o tra un’immagine e il suo referente è motivata (da una
situazione contingente o dalla forma); la relazione tra un significante e un
significato è invece immotivata.
Più in generale si parla di relazione motivata quando è possibile una
giustificazione mediante un modello cognitivo condiviso e si parla di
giustificazione immotivata quando invece non è disponibile alcun modello
cognitivo condiviso. L’enunciato Maria fumava, ad esempio, può essere
giustificato grazie a modelli cognitivi condivisi; l’enunciato Maria è una
persona no.
2.1.2. Convenzionale vs. non-convenzionale
Qui «convenzionale» è inteso come sinonimo di «per definizione», «per
stipulazione» o «arbitrario». Una convenzione può nascere da una stipulazione
hic et nunc compiuta da un singolo, oppure essere il risultato di una complicata
deriva storica che investe una collettività. Nel linguaggio naturale, esempi
prototipici di convenzione sono l’associazione tra fono e funzione distintiva, tra
significante e significato o, più in generale, tutte le relazioni lessicali
paradigmatiche o sintagmatiche (complementarietà, contrarietà, conversità,
solidarietà). Ecco un bellissimo esempio di convenzione (non linguistica)
fornita da J. R. Searle:
Si consideri […] una tribù primitiva che inizialmente costruisce un muro intorno al
suo territorio. Il muro è un esempio di funzione imposta in virtù della pura fisica: il
muro, supporremo, è alto abbastanza per tenere fuori gli intrusi e tenere dentro i
membri della tribù. Ma supponiamo che il muro gradualmente si evolva dall’essere
barriera fisica per diventare una barriera simbolica. Si immagini che il muro
gradualmente si sgretoli in modo che la sola cosa rimasta sia una fila di pietre. Ma si
immagini che gli abitanti e i loro vicini continuino a riconoscere la fila di pietre come
ciò che demarca i confini del territorio in modo tale da influenzare il loro
comportamento. Per esempio, gli abitanti attraversano il confine solo seguendo
speciali condizioni, e gli estranei possono entrare nel territorio solo se ciò è accettabile
per gli abitanti. La fila di pietre ora ha una funzione che non viene svolta in virtù della
pura fisica, ma in virtù dell’intenzionalità collettiva [cioè: per convenzione]. (Searle
1995, 1996: 48-49).
165
Il punto centrale è che ogni convenzione – dal confine del territorio,
alla legge per cui un musulmano non può mangiare carne di maiale, alla
stipulazione di un logico – può essere guardata dai due versanti distinti sub. §
1.2.1. Dal versante della diacronia: qui può essere giustificata prospettivamente
(cioè adducendo lo scopo per il quale è stata stipulata) o retrospettivamente
(cioè ricostruendo la deriva storica che l’ha prodotta). Ad esempio: si può dire
che il confine del territorio deriva da una barriera fisica che si è sgretolata;
oppure, che i musulmani non possono mangiare carne di maiale perché nelle
zone in cui vivono risulterebbe dannoso per la salute. Ma una convenzione può
anche essere guardata dal versante della sincronia: e qui non può essere
giustificata se non circolarmente. Da questo punto di vista, per i membri della
tribù il confine non deve essere attraversato dagli stranieri semplicemente
perché non deve; e un musulmano non deve mangiare carne di maiale perché
così prescrive la sua religione: cioè, semplicemente, perché non deve. In sintesi,
una convenzione appare motivata sul versante della diacronia, ma immotivata
su quello della diacronia.
2.1.3. Analitico vs. sintetico
Basandosi sul linguaggio naturale, «analitico» varrà qui come sinonimo
di «convenzionale»:
[…] the description of formal lexical structure is entirely analitycal – it forms a set of
tautologies and equivalencies. To state that bark denotes the cry made by dogs in
English, or that essen denotes eating performed by people and fressen eating as
performed by animals in German, or that in French a fleuve flows into the sea while a
rivière flows into another river, amounts to stating tautologies, that is, propositions
which are true exclusively in virtue of the lexical structures of English, German and
French. In order to state these equivalencies, one does not have to look for evidence
or arguments – one just have to take linguistic structures as they are (Prandi 2004:
236).
Se «analitico» vale «convenzionale» e se «sintetico» è la negazione di
«analitico», allora «sintetico» significa «non convenzionale». Sennonché, a
questo punto, si apre un bivio. Una parola (ad es. vivo) può essere negata
lessicalmente (ad es. con il suo opposto morto) oppure sintatticamente (ad es.
con l’espressione non vivo). Nel primo caso, la negazione condivide i
presupposti della parola negata: sia vivo che morto, infatti, si applicano
coerentemente solo all’ambito dei viventi (di un tavolo, non posso dire è
morto). Nel secondo caso, invece, la negazione non è obbligata a condividere i
presupposti della parola negata: di un tavolo, è del tutto coerente affermare che
è non vivo. Dunque, se «sintetico» equivale a «non convenzionale», è
ragionevole aspettarsi due interpretazioni diverse: una che condivide il
presupposto di «analitico» e una che non lo condivide. Questo presupposto è il
carattere immotivato.
Accostando le osservazioni condotte sub. §§ 2.1.1. e 2.1.2. a quelle
svolte in questo paragrafo, otteniamo le definizioni seguenti:
a)
b)
c)
un enunciato sintetico a posteriori è: motivato e non convenzionale;
un enunciato analitico a priori è: immotivato e convenzionale;
un enunciato sintetico a priori è: immotivato e non convenzionale.
166
Chiedersi se esistano giudizi sintetici a priori, in ultima analisi, significa
chiedersi se esistano enunciati immotivati ma non convenzionali.
Ma se ora combiniamo questa osservazione con l’opposizione
«diacronia vs. sincronia» discussa sub. § 1.2.1, possiamo approntare tre criteri
per illustrare a) b) e c):
i)
ii)
iii)
la possibilità di giustificazione basata su un modello cognitivo
diagnostica il carattere a posteriori, contingente e motivato di un
enunciato;
l’impossibilità di giustificazione sincronica – la circolarità di un
eventuale tentativo di giustificazione – diagnostica il carattere a priori,
necessario e immotivato di un enunciato;
la possibilità di giustificazione diacronica diagnostica il carattere
relativo di un certo enunciato a priori, necessario e immotivato.
«Giudizi sintetici a posteriori» sono quelli per cui si applica i); «giudizi
analitici a priori» sono quelli ai quali si applica sia ii) che iii); «giudizi sintetici
a priori» sono quelli ai quali si applica ii) ma non iii). Esempi dei tre tipi di
giudizi sono rispettivamente:
(1)
(2)
(3)
a. Maria è triste.
a. Scapolo significa uomo adulto non sposato.
a. Maria è una persona.
2.2. Distinzione tra tipi di giudizi
2.2.1. Giudizi a posteriori sintetici
Incominciamo osservando:
(1)
a. Maria è triste.
b. Perché Maria è triste?
c. Maria è triste perché il fidanzato l’ha lasciata.
Di fronte a (1), si applica il criterio i). Dell’enunciato (1a), possiamo predicare
le seguenti proprietà strettamente connesse: è a posteriori; è motivato; è non
convenzionale; è contingente. E’ «a posteriori», perché la domanda (1b) è
sensata e può ricevere una risposta non circolare come (1c). E’ «motivato»
perché l’attribuzione del nome del predicato al soggetto avviene in base a un
modello cognitivo. E’ «non convenzionale» perché, appunto, tale attribuzione
non avviene per convenzione. E’ «contingente» perché possiamo facilmente
immaginare un caso in cui Maria sia allegra: cioè la protasi
(1)
a’. Se Maria non fosse triste…
è del tutto coerente (cfr. capitolo 2, § 3.2.1.). L’enunciato (1a) è un esempio
classico di «giudizio sintetico a posteriori». Se a questo punto si chiedesse cosa
si intenda con «enunciato sintetico» la risposta sarebbe duplice: che è motivato
e che è non convenzionale. Se qualcosa è motivato è a fortiori non
convenzionale; il senso di «sintetico» si spezza allora in due: uno debole, mero
sinonimo di «non convenzionale»; uno forte, sinonimo di «motivato». La
167
distinzione tra «non convenzionale» e «motivato» è centrale: infatti, tutto ciò
che è convenzionale è immotivato; ma non a tutto ciò che è immotivato
saremmo disposti ad attribuire l’etichetta di «convenzionale».
2.2.3. Giudizi a priori
Passiamo ora agli enunciati seguenti:
(2)
(3)
a. In italiano, «scapolo» significa un uomo adulto non sposato.
b. Perché in Italiano «scapolo» significa un uomo adulto non sposato?
a. Maria è una persona.
b. Perché Maria è una persona?
Di fronte a (2) e (3), si applica senz’altro il criterio ii). In altre parole, poste ex
abrupto a chi non sia linguista o filosofo, le domande (2b) e (3b) lascerebbero
perplessi e riceverebbero risposte circolari come le seguenti:
(2)
(3)
c. In italiano «scapolo» significa un uomo adulto non sposato perché
così stabilisce la lingua italiana.
c. Maria è una persona perché… sì.
Questo vuol dire che (2a) e (3a) – a differenza di (1a) – non possono essere
giustificati: più precisamente, non possono essere giustificati in una prospettiva
«sincronica». Di conseguenza, agli enunciati (2a) e (3a), possono essere
attribuite le seguenti proprietà interconnesse: sono a priori; sono immotivati;
sono necessari. Sono a priori perché non possono essere giustificati se non
circolarmente. Sono «immotivati» perché l’attribuzione del predicato al
soggetto non è basata su un modello cognitivo condiviso. Sono «necessari»:
l’uno lo è limitatamente alla pratica di parlare italiano, l’altro per tutta la
nostra forma di vita. A questo proposito, si osservino le rispettive protasi:
(2)
(3)
a’. Se «scapolo» avesse un significato diverso…
a’. *Se Maria non fosse una persona…
Il fatto che (3a’) sia assurdo mostra che (3a) è necessario tout court (cfr.
capitolo 2, § 3.2.1.); il fatto che sia sensato pensare che la storia della lingua
poteva procedere in accordo con (2a’) prova che (2a), al di fuori della pratica di
parlare italiano, è contingente; il fatto che, all’interno della pratica di parlare
italiano, (2a’) diventi assurdo come (3a’) prova che, all’interno di questa pratica,
(2a) è necessario come (3a).
Gli enunciati (2a) e (3a) differiscono relativamente al criterio iii). Per
(2a) è senz’altro possibile una giustificazione in prospettiva «diacronica»; in tal
caso, la domanda (2b) diventerebbe sensata e riceverebbe una risposta come:
(2)
d. In italiano «scapolo» significa un uomo adulto non sposato a causa di
queste e queste altre ragioni storico-etimologiche.
Al contrario, per (3a) non è disponibile alcuna scappatoia di giustificazione
diacronica e la domanda (3b) suona inevitabilmente assurda. La differenza
precedente implica che c’è una proprietà che saremmo disposti ad attribuire a
(2a) ma non a (3a): saremmo cioè disposti a dire che il carattere immotivato di
168
(2a) dipende da una convenzione, mentre in nessun senso saremmo disposti a
dire che (3a) – che pur ci risulta immotivato – sia il frutto di una qualche
convenzione. L’enunciato (2a) è un classico esempio di giudizio analitico:
intuitivamente, è proprio quel carattere convenzionale che catturiamo
chiamandolo «analitico». Ma se (2a) è analitico perché convenzionale, come
caratterizzare (3a) che convenzionale non è e che tuttavia è immotivato? Il
modo più spontaneo è considerarlo «sintetico» nel senso debole individuato
per (1a): cioè, appunto, immotivato ma non-convenzionale.
E’ importante cogliere il senso in cui sia (1a) che (3a) sono nonconvenzionali senza cancellarne la differenza. L’enunciato (1a) è motivato: è a
posteriori, è contingente e perciò è non-convenzionale a fortiori. L’enunciato
(3a), invece, è immotivato come (2a) e quindi è a priori e necessario; tuttavia,
mentre in (2a) sentiamo il sapore della convenzione ciò non si verifica in (3a)
perché quest’ultimo si trova nella situazione speciale di essere immotivato ma
non-convenzionale. E perché si trova in questa speciale situazione? Perché (3a)
individua un limite estremo dell’a priori: una presupposizione di base.
2.3. Una differenza illusoria?
Il regno dell’a priori – l’idea di a priori relazionale – può essere
paragonato alle sfere celesti. Se facciamo questo, la differenza tra l’analitico
(convenzionale) e il sintetico (non-convenzionale) dipende dall’ampiezza del
cielo in cui ci troviamo.
Quando siamo in un cielo dal quale possiamo uscire in uno più grande,
abbiamo l’impressione dell’analitico e del convenzionale perché riusciamo a
vedere entrambi i lati della necessità: al di qua – in una prospettiva sincronica
– dove una certa proposizione è a priori e necessaria; al di là – in una
prospettiva diacronica – dove invece è a posteriori e contingente. Come
abbiamo visto, infatti, un enunciato analitico può essere giustificato
diacronicamente: prospettivamente (adducendo lo scopo della scelta di una
particolare stipulazione), o retrospettivamente (ricostruendo una particolare
deriva storica come nel nostro caso); fare questo – ad esempio rispondere a (2b)
con (2d) – vuol dire strappare all’enunciato le vesti analitiche a priori e fargli
indossare quelle sintetiche a posteriori.
Ma quando arriviamo al nostro ultimo cielo, non possiamo più
guardare oltre e restiamo vincolati in un’ottica sincronica: vediamo sì che una
certa proposizione è a priori e necessaria, ma non riusciamo più vederla anche
come a posteriori e contingente. Non riusciamo più a guardare da entrambi i
lati della necessità esattamente come non si può guardare oltre il proprio
campo visivo: allora cade l’impressione dell’analitico e del convenzionale e
ritorna quella del sintetico e del non-convenzionale; ma, questa volta, un
sintetico (o non convenzionale) a priori.
La differenza tra analitico e sintetico è dunque relativa all’osservatore,
ma non per questo illusoria. Se fossimo Dio, la proposizione Maria è una
persona ci sembrerebbe convenzionale (analitica) come ci sembra
convenzionale (analitica) una qualsiasi nostra stipulazione o anche la
proposizione In italiano il plurale degli aggettivi maschili della prima classe si
fa in “i”; se fossimo pezzi degli scacchi, la proposizione Il cavallo muove ad L ci
sembrerebbe non-convenzionale (sintetica) come ora ci sembra nonconvenzionale (sintetica) Maria è una persona. Ma è certo che noi non siamo
né Dio, né pezzi degli scacchi.
169
3. Presupposizioni del suolo morale
3.0. Introduzione
L’esempio di giudizio sintetico a priori – o presupposizione di base –
sopra addotto era Maria è una persona: cioè, in ultima analisi, la distinzione tra
persone e cose. Questa distinzione può essere considerata una risposta
possibile alla domanda «che tipo di entità ci sono?» calata in ambito ontico: ad
esempio, «ci sono eventi e azioni», «ci sono esseri animati e inanimati», «ci
sono «persone e cose». Ora, invece, desidero offrire un esempio di giudizio
sintetico a priori – o presupposizione di base – morale: la ragione è che questo
tipo di presupposizione illustra bene il suo carattere non-convenzionale.
Esistono presupposizioni di base che rispondono alla domanda «che tipo di
entità ci sono» calata in ambito non ontico, ma deontico?
Ecco tre esempi paralleli a (1a), (2a) e (3a):
(4)
(5)
(6)
a. Non si deve usare il coltello per mangiare la minestra.
a. Non si deve muovere il cavallo in diagonale.
a. Non si deve uccidere il prossimo.
L’enunciato (4a) è un imperativo ipotetico ed è sintetico a posteriori;
l’enunciato (5a) è una regola eiedetico-costitutiva del gioco degli scacchi ed è
un analitico a priori; l’enunciato (6a) è un imperativo categorico ed è sintetico a
priori (o, se si preferisce, una regola eiedetico-costitutiva della nostra morale).
3.1. Imperativi ipotetici, regole costitutive, imperativi categorici
Si cominci confrontando (1b-c) con (4b-c):
(4)
b. Perché non si deve usare il coltello per mangiare la minestra?
c. Non si deve usare il coltello per mangiare la minestra perché la sua
forma non è adatta.
Per (4a) si applica il criterio i) definito sub. § 2.1.3.. Di conseguenza,
analogamente a (1a), (4a) è a posteriori, contingente, motivato e nonconvenzionale: gli imperativi ipotetici sono enunciati sintetici a posteriori.
Si confrontino ora (2b-c) e (3b-c) con (5b-c) e (6b-c):
(5)
(6)
b. Perché non si deve muovere il cavallo in diagonale?
c. Non si deve muovere il cavallo in diagonale perché così è stabilito
nel gioco degli scacchi.
b. Perché non si deve uccidere il prossimo?
c. Non si deve uccidere il prossimo perché è male.
Come si vede, per (5a) e (6a) si applica il criterio ii) di § 2.1.3. Di conseguenza,
analogamente a (2a) e (3a), (5a) e (6a) sono a priori, immotivati e necessari.
Resta da stabilire se (6a) – come (3a) – sia anche sintetico.
Supponiamo per un istante che sia così. In questa ipotesi, la
proposizione non si deve uccidere il prossimo è strutturalmente identica alla
170
proposizione Maria è una persona. Da un punto di vista teorico, tentare di
trovare ragioni pro o contro (6a) sarebbe tanto sensato quanto farlo per (3a)
queste ultime; da un punto di vista pratico, invece, per noi risulta
particolarmente importante cercare ragioni a favore di (6a) ma in genere non
abbiamo particolare interesse a giustificare cose come (3a). Se accettiamo il
parallelismo tra (3a) e (6a), insomma, un imperativo categorico è un giudizio
sintetico a priori, ovvero una presupposizione di base: di una base non ontica,
ma deontica. Ma è proprio così? Sì.
3.2. Regole costitutive di giochi vs. imperativi categorici
Il parallelismo tra (6a) e (3a) è vincolato alla circostanza che fra (6a) e
(5a) sussista la medesima differenza che sussiste tra (3a) e (2a): cioè che (5a)
come (2a) possa essere giustificata diacronicamente, ma (6a) come (3a) non
possa esserlo. E’ a questo punto che può sorgere un’obiezione: infatti,
apparentemente, di fronte a (6b) si può rispondere non solo qualcosa come (6c)
ma anche come (6d):
(6)
d. Non si deve uccidere il prossimo perché altrimenti ne deriverebbe un
danno sociale.
Ma (6d) non è forse una giustificazione sintetica e a posteriori di (6a)? Se
questo fosse vero, secondo i criteri ii) e iii) di § 2.1.3, (6a) sarebbe un enunciato
non sintetico a priori bensì analitico a priori: come (5a), che in effetti può
essere giustificato diacronicamente con (5d)
(5)
d. Il cavallo si muove in diagonale perché così ha deciso l’inventore
degli scacchi.
L’obiezione precedente, tuttavia, è sbagliata. Fermo restando che (5a) e
(6a) sono a priori, immotivate (sincronicamente) e necessarie, il confronto tra
(6d) e (5d) rileva proprio il carattere non convenzionale e quindi sintetico di
(6d) in opposizione al carattere convenzionale e quindi analitico di (5a). E ciò
grazie al fatto che qui entra in gioco non solo un vincolo cognitivo, ma una
sensazione. Per illustrare quello che intendo, si confrontino gli enunciati
seguenti:
(5)
(6)
e. Se l’inventore degli scacchi avesse deciso altrimenti, il cavallo si
muoverebbe diversamente?
e. Se uccidendo qualcuno producessimo un qualche vantaggio sociale,
sarebbe bene uccidere?
L’enunciato (5e) riceverebbe una risposta banalmente positiva, ma di fronte a
(6e) percepiremmo una resistenza. Chi sostiene (6d) non può evitare di provare
un sentimento di repellenza nei confronti di (6e): da un lato, vede che lo stesso
ragionamento alla base di (6d) lo costringe a rispondere positivamente a (6e);
dall’altro lato, sente che non è disposto ad accettare questa risposta. L’errore è
nel ragionamento, non nella sensazione. In un passo de I fratelli Karamazov
questa idea è presentata suggestivamente: se la morte di un bambino servisse a
guadagnare la salvezza del mondo chi oserebbe ucciderlo? Oppure, più
prosaicamente: se l’uccisione di una persona comportasse la salvezza di due,
171
sarebbe giusto ucciderla? Naturalmente, si può essere costretti a farlo, ma non
si può evitare l’idea di aver commesso qualcosa di male: cioè un atto incoerente
rispetto alla nostra ontologia morale presupposta. La considerazione che
talvolta – de facto – possiamo trovarci nell’impossibilità di non violare una
legge morale non è un’obiezione contro l’esistenza – de jure – di questa legge,
ma una prova della sua esistenza.
Gli enunciati (5d) e (5e) sono banali: questo vuol dire che non abbiamo
alcun problema a fornire giustificazioni diacroniche per (5a) o a immaginare un
corso diverso degli eventi: la regola costitutiva (5a) è quindi analitica a priori
come la relazione lessicale (2a). Gli enunciati (6d) e (6e), invece, ci mettono in
imbarazzo: questo vuol dire che – a meno di non sospendere il nostro senso
comune e di guardare da una prospettiva totalmente astratta – ci rifiutiamo di
fornire giustificazioni diacroniche per (6a) o di immaginare concretamente una
situazione alternativa: l’imperativo categorico (6a) è dunque un giudizio
sintetico a priori o una presupposizione di base come (3a).
La differenza tra una presupposizione degli scacchi e una
presupposizione del suolo morale è semplicemente che la prima costituisce un
gioco dal quale posso uscire, ma la seconda no: posso smettere di giocare a
scacchi e quando non gioco posso discutere le regole alle quali si gioca a
scacchi; ma non posso smettere di (o cominciare a) essere una persona e quindi
non posso discutere le regole alle quali si è una persona.
3.3. Conclusioni
Le osservazioni precedenti sono ulteriormente confermate osservando
le seguenti protasi:
(5)
(6)
a’. Se il cavallo si muovesse in diagonale, …
a’. Se uccidere fosse bene, … / Se essere onesti fosse male, …
Mentre (5a’) è sensata come (2a’), (6a’) come (3a’) non lo è. Questo vuol dire
che esistono mondi possibili in cui il cavallo si muove in diagonale e altri in cui
si muove a L; mentre non esistono mondi possibili – non riusciamo a
concretamente a pensarli (cioè a separarli dal loro carattere aberrante) – in cui
è bene uccidere o è male essere onesti.
Da un punto di vista storico, è innegabile che le leggi morali (alcune, in
effetti) mutino nel tempo: esattamente come le lingue. Tuttavia, come sarebbe
assurdo non parlare la nostra lingua perché una volta era diversa o perché tra
qualche secolo lo sarà sicuramente, così è assurdo pensare che le leggi morali
che oggi sentiamo valide non lo siano perché una volta non lo erano e in futuro
non lo saranno più. Considerare ciò un motivo per rifiutare le nostre
sensazioni morali è analogo a considerare il fatto che una volta si parlava
Latino come un motivo per rifiutare oggi la grammatica dell’Italiano. Se non
seguo le regole della grammatica dell’Italiano attuale – ad esempio non
accordo il verbo con il soggetto – sento che sbaglio; se oggi tratto una persona
come uno schiavo non posso fare a meno di sentire che sbaglio. Questa
sensazione è precisamente il rifiuto di accedere ad una dimensione diacronica o
storica che mostra come tocchiamo un limite del nostro campo visivo: campo
visivo, questa volta, morale. Il fatto che desti così scandalo il mutamento della
grammatica morale mentre passi quasi inosservato quello della lingua è una
prova della diversa ampiezza delle presupposizioni in gioco: noi facciamo
172
affidamento sulla prima come su un insieme di presupposti molto più
fondamentali, universali – e in una parola «importanti» – della seconda.
173
CAPITOLO 9
L’ambito di funzionamento delle presupposizioni di base
174
Indice del capitolo
1. Il dominio delle presupposizioni di base
1.0. Introduzione
1.1. La predicazione indiretta
1.1.1. La predicazione indiretta nelle azioni
1.1.2. La predicazione indiretta nella lingua
1.2. Presupposizioni di base vs. lessico e modelli cognitivi
1.2.0. Introduzione
1.2.1. Ex negativo: disattivazione di un modello cognitivo
1.2.2. Ex positivo: attivazione di un modello cognitivo
1.3. Tre conseguenze
2. La negazione
2.1. La negazione sintattica in enunciati coerenti
2.2. La negazione sintattica in enunciati incoerenti
2.3. What is a negative proposition?
3. Tre presupposizioni di base
3.0. Introduzione
3.1. La distinzione «organico vs. inorganico»
3.2. La distinzione «persone vs. animali»
3.2.0. Introduzione
3.2.1. Opacità referenziale: credenze condivise
3.2.2. Opacità referenziale: presupposizioni di base
3.2.3. Categorizzazione incrociata
3.3. La distinzione «persone vs. cose»
3.4. La lessicologia generativa alla luce della filosofia
176
176
176
176
177
179
179
179
181
181
182
182
183
185
187
188
188
190
190
190
191
191
193
194
175
1. Il dominio delle presupposizioni di base
1.0. Introduzione
Se questo fosse un trattato di teologia, il capitolo 4 avrebbe presentato
gli attributi delle divinità: le presupposizioni di base sono giudizi sintetici a
priori. A questo punto, allora, occorrerebbe dire qualcosa del luogo ove si
collocano queste divinità: fuor di metafora, l’ambito di funzionamento delle
presupposizioni di base. Il primo passo in questa direzione è chiarire un punto
in sospeso del capitolo 2.
Al capitolo 2, sub. § 2, si era sottolineato il nesso tra presupposizioni di
base e criteri di selezione: le condizioni di coerenza degli enunciati riflettono
cioè le condizioni di coerenza dei processi extralinguistici ideati da quegli
enunciati. La domanda in sospeso è: come si ha questa corrispondenza? La
risposta è fornita dalla nozione di predicazione indiretta, che illustrerò sub. §
1.1..
1.1. La predicazione indiretta
1.1.1. La predicazione indiretta nelle azioni
Immaginiamo un boscaiolo che cerchi di consolare un abete del fatto
che sarà abbattuto. Di fronte a una scena del genere, non ci metteremmo a
valutare se il boscaiolo usi argomenti più o meno convincenti, ma lo
considereremmo semplicemente un pazzo. E la ragione è che troveremmo il
suo comportamento incoerente rispetto a un presupposto fondamentale: gli
alberi non sono persone. Questo vuol dire che l’azione del boscaiolo di
consolare l’abete esibisce una predicazione conflittuale che potremmo
sintetizzare così: «l’albero è una persona».
Tutte le nostre azioni esibiscono una predicazione. Se uso un libro di
grammatica per leggerlo esibisco la predicazione coerente «il libro di
grammatica è un libro», se lo uso per fermare un tavolo che traballa esibisco
una predicazione conflittuale come «il libro di grammatica è un mattone»; se
uso un cannone per fare la guerra esibisco la predicazione coerente «il cannone
è un’arma», se lo uso per contenere dei fiori, esibisco la predicazione
conflittuale «il cannone è un vaso di fiori». Intuitivamente, queste predicazioni
non sono ciò che è compiuto con le azioni, ma ciò che è mostrato da esse: se
uso un libro per fermare il tavolo «fermare il tavolo» è ciò che faccio, «che il
libro non è un libro ma un mattone» è ciò che mostro usando il libro in quel
modo. Chiameremo le predicazioni precedenti «predicazioni indirette».
Un esempio aulico di predicazione indiretta è offerto da M. Heidegger
in un famoso passo della conferenza La questione della tecnica (sottolineature
mie):
La centrale elettrica è impiantata (gestellt) nelle acque del Reno. Questo è richiesto a
fornire la pressione idrica che mette all’opera le turbine perché girino e così spingano
quella macchina il cui movimento produce la corrente elettrica che la centrale di un
certo distretto e la sua rete sono impiegati a produrre per soddisfare la richiesta di
energie. Nell’ambito di questo successivo concatenarsi dell’impiego dell’energia
elettrica anche il Reno appare come qualcosa di impiegato (bestellte). La centrale
elettrica non è costruita sul Reno come l’antico ponte di legno che da secoli unisce una
riva all’altra. Qui è il fiume, invece, che è incorporato nella costruzione della centrale.
176
Esso è ciò che ora, come fiume, è, cioè produttore di forza idrica, in base all’essere
della centrale. […] Si obietterà che il Reno rimane pur sempre il fiume di quella
regione. Può darsi, ma come? Solo come oggetto che può essere ‘impiegabile’ per le
escursioni organizzate da una società di viaggio che vi ha messo su (bestellt)
un’industria di vacanze (Heidegger 1954)
Nella citazione precedente, la centrale elettrica, col suo funzionamento,
esibisce una predicazione indiretta del tipo «il fiume è una riserva di energia
impiegabile»: studiare fenomenologicamente il ‘senso’ della tecnica significa
ricostruire in dettaglio il predicato nominale di quella predicazione.
Esempi banali di predicazione indiretta sono locuzioni quali «mi tratti
come un’estranea» o «mi tratti come una principessa»: se un marito si rivolge
alla moglie con superbia, esibisce la predicazione indiretta conflittuale «mia
moglie è una serva»; se si rivolge a sua moglie con tono formale e
atteggiamento distaccato, esibisce la predicazione indiretta conflittuale «mia
moglie è un’estranea». La differenza tra questi esempi e quello del boscaiolo
riguarda soltanto il livello al quale si colloca la predicazione indiretta: se con le
mie azioni categorizzo – cioè tratto – mia moglie come una serva rimango
comunque all’interno della distinzione più fondamentale tra persone e cose;
invece, se con le mie azioni categorizzo – cioè tratto – un albero come una
persona, taglio una delle dicotomie che costruiscono il fondale della nostra
forma di vita.
Si noti, per inciso, come al variare del livello al quale si colloca la
predicazione indiretta corrispondano diverse reazioni emotive. Se un marito
tratta la moglie come una serva, le manca di rispetto e la sua azione suscita
indignazione; ma se la tratta come un pezzo di legno (ad esempio segandola e
gettandola nel camino), sarebbe fuori luogo dire che le manchi di rispetto o che
la offenda: questa volta, il suo atto non suscita indignazione ma orrore. Questa
differenza non dipende dal fatto che gli ultimi atti siano collocati all’estremo di
un continuum su cui sono collocati anche i primi; quella differenza, al
contrario, è determinata dal livello al quale si colloca il conflitto esibito dalla
predicazione indiretta: nel primo caso, i nostri modelli cognitivi condivisi,
nell’altro le presupposizioni di base. Capire quello che si sta facendo con le
proprie azioni significa ricostruire le predicazioni indirette esibite.
1.1.2. La predicazione indiretta nella lingua
Invece di considerare un boscaiolo che consola un albero, si consideri
ora la frase che descrive tale azione:
(0)
a. Il boscaiolo consola l’abete.
La frase (0a) esibisce la medesima predicazione indiretta dell’azione che
descrive: dice che il boscaiolo cerca di consolare un abete e mostra che il
boscaiolo tratta l’abete come se fosse una persona. Seguendo l’analisi degli
enunciati metaforici che M. Prandi sviluppa in The building blocks of
meaning, possiamo analizzare (0a) così:
(0)
a. Il boscaiolo consola [che richiede una persona in posizione di
oggetto diretto] l’abete [che è un albero].
b. Un albero è una persona.
177
La proposizione (0b) – che sintetizza il contenuto delle parentesi quadre – è la
predicazione indiretta incoerente sia dell’enunciato (0a), sia dell’azione di
parlare all’abete. Chi asserisce (0a) compie una metafora linguistica, chi si
comporta come il boscaiolo compie una metafora pratica: l’incoerenza della
predicazione indiretta si manifesta in un caso nella lingua e nell’altro nella
pratica. In sintesi: se vediamo un uomo che si sforza di consolare un pino, lo
consideriamo folle; se leggiamo l’enunciato il boscaiolo consola il pino lo
consideriamo incoerente; il ponte tra questi due piani – la ragione del loro
parallelismo – è il concetto di predicazione indiretta.
Se una frase e un’azione condividono la medesima predicazione
indiretta, allora la frase è un modello dell’azione nel senso che le condizioni di
coerenza della seconda sono misura di quelle della prima: analizzare il
significato di (0a), ad esempio, coincide con l’analizzare i modi di aggirare o
affrontare il conflitto esibito da (0b) e questo equivale a studiare che cosa possa
essere l’azione di consolare un abete. Certo, studiare che cosa voglia dire
trattare un abete come una persona non è molto importante; tuttavia, può
esserlo cercare di capire cosa voglia dire trattare un monumento come un
libro, un atomo come un sistema solare o la luce come un liquido: cioè cercare
di trovare una possibile soluzione al conflitto esibito dalle predicazioni
indirette di queste azioni (il monumento è un libro, l’atomo è un sistema solare,
la luce è un liquido). Nelle scienze umane e naturali, infatti, queste predicazioni
sono state risolte producendo concetti che ora sono alla base delle nostre
conoscenze condivise: l’idea di un monumento come un documento da
interpretare, l’idea che l’atomo abbia una serie di orbite di elettroni intorno ad
un protone, l’idea che esistano onde luminose.
Si confronti (0a-b) con:
(0)
c. L’archeologo lesse [che richiede un libro in posizione di oggetto
diretto] il tempio [che è un edificio].
d. Un edificio è un libro
Il conflitto della predicazione indiretta (0b) riguardava la distinzione tra
persone e cose; il conflitto della predicazione indiretta (0d) riguarda la
classificazione di un artefatto (un edificio) come un altro artefatto (un libro): in
(0d), quindi, il conflitto è circoscritto all’interno dell’ambito delle cose e
presuppone la distinzione tra persone e cose violata in (0b). Il conflitto di (0b) è
tipico del discorso poetico o letterario lato sensu: che non deve sottostare ad
alcun vincolo di coerenza; il conflitto di (0d) è tipico non solo del discorso
‘letterario’, ma anche di quello ‘scientifico’. La metafora esemplificata in (0c) –
collocata all’interno dei limiti violati da (0a) – è alla base della creatività
scientifica: in effetti, se consideriamo concetti metaforici come quello di
rivoluzioni scientifiche (Kuhn) o quello dell’atomo come sistema solare (Bohr)
o quello del verbo come lessema dotato di valenza o, per restare ancora in
ambito linguistico, quello del processo come dramma teatrale (Tesnière) ci
accorgiamo che sono tutti nati da interazioni tra reti di concetti basate su
conflitti che non vertono sulle distinzioni fondamentali (come quella tra
persone e cose), ma poggiano su di esse senza violarle.
Le osservazioni precedenti non devono trarre in inganno. E’ chiaro che
un conflitto come quello esibito da (0c) può essere presente non solo in un
discorso scientifico, ma anche in un discorso letterario. Questo vuol dire che le
proprietà che indichiamo con gli aggettivi «letterario» o «scientifico» non
hanno a che fare con caratteristiche strutturali degli enunciati, ma riguardano
178
il fine per cui li impieghiamo: intrattenere un pubblico piuttosto che fare
un’ipotesi sulla realtà. Decidere di impiegare le parole al fine della coerenza –
cioè per fare un’ipotesi scientifica – costringe semplicemente a sottostare a un
vincolo: che non consiste nel rifiuto del conflitto tout court, ma nella
condizione di collocarlo sempre all’interno della coerenza delle presupposizioni
di ordine più generale. Per questa ragione, se posso usare l’idea della luce come
onde per fare un’ipotesi fisica, è più difficile che possa usare quella della luce
come sorriso della natura; e l’unica condizione alla quale posso farlo è adattare
l’idea di sorriso alla luce e rientrare quindi all’interno della coerenza delle
presupposizioni di base. La stessa cosa si applica per una metafora come quella
della felicità di un atto linguistico: certo che posso impiegarla scientificamente,
ma nel farlo non umanizzo un atto linguistico bensì adatto l’idea di felicità a
quella di atto linguistico e mi ricolloco nell’ambito della coerenza delle
presupposizioni di base.
1.2. Presupposizioni di base vs. lessico e modelli cognitivi
1.2.0. Introduzione
La nozione di predicazione indiretta consente di circoscrivere l’ambito
di funzionamento delle presupposizioni di base, in opposizione ai modelli
cognitivi e alle relazioni lessicali. Al capitolo 1, sub. § 3.3.2., si era criticata la
nozione ‘discarica’ del contesto sottolineando come al suo interno occorre
distinguere i consistency criteria (le presupposizioni di base) dai shared
cognitive models o encyclopaedic information. Ora vedremo, in concreto, come
questo possa essere fatto. Procederò in due direzioni.
Ex negativo (sub. § 1.2.1): lungo questa direzione, suggerirò che una
presupposizione di base è in grado di disattivare un modello cognitivo e a
fortiori una relazione lessicale; l’espressione «a fortiori» è dovuta al fatto che le
relazioni lessicali prima che sulla coerenza delle presupposizioni di base
poggiano sui modelli cognitivi. Ex positivo (sub. § 1.2.2.): lungo quest’altra
direzione, suggerirà che una presupposizione di base è in grado di attivare un
modello cognitivo. L’idea di fondo è che se una presupposizione di base è in
grado di attivare e disattivare un modello cognitivo o una relazione lessicale,
allora deve essere tenuta distinta da entrambe.
Ne emergerà il carattere gerarchicamente ordinato di presupposizioni
di base, modelli cognitivi condivisi e relazioni lessicali: più precisamente, le
distinzioni lessicali si applicano su modelli cognitivi condivisi e i modelli
cognitivi si fondano sulle presupposizioni di base delle quali presuppongono la
coerenza.
1.2.1. Ex negativo: disattivazione di un modello cognitivo
Si considerino gli esempi seguenti:
(1)
(2)
a. Il cavallo «frinisce».
b. Il cavallo non «frinisce», ma «nitrisce».
a. Un pesce cammina.
b. Un pesce non cammina, ma nuota.
179
In (1a), la predicazione estrae un lessema inappropriato all’interno del campo
semantico che organizza i versi degli animali in italiano: chi asserisce (1a) usa
la parola sbagliata e infatti, come mostra (1b), il lessico offre immediatamente
il sostituto corretto. Qui è violata una solidarietà lessicale. In (2a), la
predicazione estrae un elemento inappropriato all’interno del paradigma delle
azioni degli animali: chi asserisce (2a) dice qualcosa di falso e questa volta,
come mostra (2b), il sostituto corretto è offerto da un modello cognitivo
condiviso. Qui è violata una conoscenza enciclopedica. Sia in (1a) che in (2a), si
verifica un errore all’interno di un paradigma (lessicale o cognitivo) che offre le
alternative corrette e per il quale è sensato chiedersi:
(1)
(2)
c. Come si dice in italiano il verso del cavallo?
c. Quale è l’azione tipica di un pesce?
Le domande (c) e le relative risposte (a) e (b) – corrette o scorrette –
condividono le medesime predicazioni indirette coerenti:
(1)
(2)
d. Un cavallo è un animale (nella fattispecie capace di emettere suoni
comunicativi.
d. Un pesce è un animale (nella fattispecie capace di movimento).
Si consideri ora la coppia seguente:
(3)
a. *L’albero frinisce.
b. L’albero non frinisce, ma … Ø
In (3a), l’asterisco segnala un conflitto prodotto dal fatto che – grazie alla
categoria di soggetto – l’albero non è un albero, ma un’entità animata. Più
precisamente, (3a) esibisce la predicazione indiretta incoerente:
(3)
c. L’albero è una cicala.
L’enunciato (3c) esplicita un conflitto inerente alla distinzione tra esseri
animati e inanimati. Come mostra (3b), non viene suggerito alcun sostituto
corretto perché il campo semantico dei suoni comunicativi di animali attivo in
(1a) è disattivato; ed è disattivato perché agli alberi – in quanto entità
inanimate – non è concesso emettere alcun tipo di suono comunicativo. Per
questa ragione, anche la domanda:
(3)
d. *Quale è il verso tipico degli alberi?
è insensata.
Ciò che fonda il campo semantico dei versi degli animali e il modello
cognitivo che organizza le loro azioni – cioè la condizione per la quale
funzionano le correzioni (1b) e (2b) o per cui le domande (1c) e (2c) hanno una
risposta e, viceversa, la condizione per cui in (3b) la correzione è bloccata e la
domanda (3c) non ha risposta – è precisamente la distinzione «esseri animati
vs. inanimati»: ovvero l’idea che solo ai primi sia concesso emettere suoni
comunicativi o compiere azioni. Quest’idea, quindi, deve essere considerata non
una conoscenza enciclopedica o un modello cognitivo, ma qualcosa di diverso:
una presupposizione di base.
Di fronte all’esempio (3b), si può obiettare con l’enunciato seguente:
180
(3)
e.
L’albero non frinisce, ma stormisce.
L’enunciato (3e) non presenta forse un potenziale sostituto di frinire? Certo,
ma la domanda è: a quali condizioni è possibile considerare stormire un
sostituto di frinire? Di fronte a un enunciato come (3e) – che sostituisce il
verso di animale con un rumore prodotto da un’entità inanimata – si aprono
due strade interpretative. Da un lato, possiamo retro-categorizzare il frinire da
suono comunicativo prodotto da un essere vivente a mero rumore fisico (come
lo stormire): questa sarebbe verosimilmente la lettura sollecitata. Dall’altro
lato, possiamo sovra-categorizzare lo stormire considerandolo alla stregua di
un suono comunicativo prodotto da un essere (come il frinire): questa sarebbe
una lettura ammessa in cui l’albero risulterebbe animato. In entrambi i casi, la
condizione alla quale l’operazione cognitiva di sostituzione ha potuto
funzionare è che gli elementi in gioco si collochino all’interno della stessa
categoria ontologica: cioè siano entrambi considerati o in quanto meri rumori
(prima strada) o in quanto suoni comunicativi (seconda strada). Del resto non
ci sarebbe modo migliore per confondere le idee a un bambino che dirgli (3e).
Insomma, inserendo un ma-sostitutivo tra due enunciati p e q, la prima
cosa che accade – e che precede l’imposizione del contenuto codificato – è
l’assunzione di p e q in quanto appartenenti a un qualche modello cognitivo
comune (sul quale appunto opera la sostituzione) e quindi la coerenza delle
presupposizioni che lo fondano.
1.2.2. Ex positivo: attivazione di un modello cognitivo
La necessità di attribuire alla distinzione «esseri animati vs. inanimati»
lo statuto di presupposizione di base – può essere mostrata ragionando ancora
sull’esempio (3), ma per un’altra via. Si immagini di voler interpretare (3a)
senza rinunciare all’idea che gli alberi siano esseri inanimati e cioè evitando di
chiedersi: «in che senso (3a)?», ovvero «in che senso l’albero è una cicala?». Se
teniamo ferma l’idea che gli alberi non sono – in nessun senso – cicale, può
diventare pertinente la considerazione che le piante in estate siano popolate da
cicale che friniscono.
Ciò che ha attivato la relazione metonimica tra gli alberi e le cicale che
vi si trovano sopra, ovviamente, è una conoscenza condivisa sugli alberi
d’estate; la condizione che ha reso possibile la sua attivazione consiste
precisamente nel mantenimento dell’idea per cui gli alberi non sono esseri
viventi. Quest’ultima deve quindi essere considerata non una conoscenza
enciclopedica, ma una presupposizione di base.
1.3. Tre conseguenze
Come scrive M. Prandi (sottolineatura mia)
Les remarques que l’on vient de faire nous permettent débaucher une hiérarchisation
des contraintes conceptuelles. Les restrictions de sélection se fondent sur des
catégories très générales comme «animé» ou «inanimé», «concret» ou «abstrait»,
«humain», «animal» ou «végétal». Ces catégories […] son en fait des présupposés
relevant d’une ontologie naturelle partagée qui délimite de l’extérieur le territoire des
procès cohérents […] A l’intérieur du domaine de la cohérence, deux ordres de
181
restrictions contraignent ultérieurement la structure des concepts complexes bien
formés, et par là leur expression : les modèles cognitifs d’objets et de procès, et les
solidarités lexicales. […] Même si elle n’est pas toujours facile à tracer exactement la
distinction entra contraintes cognitives et solidarités lexicales est essentielle pour
définir la contribution respective des structures lexicales spécifiques d’une langue
donnée et des expériences partagées par des communautés culturelles plus large à la
formation des concepts (Prandi 1998 : 42-43).
Come anticipato sub. § 1.2.0., la prima conseguenza che possiamo trarre
dal § 1.2.1. consiste in una gerarchia tra presupposizioni di base, modelli
cognitivi e solidarietà lessicali o relazioni lessicali in genere. Queste ultime,
tipicamente, ritagliano confini all’interno di modelli cognitivi; e i modelli
cognitivi ritagliano confini all’interno delle presupposizioni di base. Le
presupposizioni di base sono quindi la condizione di coerenza dell’opposizione
e della varietà di diversi modelli cognitivi e i modelli cognitivi sono la
condizione di coerenza dell’opposizione di solidarietà lessicali90. Ne consegue
che la variabilità all’interno di un livello abbia come condizione di possibilità la
coerenza di quello superiore. In particolare, la varietà di possibili modelli
cognitivi si fonda su una comunanza di presupposizioni di base.
La seconda conseguenza del § 1.2.1., è che se la condizione di coerenza
della sostituzione consiste nell’omogeneità ontologica degli elementi in gioco
si spinti a generalizzare; e cioè: tutte le operazioni cognitive possono avvenire
soltanto all’interno della coerenza delle presupposizioni di base. In questa
prospettiva, l’operatore non non rappresenta un’eccezione e per essa sono
possibili osservazioni parallele a quelle condotte per ma.
La terza conseguenza deriva dal § 1.2.2.. Il fatto che abbiamo assistito
alla nascita di una figura retorica – una metonimia – da un conflitto di
presupposizioni di base, suggerisce che i tropi dell’incoerenza concettuale
individuino un territorio privilegiato per studiare le presupposizioni di base.
Studiare i tropi dell’incoerenza concettuale vuol dire descrivere le vie di
interpretazione che derivano da conflitti tra presupposizioni di base e si
differenziano per il modo di aggirarli o risolverli. Studiare i tropi
dell’incoerenza concettuale vuol dire dare per scontate le presupposizioni di
base e descrivere quei percorsi interpretativi. Studiare le presupposizioni di
base equivale a compiere il passaggio inverso: dobbiamo partire dai percorsi
interpretativi dei tropi dell’incoerenza concettuale e mostrare i punti di forza
su cui facciamo leva per interpretarli. L’analisi dei tropi dell’incoerenza
concettuale offre cioè – di rovescio – gli strumenti per l’analisi delle
presupposizioni di base.
Mentre riprenderò più avanti la prima conseguenza, dedicherò i
paragrafi immediatamente seguenti a sviluppare le altre due: più precisamente,
prenderò in esame il funzionamento della negazione (sub. § 2) e presenterò
esempi di presupposizioni di base in enunciati metaforici (sub. § 3.).
2. La negazione
2.1. La negazione sintattica in enunciati coerenti
In linea di principio una solidarietà lessicale – essendo un fenomeno linguistico – può
sovrascrivere distinzioni cognitive o introdurne di nuove. Ma qui ci interessa principalmente
quando opera all’interno di un modello cognitivo.
90
182
Si consideri un esempio come:
(4)
a. Maria è gioiosa.
b. Una persona è una persona.
L’enunciato (4a) è coerente perché la sua predicazione indiretta (4b) è
tautologica. In (4a), il predicato essere gioioso è un elemento che si oppone,
all’interno del paradigma degli stati d’animo α, ad altri elementi quali essere
disperato, essere triste o essere sereno. La predicazione in (4a) pesca un
elemento di α e la predicazione
(4)
c. Maria non è gioiosa.
seleziona potenzialmente tutti gli elementi di α ad esclusione di quello estratto
da (4a). Le interpretazioni in gioco sono evidenziate da:
(4)
a. Maria è gioiosa perché il suo lavoro è stato approvato.
c. Maria non è gioiosa perché il suo lavoro è stato bocciato.
Di fronte a (4) possono essere compiute molteplici osservazioni di
natura pragmatica: ad esempio, l’interpretazione di (4c) tenderà a selezionare
elementi che si dispongono verso il polo opposto rispetto a (4a); inoltre, un
vantaggio dell’impiego di (4c) rispetto a un altro membro di α (ad esempio,
Maria è triste) è che può indicare sfumature per la quali non abbiamo parole
(ad esempio, tra il triste e il disperato). Quello che è centrale per il nostro
discorso, tuttavia, sono solo tre considerazioni di ordine logico, l’una
conseguenza dell’altra: il fatto che le condizioni di verità di (4c) coincidano con
quelle dell’elemento (o del gruppo di elementi) di α con cui lo interpretiamo; il
fatto che (4c) non abbia condizioni di verità prima che si individui
quell’elemento (o gruppo di elemento) di α; il fatto che non vi sia ragione per
ritenere che in enunciati incoerenti la predicazione e la sua negazione
funzionino in maniera diversa.
2.2. La negazione sintattica in enunciati incoerenti
Si consideri adesso la coppia seguente:
(5)
a. Il cielo è gioioso.
b. Un fenomeno atmosferico è una persona.
L’enunciato (5a) è potenzialmente incoerente perché la sua predicazione
indiretta (5b) è conflittuale. La differenza tra (5a) e (4a), dunque, consiste nel
fatto che questa volta il predicato non può essere applicato al soggetto qua
elemento di α. In altre parole, di fronte a (5a), si pone la domanda: «in che
senso il cielo può essere gioioso?». Le risposte possibile si riflettono
direttamente sull’interpretazione della negazione:
(5)
c. Il cielo non è gioioso.
Una prima risposta è: a) il cielo può essere gioioso esattamente come
una persona. Essa conduce a interpretare (5a) letteralmente fingendo che il
183
cielo sia una persona: questo è il caso, ad esempio, di una favola. Qui, (5)
funziona come (4): con i termini di M. Prandi, il conflitto esplicitato dalla
predicazione indiretta (5b) risulta dissolto per mezzo d’una traslazione in
un’ontologia parallela e (5c) risulta identico a (4c).
Una seconda risposta è b) il cielo può essere gioioso nel senso di
luminoso. Questa è il risultato del tentativo di trovare – in un paradigma β
coerente con il cielo – un elemento che possa funzionare da analogon di gioioso
in α. Nella fattispecie, β potrebbe essere individuato dagli stati atmosferici (ad
esempio, essere nuvoloso piuttosto che essere luminoso) cosicchè l’analogon di
gioioso risulti essere luminoso. Gli enunciati (5) sarebbero interpretati così:
(6)
a. Il cielo è luminoso.
b. Il cielo non è luminoso.
Con i termini di M. Prandi, il conflitto contenuto nella predicazione indiretta
(5b) viene riportato nel territorio della coerenza per mezzo di una soluzione
regressiva. Le condizioni di verità di (5a) – secondo la risposta b) – sono le
seguenti: «il cielo è gioioso se e solo se il cielo è luminoso». Detto altrimenti:
gli enunciati (5a) e (5c) non hanno condizioni di verità se prima non è risolto il
conflitto della loro predicazione indiretta. Qualora si domandasse perché usare
(5a) o (5c) al posto di (6), la risposta sarebbe semplice: per ottenere l’effetto
estetico che nasce dal collocare l’uno contro l’altro armati gioioso e luminoso.
Non solo, ma nella lettura (6b) di (5c), si può avere anche una litote,
equivalente ad esempio a:
(6)
c. Il cielo è scurissimo.
Tuttavia, per ottenere (6c) da (5c) si deve passare attraverso (6b): prima cioè
occorre piegare l’ambito concettuale della gioia verso il cielo, e solo a questo
punto è possibile porre la domanda che fa nascere la litote: «perché dire che il
cielo non è luminoso quando è scurissimo?». Quello che ora conta, comunque,
è che nell’interpretazione (6a-b) di (5), il sostituto di gioioso (luminoso, nella
fattispecie) è scelto all’interno di un paradigma β coerente con il cielo e non, ad
esempio, con la terra o con l’acqua. Questo vuol dire che il cielo è categorizzato
in quanto quel particolare elemento naturale che è: in alternativa, appunto, alla
terra e all’acqua.
Una terza risposta – c) – alla domanda di partenza è:
(7)
Il cielo non è gioioso perché non è un essere umano.
In c) – a differenza di a) e come b) – non ci si sposta in un’ontologia fittizia, ma
si rimane ancorati a quella condivisa: il cielo, cioè, non è pensato come una
persona. Tuttavia – a differenza di b) – la risposta c) non considera il cielo in
quanto elemento naturale opposto alla terra e all’acqua, ma in quanto entità
generica insieme alla terra e all’acqua. In (6), il cielo si oppone alla terra e
all’acqua; in (7), il cielo – insieme alla terra e all’acqua – si oppone alle persone;
in (7), dunque, il cielo è categorizzato dalla subordinata a un livello
intensionalmente più povero, di maggiore astrazione. Ne deriva che le risposte
a) e c) sono complementari: a) sceglie di spostare il cielo dalla classe degli
elementi atmosferici a quella più elevata delle persone; c) sceglie di spostare il
cielo dal paradigma degli elementi atmosferici ad uno inferiore, più astratto: in
cui possono essere confrontate cose e persone qua entità generiche. Con la
184
risposta b), invece, il cielo rimane nella classe intermedia degli elementi
atmosferici, ovvero nello spettro della nostra ontologia naturale: ed è qui
infatti che si colloca β in competizione rispetto alla terra o all’acqua.
Nell’interpretazione (7) di (5c) – al contrario di quanto avveniva nella
lettura (6) di (5) – non è possibile trovare alcun paradigma β che offra termini
positivi da sostituire per interpretare la negazione. A seconda delle risposte a),
b) o c), la gioia è interpreta diversamente. In a) è la gioia in carne ed ossa come
in (4): quindi, così come in (5a) non è necessario sostituire è gioioso con alcun
termine, in (5c) non è gioioso è sostituito con è triste. In b) la gioia è la
luminosità: quindi, così come in (6a) è gioioso sarebbe sostituito con è
luminoso, in (6b) non è gioioso sarebbe sostituito con è buio. In c) la gioia è sì
la ‘gioia’, ma in quanto proprietà astratta che si applica a certe entità e non
altre: e qui semplicemente non è possibile sostituire né è gioioso né non è
gioioso con alcun termine. In un caso come c), dunque, la negazione funziona
sul vuoto: tutto quello che possiamo fare è usare la forma linguistica (7) senza
alcun correlato positivo da sostituire a non è gioioso. E se in c) si raggiunge un
tale livello di rarefazione concettuale, la ragione è che abbiamo toccato il
fondo: non ci sono più paradigmi disponibili per eventuali sostituzioni perché
abbiamo raggiunto i confini e le condizioni stesse alle quali si hanno
paradigmi. Semplicemente, non c’è un al di là dove andare a cercare degli
analoga.
Si osservi, ancora, il carattere speculare di a) e c). Al fatto che in c) non
possiamo far altro che usare la forma (7) senza interpretarla positivamente –
come avviene invece in b) con (6b) – corrisponde, in a), il fatto che pur
spostandosi in una ontologia fittizia non possiamo pensare se non in termini di
persone e cose. Pensare il cielo come una persona, infatti, non vuol dire
inventare un terzo elemento tra le persone e le cose, ma semplicemente
pensare a una persona: una persona con il corpo e la forma del cielo. In
entrambi i casi, dunque, non possiamo andare al di là – al di sopra o al di sotto
– delle categorie di persona e cosa: in c) non possiamo trovare analogie come
accadeva in b); in a) non possiamo che pensare a una persona.
La conclusione, allora, è che le strade a) e c) sono il dritto e rovescio
della stessa medaglia: cioè che l’interpretazione (7) di (5c) si colloca nello
stesso schema di quelle di a) e b), precisamente al polo opposto rispetto
all’interpretazione metaforica dissolutiva a). Più esplicitamente: come accadeva
per ma, la prima cosa che il non impone non è l’operazione concettuale che
codifica, ma le condizioni di coerenza di quell’operazione: cioè la presenza di
qualche modello cognitivo sui cui operare che, a sua volta, si fonda sulla
coerenza delle presupposizioni di base. Se queste ultime vengono messe in
crisi, devono essere aggiustate come accade in (6); se invece – come in (7) – si
cerca di metterle in gioco alla stregua di modelli cognitivi, viene ricreata
l’illusione della loro presenza e la negazione opera nel vuoto. Troviamo
dunque qui la spiegazione ‘tecnica’ di quanto, al § 1.1. del capitolo 2, si
intendeva con questa espressione.
2.3. What is a negative proposition? (Horn 1989: 30)
L. R. Horn apre il paragrafo 1.1.4. della sua monografia A Natural
Histoty of Negation in questo modo (sottolineatura mia)
Twenty centuries of dispute over the nature of negative propositions – what is the
relation between negation and affirmation? What is the canonical form of negative
185
propositions, and what exixtencial (and other) inferences can be drawn from them?
How many different forms of negations must be countenanced? – have not settled the
most basic question of all: just what is a negative propositions and how can we tell?
(Horn 1989: 30)
La domanda in gioco è insomma: quale è il significato di non p? Dal § 2.2.,
emerge che per rispondere occorre aver chiaro il paradigma o modello
cognitivo all’interno del quale si colloca p: una volta individuato, il significato
o l’estensione di non p è tutti gli altri membri ad esclusione di p, mentre il
significato o l’estensione di p è l’elemento p.
Se questo è vero, le domande da porre sono due:
i)
ii)
cosa significa p?
cosa significa non p?
Se consideriamo enunciati coerenti come (4), i) e ii) paiono asimmetriche: ii)
sembra sensata, ma non i) perché il significato di p è del tutto chiaro. Tuttavia,
se consideriamo enunciati incoerenti come (5), ci rendiamo conto che le
domande i) e ii) sono simmetriche: per rispondere a i) – come per rispondere a
ii) – occorre individuare il paradigma o modello cognitivo pertinente
restaurando la coerenza delle presupposizioni di base. Nel caso degli enunciati
coerenti, tutto questo è nascosto dalla coerenza delle presupposizioni di base.
Si consideri la riga del quadrato logico che oppone i contrari:
SèP
S è non-P
La scrittura «non-P» non significa nulla prima di aver individuato un modello
cognitivo o paradigma di riferimento fondato su presupposizioni di base
coerenti e cioè prima di aver interpretato p. Questo è quello che accade nella
lettura (6) di (5):
(6)
Il cielo è luminoso.
(β) L……………….S
Il cielo è scuro. (≡ non-gioioso)
(β) L……………….S
Di conseguenza, la seconda riga del quadrato logico – che oppone i cosiddetti
«subcontrari» – si presenterebbe così:
(6)
S non è non-P
S non è P
Il cielo non è scuro.
(β) L……………….S
Il cielo non è luminoso.
(β) L……………….S
La scrittura «non è p» è semplicemente una rete per pescare un elemento (o un
gruppo di elementi) opposti a p all’interno del mare dello stesso paradigma.
Ma se non-p non ha alcuna interpretazione – se non è chiaro il quale sia il
paradigma in gioco – «non è p» è perfettamente inutile. L’espressione Il cielo
non è luminoso è sensata perché lo è Il cielo è scuro: più precisamente, la prima
circoscrive un sottoinsieme di β di cui la seconda individua un elemento. La
distinzione tra le righe di contrari e subcontrari, dunque, può essere utile
quando ci troviamo di fronte ad un paradigma di termini antonimi: è il caso di
(6), dove non è luminoso ha un’estensione maggiore di è scuro. Tuttavia, se ci
trovassimo in un paradigma di termini complementari, tale distinzione
verrebbe a cadere: se consideriamo l’opposizione vivo vs. morto rispetto
186
all’orizzonte dei viventi, infatti, l’estensione di non è vivo coincide con quella
di è morto e l’estensione di non è morto coincide con quella di è vivo. La
differenza tra contrari e subcontrari è una differenza di intensione e non di
estensione.
L’operatore sintattico non – come tutti i connettori e gli operatori –
richiede un modello cognitivo sul quale operare; in esempi come Il sole non è
luminoso è la sintassi – la lingua – che impone la negazione; questo crea
l’illusione di un modello cognitivo – vuoto – su cui opera non. La stessa cosa
accadeva con ma o invece in le cicale friniscono, invece gli alberi stormiscono o
le cicale friniscono, ma gli alberi stormiscono: esiste un luogo cognitivo (il
paradigma dei versi comunicativi degli animali) in cui il frinire delle cicale si
oppone al nitrire dei cavalli o in cui l’essere gioiosi si oppone all’essere triste;
ma non esiste un luogo cognitivo in cui si oppongono il frinire delle cicale e lo
stormire degli alberi o l’essere gioioso e gli stati metereologici, se non quelli
del tutto generali dei meri rumori o dei meri eventi.
In sintesi, il funzionamento della negazione – così come l’impiego di
vero e falso – ha bisogno di modelli cognitivi su cui lavorare; e i modelli
cognitivi hanno bisogno di presupposizioni di base su sui poggiare. Se
cerchiamo di rivolgere la negazione o gli aggettivi vero e falso su queste
ultime, non possiamo fare altro che riapplicare quei nostri strumenti a vuoto.
Se – come in (7) – cerco di far operare la negazione non su β ma sull’orizzonte
che fonda β, tutto si appiattisce e perde profondità: come le stelle ci sembrano
tutte sullo stesso piano, la proposizione Il cielo non è gioioso ci sembra falsa
come falso può essere che Il cielo non è luminoso. Ma per dissipare l’illusione è
sufficiente chiedersi cosa significhi, per ciascun caso, falso (o vero). Di fronte a
è falso che il cielo è luminoso o è falso che Paolo ha smesso di fumare,
l’aggettivo falso può essere interpretato: significa che il cielo è coperto o che
Paolo fuma ancora. Ma di fronte a è falso che il cielo è gioioso o è falso che
Paolo ha smesso di fumare (quando Paolo non ha mai fumato), l’aggettivo falso
non può essere interpretato: con cosa infatti potremmo sostituirlo?91
Un pregiudizio che va a braccetto con quello dell’asimmetria delle
domande i) e ii) è che ad essere «interno» o «esterno» sia la negazione. In
realtà, ciò che in (4c) è ‘interno’ è la predicazione (cioè non è gioiosa); ed essa è
interna tanto quanto quella di (4a); «interno» poi vale «interno ad un
paradigma fondato su presupposizioni di base». La predicazione di (6), ad
esempio, è esterna ad α ma interna a β. Questo basta già a rilevare il carattere
relativo e illusorio della nozione di negazione interna ed esterna. L’unico caso
estremo in cui si può parlare di negazione esterna è quello in cui non vi sono
paradigmi ulteriori: qui la predicazione è davvero esterna ma lavora sul vuoto.
Qui non stiamo propriamente dicendo nulla.
3. Tre presupposizioni di base
Si noti la differenza tra le presupposizioni in gioco. Che Paolo abbia fumato è un fatto
contingente: la frustrazione o meno della presupposizione è determinata dal variare della
situazione in cui l’enunciato è asserito. Questo prova che il fatto che Paolo non abbia (o abbia)
fumato è un fatto possibile. Che il cielo non sia una persona è una presupposizione di base: qui
la frustrazione o meno della presupposizione è determinata dal variare delle parole in gioco.
Questo prova che l’idea che il cielo sia una persona non è un fatto possibile: e quindi l’idea che
il cielo non è una persona non è un fatto ma una presupposizione di base.
91
187
3.0. Introduzione
Le condizioni di coerenza di un enunciato sono il modello delle
condizioni di coerenza dell’azione che condivide la stessa predicazione indiretta
dell’enunciato così come una formula matematica è un modello di un evento
fisico. Se l’incoerenza di una frase riflette in vitro – nella lingua – la sensazione
di assurdità che proveremmo di fronte ad un comportamento ‘conforme’ al
processo che quella frase descrive, è ragionevole guardare alla costruzione e
all’espressione del significato, sia a livello frasale – con particolare attenzione
allo studio delle metafore (referenziali e relazionali) – sia a livello della
coerenza testuale, come a un laboratorio privilegiato in cui testare le nostre
ipotesi sulle presupposizioni di base, ovvero sulle regole della metafisica
descrittiva.
Come anticipato, prenderò in considerazione alcuni enunciati metaforici
mostrando come illustrano presupposizioni di base. L’analisi di questi
enunciati illustrerà tre distinzioni molto generali che possono essere
considerate presupposizioni di base: la distinzione tra organico e inorganico; la
distinzione tra persone e animali; la distinzione tra persone e cose.
3.1. La distinzione «organico vs. inorganico»
Il primo enunciato metaforico che considererò è ispirato dal verso di R.
M. Rilke: «[…] un cielo in pianto di deformi stelle». La presupposizione di
base che rivela può essere introdotta per mezzo dell’intuizione: se vedo un topo
con sei zampe vedo un topo deforme, ma se vedo un’automobile con sei ruote
non vedo un’automobile deforme. Questa differenza non dipende dalla
considerazione che la forma di un’automobile – in quanto artefatto – sia in
qualche modo decidibile; infatti, se consideriamo un’entità naturale come il sole
e ci chiediamo Cos’è un sole deforme? proviamo lo stesso imbarazzo che se ci
fossimo chiesti Cos’è un’automobile deforme?
Per sviluppare l’intuizione precedente, si confronti (14a), (15a) e (16a)
(14)
(15)
(16)
a. Questo topo è deforme.
a. Questa mattina il sole è deforme.
a. Questo cerchio è deforme.
Mentre l’enunciato (14a) è coerente, gli enunciati (15a) e (16a) non lo sono: con
i termini di M. Prandi (15a) e (16a) presentano «metafore relazionali», che
investono cioè la predicazione. Se proviamo a interpretarle – nonostante gli
esiti possibili siano innumerevoli e imprevedibili – percepiamo la presenza di
linee di forza che guidano le interpretazioni distribuendole lungo due direzioni:
i)
ii)
in alcuni casi, cercheremo di adattare l’idea di deformità (il predicato) al
sole o al cerchio (al soggetto);
in altri, cercheremo di adattare il sole o il cerchio (il soggetto) all’idea di
deformità (il predicato).
I punti i) e ii) individuano i poli estremi di un continuum, ovvero, con termini
di M. Black, i due poli estremi delle possibili interazioni tra i concetti in gioco.
La strada i) sembra sollecitata in (15a): qui tenderemmo a immaginare
un’ellisse; la strada ii) sembra sollecitata in (16a): qui tenderemmo a
188
immaginare il sole come un mostro con una forma o un colore strani.
Nel primo caso, l’idea di deformità viene proiettata sul cerchio
tagliando le caratteristiche del proprio ambito concettuale che non si adattano
a quello di arrivo: qui è il cerchio (il soggetto) che stabilisce i limiti
dell’interazione concettuale. Nel secondo caso, invece, l’idea di deformità viene
proiettata sul sole in modo da invaderlo con le caratteristiche del proprio
ambito concettuale indipendentemente dalla coerenza rispetto a quelle del sole:
qui l’interazione concettuale è dettata non dal sole (il soggetto), ma da deforme
(dal predicato) e la proiezione concettuale non ha limiti. Nel primo caso
depenneremmo l’idea di organismo dall’aggettivo deforme; nel secondo, invece,
proietteremmo sul sole l’idea di un organismo; in entrambi, facciamo
affidamento sul fatto che deforme richieda di applicarsi ad un’entità organica.
Più precisamente, facciamo affidamento sul fatto che le predicazioni indirette
conflittuali esibite da (15a) e (16a) siano:
(15)
(16)
b. Il sole è un’entità organica.
b. Un cerchio è un’entità organica.
di cui le controparti coerenti sarebbero naturalmente:
(15)
(16)
c. Il sole non è un’entità organica.
c. Un cerchio non è un’entità organica.
Le proposizioni (15c) e (16c) sono presupposizioni di base. Le
proposizioni (15c) e (16c) sono le ragioni per cui sentivamo (15a) e (16a)
incoerenti: (15c) e (15c) sono le forme del fondale su cui ci siamo appoggiati,
dandoci un colpo di reni, per ottenere le più svariate interpretazioni di (15a) e
(16a)92. Questo fondale – con la sua peculiare sagoma che palpiamo osservando
come le proposizioni (15c) e (16c) guidino le nostre interpretazioni – sono i
limiti della nostra forma di vita: l’ontologia naturale di cui si occupa la
metafisica descrittiva, per dirlo con P. F. Strawson; o la nostra immagine del
mondo, per dirlo con L. Wittgenstein93; o (riadattando una celebre metafora di
I. Kant) le correnti d’aria su cui la colomba fa leva per volare.
A questo punto possiamo estrarre lo schema (17):
(17)
X è deforme.
Lo schema (17) delimita l’ambito di ciò che – per noi – è organico e inorganico.
Più precisamente, lo spazio delle entità a cui è concesso di essere deformi
coincide con lo spazio delle entità organiche94: quindi, affermando, negando o
interrogando (17) presupponiamo che X sia un’entità organica esattamente
come affermando, negando o interrogando Maria ha smesso di fumare
presupponiamo Maria fumava.
Le osservazioni precedenti attirano l’attenzione sul fatto che sarebbe
Un inciso. Il paradigma di percezioni estetiche che possiamo avere per un tavolo è
diverso dal paradigma di percezioni estetiche che possiamo avere per una persona: infatti, una
persona può essere deforme, ma un tavolo no. Così è probabile che quando usiamo l’aggettivo
bello nei confronti di un tramonto, di un oggetto di antiquariato e di una persona compiamo tra
impieghi diversi definiti da diverse presupposizioni di base.
93
Si deve notare come le interpretazioni di (15a) e (16a) abbiano fatto leva su (15c) e
(16c) nello stesso senso in cui si fa leva su una massima griceana.
94
Deve essere notato come l’aggettivo deformato non rispetti le osservazioni precedenti.
Questo perché ha a che fare con impieghi diversi rispetto a deforme.
92
189
scorretto limitarsi a sostenere, ad esempio, che gli enunciati (c) siano
presupposizioni degli enunciati (a). Le proposizioni (c), infatti, esibiscono le
ragioni per le quali se vediamo un topo con sei zampe vediamo un topo
deforme, ma se vediamo una macchina con sei ruote o un’ellisse non vediamo
né una macchina deforme né un cerchio deforme. Ed è per questo che – in
secondo luogo – gli enunciati (a) o (b) ci sembrano coerenti o incoerenti: è
quella possibilità di esperienza, cioè, ad essere specchiata negli enunciati (a). E,
d’altra parte, tornando alle intuizioni iniziali, quest’ultima è la ragione per cui
la domanda Cosa è un topo deforme? avrebbe risposte possibili, ma le domande
Cosa è un sole deforme? o Cosa è un cerchio deforme? ci sembrerebbero
assurde e non avrebbero risposte possibili, se non dopo aver interpretato
deforme lungo le linee di forza – o presupposizioni – individuate.
3.2. La distinzione «persone vs. animali»
3.2.0. Introduzione
Il secondo esempio di presupposizione di riguarda la distinzione tra
persone e animali. Illustrerò questo punto passando attraverso la questione
della cosiddetta «opacità referenziale» o dei cosiddetti «contesti intensionali».
Da questa angolatura, il nostro intento potrebbe essere formulato affermando
che i casi più interessanti di contesti intensionali sono quelli in cui l’opacità
referenziale è dovuta a un problema inerente non alla condivisione di
un’informazione contingente, bensì a una presupposizione di base (cfr. cap. 3, §
4.3.).
3.2.1. Opacità referenziale: credenze condivise
Ecco alcuni tra i più classici esempi di contesti referenzialmente opachi:
(18)
a. Filippo crede che Cicerone denunciò Catilina.
b. Filippo crede che Tullio denunciò Catilina.
c. Filippo crede che Marco denunciò Catilina.
Nella letteratura specializzata, di fronte a (18) si distinguono immediatamente
due possibilità interpretative. Da un lato, si può pensare che Cicerone, Tullio e
Marco designino il loro referente nello stesso modo in cui lo avrebbe fatto
Filippo: qui nasce la cosiddetta opacità referenziale. D’altro lato, si può pensare
che Cicerone, Tullio e Marco designino il loro referente indipendentemente da
come lo avrebbe fatto Filippo: qui non è presente alcuna opacità referenziale.
La prima opzione diventa rilevante nel caso in cui volessimo riportare
le credenza di Filippo, per così dire, mettendoci nei suoi panni: in questo caso,
gli esempi (18) non potrebbero essere considerati equivalenti perché Filippo
potrebbe essere disposto ad acconsentire ad uno ma non all’altro. La seconda
opzione diventa rilevante se immaginiamo di riferire la credenza di Filippo a
tre amici che conoscano ciascuno soltanto un nome di Cicerone: in questo caso,
gli esempi (18) sarebbero tutte riformulazioni (non parafrastiche) l’uno
dell’altro.
Le osservazioni precedenti, per quanto semplici, sono sufficienti a
mettere in luce il punto pertinente per il nostro discorso: cioè che la scelta di
190
usare un nome piuttosto che un altro dipende dalla condivisione di
un’informazione contingente (come si chiama Cicerone) da parte di qualcuno
(Filippo o i nostri tre amici).
3.2.2. Opacità referenziale: presupposizioni di base
Consideriamo adesso i due gruppi di esempi seguenti:
(19)
(20)
a. Il direttore ha assunto Maria.
b. Maria è una cittadina di Ginevra.
b’. Una cittadina di Ginevra è una cittadina svizzera.
c. Il direttore ha assunto una cittadina svizzera.
a. Il direttore ha assunto Maria.
b. Maria è un essere umano.
b’. Un essere umano è un mammifero.
c. Il direttore ha assunto un mammifero.
Il gruppo (20) sembra anomalo perché ritroviamo il fenomeno dell’opacità
referenziale tra un mammifero in (20b’) e Maria in (20a): saremmo disposti a
sostituire Maria con una cittadina svizzera in (19) ma lo saremmo meno a
sostituire Maria con un mammifero in (20); parleremmo di metafora per (20c)
ma non per (19c); deriveremmo tranquillamente (19c) da (19a-b) ma
percepiremmo qualche forzatura a derivare (20c) da (20a-b).
Se questo è vero, (20c) deve contenere una predicazione indiretta
conflittuale esplicitabile come segue:
(20)
d. Una persona è un mammifero.
Che (20c) contenga (20d) e che (20c) sia conflittuale è mostrato dal fatto che
possiamo piegare l’ambito concettuale di ‘mammifero’ verso quello di ‘persona’:
cioè seguire la via i) sub § 3.1.. Facendo questo possiamo trovare, ad esempio,
un’analogia tra ‘essere un mammifero’ e ‘essere sempre a casa in maternità’ e
interpretare (20c) come una maldicenza nei confronti di Maria:
(20)
e. Il direttore ha assunto una segretaria che è sempre a casa in
maternità.
Certo, (20e) è un’interpretazione alquanto sciocca di (3d); tuttavia, la
condizione che l’ha resa possibile – che ha reso possibile la sostituzione di un
mammifero con una segretaria che… – è stata precisamente l’idea che Maria
non sia un mammifero: cioè che le persone non sono una specie di animali95.
3.2.3. Categorizzazione incrociata
Se a questo punto confrontiamo gli esempi (18) e (20), possiamo trarne
la conclusione seguente: in (18), l’opacità referenziale – la difficoltà a sostituire
il nome Cicerone con Marco o Tullio – dipendeva dalla condivisione di
un’informazione contingente su Cicerone; in (20), l’opacità referenziale – la
Osservazioni analoghe valgono per primate o ungulato o carnivoro detto di un uomo:
in nessuno di questi casi è in gioco il vero o il falso, ma di una metafora.
95
191
difficoltà a sostituire il nome Maria con un mammifero – dipende dalla
condivisione di una regola della nostra ontologia naturale: le persone non sono
una specie di animali.
A questo proposito gli insulti sono particolarmente rivelatori. Posso
offendere o criticare un uomo dicendogli porco perché un uomo non solo non è
un porco, ma non fa neppure parte della classe ontologica che fonda il
paradigma in cui si collocano i maiali: gli animali. Al contrario, è molto più
difficile criticare un cane dicendo che è un porco perché un cane – in quanto
animale – si colloca nella stessa classe ontologica dei maiali (praticamente
impossibile, poi, è criticare un cane dicendo è un mammifero o è un animale).
Se indico un passante e dico un porco, non sto sbagliando a classificare un
membro della specie dei mammiferi, ma sto insultando una persona: in questo
caso, l’interpretazione più naturale è la soluzione (sostitutiva) di una metafora,
come per (20c). Viceversa, se indico un cane e dico un porco l’interpretazione
più immediata è quella di un errore cognitivo: questa volta ho detto qualcosa di
falso, come se avessi detto che i pesci camminano. Questo non vuol dire che se
chiamo usignolo un corvo non possa fare una metafora, ma che probabilmente
la prima interpretazione sarebbe quella di un errore cognitivo; invece, se di una
donna dico che è un barracuda quella dell’errore cognitivo non sarebbe affatto
la prima interpretazione.
Da un punto di vista evolutivo, chiaramente, gli uomini sono animali: ci
sono prove oggettive che dimostrano che siamo mammiferi e non rettili e ci
sono prove oggettive che dimostrano che discendiamo dalle scimmie e non dai
serpenti. Se avessimo il sangue freddo e il corpo ricoperto di squame forse
saremmo rettili. Ma non è così. Da un punto di vista assiologico, esistono
prove altrettanto oggettive per cui gli uomini non sono animali: se dicendo a
una persona che è un rettile o una scimmia la reazione spontanea fosse identica
a quella che si avrebbe dicendo la stessa cosa di un uccello, allora noi
concettualizzeremmo le persone come una specie di animali. Ma non è così. I
due ordini di considerazioni precedenti non sono contraddittori, ma paralleli. Il
fondamento di ciascuno – la condizione di possibilità delle loro rispettive prove
– è una diversa presupposizione: in un caso, l’uomo è presupposto come un
animale; nell’altro come qualcosa di qualitativamente diverso: una persona. La
presupposizione sulla quale normalmente facciamo affidamento è la seconda;
tuttavia, proprio per questo, alle volte può essere molto utile adottare
provvisoriamente la prima: ad esempio, studiando medicina o biologia per
curare malattie.
La possibilità di interpretare (20c) come (20e) prova che (20d) è
potenzialmente conflittuale. Ciononostante, è possibile turarsi il naso di fronte
alla stranezza di (20c) e affermare che tutto sommato si riesce capire cosa il
locutore voglia intenda letteralmente. Se questo accade, non vuol dire che in
(3d) non vi sia alcun conflitto ma che è stato disinnescato retro-categorizzando
Maria – cioè una persona – a livello di mero animale. Facendo questo è come
se ci spostassimo verticalmente, scendendo a un piano inferiore al quale una
persona – Maria – può essere considerata: il piano della classificazioni delle
specie di animali. In effetti, Maria, oltre ad essere una persona e una segretaria
è sicuramente anche un’entità concreta e un mammifero: è cioè un oggetto
stratificato. Non solo, ma questa stratificazione è polarizzata: presenta cioè una
gerarchia.
Un modo intuitivo per illustrare questo punto è valutare alcuni rami
dell’ampia chioma polisemica di un verbo come spostare:
192
(21)
a. Il direttore ha spostato la sedia.
b. Il direttore ha spostato la segretaria.
Mentre in (21a) spostare assume l’accezione tipica degli oggetti concreti, in
(21b) sarebbe spontaneamente interpretato come sinonimo di trasferire;
naturalmente anche in (21b) spostare potrebbe essere letto come in (21a) ma
questa interpretazione sarebbe relegata al rango di ammessa. Il fatto che
segretaria faccia assumere una particolare colorazione a spostare prova che –
per noi – quell’oggetto diventa saliente anzitutto qua «persona» (e
precisamente «impiegato») prima che come concreto o animale. La colorazione
assunta da un verbo polisemico come spostare, dunque, è una soluzione di
contrasto in grado di mostrarci a che livello un particolare oggetto è da noi
immediatamente concettualizzato96.
Fra i livelli di concettualizzazione di un oggetto esistono tensioni
perché ciascuno di essi individua un vero e proprio salto ontologico. Assumere
o licenziare, ad esempio, sono predicati che si applicano coerentemente al
livello dove Maria è considerata qua persona e precisamente qua segretaria;
nutrirsi o figliare al livello dove Maria è considerata qua essere vivente.
Ovviamente per molti oggetti noi siamo disposti a spostarci insensibilmente
tra i vari livelli di categorizzazione: di Maria ad esempio si può dire che respira
o che mangia; tuttavia si possono ricostruire delle regioni lessicali
specializzate. Il lessico insomma talvolta è sotto-determinato rispetto a tali
regioni, altre volte invece le sovrascrive con solidarietà lessicali97.
3.3. La distinzione «persone vs. cose»
L’ultima presupposizione di base menzionata riguardava la distinzione
tra persone e cose. Questa distinzione, in particolare, mostra che l’uomo non è
un tipo di cosa: non è una cosa estremamente più complessa delle altre; egli è
qualitativamente diverso: un po’ come una fede nuziale è qualitativamente
diversa da un cerchio fatto d’oro. Illustrerò questo punto in due passi.
Anzitutto, si considerare una domanda come (22a):
(22)
a. Quale è la funzione di … ?
Se al posto dei puntini sostituiamo un coltello, un bocciolo di rosa, un
embrione e persino un fiume, la domanda (22a) ha una risposta possibile. In
altre parole, di fronte a (22a), si attivano immediatamente modelli cognitivi
condivisi che consentono di rispondere qualcosa come: tagliare, produrre una
rosa, diventare un essere umano, irrigare una valle. Per il fiume,
eventualmente, l’unico problema che si pone è quale sia la sua funzione o se
parliamo di una funzione naturale piuttosto che artificiale, ma non che sia
impiegabile per una funzione: ad esempio, per un generale la funzione di un
fiume potrà essere impedire la ritirata al nemico; per un biologo, invece,
Si confronti anche, ad esempio Maria allatta il suo piccolo; la Lupa allatta il suo piccolo;
La lupa nutre i sui piccoli; Maria nutre i suoi piccoli. Potremmo benissimo immaginare una
solidarietà lessicale di allattare - umano opposto a allattare – animale: questo non sarebbe un
96
mero capriccio lessicale ma ricalcherebbe una potenziale differenza ontologica.
97
Queste in particolare possono ricalcare o no distinzioni concettuali. A questo proposito
si possono citare le regioni ontologiche di E. Husserl, la distinzione tra cosa e oggetto
teorizzata da E. Agazzi (Agazzi 1976, 1979) nonché la questione dell’héritage multiple citata da
D. Le Pesant e M. Mathieu-Colas (Le Pesant & Mathieu-Colas 1989: 16).
193
garantire l’ecosistema di una valle.
Adesso, immaginiamo di sostituire i puntini di sospensione in (22a) con
un bambino ottenendo così (22b):
(22)
b. Quale è la funzione di un bambino?
Di fronte a (22b) ci sentiremmo in imbarazzo98: questa volta, cioè, faremmo
fatica a trovare una risposta immediata come accadeva per (22a). In particolare,
in (22b), sarebbe fuori luogo affermare che la funzione di un bambino sia
crescere o diventare adulto o obbedire ai suoi genitori. Nei primi due casi,
infatti, il bimbo verrebbe trattato alla stregua di un cucciolo: cioè retrocategorizzato a livello di animale; nel secondo caso, invece, si dovrebbe parlare
non di funzione ma di dovere: cioè qualcosa di completamente diverso. La
difficoltà che nasce di fronte a (22b) indica che questa volta i modelli cognitivi
attivi in (22a) vengono meno; e vengono meno perché manca la
presupposizione che li fondava: l’idea che le persone siano non oggetti che
ricevono fini o funzioni imposte dalla natura o dall’uomo, bensì soggetti capaci
di imporre funzioni o darsi fini.
La morale è che le persone non hanno un fine. Tuttavia, non è che non
ce l’hanno nel senso in cui non ce l’hanno le cose – cioè nel senso che ne
possono ricevere uno qualsiasi come il fiume in (22a) – ma nel senso che ne
sono a priori escluse. Infatti, se ci chiediamo quale sia un pessimo modo per
usare un coltello, la nostra domanda può avere una risposta: un pessimo modo
di usare un coltello, ad esempio, è per mangiare la minestra. Ma quale è un
pessimo modo di usare una persona? Questa volta la domanda è assurda, come
– anche se ad un altro livello – se ci chiedessimo quando abbia smesso di
fumare qualcuno che non ha mai acceso una sigaretta. Da ragioni del genere,
del resto, può essere fatta derivare la seconda formulazione dell’imperativo
categorico kantiano: agisci nei confronti del tuo prossimo considerandolo
sempre anche come un fine, e mai solo come un mezzo, delle tue azioni.
3.4. La lessicologia generativa alla luce della filosofia
Se raccogliamo i risultati della rapida rassegna delle nostre tre
presupposizioni otteniamo gli schemi seguenti:
(23)
a. X è deforme.
b. Il capo ha assunto X.
c. Quale è la funzione di X ?
Tutti questi enunciati presuppongono che X sia un organismo, una persona e
una cosa nel senso in cui Maria ha smesso di fumare presuppone Maria
fumava. Tutti questi enunciati spezzano il campo dei possibili sostituti di X in
due parti: quella che rende l’enunciato sensato o coerente, quella che lo rende
assurdo o incoerente. Tutti questi enunciati, di conseguenza, sono strumenti
che individuano diverse classi di oggetti: rispettivamente, entità organiche vs.
inorganiche; persone vs animali; persone vs. cose. I confini tra queste classi
Si può fare la prova inserendo nei puntini di sospensione il nome di un bambino di
propria conoscenza. L’unico senso in cui si potrebbe parlare sensatamente di funzione è in
relazione a un ruolo (ad esempio in una partita di calcio); tuttavia in questo modo non si
parlerebbe più del bimbo in quanto tale.
98
194
sono come dei rift nella nostra visone del mondo: sono le spaccature, i rilievi e
le valli che configurano la morfologia della nostra forma di vita. Queste sono le
presupposizioni di base. La domanda che si pone a questo punto è: dove
possiamo trovare un’impostazione simile o una disciplina che ci offra gli
strumenti migliori per intraprendere una descrizione della morfologia della
nostra forma di vita?
Di fronte alle osservazioni precedenti si è immediatamente spinti a
rivolgersi alla filosofia e precisamente alla teoria dei tipi e delle classi; una
posizione come quella di F. Sommers, ad esempio, prospetta un’idea molto
simile a quanto abbiamo appena accennato:
[…]whenever a predicate P is significantly [coerentemente] applicable to a thing,
then so is its complement non-P. Now this gives us the right to treat predicates as
having no ‘sign’ for purpose of a type analysis. Thus, any predicate P can be construed
as |P| or ‘the absolute value’ of P, by which we mean that P spans the things that are
either P or non-P but does not spans things which are neither P nor non-P. […] I
shall call a class defined by an absolute predicate an ontological class or category.
[…] The category language is embedded in every natural language. To expose it, all
we need to do is absolutize predicates. A language of absolutized predicates is a
purely ontological language. And every natural language has its ontological skeleton,
its ‘ontology’ (Sommers 1963: 159-160).
Tuttavia, non è la filosofia che ci può aiutare. La filosofia ci offre
l’obiettivo – un desideratum – ma non è in grado di fornirci strumenti
abbastanza fini. Gli strumenti necessari ci sono offerti da una lessicologia
generativa, cioè esplicita e sistematica, illuminati dalla filosofia. Accanto a una
grammatica filosofica, insomma, possiamo pensare a una lessicologia filosofica.
Tutto questo ci porta insomma a rivolgerci alla posizione di G. Gross (Gross
1998): nei suoi termini le nostre presupposizioni di base prendono il nome di
«iperclassi». Questo sarà il tema del prossimo capitolo, rispetto al quale la
citazione seguente può funzionare da epigrafe:
La relation entre contraintes formelle set contraintes conceptuelles et la stratification
hiérarchique des contraintes conceptuelles – critère de cohérence, restrictions
cognitives, solidarités lexicales [nous offrent l’accès] privilégié à l’analyse des
concepts que la philosophie analytique, et plus généralement le «tournant
linguistique» en philosophie, identifie avec l’emploi des mots. L’emploi des mots n’est
évidemment pas la distribution des expressions en tant que formes, mais la
distribution des mots en tant que concepts atomiques dans les concepts complexes :
dans des états des choses cohérents et appropriés tant au point de vue des structures
cognitive que des solidarités lexicales. Si elle est accompagnée d’une problématisation
de la relation entre contrainte formelles et contraintes conceptuelles, et d’une
élucidation des types et des fonctions des contraintes, donc, l’étude des classes d’objets
offre à l’analyse des concepts complexes et de leur constituants simple sa matière
première. Avec un avantage considérable : au lieu de se fonder sur une poignée
d’exemples choisi au hasard, l’analyse des concepts peut compter sur une exploration
systématique et fine des emplois réels. (Prandi 1998: 43-44)
195
196
CAPITOLO 10
Come studiare le presupposizioni di base
197
Indice del capitolo
1. Un’intuizione di partenza
1.1. Un’analogia tra l’algebra e la lingua
1.2 Le nozioni di «schema predicativo» e «classe di oggetti»
1.3. Obiezioni
1.3.1. Un circolo vizioso
1.3.2. Predicati mendaci
2. Il nesso tra semantica lessicale e metafisica descrittiva
2.1. La via della semantica lessicale
2.2. La via della metafisica descrittiva
2.2.1. Classi di oggetti vs. iperclassi
2.2.2. Critica alla nozione di predicato inappropriato
2.3. Da una grammatica filosofica a una lessicologia filosofica
3. Preliminari a un’impresa di lessicologia filosofica
3.1. Come rispondere a domande sulle presupposizioni di base?
3.1.1. Le piante hanno un’anima?
3.1.2. La relatività delle presupposizioni di base
3.1.3. Il fenomeno della polisemia
3.2. Le presupposizioni di base sono ridondanti?
3.3. Che aspetto ha la grammatica delle presupposizioni di base?
199
199
200
201
201
201
202
202
204
204
206
208
209
209
209
210
211
213
213
198
1. Un’intuizione di partenza
1.1. Un’analogia tra l’algebra e la lingua
Il capitolo 8 si concludeva con questa domanda: come è possibile
equipaggiare la filosofia con una lessicologia generativa? Il primo passo è
rilevare l’analogia seguente. Com’è sensato domandare che cosa fa 1 + 2, così è
sensato domandare cosa fa prendere + l’autostrada: nel primo caso la risposta è
3, nel secondo imboccare. Questa intuizione può essere esplicitata
confrontando gli schemi seguenti:
(0)
a. y = 1 + x
b. Giorgio prende x
Per definire (0a) occorre riempire la variabile x con un numero naturale a
seconda del quale y assumerà un valore diverso; per definire il significato di
(0b) occorre riempire x con un argomento a seconda del quale si otterrà un
senso diverso: prendere il pane (= comprarlo); prendere l’autostrada (=
imboccarla); prendere la laurea (= laurearsi); prendere la palla (= afferrarla),
ecc. Il pane, l’autostrada, la palla e i numeri naturali sono «sostanze prime» nel
lessico di Aristotele, «individui» in quello di P. F. Strawson e «concetti
puntuali» in quello di M. Prandi; prendere o 1 + x sono «sostanze seconde»
nei termini di Aristotele, «sortali» in quelli di P. F. Strawson e «concetti
relazionali» in quelli di M. Prandi.
La precedente analogia è corretta se resta tra due argini. Da un lato,
l’utilità dell’espressione (0a) non è tanto determinare un valore particolare di y
rispetto a x, quanto astrarre una regola generale che faccia dipendere tutti i
possibili valori di y da quelli di x; l’utilità di un verbo come prendere, invece,
non è quella di astrarre una regola generale comune a tutte le sue accezioni,
ma individuare accezioni particolari per classificare casi distinti di relazioni99.
Dall’altro lato, la regola espressa da una funzione permette di calcolare a priori
quale valore y assumerà per un dato valore di x; mentre l’idea generale che
possiamo astrarre da espressioni quali prendere il pane, prendere l’autostrada
ecc. non permette affatto di prevedere a priori quali nuove accezioni il verbo
svilupperà al variare dell’oggetto diretto: queste ultime sono ricostruibili solo
a posteriori osservando la storia dell’evoluzione della lingua.
Qualche esempio chiarirà quello che intendo:
(1)
(2)
a. Il muratore abbatte il muro.
b. Il plotone abbatte il condannato.
c. Il macellaio abbatte il vitello.
d. Il brutto tempo abbatte Maria.
a. L’uccello sbatte le ali.
b. L’ala nuova è già allagata.
c. L’ala riformista si sgancia dal partito.
d. Il generale schiera un’ala sulla collina.
e. L’ala destra si è infortunata
Se dovessimo descrivere tutti i sensi assunti da abbattere e da ala in (1) e (2)
99
L’a priori matematico è formale, quello linguistico è comunque basato su dati empirici.
199
sarebbe ingenuo immaginare un minimo comun denominatore e poi derivare le
singole accezioni a seconda del variare degli oggetti o dei predicati. Più
precisamente, sarebbe ingenuo per due ragioni: perché sarebbe impossibile
prevedere l’evoluzione delle accezioni di un lessema e perché il suo significato
sarebbe ridotto a qualcosa di così rarefatto da dissolversi. Se tentassimo di
estrarre il tratto comune ad ala in (2), ad esempio, potremmo propendere per
un concetto molto astratto come «la parte laterale di qualcosa», ma non
andremmo molto lontano. In primo luogo, la definizione potrebbe adattarsi a
(2b) ma perderebbe mordente per (2a), (2c) e (2d): l’ala di un esercito o di un
partito, infatti, non è una parte laterale, ma eventualmente meno importante.
In secondo luogo, nell’espressione «la parte laterale di un partito», lo stesso
aggettivo laterale non viene interpretato spazialmente, ma gerarchicamente. In
terzo luogo, ridurre il significato di ala al minimo comun denominatore di (2)
sarebbe fortemente contro intuitivo: se ci chiedessero il significato della parola
ala non risponderemmo con una definizione come «la parte laterale di
qualcosa» ma probabilmente penseremmo all’accezione di (2a).
1.2 Le nozioni di «schema predicativo» e «classe di oggetti»
Possiamo a questo punto introdurre l’idea di «schema predicativo» o
«uso di un predicato» elaborata da G. Gross (Gross 1998) per lo studio del
lessico. A questo scopo, si riprenda l’esempio (1):
(3)
a. SOGG.
– abbattere – OGG. DIRETTO
b. Il plotone
c. Il macellaio
d. Il muratore
e. Il temporale
abbatte
abbatte
abbatte
abbatte
il condannato = giustizia, executes
la mucca
= macella, slaughters
la casa
= demolisce, breaks down
Maria
= demoralizza, demoralizes
Le righe (3b-e) istanziano lo schema (3a): in (3b-d) il soggetto è una persona e
l’oggetto diretto una cosa; in (2e), invece, è il soggetto ad essere una cosa e
l’oggetto una persona. Come si vede, al variare degli argomenti variano le
accezioni di abbattere che, infatti, parafraseremmo con un diverso sinonimo o
una diversa traduzione: nei termini di G. Gross, ciascuna delle righe (3b-e)
individua un «impiego» o «uso» o «schema predicativo» di abbattere100.
Se isoliamo l’enunciato (3d) e sostituiamo la casa con il muro, il palazzo
o la banca, constatiamo come l’accezione di abbattere rimanga identica: nei
termini di G. Gross, l’insieme di questi elementi – cioè l’insieme degli elementi
che mantengono costante il senso di un concetto relazionale – prende il nome
di «classe di oggetti». Nella fattispecie, dunque, la casa, il muro e la banca sono
membri di una classe di oggetti che potremmo etichettare «edifici».
Le nozioni di schema predicativo e classe di oggetti sono definite
reciprocamente e individuano i due poli da cui uno schema quale (3a) può
essere guardato. Più precisamente, si può procedere:
i)
dalle classi di oggetti al significato del verbo: se il proprio fine è
descrivere il significato di abbattere, occorre fare affidamento sulle
classi di oggetti e osservare come, al variare di queste, varia quello;
Sul rapporto tra la nozione di uso un Wittgenstein e l’idea di G. Gross cfr (Le Pesant
& Mathieu-Colas 1998: 30)
100
200
ii)
dal significato del verbo alle classi di oggetti: se il proprio fine è
descrivere le classi di oggetti, occorre appoggiarsi alle varie accezioni
assunte di abbattere e osservare quali insiemi di entità ciascuna di esse
seleziona.
Percorrere la direzione i) vuol dire usare le classi di oggetti per definire i
predicati: questo è il cammino della semantica lessicale sincronica intrapreso
da G. Gross. Percorrere la strada ii) vuol dire usare il senso dei predicati per
definire le classi di oggetti: questo è il cammino che deve seguire chi è
interessato alle presupposizioni di base.
1.3. Obiezioni
1.3.1. Un circolo vizioso
Naturalmente, di fronte ai punti i) e ii) qualcuno potrebbe avere
l’impressione di trovarsi un circolo vizioso: se per descrivere i significati
occorre conoscere le classi di oggetti e se per descrivere le classi di oggetti
occorre conoscere i significati, da dove cominciare? La risposta è semplice: dai
significati.
Per illustrare quello che intendo, si riprenda l’esempio (3) o si consideri
una coppia di enunciati piuttosto celebre nei dibattiti relativi alla logica delle
classi:
(4)
a. Le domande e le pietre sono dure.
b. Penso alle domande e alle pietre.
Di fronte a (3) e (4) non brancoliamo nel buio ma abbiamo un’intuizione diretta
del fatto che abbattere e duro – ma non pensare a qualcosa – compaiono in
accezioni diverse. La prova è che in (4a) è possibile isolare uno dei sensi di duro
e costruire un enunciato potenzialmente metaforico come:
(4)
a’. Le pietre sono difficili.
A questo punto, seguendo W. O. Quine in Word and Object, si potrebbe
obiettare che il fatto che duro in (4) presenti due sensi diversi sia una tesi da
dimostrare; e cioè:
Why not say that [stones] and questions, however unlike, are hard in a single
inclusive sense of the word? (Quine 1960: 130)
A W. O. Quine, G. Gross risponderebbe che provando a descrivere il
senso di un lessema in questo modo, il suo significato ci scivola tra le dita come
un pugno di sabbia. L’idea da seguire è esattamente quella contraria: prima
occorre identificare i diversi usi o schemi predicativi e poi – a posteriori – è
possibile percorrere a ritroso il filo rosso di ramificazioni metonimiche e
metaforiche che innerva le varie accezioni e che le rende, appunto, accezioni di
uno stesso lessema polisemico.
1.3.2. Predicati mendaci
201
Una seconda obiezione potrebbe provenire da un argomento di G. Ryle:
A man would be thought to be making a poor joke who said that three things are now
rising, namely the tide, hopes, and the average age of death. It would be as good or a
bad joke to say that there exist prime numbers and Wednesdays and public opinions
and navies or that there exist both bodies and minds (Ryle 1949: 23).
Applicato all’esempio (4), l’argomento di G. Ryle pretenderebbe di concludere
che i predicati essere duro e pensare a qualcosa hanno impieghi diversi in (4a) e
(4b) perché le pietre e le domande appartengono a classi diverse. In realtà, è
vero l’esatto contrario: è il fatto che duro abbia due impieghi diversi in (4a) che
prova che le domande e le pietre appartengono a due classi diverse e non
viceversa. L’argomento di R. Ryle, dunque, commette la classica fallacia
abduttiva: ci sono predicati (come essere duro) che sono sensibili alla differenza
di classe che intercorre tra domande e pietre, ma ve ne sono altri (come
pensare a qualcosa) che ne sono evidentemente insensibili101.
Un predicato come pensare a qualcosa merita una breve precisazione:
nei termini di G. Gross, è un predicato «senza restrizione argomentale». Un
predicato di questo tipo non è discriminante rispetto ad alcuna classe ed è
tipicamente un verbum dicendi (pensare a…, ritenere che… dire che… ecc.).
Questo fatto non è casuale: tali predicati sono privi di restrizioni (se non
sintattiche) perché delimitano l’orizzonte di ciò di cui si può parlare e stanno
alla lingua come lo spazio sta al movimento. Per questa ragione, è possibile
dire che ridere delimita ex positivo la classe delle persone ed ex negativo
quella delle cose; ma parlare di… non delimita alcuna classe ex negativo
perché è possibile parlare di tutto e quindi non delimita alcuna vera classe
neppure ex positivo perché è tutto il campo di ciò di cui si può parlare102. Una
conseguenza è che i verba dicendi usati alla prima persona del presente
risultano ‘trasparenti’ o ‘performativi’ e tendono ad avere un impiego non
descrittivo, inerente alla funzione ideativa, ma interpersonale. Funzionano cioè
come modalizzatori.
Dopo aver schizzato i cardini della posizione di G. Gross e averla difesa
dalle obiezioni precedenti, ci proponiamo di seguirla (§ 2.1.) per vedere a che
punto e in che modo si innesta la nostra (§ 2.2.). Il risultato consisterà nel
chiarire il punto ii) sub. § 1.2.: cioè in che modo possano essere studiate le
presupposizioni di base (§ 2.3).
2. Il nesso tra semantica lessicale e metafisica descrittiva
2.1. La via della semantica lessicale
Percorrendo la strada di G. Gross lungo la direzione i) delineata sub. §
Un’osservazione. Più la differenza tra gli elementi in gioco è di alto livello (inerente
alle «iperclassi», con la terminologia che introdurremo tra breve) più sarà alto il numero dei
predicati che si applicano coerentemente all’uno ma non all’altro o che specializzeranno le
proprie accezioni. Viceversa, più la differenza in gioco è di basso livello (inerente a «classi» e
«sottoclassi», con la terminologia che introdurremo tra breve) meno sarà elevato il numero dei
predicati discriminanti.
102
Usando i termini di F. Sommers, se assolutizzo un predicato come |ridere| ottengo
grossomodo la distinzione tra persone e cose mentre se assolutizzo un predicato come
|pensare a| ottengo tutto, ovvero nulla, perché non è possibile immaginare una classe
complementare esattamente come non si può immaginare un luogo al di fuor sello spazio.
101
202
1.2., ci si rende conto come una nozione generica di classe di oggetti funzioni
bene per un verbo quale seccare:
(5)
(6)
a. La quercia è seccata
b. Maria è seccata
a. Ho urtato l’automobile
b. Ho urtato i sentimenti di Maria
= appassita
= stizzita
= toccato
= offeso
Così, ad esempio, l’accezione di seccare in (6a) è quella assunta quando, in
posizione di soggetto, viene inserito un elemento qualsiasi appartenente alla
classe dei vegetali: da una quercia a un filo d’erba103. Analogamente l’accezione
di urtare in (6a) è quella assunta quando, in posizione di oggetto diretto, viene
inserito un elemento qualsiasi appartenente alla classe dei concreti.
Il fatto che le classi in questione siano proprio quelle dei vegetali e dei
concreti può essere provato tenendo ferma l’accezione assunta da seccare e
urtare in (5a) e (6a) – cioè appassire e toccare – e applicandovi il soggetto e
l’oggetto diretto di (5b) e (6b):
(5)
(6)
c. Maria è appassita.
c. Ho toccato i sentimenti di Maria.
Poiché interpretare (5c) e (6c) comporta capire in che senso e in quali limiti
una persona possa appassire come un vegetale o in che senso i sentimenti di
una persona possano essere toccati come una cosa: possiamo concludere che la
classe selezionata da seccare in (5a) – e proiettata sul soggetto di (6c) – sia
proprio quella dei vegetali e che la classe selezionata da urtare in (6a) sia
proprio quella dei concreti. Più precisamente, con i nostri termini, le
predicazioni indirette esibite da (5c) e (6c) sono:
(5)
(6)
d. Maria è un vegetale.
d. I sentimenti sono entità concrete.
Con i termini tecnici di G. Gross, le classi di oggetti molto generali (come
quella dei vegetali) prendono il nome di «iperclassi» e i predicati che le
individuano (come appassire, per i vegetali) si dicono «predicati generali».
Si immagini ora di dover definire l’accezione assunta da tagliare o da
prendere in:
(7)
(8)
a. Il boscaiolo ha tagliato la quercia
a. Ho preso l’automobile
= abbattuto
= guidato
Questa volta non basta dire che l’accezione di tagliare in gioco sia quella
ottenuta inserendo – in posizione di oggetto diretto – un elemento qualsiasi
della classe dei vegetali: dalle querce ai fiori. E, analogamente, non basta più
dire che l’accezione di prendere in gioco sia quella ottenuta inserendo – in
posizione di oggetto diretto – un elemento qualsiasi della classe dei concreti.
Qui, occorre essere più precisi.
L’accezione di tagliare in (7a) è quella che si ottiene inserendo – in
posizione di oggetto diretto – un elemento qualsiasi appartenente a una sottoSi potrebbe discutere su come chiamare l’etichetta: in effetti, il vegetale è seccato non
funziona, la pianta è seccata invece sì. Potremmo quindi riservare come nome dell’etichetta il
termine più generale che possiamo sostituire.
103
203
classe dei vegetali: che potremmo etichettare «delle piante ad alto fusto». E
l’accezione di prendere in (8a) è quella che si ottiene inserendo – in posizione di
oggetto diretto – un elemento appartenente a una sotto-classe dei concreti: che
potremmo etichettare dei «mezzi di trasporto privati». Ancora una volta, il
fatto che la sottoclasse in questione, ad esempio per (7a), sia proprio quella
delle piante ad alto fusto è mostrato dall’osservazione di un enunciato come:
(7)
b. Il boscaiolo ha abbattuto il filo d’erba.
L’enunciato (7b) fa pensare al filo d’erba come se fosse dotato di un tronco:
questo tratto, dunque, caratterizza la classe di oggetti selezionata
dall’accezione abbattere di tagliare in (7a). La predicazione indiretta pertinente
è:
(7)
c. Un filo d’erba è una pianta ad alto fusto.
Alle classi come quella delle piante ad alto fusto – cioè ad estensione più
ristretta rispetto alle iperclassi – G. Gross riserva l’etichetta di «classi di
oggetti»; i predicati che le individuano (l’accezione pertinente di abbattere,
nella fattispecie) prendono il nome di «predicati appropriati».
E’ a questo punto che la nostra prospettiva e quella di G. Gross si
invertono; più precisamente si invertono sulla domanda: che differenza c’è tra
le classi di oggetti e le iperclassi?
2.2. La via della metafisica descrittiva
2.2.1. Classi di oggetti vs. iperclassi
G. Gross segue la direzione i): in questa prospettiva, le iperclassi si
rivelano troppo generali per definire accuratamente il significato della maggior
parte dei lessemi. La differenza tra iperclassi e classi di oggetti si riduce quindi
a una questione di generalità. La lessicografia classica – identificando i criteri
di selezione con le iperclassi – ne percepiva implicitamente la differenza
rispetto alle classi di oggetti; l’impostazione generativa di G. Gross, invece,
esplicita così dettagliatamente i tratti semantici di un lessema da trasformare i
criteri di selezione in un poliedro dal numero indefinito di facce. Facendo
questo, si guadagna uno strumento assai fine di descrizione lessicale: tale da
riuscire a distinguere i mezzi di trasporto pubblici dai privati o i veicoli a
quattro ruote da quelli a due ruote. Tuttavia, proprio per questo, ci si ritrova
con un carro armato concettuale che schiaccia la differenza tra iperclassi e
classi di oggetti.
Al contrario di G. Gross, noi seguiamo la direzione ii): in questa
prospettiva, la differenza tra classi e iperclassi è che le seconde individuano le
presupposizioni di base. Per rendersene conto, si confrontino le precedenti
predicazioni indirette:
(9)
(10)
a. Una quercia / un filo d’erba è un vegetale.
b. Un’automobile è un oggetto materiale.
a. Una quercia è una pianta ad alto fusto.
b. Un’automobile è un mezzo di trasporto pubblico.
204
Gli enunciati (9) – che esprimono iperclassi – individuano presupposizioni di
base; gli enunciati (10) – che esprimono classi di oggetti – individuano modelli
cognitivi condivisi; i primi sono le condizioni di coerenza alle quali è sensato
interrogare o dubitare sui secondi. Nella definizione di un dizionario di quercia
ci aspetteremmo di trovare «pianta ad alto fusto», in quella di autobus ci
aspetteremmo di trovare «mezzo di trasporto pubblico», in quella di sedia
«mobilio», ma in nessun caso ci aspetteremmo di trovare qualcosa come
«oggetto concreto». Come intuito da P. Strawson:
We should not ordinarily call a chair or a mountain a ‘body’ (Strawson 1992: 23)
Come scrive M. Prandi (sottolineatura mia):
Consistency criteria [cioè le presupposizioni di base, ovvero le iperclassi] delimit
from outside a consistent conceptual territory. It is within the borders of consistency,
and only within these borders that language specific-lexical structures and shared
cognitive models take shape and interact to shape concepts. Consistency criteria are
not caught within this interplay – they delimit the playing field from the outside. The
fact that concepts are cut out from among consistent cognitive material is the reason
why descriptive lexicography does not explicitly state consistency criteria: cultural
models of things and events either shaped or expressed by lexical structures and dealt
with by descriptive lexicography are previously assumed as consistent. Their
consistency is not called into question but presupposed in lexical definitions. (Prandi
2004: 223-224)
Le iperclassi sono quelle idee su cui facciamo affidamento ad un livello
così generale e stabile di condivisione che non ha pressoché senso inserirle
nella definizione di un lessema: sono cioè i concetti-limite della nostra forma di
vita non ulteriormente definibili. Un modo intuitivo per saggiare la differenza
tra classi di oggetti e iperclassi è considerare le liste seguenti:
(α)
(β)
matita, penna, portapenne, temperino, quaderno.
prete, carabiniere, ladro, studente, politico.
La domanda è: cos’hanno in comune gli elementi di (α) e (β)? Nel caso di (α), la
risposta è facile: hanno tutti a che fare con l’ambito della cancelleria; nel caso di
(β), invece, la risposta è meno immediata: la lista ha un aspetto più disordinato.
In entrambi i casi, l’ultima cosa a cui penseremmo sarebbe che i membri di (β)
sono tutti esseri umani e quelli di (α) tutti oggetti concreti. Il nostro pensiero,
cioè, risulta focalizzato non sulle iperclassi ma sulle classi di oggetti: è perché
riusciamo a identificare subito una classe di oggetti specifica che la lista (α) ci
sembra omogenea; ed è perché non riusciamo a identificare facilmente un’unica
classe di oggetti che la lista (β) ci sembra eterogenea. Il nostro pensiero guarda
verso le classi di oggetti camminando sulle iperclassi.
Ma l’osservazione precedente attira l’attenzione anche su un altro
punto. G. Gross usa il termine «iperclassi», che include il lessema «classe»
condiviso con «classe di oggetti». D’altra parte, apparentemente, è naturale
considerare le presupposizioni di base come categorie o concetti; ma è sensato?
Un concetto, una categoria o una classe (concepita rigidamente o come un
prototipo) serve a classificare, ma le presupposizioni di base servono a
classificare? L’osservazione condotta sulle liste (α) e (β) suggerisce una
risposta negativa. Certo, in astratto, possiamo fare elenchi di persone e di
animali, di cose e di vegetali, di luoghi e di tempi. Tuttavia, questi sono
205
precisamente i tipi di elenchi che nella vita quotidiana – cioè al di fuori di
un’aula di filosofia – non penseremmo mai di fare. Distinguiamo asini da
cavalli, automobili da aerei, italiani da svizzeri, galantuomini da disonesti; ma
non distinguiamo un cavallo da un italiano o un carpentiere da un pioppo: il
problema di questa distinzione non si pone. Questo vuol dire che le ‘classi’ di
animali, persone e vegetali non entrano mai tra loro in competizione: cioè,
appunto, non le usiamo per classificare. E il motivo è che la loro funzione è
delimitare l’arena all’interno della quale competono categorie e prototipi: è a
questi ultimi – e ad essi soltanto – che deve essere riservato il termine di
«classi».
Come anticipato sub. § 2.1. del capitolo 0, nonostante possa sembrare
paradossale, noi non facciamo esperienza di persone, cose, vegetali, animali e in
genere di iperclassi. Ciò di cui facciamo esperienza sono lacrime e pioggia;
tronchi abbattuti e cadaveri, splendide giornate e sorrisi. Questi sono i fatti del
nostro mondo. Questi fatti presuppongono come condizioni di coerenza le
distinzioni tra persone e cose, animali e vegetali. Da un punto di vista logico,
sono queste distinzioni ad avere la priorità su quelle esperienze; da un punto di
vista pratico, possiamo accedere alla grammatica di quelle distinzioni solo
descrivendo pazientemente queste esperienze. E il modo migliore per farlo, per
i motivi addotti al capitolo 2 sub § 2.3., è esplorare le condizioni di coerenza
degli enunciati. D’altra parte, l’impressione di paradosso alla quale ho
accennato è fisiologica: la ragione per la quale ci sembra di fare esperienza di
persone e cose così come facciamo esperienza del fatto che le prime soffrano e
le altre no è un riflesso del carattere fondante di tali categorie.
2.2.2. Critica alla nozione di «predicato inappropriato»
La nostra interpretazione delle iperclassi può anche essere chiarita
tramite una critica alla nozione di «predicato appropriato» e, precisamente,
tramite un’analisi della nozione contraria: quella di «predicato inappropriato».
Sostenere che i predicati che non si applicano a una classe di oggetti siano tutti
«inappropriati» equivale a obliterare la distinzione tra classi e iperclassi
riducendola a una questione di generalità. Questa è (più o meno
implicitamente) la posizione di G. Gross. Al contrario, sostenere che i predicati
che non si applicano a una classe di oggetto non siano tutti, rigorosamente
parlando, «inappropriati» equivale a riconoscere una gerarchia tra classi e
iperclassi. Questa è la nostra posizione. Se tutti predicati che non si applicano a
una classe di oggetti fossero inappropriati, allora dicendo primate o ungulato o
carnivoro di un uomo dovrei dire qualcosa di vero o falso, ma (come suggerito
sub. § 3.2. del capitolo 8) quella non sarebbe l’interpreazione naturale.
Per chiarire quello che intendo, guardiamo più da vicino le nozioni di
classe di oggetti e iperclasse concentrandoci anzitutto sul loro rapporto. Si
ritorni dunque sugli enunciati (5c) e (7b):
(5)
(7)
c. Maria è appassita.
b. Il boscaiolo ha abbattuto il filo d’erba.
Di fronte a (5c), spontaneamente, parleremmo di «metafora». La ragione è che
l’uso di appassire è incoerente perché sussume sotto la classe dei vegetali il
membro di una classe diversa: quella delle persone. Di fronte a (7b), invece,
non parleremmo tanto di «metafora», quanto semplicemente di «impiego
206
inappropriato di un verbo». La ragione è che questa volta l’uso di abbattere in
(7b) rispetta i criteri di coerenza violati in (5c): un filo d’erba e una quercia,
infatti, appartengono entrambi alla classe dei vegetali. Se in (7b) è presente una
qualche violazione, dunque, essa si colloca ad un livello inferiore rispetto a
quella di (5c): confonde cioè due tipi di vegetali, ma rispetta la distinzione tra
vegetali e persone. Questo vuol dire che la condizione di possibilità affinché un
predicato possa avere un impiego inappropriato – e quindi appropriato – è il
rispetto della coerenza delle iperclassi. Ma poiché i predicati appropriati
definiscono le classi di oggetti, questo significa che le classi di oggetti
presuppongono le iperclassi. A dire il vero, questo significa qualcosa di più
generale: e cioè che – indipendentemente dalla distinzione tra iperclassi e classi
di oggetti – il rapporto da classe più generale a meno generale è di
presupposizione.
Osserviamo infatti la relazione da classe di oggetti a classe di oggetti:
(11)
a. Mi sono ubriacato di vodka.
b. Mi sono ubriacato di succo di frutta.
c. Mi sono ubriacato di benzina.
L’enunciato (11a) individua un’alternativa possibile all’interno del paradigma
delle bevande alcoliche e può essere contingentemente vero o falso: qui l’uso di
ubriacarsi è appropriato. L’enunciato (11b), invece, non individua
un’alternativa all’interno del paradigma delle bevande analcoliche, è vero
necessariamente e possiede un certo tasso (molto ridotto) metaforico: qui l’uso
di ubriacarsi è inappropriato. Ma in (11c) l’uso di ubriacarsi è appropriato o
inappropriato? In (11b) il problema non consisteva nel fatto che il soggetto
avesse bevuto, ma negli effetti che dichiarava: veniva messa in discussione la
dicotomia tra classe delle bevande alcoliche e classe delle bevande analcoliche.
In (11c), invece, il problema consiste nel fatto che il soggetto abbia bevuto un
liquido che non si può bere: qui è messa in crisi la dicotomia tra classe dei
liquidi potabili (o bevande) e classe dei liquidi non-potabili. Di conseguenza, è
tagliata alla radice la precedente distinzione tra bevande alcoliche e nonalcoliche, che ha senso solo se viene rispettata la distinzione tra liquidi potabili
e non-potabili. Ma, allora, se chiamiamo «inappropriato» l’uso di ubriacarsi in
(11b) per opposizione a quello «appropriato» di (11a), non ha senso chiamare
«inappropriato» anche quello di (11c).
Per evidenziare il confine tra (11a-b) e (11c), si immagini di chiedere a
un medico: E’ possibile che la vodka ubriachi? E’ possibile che un succo di
frutta ubriachi? A queste domande, egli risponderà con sicurezza sì e e no: che
le bevande alcoliche ubriachino e quelle analcoliche no sono modelli cognitivi
condivisi. Ma se allo stesso medico chiedessimo: E’ possibile che una bottiglia
di benzina ubriachi? rimarrà sicuramente perplesso: probabilmente, è un
problema che non si è mai posto. E’ chiaro che, dopo una breve riflessione,
potrebbe benissimo rispondere no; ma per far questo dovrà porre la benzina
allo stesso livello di una bevanda analcolica come il succo di frutta. Una
controprova è offerta dagli enunciati seguenti:
(11)
b’. Ho bevuto un succo di frutta.
c’. Ho bevuto della benzina.
In (11b’) e (11c’) troviamo un uso, rispettivamente, appropriato e inappropriato
207
di bere nel senso in cui lo era quello di ubriacarsi in (11a) e (11b)104. In sintesi,
mentre (11a) e (11b) presentano un impiego rispettivamente appropriato e
inappropriato di ubriacarsi, (11c) presenta un impiego che viola le condizioni
affinché – in quegli altri – si abbiano impieghi definibili «appropriati» o
«inappropriati». Di conseguenza, non si può dire che in (11c) ubriacarsi sia
usato in modo «inappropriato» come in (11b).
A questo punto, si aggiunga agli enunciati (11a-c) il seguente:
(11)
d. Mi sono ubriacato di questo tavolo.
Se per (11c) non si poteva parlare di «impiego inappropriato» di ubriacarsi,
non lo si può fare neppure – e a fortiori – per (11d). Per rendersene conto, si
immagini di domandare al nostro medico: Scusi, saprebbe dirmi se tavoli fanno
ubriacare? Questa volta, egli non rimarrà perplesso: chiamerà direttamente il
suo collega psichiatra. La ragione è che qui viene messo in crisi non il confine
tra classe dei liquidi potabili e classe dei liquidi non-potabili, ma la condizione
di coerenza di questo stesso confine: la distinzione tra liquidi e solidi. Questa
distinzione è una presupposizione di base. Del resto, si confronti (11c’) con:
(11)
d’. Ho bevuto questo tavolo.
L’enunciato (11c’) era inappropriato come (11b), ma non era incoerente; al
contrario, l’enunciato (11d’) non è soltanto «inappropriato»: è incoerente.
2.3. Da una grammatica filosofica a una lessicologia filosofica
Scrive P. F. Strawson:
Well, some of those common concepts which I just now listed – car, pebble, guitar –
though lacking in generality themselves, have in common, and share with very many
other non-technical concepts as well, a feature of very high generality indeed: viz.,
that they are all concepts of material objects or, to use the older philosophical term, of
bodies. Might not the concept of body, of material object, be a good example of a
candidate for the role of basic concepts? (Strawson 1992: 23).
Affermare che un’automobile sia un «corpo» come una chitarra significa
affermare che rientrano entrambi nell’iperclasse degli oggetti concreti.
Studiare il concetto filosofico di «oggetto materiale» (o «concreto» o «corpo»)
e studiare il concetto sociale di «mezzo di trasporto pubblico» significa
precisare il nome del predicato di (9b) e (10b). Per fare questo, occorre
intrecciare diversi predicati osservando le classi di oggetti che delimitano; e
per rifinire il profilo di queste classi di oggetti, il modo migliore è osservare le
linee di forza lungo le quali piegheremmo gli enunciati incoerenti. La
differenza tra (9) e (10) non consiste in ciò che si fa: in entrambi i casi, infatti, si
«delucida» un nostro schema concettuale condiviso. La differenza in gioco
riguarda il livello a cui si compie tale delucidazione: il livello delle
presupposizione di base o delle iperclassi, in (9); piuttosto che il livello delle
conoscenze condivise o classi di oggetti, in (10). In nessuno di questi casi
Questo suggerisce un’ulteriore distinzione tra le classi delle bevande alcoliche e delle
bevande tout court: l’etichetta bevanda è culturale e non radicata nella fisica del mondo (posso
bere tutti i liquidi che riesco a ingerire); l’etichetta alcolica (selezionata da ubriacare) è fisica:
posso anche bere la benzina, ma la benzina non mi fa ubriacare.
104
208
parliamo solo di parole.
Quando ci occupiamo delle iperclassi, ad esempio, portiamo alla luce le
presupposizioni che regolano non solo – in secondo luogo – il nostro uso del
verbo urtare, ma soprattutto – in primo luogo – le condizioni di possibilità e i
limiti in cui possiamo urtare qualcosa. Qui ci troviamo nel regno di quella che
potremmo etichettare «metafisica sincronica»: gli oggetti che delimitiamo a
questo livello non sono sensibili né al mutamento delle lingue, né al
cambiamento delle culture. Quando ci occupiamo del secondo livello, invece,
portiamo alla luce modelli cognitivi condivisi che costituiscono, ad esempio,
oggetti sociali come i mezzi di trasporto pubblico. Qui ci troviamo nel regno di
ciò che potremmo etichettare «sociologia o antropologia sincronica»: gli
oggetti che delimitiamo a questo livello sono sensibili al mutamento delle
lingue e al cambiamento delle culture e presuppongono gli oggetti del livello
precedente.
Le presupposizioni di base sono l’oggetto della metafisica descrittiva.
Di conseguenza, la semantica lessicale e la metafisica descrittiva – che ora
potremmo ribattezzare «lessicologia filosofica» – sono due direzioni opposte in
cui si percorre una medesima strada. Per illustrare quello che intendo, si
confrontino le proposizioni seguenti:
a1)
a2)
b1)
b2)
l’accezione tagliare di abbattere è quella individuata da uno schema
predicativo in cui compare – in posizione di oggetto diretto – un
membro della classe delle piante ad alto fusto;
l’accezione appassire di seccare è quella individuata da uno schema
predicativo in cui compare – in posizione di soggetto – un membro
della classe dei vegetali;
le piante ad alto fusto sono quelle entità che selezionano l’accezione
tagliare di abbattere;
i vegetali sono quelle entità che selezionano l’accezione appassire di
seccare.
Le proposizioni a) appartengono alla semantica lessicale; la proposizione b1)
appartiene a una «sociologia sincronica»; la proposizione b2) appartiene a una
metafisica descrittiva sincronica, ovvero a una lessicologia filosofica.
Se le presupposizioni di base possono essere studiate per mezzo di una
lessicografia generativa nel senso appena delineato – dando quindi origine a
una lessicologia filosofica – ne consegue che il pugno dei classici fenomeni
presupposizionali (le famiglie di enunciati à la Chierchia) si arricchisce di tutti
quei fenomeni linguistici che G. Gross (Gross 1998) connette agli schemi
predicativi: dalla polisemia alla nominalizzazione, dall’organizzazione dei
campi semantici ai verbi supporto, e così via.
3. Preliminari a un’impresa di lessicologia filosofica
3.1. Come rispondere a domande sulle presupposizioni di base?
3.1.1. Le piante hanno un’anima?
I vegetali soffrono? A meno di non sospendere il senso comune
imbarcandosi in una discussione filosofica, questa non è una domanda che
normalmente ci porremmo. Tuttavia, se ci ostinassimo a intraprendere un
209
simile dibattito, l’atteggiamento naturale consisterebbe nel cercare di
rispondere direttamente: cioè nel cercare tracce, nelle piante, di qualcosa di
simile al dolore. Lungo questa via, qualunque conclusione raggiunta sarebbe
sbagliata.
Il nostro atteggiamento naturale è suscitato dal fatto che il nostro
pensiero funziona su modelli cognitivi: ovvero nello spazio del vero e del falso
e della ricerca delle relative prove. Ma la domanda di partenza verteva su una
presupposizione di base: che è a monte del vero e del falso e per la quale non
esistono prove poiché è una condizione – e non una proposizione – di
conoscenza. Se questo è vero, non è possibile rispondere a una domanda come
le piante soffrono? nello stesso modo in cui un investigatore risponde alla
domanda chi è l’assassino?
L’unico modo per argomentare relativamente alla sofferenza delle
piante (e alle presupposizioni di base in generale) è osservare le idee rispetto
alle quali i nostri comportamenti sono coerenti. Ad esempio, se sentiamo
ridicolo consolare un vegetale dobbiamo concludere che noi – in quella
sensazione – presupponiamo che i vegetali non soffrano. Analogamente, se non
ha senso andare dietro a una pianta di nascosto e gridare bu!, se non ha senso
minacciarla con un tizzone ardente, vuol dire che i vegetali non provano paura.
A questo punto, domandare qualcosa come Sì, ma è proprio vero che i vegetali
non soffrono? E se ci sbagliassimo? vorrebbe dire abbandonarsi alla spinta di
quell’atteggiamento naturale che, nella fattispecie, sarebbe fuorviante. Del
resto, l’idea stessa di trovare nelle piante un analogon al dolore presuppone
che le piante non provano dolore: un’impresa del genere, infatti, sarebbe
insensata per gli animali benché nessuno ci abbia dimostrato che sono
veramente in grado di provare dolore.
3.1.2. La relatività delle presupposizioni di base
Un minimo di introspezione suggerisce che il nostro comportamento è
coerente con l’idea che le piante non siano esseri senzienti, non si organizzano
in società o non abbiano un sesso. Tuttavia, è sufficiente aprire un manuale di
antropologia per trovare un’enorme massa di dati che pare smentire quanto
appena affermato. G. R. Cardona, ad esempio, nel capitolo de La foresta di
piume dedicato ai vegetali, scrive:
[…] manifestazioni tipicamente umane possono essere estese alle piante, come il
parlare; è comune che si ritenga la pianta capace di intendere la parola umana e a
questo effetto le si rivolgano preghiere e incantesimi; così nel piantare piante
commestibili i Molpa della Nuova Guinea pronunciano incantesimi che ne migliorino
la qualità e la forma; […]. E persino le piante possono avere un sesso e da questo
trarre le loro qualità, come nel caso dell’incenso maschio (tus masculum) di cui
parlano gli antichi; possono essere raggruppate in ‘tribù’ (màlā) e ‘fratellanze’ (kàmá),
sulla base di caratteri comuni, come avviene presso i Gbaya ma’bo. L’isomorfismo tra
pianta ed essere umano può ancora essere più accentuato quando la pianta è, nel suo
dar frutto, assimilata alla donna procreatrice; il ciclo della vita produttiva è allora
proiettato sulla vita produttrice della pianta […] (Cardona 1995: 118).
Del resto, senza scomodare i Molpa della Nuova Guinea, una manciata
di aggettivi è sufficiente a mostrare l’esteso isomorfismo tra il corpo umano e
l’ambito vegetale: magro, scheletrico, rachitico, nano, gracile, denudato, calvo,
cappelluto, slanciato, mingherlino, ossuto. Ma il punto è: quale conseguenza
210
dobbiamo trarre dalle osservazioni precedenti? Il fatto che nei lessici di molte
lingue o in diverse culture vi siano isomorfismi tra regno animale e vegetali
significa che il confine tra questi regni sia labile? Il fatto che sia normale
asserire di una donna che dà frutto o di un albero che è rachitico vuol dire forse
che una donna è un tipo di pianta o che un albero ha un corpo come una
persona?
La risposta, ovviamente, è no. Ciascuno degli isomorfismi menzionati è
una prova non di un annacquamento della distinzione tra animali e vegetali,
ma del fatto che tale distinzione è rigorosamente presupposta. E’ solo perché
facciamo affidamento sulla differenza tra persone e piante che possiamo
proiettare l’ambito concettuale delle une sulle altre: ottenendo effetti artistici
puntuali o creando nuovi concetti. I precedenti isomorfismi, con la loro varietà
tra le lingue e le culture, presuppongono una comunanza di presupposizioni di
base. Questo punto merita di essere approfondito, tanto più che è lo stesso R.
G. Collingwood a concepire la metafisica come un ramo della storia:
When a man first begins looking into absolute presuppositions it is likely that he will
begin by looking at those which are made in his own time and by his own
countrymen, or at any rate by persons belonging to some group of which he is a
member. This of course, is already an historical enquiry. But various prejudices
current at various times […] have tended to deceive such inquirers into thinking that
the conclusions they have reached will hold good far beyond the limits of that group
and that time. They may even imagine that an absolute presupposition discovered
within these limits can be more or less safely ascribed to all human beings everywhere
and always (Collingwood 1940, 1998: 56-47)
3.1.3. Il fenomeno della polisemia
Il fenomeno della polisemia offre in piccolo – cioè all’interno di una
lingua – un modello di ciò che accade tra culture diverse. Illustrerò quello che
intendo in tre passi.
Si considerino anzitutto gli esempi seguenti:
(1)
(2)
a. L’alba ha vagito sul lago
a. Il sole è nato.
L’enunciato (1a) ci colpisce immediatamente come metaforico, ma non (2a);
ciononostante, sia (1a) che (2a) contengono un potenziale conflitto a livello
delle presupposizioni di base, come mostrato dalle predicazioni indirette:
(1)
(2)
b. L’alba è un neonato.
b. Il sole è un essere vivente.
Il fatto che le precedenti siano davvero le predicazioni indirette di (1a) e (1b) è
provato dalla possibilità di interpretarli proiettivamente piuttosto che
regressivamente: nel primo caso, vedremmo l’alba e il sole come bambini; nel
secondo, ad esempio, interpreteremmo vagire e nascere come sorgere. La
ragione dell’aspetto anestetizzato del conflitto contenuto in (2a) è che la
soluzione regressiva risulta fortemente sollecitata: (2a) è insomma una di
quelle metafore «tra le quali viviamo», ma ciò implica precisamente che il suo
nucleo conflittuale sia riattivabile. Questa era il primo passo.
Il secondo passo consiste nell’osservare che, come (2a), si
211
comporterebbero tutti gli altri impieghi della chioma polisemica di nascere.
Una spiga che nasce, germoglia; un fiore che nasce, sboccia105; un fiume che
nasce, sgorga; un incendio che nasce, divampa; un dente che nasce, spunta; una
moda che nasce, incomincia a diffondersi; ecc. A ciascuno di essi corrisponde un
contrario: una spiga che muore, secca; un fiore che muore, appassisce; un fiume
che muore, sfocia o si prosciuga; un incendio che muore, si spegne; una moda
che muore, finisce; ecc. Come in (2a), tutte queste espressioni sono esiti di
metafore regressive; e se, a posteriori, osserviamo questa chioma polisemica,
possiamo individuare un nucleo centrale (l’impiego per esseri viventi) dal quale
si sono diramati diacronicamente, in seguito a metafore regressive, gli altri.
Il terzo e ultimo passo consiste nel rilevare un parallelismo tra (1a) e
(2a). In (1a) – interpretato sostituendo ha vagito sul lago con è sorta sul lago –
abbiamo una metafora regressiva compiuta da una persona singola in momento
preciso; in (2a) – dove è nato sarebbe immediatamente interpretato
sostituendolo con è sorto – abbiamo ancora una metafora regressiva compiuta
però da un’intera comunità linguistica in modo stabile. Questa è la ragione per
cui (1a) ci colpisce come metaforico e non ci aspetteremmo di trovarlo in un
dizionario, mentre (2a) non ci colpisce e ci aspetteremmo di trovarlo in un
dizionario: (1a) è una metafora viva, che percepiamo ancora come irrisolta; (2a)
è una metafora che ha dato origine a un concetto coerente grazie alla codifica
di una sua risoluzione regressiva106.
Il punto centrale è che se diciamo che il parlante che interpreta
regressivamente (1a) presuppone (1b), dobbiamo ugualmente dire che la
comunità che interpreta regressivamente (1b) presuppone (1c). Il fatto che
nascano persone, stelle, idee e piante – in una parola la polisemia di nascere –
prova non che tra questi elementi non vi sia un confine netto, ma che sulla
presenza di tale confine e sul suo rigore facciamo affidamento come su qualcosa
di fuori discussione107. Questa conseguenza ha un corollario. Come noto, nella
letteratura specializzata è comune distinguere tra teorie della presupposizione
in cui sono entità linguistiche (enunciati o proposizioni) a presupporre e teorie
della presupposizione in cui sono invece le persone a presupporre: nel primo
caso, si parla di teorie «semantiche»; nel secondo, di teorie «pragmatiche»
patrocinate da R. Stalnaker. L’impostazione qui proposta prosegue la strada di
R. Stalnaker: dal nostro punto di vista, infatti, non sono solo i singoli a
presupporre, ma le comunità; e le chiome polisemiche sono precisamente le
impronte lessicali delle presupposizioni di una comunità. La polisemia è il più
esteso fenomeno presupposizionale.
Tornando alla questione della relatività delle presupposizioni, possiamo
concludere quanto segue. Per quanto riguarda le presupposizioni di base – il
livello più elevato delle presupposizioni – tutte le diverse lingue dovrebbero
giungere alle medesime conclusioni: esattamente come tutte le diverse
interpretazioni che possiamo dare di un enunciato metaforico fanno leva sulla
medesima presupposizione. Ritroviamo qui la prima conseguenza evidenziata
sub. § 1.3. del capitolo 9, che ora possiamo riformulare così: la diversità delle
interpretazioni o delle lingue presuppone l’unicità delle grandi distinzioni
ontologiche. Se questo è vero, tenendo ferme le presupposizioni di base,
Si noti che questi due impieghi possono essere usati per isolare la classe dei fiori: che
sboccia e appassisce. Una spiga, invece, non è un fiore perché germoglia e secca.
106
E’ il primo passo verso la catacresi. Per la differenza tra metafora coerente e catacresi,
rimando a Prandi 2004:
107
Questo permette tra l’altro di giustificare le sovrapposizioni ridondanze e apparenti
incoerenze nella classificazione dei vegetali o animali: queste incoerenze si hanno sullo sfondo
della coerente distinzione tra i regni.
105
212
possiamo descrivere il percorso interpretativo di una data cultura e vedere così
il suo profilo: capire come è la sua mentalità esattamente come
l’interpretazione di un singolo individuo ci dice qualcosa di lui. Tenere ferme le
presupposizioni di base ed osservare come le varie culture risolvono i loro
eventuali conflitti ci illumina su di esse. Ammettere che tutte le forme di vita
umane abbiano le stesse presupposizioni di base – che ad esempio per tutti i
vegetali non siano persone – non è un freno alla fantasia ma il punto di
appoggio che permette di illuminare la variegata fantasia di risposte possibili:
tutta la fioritura di tutte le diverse forme della stessa vita umana.
3.2. Le presupposizioni di base sono ridondanti?
Torniamo, dopo il precedente inciso, al carattere più applicativo del
nostro discorso. G. Gross individua sei iperclassi o «regioni ontologiche» per
dirlo à la Husserl: umani, animali, vegetali, locativi», concreti e durate. Ora, se
i vegetali e i concreti sono iperclassi e se i vegetali sono senza dubbio oggetti
concreti, perché non pensare che quelli debbano essere inglobati in questi?
La risposta è che le iperclassi – le presupposizioni di base – lavorano in
relazione: in linea di principio, non c’è nulla di sbagliato nel pensare che per
definire i vegetali occorra connetterli con i concreti; questo punto è chiarito da
P. F. Strawson che immagina il suo modello di analisi come (sottolineatura
mia):
[…] an elaborate network, a system, of connected items, concepts, such that the
function of each item, each concept, could, from the philosophical point of view, be
properly understood only by grasping its connections with the others, its place in the
system […] if this becomes our model, then there will be no reason to be worried if,
in the process of tracing connections from one point to another of the network, we
find ourselves returning to, or passing through, our starting point (Strawson 1992:
19).
Come scrive M. Prandi (sottolineatura mia)
Within the classificatory component, all conceivable beings are distributed in such
conceptual categories as concrete and abstract, animate and inanimate, human and
non-human beings. This classification, however, is not self-containing. It is not
grounded on immanent criteria, as in the case of a true taxonomy, but on criteria that
are in turn relational, because it is functional to the construction of consistent
relational patterns – namely, to the identification of processes and qualities that are
either consistent or inconsistent with each kind of being. Whereas empirical identity
is one and the same, conceptual identity is multi-faceted because it is relational. In our
direct experience, for instance, a tree is a tree. Looked at from the standpoint of
natural ontology, its classification is variable according to the different classes of
relations that can be applied to it. If we think of colour, it is a physical body provided
with an extended surface, like a wall, a piece of paper, a beast or a person. If we think
of perception, it is an inanimate being, like a stone or a machine. When we cut one of
its branches, for instance, we assume that it does not feel pain. If we think of free and
responsible action, it is a non-human being, like the moon or an insect. If we are hit
by one of its falling fruits, we do not see in it an intentional act. (Prandi, unp.)
3.3. Che aspetto ha la grammatica delle presupposizioni di base?
213
Dante, ottenendo la grazia di guardare Dio, vide alla fine la propria
immagine:
Quella circulazion che sì concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto circunspetta,
dentro da sé, del suo colore stesso,
mi parve pinta de la nostra effige:
per che 'l mio viso in lei tutto era messo.
(Dante, Commedia, Par. XXXIII, vv. 127-132)
Qualcosa di simile accade quando gettiamo uno sguardo alle presupposizioni di
base:
Natural ontology is naturally anthropocentric. Persons enjoy a positive conceptual
identity. Though owning a physical body and sharing many functions with other
living creatures, human beings are not non-animals, or non-angels, or non-gods, but
plainly human beings. Beneath the threshold of humanity, identity becomes less and
less positive and more and more negative. A dog, for instance, is both animate and
non-human, whereas a stone is simply inanimate. Such negative categories as
inanimate or non-human cannot be justified in view of consistent classification; they
can only be justified in view of consistent relations, that is, thinking of consistent and
inconsistent processes and properties (Prandi, unp.).
Alla luce di queste osservazioni nel prossimo capitolo compiremo
qualche scorribanda nel territorio delle presupposizioni di base: sul crinale tra
vegetali e persone, cose, animali.
214
CAPITOLO 11
Scorribande tra cose, animali, vegetali e persone
215
Indice del capitolo
1. Prima via: dentro l’iperclasse dei vegetali
1.0. Vegetali e classi di vegetali
1.1. La distinzione tra erbe, fiori e alberi
1.2. La nozione di ‘luogo’
1.3. Sulle parti di un albero
1.4. Vegetali del suolo e frutti
1.5. Vegetali domestici e selvatici
2. Seconda via: tra vegetali, cose, animali e persone
2.1. La nozione di ‘materiale’
2.2. Le nozioni di ‘corpo’ e ‘anima’
2.3. Le nozioni di ‘sofferenza’ e ‘morte’
2.4. La nozione di ‘organismo’
2.5. Le nozioni di ‘vita’ e ‘età’
2.6. La nozione di ‘abitare’
2.7. Le nozioni di ‘educazione’, ‘coltivazione’ e ‘allevamento’
2.8. Tipi di piante, animali e persone
217
217
217
219
220
221
222
223
223
227
230
235
242
244
245
246
216
1. Prima via: dentro l’iperclasse dei vegetali
1.0. Vegetali e classi di vegetali
Una classe o un’iperclasse possono essere descritte da due punti di vista
complementari: dall’esterno e dall’interno. Nel primo caso, se ne delimitano i
confini rispetto alle altre iperclassi o alle altre classi dello stesso livello; nel
secondo caso, si delineano le (sotto)classi alle quali forniscono lo spazio di
coerenza. In questo capitolo compiremo qualche passo nella seconda direzione;
nel prossimo ci occuperemo della prima.
Anzitutto, si deve osservare che pianta e vegetale sono i nomi generici
con cui si possono opporre i baobab e i cespugli alle scimmie e agli uccelli;
tuttavia, tra pianta e vegetale sussiste una differenza. Pianta contiene il
prototipo di un vegetale nella nostra esperienza quotidiana; ciò è mostrato
dalla definizione che fornisce il VLI (sottolineatura mia):
pianta s. f. [lat. planta «virgulto», «pianta del piede»]. - 1. (bot.) Denominazione
generica di ogni organismo vegetale, di tipo arboreo, arbustivo o erbaceo provvisto di
radici, fusto e foglie, con caratteristiche generali quali la presenza della parete
cellulare, di plastidi e vacuoli, l'accrescimento indefinito; […]
Vegetale, invece, oppone alcuni organismi ad altri a un livello di
generalità al quale raramente ci collochiamo: per questa ragione, vegetale è in
grado di estendersi al di là dei confini della nostra esperienza quotidiana fino a
comprendere muschi, muffe e microorganismi108.
1.1. La distinzione tra erbe, fiori e alberi
Si considerino gli enunciati seguenti:
(1)
(2)
(3)
a. ?Il pesco è sbocciato?
a. ?Ha segato le ortiche?
a. ?Ha falciato la quercia?
Intuitivamente, l’impiego di sbocciare, segare e falciare in (1), (2) e (3) non ci
appare «incoerente» o «metaforico» – come in l’alba è sbocciata o le hanno
segato le idee – ma certamente inappropriato109. Dovendo interpretare (1a),
probabilmente ricorreremmo a una metonimia che applica il predicato non
all’albero di pesco ma ai fiori che crescono sui suoi rami. Analogamente, (3a)
potrebbe essere interpretato (anche se in maniera meno naturale) con una
metonimia che dirotta falciare sui rami della quercia e lo sostituisce con potare.
La sensazione di inappropriatezza di fronte a (1), (2), (3) e le metonimie
appena segnalate sono fatti. Le condizioni di possibilità di questi fatti sono: che
sbocciare richieda come soggetto un elemento della classe dei fiori, che segare
La definizione del VLI prosegue così: «si tratta per lo più di organismi autotrofi, in rari
casi saprofiti o parassiti; con lo stesso nome collettivo si indicano anche altri organismi come le
alghe, i funghi, i batteri: una p. di fico, di limone; p. da giardino, da appartamento; p. annue,
perenni, sempreverdi; p. medicinali, ornamentali». Tuttavia, a me sembra che se chiameremmo
piante le alghe, difficilmente potremmo chiamare in questo modo batteri o muffe: qui useremmo
piuttosto il termine vegetali.
109
Un predicato come fiorire, invece, non sarebbe stato tanto sensibile.
108
217
richieda come oggetto diretto un elemento della classe delle piante ad alto
fusto, che falciare richieda come oggetto diretto un elemento della classe delle
erbe. Più precisamente, le predicazioni indirette in gioco sono:
(1)
(2)
(3)
b. Un albero [il pesco] è un fiore.
b. Un’erba [le ortiche] è un albero.
b. Un albero [la quercia] è un’erba.
Le predicazioni indirette (b) sono le presupposizioni responsabili dei
fenomeni delle interpretazioni metonimiche e dell’inappropriatezza di (a): i
nomi del predicato delle proposizioni (b) – le sottoclassi di vegetali dei fiori,
delle erbe e delle piante ad alto fusto – sono ciò che abbiamo bisogno per
spiegare quei fenomeni. Questa è la ragione che ci autorizza a distinguere,
all’interno dei vegetali, fiori (grazie a sbocciare), erbe (grazie a falciare), alberi
(grazie a segare). Quanto alla differente salienza delle letture metonimiche,
anch’essa risulta rivelatrice. In (1a), la naturalezza della metonimia prova che
le nostre conoscenze enciclopediche legano spontaneamente un albero ai suoi
fiori: e questo è ovvio perché sui rami di un albero crescono fiori. In (3a),
l’artificiosità della metonimia prova che il legame tra un albero e l’erba che può
crescere sui suoi rami deve essere costruito perché, prototipicamente, sugli
alberi non cresce l’erba.
Non solo: possiamo anche rilevare come i fiori siano una sottoclasse
delle erbe (di una margherita, infatti, si può dire in maniera appropriata che è
stata falciata), ma non tutte le erbe sono fiori (la gramigna, per esempio non
sboccia). Inoltre, incrociando fasci di predicati è possibile raffinare e
approfondire le classi interne ai vegetali; ad esempio, possiamo distinguere:
alberi (che possono essere abbattuti, potati, sfrondati, segati, tagliati con una
motosega, defogliati, sramati); le erbe (che possono essere diserbate, strappate,
falciate); all’interno delle erbe: i fiori (che possono sbocciare o essere colti)110;
tra le erbe e gli alberi: i cespugli (non possono essere tagliati con la motosega o
abbattuti ma possono essere sfrondati, non ci si può arrampicare su ma ci si
può nascondere dentro o impigliare). E così via.
Al di là della descrizione fine delle sottoclassi di vegetali, ciò che qui
interessa è il rapporto tra una predicazione indiretta e gli enunciati che la
esibiscono. Si consideri ad esempio:
(4)
a. Il tulipano è sbocciato.
b. Il tulipano non è sbocciato.
c. Un tulipano è un fiore.
La relazione tra (4a-b) – con tutto il parentado della famiglia à la Chierchia – e
(4a) è di presupposizione. Se isoliamo e interroghiamo (4c), otteniamo un
enunciato che verte sui nostri modelli cognitivi condivisi e la sua condizione di
coerenza – la cui presupposizione – è:
(4)
d. Un tulipano è un vegetale.
L’enunciato (4b) è la condizione di coerenza di (4c) – e della relativa p-famiglia
di enunciati – esattamente come quest’ultimo è la condizione di coerenza di
(4a-b). La differenza è che (4c) non è presupposizioni di base perché si fonda su
110
Si noti, per inciso, come le varie accezioni di innestare selezioni tutte classi particolari.
Allignare seleziona invece l’iperclasse dei vegetali
218
(4d). Invece, (4d) è una presupposizione di base, che non ha a sua volta
condizioni di coerenza.
1.2. La nozione di ‘luogo’
Si consideri la seguente coppia di enunciati:
(1)
a. La strada sbocca all’aeroporto.
b. ?La strada sbocca all’aereo.
Chiaramente, in (1b) l’impiego di sboccare è inappropriato; le predicazioni
indirette esibite da (1a) e (1b) sono:
(1)
c. La strada [una via] è un luogo.
d. L’aereo [un mezzo di trasporto] è un luogo.
Le sensazioni di coerenza o inappropriatezza che proviamo di fronte a (1a) e
(1b) rivelano che noi facciamo affidamento su (1c) ma non su (1d).
Si accosti ora a (1) l’esempio seguente:
(2)
a. Il sentiero sbocca alla vecchia quercia.
Come in (1a) così in (2a) l’impiego di sboccare ci sembra appropriato; la
predicazione indiretta esibita da (2a) è:
(2)
b. Un albero è un luogo.
L’appropriatezza di (2a) prova che (2b) è una presupposizione sulla quale
facciamo affidamento: cioè che un albero è facilmente concettualizzabile come
un luogo o il termine di una via. Questo fatto, ovviamente, non significa che
una quercia sia una piazza o che una piazza sia una quercia; significa solo che
una quercia può essere vista attraverso la categoria di luogo: è uno degli
innumerevoli esempi del carattere relazionale delle categorie111.
Del resto, si osservi:
(3)
a. Ha abbandonato la piazza112.
b. Ha abbandonato il suo cane.
c. Ha abbandonato il suo portatile.
d. Ha abbandonato la vecchia quercia.
Del resto è del tutto ragionevole, infatti, che gli alberi risultino particolarmente a
funzionare come luoghi: sono un luogo in cui gli uccelli vivono (o dimorano o abitano),
nidificano, si appollaiano o in cui si rifugiano e offrono posti ove riposarsi, mangiare, dormire o
fra cui passeggiare. Tipicamente la preposizione ‘localizzante’ è su, ma un albero funziona anche
da punto di riferimento che delimita una zona nei suoi pressi o accanto. Le azioni che
permettono di accedere a un albero possono essere orizzontali (arrivare a un albero, aggirare un
albero), ma sono tipicamente verticali salire su e scendere da.
111
Può essere interessante osservare cosa accade con ha abbandonato la strada / il fiume
dove abbiamo oggetti ‘direzionali’ o ‘orientati’. Qui l’orientamento o la direzione fanno le veci
del movimento e l’immagine è quella della strada o del fiume che prosegue per conto suo e del
soggetto che devia.
112
219
Gli enunciati (3) sono tutti coerenti, ma dipendono da diversi impieghi di
abbandonare. Anzitutto, (3a) presenta la piazza come il luogo a partire dal
quale il soggetto si allontana; in (3b) e (3c), invece, il cane e il portatile non
sono presentati come il punto iniziale di uno spostamento ma come la ‘vittima’
di una brutta azione e come un oggetto lasciato incustodito. Se a questo punto
osserviamo (3d), ci rendiamo conto che si comporta come (3a) e non come (3bc): la condizione di possibilità di questa interpretazione è che una quercia si
presti ad essere concettualizzata come il punto di partenza di uno spostamento.
Del resto, mentre in (3b-c) è naturale aggiungere una determinazione di stato
in luogo (ad es. sull’autostrada o in biblioteca), in (3a) e (3d) non lo è: in
quest’ultimo, in particolare, susciterebbe un effetto di personificazione
(abbiamo abbandonato la quercia là, nel centro del bosco).
A proposito di abbandonare, si considerino anche questi altri esempi:
(4)
a. Il giardiniere ha abbandonato le rose / la vigna.
Se in (3d) abbandonare valeva allontanarsi da, in (4) abbandonare sarebbe
parafrasato con trascurare o lasciare andare. Osserviamo dunque che
abbandonare non solo mostra che gli alberi possono essere concettualizzati
come luoghi, ma è anche sensibile al carattere più o meno ‘domestico’, più o
meno ‘artificiale’ di oggetti: nella fattispecie, piante113 114.
1.3. Sulle parti di un albero
Si consideri il predicato togliere:
(1)
(2)
(3)
(4)
a. Ho tolto i fiori all’albero.
a. ?Ho tolto i petali all’albero.
a. Hanno tolto un dito alla mano di Paolo.
a. Hanno tolto un dito a Paolo.
Tra i precedenti, l’unico enunciato che sentiamo inappropriato è (2a); le
predicazioni indirette esibite sono:
(1)
(2)
(3)
(4)
b. I fiori di un albero sono una parte dell’albero.
b. I petali dei fiori di un albero sono una parte dell’albero.
b. Un dito è una parte della mano.
b. Un dito è una parte di Paolo
L’inappropriatezza di (2a) prova che (2b) non è una presupposizione sulla quale
facciamo affidamento: mentre le foglie o i fiori possono essere visti come parti
dell’albero, i petali dei fiori che crescono sull’albero non sono parti dell’albero.
La coerenza di (3a) e (4a) prova che un dito si lascia concettualizzare sia come
parte di una mano sia come parte di una persona: a differenza dei petali dei fiori
che crescono su una pianta, dunque, le dita di una mano non sono corpi
Si noti la diversa salienza delle interpretazioni in: Abbiamo abbandonato la strada vs.
La strada è stata abbandonata. Nel primo caso, l’interpretazione privilegiata è che abbiamo
113
deviato dalla strada; nel secondo, che la strada non è più battuta.
114
Per quanto riguarda il carattere di luogo, si noti che esso investe anche gli aggregati di
vegetali (un bosco o una foresta): Il lago separava / collegava i due villaggi e Il bosco collegava
/separava i due villaggi.
220
estranei alla persona ma sue parti. Questa differenza tra i petali dei fiori che
crescono sugli alberi e le dita di una mano è una presupposizione sulla quale
facciamo affidamento e che si riflette nelle precedenti percezioni di coerenza.
Si considerino ora gli enunciati seguenti:
(5)
a. Il ciliegio mette le foglie (/i rami) in primavera.
b. ?Il ciliegio dà le foglie (/i rami) in primavera.
c. Il ciliegio dà le ciliegie in primavera.
Gli enunciati (5), naturalmente, sono coerenti; tuttavia, l’impiego di dare in
(5b) può essere percepito come meno appropriato rispetto a (5c). La condizione
di coerenza di questa sensazione è la concettualizzazione dell’albero ‘in sé’
piuttosto che ‘per noi’: ovvero, ciò che un albero ‘ha’ piuttosto che ciò che un
albero ‘ci dà’. Così alcune parti (come i frutti) sono concettualizzate in quanto
‘date’ all’uomo. E’ questa distinzione che presiede all’appropriatezza della
scelta tra dare e mettere nel caso di (5b) piuttosto che (5c). Ovviamente, un
esempio come:
(5)
d. Il ciliegio mette le ciliegie in primavera.
sarebbe stato del tutto appropriato; ma le ciliege sarebbero state presentate
non come frutti che l’albero offre bensì come parti che emergono dall’albero
stesso.
1.4. Vegetali del suolo e frutti
Un predicato dal quale si può ottenere molto è venire:
(1)
a. ?Questo melo viene tutto storto.
b. ?Le ciliegie non sono venute su.
In (1a) e (1b) la situazione è speculare: nell’uno sarebbe appropriato venire su
ma non venire; nell’altro, sarebbe appropriato venire ma non venire su.
Possiamo quindi distinguere tra piante (ad es. un melo) che ammettono venire
su e frutti (ad es. le ciliegie) che richiedono venire (si noti, per inciso, che della
nascita delle mele non si dice sono venute giù).
All’interno delle piante, inoltre, possiamo distinguerne alcune (ad es.
l’insalata) che si lasciano concettualizzare anche come frutti (frutti della terra)
e ammettono quindi non solo venire su ma anche venire (l’insalata è venuta).
Da questo punto di vista, si osservi il caso dei pomodori, che spezza le due
interpretazioni:
(2)
a. Quest’anno i pomodori non sono venuti.
b. Quest’anno i pomodori non sono venuti su.
In (2a), si visualizza il maturare dei frutti sull’arbusto; in (2b), invece, si
visualizza il sorgere dell’arbusto stesso dal suolo. Si noti inoltre come
l’impiego di venire o venire su in (1-2) non abbia nulla a che fare con la
provenienza: la domanda da dove vengono le ciliegie?, ad esempio, sarebbe
insensata. A questo proposito, si noti per inciso che una pianta può crescere
221
spontaneamente, ma gli animali non nascono spontaneamente115.
A conclusioni analoghe si perviene osservando irrigare:
(3)
a. ?Il contadino ha irrigato le ciliegie.
b. Il contadino ha irrigato il ciliegio.
Mentre in (3a) l’impiego di irrigare è inappropriato, in (3b) non lo è. In (3b) si
attiva un modello cognitivo che scarica metonimicamente il predicato dalla
pianta al terreno. In (3a), invece, non è disponibile un modello cognitivo in
grado di deviare metonimicamente l’interpretazione dalle ciliegie all’albero e
dall’albero al terreno. Se a questo punto ci interroghiamo sulla condizione di
possibilità di questo fatto, dobbiamo introdurre la differenza tra vegetali del
suolo (cioè piante) e non (ad es. frutti)116.
In sintesi, se prendiamo un oggetto banale come l’insalata, vediamo che
è una pianta (come un albero di mele) perché viene su; però, a differenza di un
melo, si lascia concettualizzare come un frutto (come una mela) perché viene;
inoltre, in quanto pianta, è un vegetale legato al suolo (perché può essere
irrigata). Questo è un microframmento del nostro schema concettuale
dell’oggetto insalata.
1.5. Vegetali domestici e selvatici
Aggiungiamo un altro tassello. Si considerino le domande seguenti:
(1)
a. Paolo è un bravo cercatore di funghi?
b. Paolo è un bravo cercatore di more?
c. ?Paolo è un bravo cercatore di insalata?
La domanda (1a) è chiara: risponderemmo sì se Paolo trova facilmente i funghi
e no se ritorna spesso a mani vuote. La domanda (1b) può apparire insolita, ma
è anch’essa chiara: un bravo cercatore more (o fragole o mirtilli…) è una
persona che li trova facilmente. Invece, la domanda (1c) non è insolita: è fuori
luogo.
La distinzione pertinente per giustificare queste intuizioni è tra
«vegetali selvatici» (ad es. more, mirtilli ecc.) che ha senso andare a cercare e
«vegetali domestici» (ad es. insalata, carote ecc.) che non ha senso andare a
cercare. Non solo: all’interno dei vegetali domestici possiamo tracciare
ulteriori partizioni, a seconda del luogo in cui vengono coltivati:
(2)
a. Un campo coltivato a pomodori / a grano.
b. ?Un orto coltivato a grano.
c. Un campo coltivato a meli.
d. ?Un orto coltivato a meli.
e. ?Un campo coltivato a mele.
Gli esempi (2a-d) mostrano come un orto sia il luogo appropriato per coltivare
Qui, ovviamente, non bisogna pensare alla ciliegie in un piatto: per cui chiedo da dove
vengono queste ciliegie? e rispondo dalla pianta. Bisogna pensare: a) a ciliegie su un albero; b)
al fatto che si usa dire le ciliegie sono venute; e a questo punto chiedersi: da dove sono venute?
115
Si tratta piuttosto di una sorta di epifania
116
Si noti che innaffiare non sarebbe stato altrettanto sensibile.
222
pomodori, carote o insalata ma non grano e alberi da frutto: il luogo
appropriato di questi ultimi è un campo. L’esempio (2e) mostra invece – per
contrasto con (2c) – che le mele (i frutti) non sono direttamente coltivati117.
2. Seconda via: tra vegetali, cose, animali e persone
2.1. La nozione di ‘materiale’
Incominciamo dall’intuizione seguente. Se chiudo un salame in cantina
lo conservo e se chiudo una cassa di stoffe in una nave la stivo; analogamente,
un armadio è il ripostiglio appropriato (corretto) dove riporre un vestito e non
ad esempio una sedia. Ma se chiudo una persona in cantina o in una stiva o in
un armadio non si può dire coerentemente né che la conservo, né che la stivo,
né che la ripongo nel luogo scorretto. Una persona infatti non è una riserva o
una proprietà che possa essere conservata, stivata o riposta e per la quale,
quindi, ci possano essere luoghi corretti o meno per farlo. Imprigionare una
persona non è analogo a mettere una sedia in un armadio. Si immagini una
persona che esclama preoccupata:
(1)
(2)
(3)
a. *I terroristi hanno rubato due turisti.
a. *Hanno rapito i miei gerani!
a. *Hanno rapito due Picasso.
Le predicazioni indirette conflittuali esibite sono:
(1)
(2)
(3)
b. Delle persone [i turisti] sono proprietà.
b. Dei vegetali [i gerani] sono persone.
b. Delle cose [i quadri] sono persone.
Alle osservazioni precedenti deve essere accostata l’organizzazione dei campi
semantici: colui che ruba, ad esempio, è un ladro e l’oggetto rubato è la
refurtiva; colui che rapisce, invece, è un rapitore, chi è rapito è un ostaggio e il
prezzo pagato per la liberazione dell’ostaggio è un riscatto. Se affermassimo
Paolo è la refurtiva dei rapitori o se domandassimo Quanto viene Paolo? le
nostre azioni esibirebbero la predicazione indiretta (1b). Il fatto che gli
enunciati (1), (2) e (3) siano incoerenti, che non possano essere impiegati per
lamentarsi e la forma dei campi semantici appena accennati provano che
presupponiamo che i vegetali – come le opere d’arte e a differenza delle
persone – sono collocati nello spazio logico della proprietà. Questa è una
presupposizione di base.
Può essere interessante, a questo punto, rivolgere l’attenzione
all’ambito degli animali. Un gatto può essere venduto o comprato e valutato:
questi predicati categorizzano senza dubbio il loro oggetto diretto come
proprietà. Tuttavia, si consideri:
(4)
a. ?Hanno rapito il mio gatto!
Se confrontiamo (4a) con (2a) o (3a), l’impressione non è quella di un enunciato
incoerente: qui diremmo semplicemente che il predicato rapire pare
Per inciso la vigna è allo stesso tempo oggetto e luogo. Altro inciso: posso avere
inoltre un campo / pianura / collina / montagna coltivata, ma non un bosco coltivato.
117
223
inappropriato. Tuttavia, sostituendo rapire con rubare, la situazione non
migliora molto:
(4)
b. ?Hanno rubato il mio gatto!
La conclusione è che gli animali si collocano in una posizione intermedia tra le
persone da un lato e i vegetali e le cose dall’altro lato: li consideriamo come
oggetti che possono essere acquistati, venduti o valutati, ma siamo anche
pronti a riconoscergli un’individualità che non rende incoerente (ma solo
inappropriato) un predicato come rapire. Non solo, ma auscultando la coerenza
di rubare si possono tracciare ulteriori distinzioni all’interno dell’ambito degli
animali: cavalli, mucche e pecore, ad esempio, sono senza dubbio spostati verso
il polo delle proprietà: come automobili (mi hanno rubato i cavalli / ladro di
cavalli)118. Questo non significa che un cavallo sia una cosa, ma che si lascia
categorizzare contingentemente come tale.
Si consideri ora l’intuizione seguente. Non posso travestire una
montagnola di neve da Babbo Natale: posso solo creare un pupazzo e cioè
impiegare la montagnola come supporto o materiale. Ma se travesto un cane o
una persona da Babbo Natale, non li userei come materiali per creare qualcosa.
Nel primo caso c’è qualcosa che adopero da materiale; nel secondo, c’è
qualcuno che travesto. Si osservino quindi gli enunciati:
(5)
(6)
(7)
a. Ho mascherato Paolo da Zorro.
a. Ho mascherato il muro.
a. Ho mascherato il cactus.
Il predicato mascherare negli enunciati (5), (6) e (7) è coerente e appropriato;
ma in due impieghi diversi. L’impiego di (5a) non è sinonimo di nascondere o
celare, ha due soli argomenti, appartiene allo stesso campo semantico del nome
maschera in un’espressione come maschera di carnevale e ammette la
domanda:
(5)
b. Da cosa hai mascherato Paolo?
L’impiego di mascherare in (6a) e (7a), invece, presenta esattamente le
caratteristiche opposte: è sinonimo di nascondere, celare o camuffare e
contrario di mettere in evidenza o mostrare, ha tre argomenti, non appartiene
allo stesso campo semantico di maschera e non ammette la domanda:
(6)
(7)
b. *Da cosa hai mascherato il muro?
b. *Da cosa hai mascherato il cactus?
Quali sono le condizioni di possibilità dei due impieghi di mascherare in
(5) e in (6) e (7)? Le predicazioni indirette esibite da (5a), (6a) e (7a) sono:
(5)
(6)
(7)
c. Una persona è un individuo.
c. Una costruzione è un materiale.
c. Un vegetale è un materiale.
La differenza tra gli impieghi di mascherare in (5a) e (6-7a) è un fatto
Si confrontino anche le espressioni ladro di cavalli e ladro di bambini. Come esempio di
interpretazione regressiva o proiettiva si può notare Vi farò pescatori di uomini.
118
224
linguistico; le condizioni di possibilità di questo fatto questo fatto sono le
proposizioni (5c), (6c) e (7c): queste proposizioni sono presupposizioni di base.
L’etichetta «individuo» in (5c) non ha niente di misterioso. Con essa intendo
semplicemente la condizione di coerenza che dobbiamo ammettere per
giustificare il fatto che una persona e un animale – ma non una cosa o un
vegetale – possono essere mascherati nell’impiego del predicato esemplificato
da (5). Si immagini di truccare una persona da Zorro: quello che ho chiamato
«identità» è ciò che fa in modo che quando abbiamo finito, non diremmo di aver
creato un personaggio ma di aver mascherato qualcuno da personaggio.
Viceversa, si immagini di addobbare un cactus da folletto: l’assenza di quello
che ho chiamato «identità» è ciò che fa in modo che quando abbiamo finito,
diremmo di aver creato un personaggio o un pupazzo e non di aver travestito il
cactus da qualcosa. Il fatto che una cosa e una pianta non possano essere
mascherate, insomma, prova che non hanno un’identità sulla quale l’atto di
mascherare può fare leva. Di conseguenza, non avendo alcuna identità, una cosa
e una pianta possono dissolversi diventando il materiale di qualcos’altro. Se è
vero che le persone e gli animali – a differenza delle piante e delle cose –
possono essere mascherati nel senso di (1), tra esse sussiste comunque una
differenza. Se trucco un cane da uomo ottengo la caricatura di un uomo, ma se
trucco un uomo da cane non ottengo la caricatura di un cane: questo suggerisce
la presenza di una gerarchia logica tra il corpo di una persona e il corpo di un
animale, per cui il secondo parrebbe una versione non prototipica del primo.
Anche se un cane non è un tipo di uomo: non è né un uomo brutto, né deforme.
Non è un mostro.
Una pianta può essere commestibile o no e, nel primo caso nutriente,
deliziosa, amara, aromatica, piccante, aspra, dolce, ecc. Ma una pianta può
essere anche officinale e quindi: benefica, emolliente, balsamica, rilassante,
narcotica, stimolante, astringente, rinfrescante, purgativa, ecc. Nel primo caso,
la pianta è presupposta come ‘cibo’; nel secondo, come ‘sostanza medicinale’.
Nulla del genere accade per gli animali: non solo non parliamo di animali
amari o dolci, narcotici o balsamici o curativi, ma è innaturale persino parlare
di animali nutrienti o nutritivi. Si confrontino gli enunciati seguenti:
(8)
(9)
a. Questo cavallo è dolciastro.
a. Questa piantina è dolciastra.
L’interpretazione spontanea di (8a) consisterebbe in una sineddoche che
produrrebbe una lettura del tipo:
(8)
b. La carne di questo cavallo è dolciastra.
Ma nulla del genere accadrebbe per (9a): per la piantina non esiste un analogon
di carne. E la ragione è esplicitata dalle seguenti predicazioni indirette:
(8)
(9)
a. Questo cavallo [che è un animale] è dolciastro [che richiede una
sostanza o materiale come soggetto]
c. Un animale è un materiale.
a. Questa piantina [che è un vegetale] è dolciastra [che richiede una
sostanza o un materiale come soggetto]
c. Un vegetale è un materiale.
Il fatto che (8a) venga interpretato come (8b) prova che noi non facciamo
225
affidamento su (8c); il fatto che in (9a) non vi sia alcuna sineddoche – il fatto
cioè che non esista una carne delle piante – prova che noi facciamo affidamento
su (9c). Naturalmente, possiamo modificare un nome di animale con il suo
impiego: cavallo da traino, mucca da latte, ecc; tuttavia, in questo modo
applichiamo a un individuo – che resta indipendente – un utilizzo specifico. Nel
caso delle piante, la situazione è diversa: queste non sono individui impiegati
per qualcosa ma sono concettualizzate direttamente come sostanze o
materiali119. Si noti inoltre che se dovessimo definire una gazzella, la prima
cosa che diremmo non sarebbe che è il cibo o il nutrimento dei leoni. Questa
intuizione segnala ancora che i vegetali – più prossimi agli oggetti – si lasciano
categorizzare come cibo o nutrimento più facilmente degli animali, che invece
mantengono una propria autonomia.
Un predicato speculare a mascherare è addobbare. Si considerino gli
esempi seguenti:
(10)
(11)
a. Hanno addobbato il muro.
a. Hanno addobbato la sposa.
E’ un fatto che (10a) non ci sembra esprimere alcuna forma di ironia: è una
banale constatazione; ed è un fatto che invece l’enunciato (11a) potrebbe
benissimo apparire ironico. Se questo è vero, le predicazioni indirette di (10)
sono:
(10)
(11)
b. Hanno addobbato [che richiede un materiale come oggetto diretto]
il muro [che è una costruzione]
c. Una costruzione è un materiale.
b. Hanno addobbato [che richiede un materiale come oggetto diretto]
la sposa [che è una persona]
c. Una persona è un materiale.
Se ora passiamo a osservare una pianta e un animale, ci accorgiamo che si
comportano rispettivamente come il muro e la sposa:
(12)
(13)
a. Hanno addobbato l’abete.
a. Hanno addobbato il cane.
Il cane, in (13a), può apparire come una sorta di pagliaccio ma non l’abete in
(12a). Se un cane in costume può fare ridere e forse persino compassione, vuol
dire che l’atto di indossare un vestito è inappropriato per un animale ma non
incoerente. Una sedia o un cespuglio in costume, invece, non farebbero ridere
perché non li vedremmo indossare un vestito: vedremmo semplicemente un
vestito appoggiato su una sedia o su un cespuglio. Le predicazioni indirette
esibite da (12a) e (13a) sono dunque le seguenti:
(12)
(13)
b. Hanno addobbato [che richiede un materiale come oggetto diretto]
l’abete [che è un vegetale]
c. Un vegetale è un materiale.
b. Hanno addobbato [che richiede un materiale come oggetto diretto]
il cane [che è un animale]
c. Un animale è un materiale.
A questo proposito si confrontino le espressioni …da traino o …da giardino (da N)
con aggettivi come tessile o stimolante.
119
226
Come abbiamo visto, da un lato ci sono enti con un’identità sulla quale può far
leva l’azione di mascherare; dall’altro lato, ci sono altri enti privi di identità su
cui l’azione di mascherare non può far leva e che funzionano da materiali.
Constatiamo ora che quando l’azione di mascherare può aver luogo – quando
cioè trova una individui su cui far leva – si può produrre una frizione il cui
risultato può essere la caricatura, il ridicolo o lo scherno nei confronti dell’ente
dotato di identità. Ma se l’identità di una persona o un animale può essere
schernita, allora è connessa con la nozione di ‘dignità’. Le entità che non sono
‘proprietà’, che non sono ‘materiali’, che hanno una ‘identità’ hanno anche
qualcosa come una «dignità».
Si considerino ancora le domande seguenti:
(14)
a. Di cosa è fatta la fontana nel tuo giardino?
b. Di cosa è fatta quella collina?
c. *Di cosa è fatto il pesco nel tuo giardino?
d. *Di cosa è fatto il cane del tuo vicino?
e. *Di cosa è fatta Maria / tua moglie?
Le domande (14a-b) sono sensate e potrebbero ricevere una risposta come: di
marmo o di roccia lavica. Le domande (14c-d), invece, non sono domande che
normalmente ci porremmo: una pianta, un cane o una persona non sono fatte di
alcun materiale. Che le persone, gli animali e le piante non siano
concettualizzati come fatti di qualcosa è un’altra presupposizione di base.
2.2. Le nozioni di ‘corpo’ e ‘anima’
Il tronco di un albero brucia, ma il corpo di una persona si ustiona.
Questa intuizione suggerisce la domanda: i vegetali hanno un corpo? E il
tronco e i rami di un albero corrispondono al busto e agli arti di una persona?
Si considerino gli esempi seguenti:
(1)
(2)
(3)
a. *Il giardiniere ha amputato la chioma del pesco120.
a. *Il chirurgo ha potato la gamba al paziente.
a. *Hanno cremato il vecchio pesco.
Gli enunciati (a) – così come le rispettive versioni ipotetiche, negative,
interrogative, modalizzate, nonché tutti gli atti linguistici che possiamo
compiere con essi – ci appaiano incoerenti. Di fronte a questa incoerenza,
potremmo seguire una via di interpretazione regressiva o proiettiva. Nel primo
caso, ad esempio, potremmo interpretare le azioni di amputare, potare e
cremare riducendole semplicemente a tagliare e bruciare; nel secondo caso,
invece, potremmo pensare ai rami del pesco come arti e al suo tronco abbattuto
come un cadavere, oppure potremmo pensare al corpo di una persona come al
legno di una pianta. Ciò che abbiamo tolto dalle azioni di amputare o cremare
seguendo la prima via è stata l’idea che esse si applicano a un corpo; ciò che
abbiamo proiettato sul pesco seguendo la seconda via è stata invece l’idea che
Si noti anche paziente: appropriato per gli uomini; inappropriato per gli animali; fuori
luogo per piante. Le piante non possono essere curate medicalmente – non possono essere
operate – non esistono medici per le piante. Si prescrivono cure a persone e cavalli, ma non a
pioppi.
120
227
un albero abbia un corpo. Se questo è vero, le predicazioni indirette
responsabili dell’incoerenza di (b) e sulle quali abbiamo fatto leva per giungere
alle precedenti interpretazioni sono:
(1)
(2)
(3)
b. *Il giardiniere ha amputato [che richiede una parte del corpo come
oggetto diretto] la chioma del pesco
c. La chioma del pesco è una parte del corpo.
b. *Il chirurgo ha potato [che richiede un ramo come oggetto diretto]
la gamba al paziente
c. La gamba del paziente è un ramo.
b. *Hanno cremato [che richiede un cadavere come oggetto diretto] il
vecchio pesco.
c. Il vecchio pesco è un cadavere.
L’incoerenza degli enunciati (a) e le vie interpretative delineate provano che
facciamo affidamento sulle proposizioni contrarie rispetto a (c): all’interno
dello spazio logico delle entità dotate di un corpo o di un cadavere troviamo
quindi gli animali e le persone ma non i vegetali e le cose. Le predicazioni
indirette (c) – o meglio, le loro negazioni – sono: da un lato, le condizioni che
dobbiamo postulare per giustificare la coerenza o l’incoerenza degli enunciati
(a) e delle loro interpretazioni121; dall’altro lato, sono presupposizioni di base:
cioè giudizi sintetici a priori, con tutte le proprietà che vi abbiamo riconosciuto
(cfr. cap. 2 § 3.). Gli enunciati (c) sono cioè responsabili anzitutto delle
condizioni di coerenza delle azioni descritte in (a) e solo di conseguenza delle
condizioni di impiego dei rispettivi verbi. E’ questo che intendo dicendo che
ferire, per esempio, presuppone che il suo oggetto diretto sia un’entità dotata
di un corpo o che potare presuppone che il suo oggetto diretto sia un vegetale,
non dotato di corpo122. In sintesi, il fatto che per noi sia sensato ferire, mutilare
o amputare una persona presuppone che una persona abbia un corpo e che le
sue gambe siano arti; il fatto che per noi non sia sensato ferire, mutilare o
amputare una quercia presuppone che una quercia non abbia un corpo e che i
suoi rami o le sue radici non siano arti. Analogamente, il fatto che per noi sia
sensato inumare, cremare o fare un funerale a una persona presuppone che una
persona abbia un cadavere; il fatto che per noi non abbia senso inumare,
cremare o fare un funerale a un vegetale presuppone che un vegetale non abbia
un cadavere. C’è una serie di azioni che possiamo compiere sulle cose: come
toccarle in modo più o meno delicato; e c’è un’altra serie di azioni che possiamo
compiere sul corpo di persone o animali, ma non sulle cose: come accarezzare,
schiaffeggiare, torturare, picchiare o ferire. L’oggetto di un’azione come
sfiorare è la superficie di un’entità inanimata, l’oggetto di un’azione come fare
una carezza è invece il corpo di un’entità animata. Ne deriva che, per esempio,
accarezzare non è una modalità di toccare: non è come toccare delicatamente
che può essere descritto come toccare più un certo tratto.
121
Nonché alcuni rami della chioma polisemica di un verbo come seppellire: per esempio
seppellire una persona vs. seppellire un tesoro.
A questo proposito, un predicato interessante è sparare a un vegetale: è interessante in
particolare per la questione delle inferenze (esterne). Infatti, se dico Paolo ha sparato a un
animale o a una persona posso implicare o comunicare che ha ucciso quell’animale o quella
persona; invece, se dico Paolo ha sparato a una quercia posso implicare qualsiasi cosa ma non
che abbia ucciso la quercia. Quest’ultima, cioè, si comporta semplicemente da superficie
materiale: come un muro. Si noti inoltre, per inciso, come sparare contro sia appropriato per un
muro.
122
228
Ci si soffermi ancora sugli enunciati seguenti123:
(4)
(5)
a. ?Ha cremato il gatto.
b. ?Ha fatto il funerale al proprio gatto.
a. *Ha cremato i gerani.
b. *Ha fatto il funerale ai propri gerani.
Intuitivamente, chiameremmo «strane», «sbagliate» o «bizzarre» le azioni
descritte da (4), ma chiameremmo «assurde» e «praticamente incomprensibili»
quelle descritte da (5). Se faccio un funerale a un cane o nomino senatore un
cavallo compio la caricatura di un funerale o di un rito istituzionale; ma se
faccio un funerale a un vaso di gerani, non riesco neppure a fare la caricatura di
un funerale. Nel primo caso, l’effetto è «ridicolo» o «comico»; nel secondo, è
«grottesco»: là ridiamo; qui – se ridiamo – ridiamo di un riso diverso124. Con i
termini di Austin, un funerale a un cane sarebbe infelice e forse perfino nullo;
ma un funerale a un vaso di gerani sarebbe qualcosa di ancora diverso: «nullo»
a un livello ancora più generale. Se a questo punto riprendiamo la distinzione
tra entità dotate di corpo ed entità non dotate di corpo, ci rendiamo conto che
essa funziona come condizione di coerenza sia delle sensazioni di ridicolo e
grottesco connesse a (4) e (5) sia dell’atto di fare una caricatura. Facendo un
funerale a un cane, taglio un confine tracciato all’interno di un ambito
ontologico omogeneo: che rispetta le presupposizioni di base in quanto sia un
cane che un uomo è mortale, è dotato di corpo e di anima; facendo un funerale
a un vaso di gerani, taglio un confine tra due ambiti ontologici eterogenei:
violo una presupposizione di base in quanto un vaso di gerani non è mortale,
non è dotato di corpo né di anima. Con i termini di G. Gross, nel primo caso
l’impiego del predicato è inappropriato e taglia classi di oggetti; nel secondo è
incoerente e taglia iperclassi. La differenza tra incoerenza e inappropriatezza
degli enunciati precedenti – riflessa nelle rispettive sensazioni di ridicolo o
grottesco – prova che gli animali gravitano nell’ambito degli umani. La
possibilità di fare una caricatura – la sensazione del ridicolo – presuppone che
le entità in questione appartengano allo stesso spazio ontologico.
Se un fulmine si abbatte su un albero – che non ha un corpo – lo
distrugge o lo danneggia; ma se si abbatte su una persona – che ha un corpo –
non è che la distrugge o la danneggia: la ferisce o la uccide. Si osservino gli
enunciati seguenti:
(6)
a. Il temporale ha danneggiato la chioma della quercia.
b. Il temporale ha danneggiato il contadino.
Gli enunciati (6) sono entrambi coerenti, ma riposano su diversi impieghi di
danneggiare. In (6a) – dove compare la quercia, che non è dotata di corpo –
parafraseremmo danneggiare con spezzare o rompere; invece, in (6b) – dove
compare una persona, che è dotata di corpo – un simile impiego è escluso: qui
parafraseremmo danneggiato non tanto con è stato menomato ma ad esempio
con i suoi affari sono stati danneggiati. In (6b), in altre parole, si assiste ad uno
spostamento metonimico in virtù del quale danneggiare si applica non alla
superficie del corpo di una persona, ma ai beni di sua pertinenza. La condizioni
Potremmo fare una fenomenologia delle forme di riso. C’è da chiedersi, allora, se la
stessa cosa non avvenga anche per il bello e il deforme o il bello e il sublime.
124
Forse questo caso è perfino troppo assurdo per suscitare il riso; e se lo suscita è un riso
del tutto diverso dal precedente.
123
229
di possibilità di questo spostamento metonimico è la distinzione tra entità non
dotate di corpo (come cose e vegetali) ed entità dotate di corpo (come persone e
animali). Più precisamente, la metonimia menzionata mostra come la nozione
di corpo sulla quale facciamo affidamento implichi che sia innaturale pensare
un danno ad un corpo astraendo dal fatto che sia qualcosa di male per la
relativa persona. Qui allora osserviamo all’opera un’altra caratteristica della
nostra nozione presupposta di corpo: la sua connessione con l’idea di anima.
Possiamo cioè arricchire la nozione di «corpo» illustrandone il funzionamento.
Toccare un tavolo è toccare la sua superficie perché al di là di questa non c’è
niente, ma è impossibile toccare la superficie del corpo di una persona senza
toccare anche la persona stessa (neppure un medico ci riesce). Se taglio un
braccio a qualcuno non è che danneggio il funzionamento di suo arto, ma lo
ferisco: e se descrivessi la mia azione dicendo ho danneggiato il funzionamento
del suo arto compierei un’ironia evidente. D’altra parte se cerco di interpretare
un taglio ad un braccio come un danno meccanico a una struttura ossea, ecco
che taglio via l’idea che sia male per una certa persona. Questa idea – ciò a cui
questo male inerisce – è l’anima di una persona. L’interpretazione metonimica
di danneggiare quando l’oggetto è una persona mostra il funzionamento
dell’idea di corpo: cioè che rimanda all’idea di anima. Solo le entità animate
hanno un corpo, la cui superficie ‘scompare’ e ‘reindirizza’ a qualcos’altro.
Questo qualcos’altro è qualcosa che può essere colpito da affezioni diverse
rispetto a quelle che colpiscono una superficie: è qualcosa a cui si può fare male
o bene. Il corpo e l’anima, insomma, si implicano vicendevolmente come
significante e significato; e una pianta non avendo un corpo non ha neppure
un’anima125. Nello spazio logico delle entità dotate di anima e corpo troviamo
quindi le persone e gli animali ma non le cose e le persone. L’etichetta «anima»
indica qui semplicemente la condizione di coerenza alla quale si ha
l’interpretazione metonimica di (6).
2.3. Le nozioni di ‘sofferenza’ e ‘morte’
Non tutti i tipi di sofferenza sono concessi agli animali:
(1)
a. Devo tornare a casa, altrimenti mia moglie si preoccupa.
b. *Devo tornare a casa, altrimenti il mio cane si preoccupa.
Dovendo liberarci di un’amante troppo insistente, potremmo usare come scusa
l’enunciato (1a), ma non (1b): potremmo mentire col primo, ma non col
secondo. La ragione è che a un animale come un cane non riconosciamo la
possibilità di preoccuparsi o struggersi e, in generale, di provare sofferenze
psicologiche126. Mentre è sensato fare un regalo a una persona, può sembrare
infelice farlo a un animale: e questo nella misura in cui non lo si presuppone in
grado di riconoscere la nostra intenzione. Tuttavia, mentre è senz’altro
possibile far piacere al proprio gatto, è assurdo desiderare di far piacere a una
pianta. Se passo al supermercato e vedo un pollo in offerta, posso formulare il
desiderio di comprarlo per il mio gatto perché so che ne è ghiotto; se passo dal
Un corpo è tale solo se in relazione con un’anima: altrimenti è una cosa. Il corpo è
l’anima nello stesso senso in cui una parola è un concetto.
126
A questo proposito, sarebbe però interessante indagare lo spazio di sofferenze concesse
agli animali (o ad alcuni di essi). Ad esempio, un cane o un gatto possono annoiarsi? Possono
soffrire di solitudine? E indignarsi? E una mucca?
125
230
fiorista e vedo un nuovo concime posso certamente formulare il desiderio di
comprarlo per il bene delle mie piante, ma non per fare piacere ad esse:
(2)
a. Se tornassi a casa con questo pollo, il mio gatto ne sarebbe
felicissimo.
b. *Se tornassi a casa con questo concime, i miei gerani ne sarebbero
felicissimi.
c. *Se tornassi a casa con questo nuovo olio, la mia moto ne sarebbe
felicissima.
Le condizioni di coerenza dei desideri espressi in (2) sono rispettivamente:
(3)
a. Un gatto è un essere senziente.
b. Un vegetale non è un essere senziente.
c. Una cosa non è un essere senziente.
Le osservazioni precedenti, per quanto grossolane, illuminano una questione
che era già emersa discutendo dell’idea di fare un funerale a un vaso di gerani.
E cioè: bisogna pensare alle sensazioni di ironia, ridicolo, grottesco ecc. come
ai corrispondenti, in ambito filosofico, di un calcolo sbagliato, un esperimento
fallito o un errore grammaticale. In altre parole, si deve pensare a quelle
sensazioni (e non solo ad esse naturalmente) come ai dati o alle prove di tesi
filosofiche (cioè inerenti alle presupposizioni di base). La prova che un vegetale
non è un essere senziente o che un cane è escluso dallo spazio logico della
preoccupazione è il fatto che gli enunciati (1b) e (2b) fanno sorridere
esattamente come il fatto che una mela cade per terra è la prova della legge di
gravità. Le predicazioni indirette (3) sono inoltre responsabili della diversa
accettabilità degli esempi seguenti, negli ultimi due dei quali mi sembra
registrarsi un climax di incoerenza:
(4)
a. Paolo soffre.
b. Questo cane soffre.
c. ?Questi gerani soffrono.
d. *Questo affresco soffre.
/ sta soffrendo.
/ sta soffrendo.
/?stanno soffrendo.
/*sta soffrendo.
In (4a-b) troviamo un impiego di soffrire sinonimo di prova dolore e contrario
di prova piacere. In (4c-d) troviamo invece un altro impiego di soffrire,
grossomodo sinonimo di rovinarsi: in (4c), soffrire assumerà l’accezione di
seccare o appassire contraria a essere rigogliosi; in (4d), assumerà
verosimilmente un’accezione simile a scolorirsi: qui è esclusa la parafrasi con
avere male o provare dolore. L’espressione la sofferenza di… sarebbe sensata
per (4a-b) e incoerente per (4c-d). L’uso assoluto in (4a-b) è autosufficiente e le
rispettive forme progressive sono coerenti; in (4c-d), invece, si percepisce una
sorta di latenza e le forme progressive suonano incoerenti. Al posto di (4c-d) si
direbbe piuttosto:
(4)
e. Questi gerani soffrono il caldo127.
f. Questo affresco soffre la luce.
Si noti anche come in (4c) ci potrebbe essere un’interpretazione ‘generica’: questo tipo
di gerani soffre… Nel caso del cane, invece, sebbene tale interpretazione sia comunque possibile
è più difficile. Del resto, si osservi: *Questi gerani stanno soffrendo la luce vs. Questo cane sta
soffrendo.
127
231
D’altra parte, delle due domande seguenti solo la seconda sarà coerente:
(5)
a. *Dove hanno male questi gerani?
b. Dove ha male questo cane?
La sofferenza delle piante, a differenza di quella degli animali, non può essere
localizzata per la semplice ragione che non c’è. Se osserviamo l’impiego di
soffrire in enunciati come (4e-f) constatiamo che toglie da quello di (4a-c) tutto
quello che ha a che fare col provare dolore e schiaccia l’interpretazione su una
forma di danneggiamento: è una metafora regressiva. Di conseguenza, il
significato di soffrire in (4e-f) risulta completamente esaurito nel momento in
cui vengono descritte le caratteristiche che la pianta o l’affresco assumono: ad
esempio, appunto, dicendo che seccano o scoloriscono. Al contrario, l’impiego
di soffrire in (4a-b) può essere parafrasato solo con locuzioni che ripetono l’idea
di sofferenza o dolore e non può essere ridotto alla descrizione dei tratti fisici
che, ad esempio, un gatto quando soffre assume: quell’idea, insomma, non può
essere eliminata. Questa è la ragione per cui delle domande seguenti solo le
prime due sono sensate:
(6)
a. In che senso i gerani soffrono il caldo? Nel senso che appassiscono.
b. In che senso questo affresco soffre la luce? Nel senso che si
scolorisce.
c. *In che senso questo gatto soffre? *Nel senso che piange e trema
tutto.
Se a questo punto dovessimo trovare una ragione per i fatti precedenti, la
risposta più naturale sarebbe la seguente. La sofferenza di un animale (come
quella di una persona) esiste ed è presupposta come un dato primo condiviso e
non ulteriormente descrivibile: perciò la domanda (6c) è assurda. Al contrario,
la sofferenza di una pianta o di una cosa, non esiste: perciò è sensato
domandare (6a-b). In generale, tutte le volte che ci troviamo in un caso di
polisemia, la presenza di una metafora cristallizzata – e quindi di una
presupposizione potenzialmente violata – è mostrata dalla sensatezza o meno
di domande come (6). La polisemia di soffrire e la sensatezza delle domande
(6a-b) provano che le piante, come le cose, non sono esseri senzienti (cfr. cap. 6,
§ 3.1). A questo proposito si considerino gli esempi seguenti:
(7)
a. La siccità fa soffrire i campi.
b. La siccità fa soffrire il popolo.
Se dovessimo parafrasare gli enunciati (7) potremmo farlo così: (7a) significa
che la siccità impedisce alle messi di crescere nei campi, (7b) significa che la
siccità non permette al popolo di avere di che sfamarsi. A questo punto,
tuttavia, si potrebbe obiettare: queste parafrasi non sono forse risposte alla
domanda in che senso i campi soffrono? e in che senso il popolo (cioè un
insieme di persone) soffre? La risposta è positiva nel primo caso e negativa nel
secondo: parafrasare (7b) dicendo «la siccità non permette al popolo di che
sfamarsi» non significa rispondere alla domanda cosa vuol dire che il popolo
soffre, ma alla domanda in che modo la siccità fa soffrire il popolo?, che
presuppone la risposta alla precedente. In sintesi, avevamo visto che i vegetali
– come le cose e a differenza di persone e animali – non hanno né un corpo né
232
un’anima. Ora constatiamo un altro aspetto: che non sono dotati di sensibilità.
Questo significa che selezionano gli impieghi precedenti di soffrire e che le
domande osservate sono più o meno coerenti. Ciò che abbiamo etichettato
«sensibilità», dunque, è ciò che dobbiamo usare per spiegare quei fatti
linguistici: è la loro condizione di coerenza. Questi fatti riflettono il nostro
atteggiamento naturale. Come si vede, avanziamo per briciole – come pollicino
– riempiendo via via di contenuto le etichette a seconda dei fenomeni
linguistici che incontriamo.
La premessa maggiore di un celebre sillogismo è: tutti gli uomini sono
mortali; forse avrebbe potuto anche essere tutti gli animali sono mortali; ma
sarebbe stato decisamente meno spontaneo pensare a: tutte le piante sono
mortali. Un incendio che brucia un bosco non fa una strage, uno sterminio o un
massacro di alberi; e se dico Paolo ha bruciato il suo cane posso implicare con
naturalezza che l’ha ucciso ma se dico Paolo ha bruciato la vecchia quercia non
implico così immediatamente che l’ha uccisa. La questione alla quale alludono
le intuizioni precedenti è questa: se è vero che piante, microbi, vermi e persone
muoiono, muoiono tutti nello stesso senso? Anzitutto qualche considerazione
preliminare. Il campo semantico dei nomi il deceduto, l’estinto, lo scomparso, il
trapassato, la vittima è specializzato per gli esseri umani, inappropriato per
animali come gatti o cani e incoerente per piante, cose o animali come i vermi.
Certo, di una pianta si può dire con naturalezza è morta per i diserbanti o i
diserbanti l’hanno uccisa ma non è morta bruciata, è morta tagliata, è morta
mangiata dalle locuste, è morta di freddo…: tutte queste espressioni sono
appropriate a esseri umani o animali. Per i vegetali, inoltre, sono incoerenti
praticamente tutte le espressioni di decesso ad esclusione del generico morto:
per un cane perire, decedere, spirare sono appropriati mentre trapassare o
passare a miglior vita risultano inappropriati128; per le piante, al di là di morire,
tutti i predicati precedenti sono incoerenti. Inoltre, mentre si ammazza un cane
o una persona, non si ammazza una pianta129: il predicato ammazzare, cioè, è
appropriato per animali o persone e incoerente per i vegetali. Il senso in cui
sembra possibile uccidere una pianta è piuttosto quello di farla morire, cioè
innescare un processo di deperimento. Le precedenti considerazioni
suggeriscono di approfondire la questione della morte tra animali vegetali e
persone. Lo faremo in tre passi.
Come primo passo, consideriamo l’enunciato seguente:
(8)
a. Il fiume è morto.
Per quanto riguarda (8a), possiamo individuare due interpretazioni principali.
La prima – sollecitata – è metonimica e consiste nel sostituire il fiume con gli
esseri viventi che vivono in esso: in questo modo, (8a) potrebbe essere letto
come il fiume è privo di pesci. La seconda interpretazione è invece metaforica e
precisamente regressiva: essa consiste nel sostituire morto con privo di acqua
rendendo (8a) equivalente a il fiume si è prosciugato. In maniera certo non
sorprendente, l’idea su cui le precedenti interpretazioni fanno leva è:
128
Per inciso, si noti che crepare (cos’ come perire o decedere) è appropriato per un cane ma non per un
verme.
Si noti che lo stesso discorso è possibile per freddare, assassinare ecc. Uccidere o
ammazzare ammettono anche come soggetto animali, vegetali, o cose. Il cane ha *assassinato /
129
ucciso; l’edera ha ucciso / *assassinato; il freddo ha ucciso / *assassinato… L’antibiotico ha
ucciso i microbi; *la muffa è stata uccisa. Tutte le modalità di uccidere: affogare, impiccare,
fucilare, lapidare… sono escluse per le piante.
233
(8)
b. Il fiume non è mortale130.
Il secondo passo consiste nell’osservare questi altri enunciati:
(9)
a. Il cane è morto.
b. Il melo è morto.
Anzitutto, non interpreteremmo mai (9a) o (9b) in senso metonimico: non ci
sogneremmo di vedere il cane come l’habitat delle pulci e leggere l’enunciato
nel senso di Il cane è un territorio privo di pulci e neppure di interpretare (9b)
nel senso di Il melo è stato abbandonato dagli uccelli. Poiché la metonimia
parte comunque da un conflitto potenziale, il fatto che sia del tutto esclusa in
(9a) prova (qualora ce ne fosse bisogno) che qui non abbiamo alcun conflitto
concettuale, né quindi a fortiori alcuna metafora o metonimia. Gli enunciati
(9a) e (9b), insomma, a differenza di (8a) sono del tutto coerenti e riposano
sulla predicazione indiretta:
(9)
c. Il cane è mortale.
d. ?Il melo è mortale.
Tuttavia – ed è il terzo passo – a questo punto scatta una differenza. Per
rendersene conto, si osservi come il VLI definisce morto:
[…] Di persona, animale, organismo vivente o elemento costitutivo di esso, in cui
siano venute meno le funzioni vitali: i soldati m.; cane m.; foglie m.; cellule morte.
La definizione precedente presenta una gerarchia che procede dalle persone e
scende fino alle parti organiche passando per animali e vegetali; inoltre, ha un
carattere circolare perché definisce la morte come perdita delle funzioni vitali.
Il punto rilevante è che, secondo la definizione riportata, una persona morta
sarebbe una persona che «non respira, a cui non batte il cuore ecc.»,
esattamente come una foglia morta sarebbe una foglia «secca, gialla, che non è
più in grado di realizzare la fotosintesi ecc.». Ma il fatto è che, qui, si rileva
un’asimmetria: mentre è naturale descrivere un vegetale morto (ad es. un fiore)
descrivendone l’aspetto (ad es. dicendo che è appassito), è innaturale descrivere
la morte di un animale o di una persona adducendo i tratti fisici che acquistano
o le funzioni vitali che perdono. Anzi, è innaturale descriverla tout court; si
confrontino, infatti, le domande seguenti:
(10)
a. In che senso il fiume è morto? Nel senso che si è prosciugato.
b. ?In che senso i gerani sono morti? Nel senso che sono seccati.
c. *In che senso il tuo gatto è morto?
Ø
d. *In che senso tua nonna è morta?
Ø
Mentre le domande (10a-b) sono sensate, le domande (10c-d) non lo sono. E’
vero che (10a) può sembrare più naturale di (10b); ma è altrettanto vero che
mentre a (10a-b) è possibile rispondere come riportato sulla destra, è assurdo
cercare di rispondere a (10c-d). Insomma: è un fatto che a noi non paia assurdo
chiederci cosa voglia dire che un batterio o un vegetale muoiano ed è un fatto
130
La predicazione indiretta esibita da (1a) è ovviamente il contrario di (1b): il fiume è un
essere vivente.
234
che invece ci paia assurdo porre la stessa domanda per le persone o gli
animali131. Quali sono le condizioni di coerenza di questi fatti? Se pare sensato
offrire una riformulazione di che cosa si intenda con «morte di una pianta»,
vuol dire che il concetto di morte degli animali o delle persone non si applica
alle piante. La morte di una pianta, cioè, sarebbe pensata per mezzo di un
processo di ‘riduzione’ a partire da quella di un animale. In sintesi, il fatto che
in (9b) non sia possibile un’interpretazione metonimica prova che una pianta –
a differenza di una cosa – si colloca nello spazio logico della morte. Il fatto che
non sia assurdo chiedersi (10b) – come lo è invece chiedersi (10c) o (10d) –
rova che un vegetale si colloca ai margini dello spazio logico della morte: cioè
muore in un senso del tutto non prototipico rispetto alle persone e degli
animali, muore come un batterio o un’ameba.
Considerazioni analoghe valgono per uccidere: cosa vuol dire uccidere
una pianta? Significa farla seccare; uccidere o sopprimere il fuoco vuol dire
spegnerlo; ma cosa vuol dire uccidere un cavallo o uccidere una persona? Qui
non potremmo che dire sopprimerlo, assassinarlo. E se dicessimo sparargli in
testa, impiccarlo ovviamente risponderemmo a una domanda diversa: inerente
al come. Il punto è che per definire i primi due impieghi di uccidere non ho
bisogno di dire togliere la vita ma posso ridurli all’acquisizione di determinate
caratteristiche fisiche: in altri termini, l’idea di togliere la vita non è conservata
nel sinonimo o nella parafrasi che offro. Per definire gli altri, al contrario, non
posso che ripetere l’idea di togliere la vita che è contenuta in uccidere: l’idea di
togliere la vita è conservata nel sinonimo. Se questo è vero, ancora una volta,
l’uccisione di una pianta sarebbe pensata per mezzo di un processo di
‘riduzione’ a partire da quella di un animale132.
2.4. La nozione di ‘organismo’
Il carattere organico delle piante mi pare si manifesti in modo
particolarmente chiaro nell’osservazione di un predicato come avvelenare. Per
rendersene conto, si confronti anzitutto:
(1)
a. Quel criminale ha avvelenato il fiume.
b. Quel criminale ha avvelenato il cane.
Il fiume non è un oggetto organico, mentre un cane sì. Questo si riflette sulle
rispettive interpretazioni: «estrinseca», quella di (1a); «intrinseca» quella di
(1b). Poiché un cane è un organismo, avvelenare un cane vuol dire avvelenare
proprio lui; poiché un fiume non è un organismo, avvelenarlo vuol dire
avvelenare metonimicamente altre cose (che sono organismi): la flora e la fauna
che lo abitano o chi ne beve le acque. Il cane è la vittima del veleno, il fiume il
veicolo. Si osservino ora gli enunciati seguenti:
(1)
c. Il vicino, invidioso, gli ha avvelenato i gerani.
131
Non si constata il decesso di una pianta. Non ci si chiede: quando è morta questa
pianta?
Andrà poi ricordata la presenza di campi semantici del tipo: chi uccide una persona è
un assassino ma non chi uccide una pianta o un cavallo. E chi viene ucciso, se è un uomo è una
vittima, ma se è una pianta no. E anche: L’uccisione / il delitto / l’assassinio / l’omicidio della
rosa (della tigre, di Paolo); e anche: assassino, omicida, boia, mandante…. Si noti poi come
esistano categorie di assassini nominati in base alla persona che uccidono: uxoricida, patricida,
infanticida ecc.
132
235
d. Il vicino, un vero criminale, gli ha avvelenato le mele.
I gerani sono le ‘vittime’ del veleno: cioè si comportano come il cane, un’entità
organica. Le mele, invece, sono il veicolo del veleno: cioè si comportano come
il fiume, un’entità inorganica. Diremo allora che i gerani (piante) sono
concettualizzati come organismi viventi, i frutti o gli ortaggi invece no perché
non è possibile avvelenarli in senso intrinseco. Questa idea è responsabile dello
spostamento metonimico dell’interpretazione di (1d). Questo spostamento
metonimico è dunque una prova del fatto che noi presupponiamo i vegetali
come entità organiche.
Un cuore sano è un cuore che funziona bene: così come può funzionare
bene un motore; tuttavia, un cuore che funziona male è un cuore malato, ma un
motore che funziona male non è un motore malato. In questa prospettiva, si
osservino gli enunciati seguenti:
(2)
a. Questo pino è sano.
b. Questo cucciolo è sano.
c. Questo cuore è sano.
d. Questo vaso è sano.
e. Questa mela è sana.
Gli impieghi di sano in (2a-c) sono equivalenti: la negazione non è sano
verrebbe spontaneamente interpretata come è malato; gli impieghi di sano in
(2d-e), invece, sarebbero parafrasati con integro, ammaccata o salubre133 e le
negazioni sarebbero interpretate rispettivamente come rotto e insalubre. Se
osserviamo queste interpretazioni, ci rendiamo conto che in esse l’idea di salute
viene adattata all’ambito concettuale di una cosa sopprimendo tutto ciò che ha
a che fare con l’organico: rimane, allora, la magra idea di integrità. Possiamo
analizzare (2a-c) così:
(3)
(4)
(5)
a. Un pino [che è un vegetale] è sano [che richiede un organismo
come soggetto]
b. Un vegetale è un organismo.
a. Un cucciolo [che è un animale] è sano [che richiede un organismo
come soggetto]
b. Un animale è un organismo.
a. Un cuore [che è una parte del corpo] è sano [che richiede un
organismo come soggetto]
b. Una parte del corpo è un organismo.
La coerenza di (2a-c) e la costanza dell’impiego di sano provano che (3b), (4b) e
(5b) sono presupposizioni sulle quali facciamo affidamento; (3b), (4b) e (5b)
sono le presupposizioni dell’impiego di sano in (2a-c), delle sue negazioni e
dell’organizzazione del campo semantico in cui si colloca: ad esempio come
contrario di malato. Vegetali, animali, persone e parti del corpo sono dunque
entità che rientrano nello spazio logico degli organismi, dove con «organismi»
intendo semplicemente la condizione di possibilità dell’essere malato. A
Si noti che salubre e insalubre si applicano solo alle cose e non alle persone: si
applicano alle cose in riferimento alle persone. Nel caso dei cibi si noterà che sano può essere
sbilanciato sugli effetti per colui che mangia il cibo: sano significherà dunque salutare e si
opporrà a insalubre. Queste variazioni sono ovviamente sensibili alla nostra concettualizzazione
dell’oggetto in questione.
133
236
osservazioni analoghe alle precedenti si perviene osservando che un vegetale
(da una quercia a una rosa) può mostrare segni di malattia o deperimento. Un
vegetale – come un animale o una persona e a differenza di una cosa – può
deperire: deperire è insomma appropriato per gli animali e i vegetali, che
quindi appartengono alla medesima classe delle entità organiche richiesta da
tale predicato. Tuttavia, si deve subito notare una differenza tra vegetali e
animali: infatti, se entrambi possono essere nutriti, solo gli animali possono
esser alimentati e i vegetali non possono essere denutriti.
L’ultima osservazione ci conduce a considerare l’ambito del
nutrimento:134
(6)
a. Il gatto ha bevuto tutto il latte che avevo versato.
b. I gerani hanno bevuto tutta l’acqua che avevo versato.
In (6), ci troviamo di fronte a due impieghi diversi di bere. Il primo si oppone a
mangiare o dormire, il secondo no: posso proseguire coerentemente (6a) con
poi ha mangiato e quindi è andato a dormire ma non (6b). Posso usare
l’enunciato (6a) per comunicare – per implicare – che il gatto si è dissetato e
per rispondere alla domanda se aveva sete; ma non posso usare l’enunciato (6b)
né per comunicare che le piante si sono dissetate, né per rispondere alla
domande se i miei gerani avessero sete135. D’altra parte, bere nell’impiego di
(6a) ammette di essere modificato da avverbi quali con calma,
precipitosamente, a garganella, silenziosamente ma non (6b): così, (6a)
modificato da precipitosamente, può essere una risposta alla domanda Perché
al gatto è andato per traverso il latte? ma non (6b). In sintesi, nel caso di (6a)
bere viene retro-categorizzato a livello di mero assorbire o consumare136. Si
considerino gli enunciati seguenti:
(7)
a. Il contadino ha dato da bere alle mucche.
b. Il contadino ha dato da bere all’insalata.
Certo, in (7) troviamo la medesima espressione dare da bere; tuttavia, questo
fatto è innocuo: gli impieghi in gioco sono così chiaramente diversi da non
necessitare alcuna distinzione linguistica. In (7a), dare da bere è sinonimo di
abbeverare; in (7b), è sinonimo di innaffiare: abbeverare e innaffiare non hanno
nulla in comune. Per illustrare quello che intendo si osservi:
(8)
a. Il contadino ha dato da bere al garzone.
b. ?Il contadino ha abbeverato il suo garzone.
c. *Il contadino ha innaffiato il suo garzone.
In (8b) troviamo un impiego di abbeverare inappropriato ma coerente; in (8c),
invece, troviamo un impiego di innaffiare incoerente. In (8b) vediamo il
garzone dipinto come un bue che beve: se questo è vero, il nucleo concettuale
di (8b) è identico a quello di (8a). Il punto cioè è sempre dare da bere, solo che
è rivolto a un tipo di entità inappropriato: qui il problema è che il garzone non
Ci si chieda: le piante dormono? si svegliano? si riposano? si affaticano? si stancano? E
una mosca? Una pianta non è stressata, stremata.
135
Si noti, per inciso, la doppia concettualizzazione del latte: da un lato è una bevanda (il
gatto lo può bere), dall’altro lato è un cibo (il gatto se ne può fare una scorpacciata); ma i
134
vegetali (piante carnivore a parte) non possono farsi né una scorpacciata di acqua, né di concime
né di qualsiasi cosa metta nel vaso
136
Si pensi anche al caso di un’auto: la mia auto beve troppo.
237
è un bue, ma un garzone e un bue sono entrambi esseri animati. In (8c), invece,
vediamo il contadino che spruzza di acqua il garzone: se questo è vero, il
nucleo concettuale di (8a) e (8b) – l’idea di dare da bere – è completamente
tagliato via. La conclusione è che gli esempi (2) risposavano sul fatto che i
vegetali sono collocati fuori dallo spazio logico delle entità che possono bere.
Abbeverare e innaffiare contengono l’idea di un oggetto (ad es. di acqua); come
abbiamo appena visto, abbeverare è dare da bere ma innaffiare no; questo fatto
si riflette sulla diversa concettualizzazione dell’oggetto implicito nel predicato.
Nel caso di abbeverare, l’oggetto in questione è l’acqua: la coca-cola e il vino,
ad esempio, sarebbero bevande inappropriate con cui abbeverare le mucche. Se
questo è vero, l’acqua in abbeverare è concettualizzata non semplicemente
come liquido ma come bevanda. Anche nel caso di innaffiare l’oggetto implicito
è l’acqua: tuttavia, questa volta – giacché innaffiare non è dare da bere – è
concettualizzata solo come liquido generico e non come bevanda. Se do da bere
a una mucca vino o coca cola, gli do da bere la bevanda sbagliata in
opposizione all’acqua: quindi il vino e la coca-cola restano le bevande che sono.
Ma se verso vino o coca-cola nel vaso dei miei gerani, essi perdono ogni loro
caratterizzazione: sono semplicemente liquidi con cui innaffio la pianta. Certo,
questi liquidi si oppongono ancora all’acqua, ma non come bevande: bensì come
liquidi giusti o sbagliati per innaffiare un vaso137.
Abbiamo appena visto che una pianta può essere malata. Chiediamoci
ora: questo stato di malattia è lo stesso in entrambi i casi? Per rispondere, si
considerino le domande seguenti:
(9)
(10)
a. Come sta Paolo?
b. Come sta il tuo cane?
a. *Come stanno le tue rose / la tua vigna?
b. *Come sta la tua moto?
Di fronte a (9) potremmo rispondere offrendo uno stato: è affamato, assetato,
ammalato, affaticato o (nel caso di (9a)) depresso, triste. Le domande (10),
invece, non sono domande che normalmente porremmo a qualcuno. In (9),
potremmo parafrasare come sta con come si sente; in (10), invece, al posto di
stare sembra più appropriato andare: come vanno le tue rose? Come va la tua
moto? Rispondere a (9) dicendo come vuoi che stia… è ammalato è coerente;
ma rispondere a (10) come vuoi che stiano… sono ingiallite manifesta
un’evidente incoerenza. Si considerino inoltre gli enunciati seguenti:
(11)
a. Paolo starà bene.
b. Quelle rose staranno bene.
Intuitivamente, chi asserisce (11a) sembra fare una previsione sulla salute di
Paolo: come in Paolo starà bene, con la medicina che gli ho dato. Chi asserisce
(11b), d’altra parte, sembra fare una previsione sull’effetto estetico delle rose:
come in Quelle rose staranno bene sul suo comodino. Si noti che in (11a) è
disponibile – benché relegata a un rango inferiore – una lettura analoga a
(11b): Paolo starà bene, con quel nuovo completo blu. Tuttavia, in (11b) resta
Considerazioni analoghe si applicano anche per respirare. Una pianta non respira
affannosamente o regolarmente o profondamente, non la si può soffocare, non inspira, né espira:
137
non ha fiato né respiro. Una pianta inoltre non può essere affaticata, stanca, non può dormire o
riposarsi o essere svegliata. Inoltre le piante non dormono, non si riposano, non si stancano,
non si affaticano.
238
esclusa l’interpretazione che invece era privilegiata in (11a): in ?Quelle rose
staranno bene, dopo il trattamento del giardiniere o il risultato è incoerente o
l’interpretazione tende ancora sull’effetto estetico. Le condizioni di coerenza
che hanno orientato le interpretazioni – le inferenze – precedenti sono che una
persona può trovarsi in uno stato vitale (ad es. di salute o malattia) ma una
pianta no. La conclusione è che le piante, come le cose, non si trovano in
alcuno stato vitale perché, a differenza delle persone o degli animali, il loro
bisogno di acqua luce o aria, la loro malattia o la loro salute non sono risposta
alla domanda come sta?. A questo proposito, può essere rivelatrice anche
l’espressione avere l’aria…. Questa espressione, insieme a avere un aspetto…,
indica un’inferenza tratta da sintomi: perciò un enunciato come *questa tazzina
ha un aspetto rotto è incoerente. L’espressione avere l’aria…, tuttavia, sembra
specializzata per le persone: *Questo mare ha un’aria inquinata vs. Questo
mare ha un aspetto inquinato; questi pomodori hanno un aspetto insalubre vs.
*questi pomodori hanno un’aria insalubre; Paolo ha un’aria malata vs. *Questi
gerani hanno un’aria malata. Non solo, ma si noti che mentre Paolo ha un’aria
assetata è coerente, *Paolo ha un’aria disidratata non lo è: qui dovrei dire
infatti Paolo ha un aspetto disidratato. Quest’ultima osservazione, in
particolare, sottolinea come avere un’aria selezioni gli stati vitali: quindi ad
esempio l’essere assetati e non l’essere disidratati.
Si osservi ancora:138:
(12)
a. Una mela guasta139.
b. Un motore guasto.
Né in (12a), né in (12b) guasta si oppone a malata. Tuttavia, se in (12a) guasta
vale bacata, in (12b) vale non funzionante. Questo permette di introdurre
un’altra presupposizione di base complementare rispetto alla precedente. Si
osservi:
(13)
(14)
a. *Paolo si è guastato. / Come sta Paolo? *E’ guasto?
b. *Il mio criceto si è guastato. / Come sta il tuo criceto? *E’ guasto?
c. *Il vecchio melo si è guastato140.
a. *Paolo funziona bene.
b. *Il mio cane funziona bene.
c. *Il pioppo funziona bene.
Le condizioni di coerenza di (12b), (13) e (14) è che un animale, una persona e
un vegetale non siano meccanismi, mentre un motore o un trapano sì. Si
confrontino a questo proposito:
(15)
a. Il trapano si è guastato.
b. ?Il martello si è guastato.
In (15b) troviamo un’incoerenza di carattere diverso rispetto a (14), qui
diremmo semplicemente che l’impiego di guastarsi è inappropriato perché il
138
Oppure si considerino anche le espressioni: Dov’è il guasto in questa rosa? Dov’è il
guasto in questo cavallo? Questa siepe ha un guasto.
Ad ogni cibo può corrispondere poi un “guasto” particolare: una mela guasta è bacata;
un formaggio guasto è marcio; del vino guasto è aceto ecc.
140
Sebbene le piante siano organismi viventi come gli animali o le persone, mantengono
tuttavia alcune caratteristiche particolari: le piante non possono essere né inferme, né colte da
malori e la fotosintesi non è l’equivalente di un organo (o della sua funzione) per un animale.
139
239
martello non è un meccanismo. Ne deriva che lo spazio logico delle entità che
possono essere meccanismi è determinato dalla categoria delle cose (cioè delle
entità non organiche): è all’interno di questa categoria che poi si può avere un
impiego appropriato o meno di guastarsi. Le entità organiche invece sono del
tutto escluse dalla possibilità di essere o meno meccanismi: qui la questione
non è di inappropriatezza ma di violazione di un confine più profondo.
Avevamo visto che – quanto all’anima e al corpo – i vegetali
risultavano collocati nello stesso spazio logico delle cose: i vegetali e le cose
cioè non hanno né un’anima né un corpo. Questo, per inciso, non significa che i
vegetali siano cose (o le cose vegetali) ma solo che – quanto al corpo e
all’anima – si comportano come cose. Ora constatiamo che – quanto al
carattere organico – i vegetali si comportano come le persone e gli animali
differenziandosi dalle cose: i vegetali ad esempio non possono essere feriti (e
quindi curati da ferite) ma possono essere malati (e quindi guarire)141. Di
fronte a quest’ultima constatazione sarebbe sbagliato rilevare una
contraddizione. Infatti, nel nostro impiego di è malato o è ferito, noi non
percepiamo alcuna contraddizione: volerla vedere significherebbe essere preda
di un pregiudizio che astrae dal nostro atteggiamento naturale portandoci a
dire che siamo schizofrenici. Ma se noi non rileviamo alcuna contraddizione,
che senso ha volerla rilevare? Dire a chi non sente il nostro impiego di malato
o ferito come contraddittorio che sbaglia sarebbe come dire a chi sente che “A
e non-A” è contraddittorio che sbaglia. Tutto quello che dobbiamo fare è
descrivere il nostro atteggiamento naturale: non dobbiamo sottomettere
l’oggetto di studio alla nostra logica, ma piegarci noi alla sua.
Per quanto riguarda la nozione di organismo, si consideri ancora
l’ambito della riproduzione:
(16)
a. Questa persona è etero- o omo-sessuale?
b. ?Questa volpe è etero- o omo-sessuale?
c. *Questo abete è etero- o omo-sessuale?
La differenza tra le domande (16) è chiara: (16a) è coerente e appropriata, (16b)
è inappropriata, (16c) è incoerente. Mentre in (16b) possiamo facilmente capire
la domanda piegandola verso (1a), (1c) risulta praticamente incomprensibile e
può essere interpretata solo grazie a una fortissima riduzione (o proiezione che
personalizza l’abete). D’altra parte, si consideri:
(17)
a. *Questo abete è maschio o femmina? vs. Questa volpe è maschio o
femmina?
b. *Di che sesso è questo abete? vs. Di che sesso è questa volpe? 142
La condizione di possibilità dei fenomeni precedenti è che sebbene i vegetali –
come i batteri o i virus informatici – si riproducano e sebbene si possa parlare
di fecondazione incrociata non hanno un sesso come gli animali e le persone.
Del resto, le piante non sono impotenti, virili o vergini e neppure possono
essere violentate143. Se dunque si può parlare di una rosa femmina è grazie
Se ne evince che la nozione di ferita (rispetto a malattia) è più legata all’idea di anima
che a quella di organicità.
142
Si noti che uno può avere come perversione quella di essere attratto sessualmente dagli
animali, ma non dagli alberi.
143
Si noti che una pianta vedova e castrare una pianta sono espressioni specializzate per
indicare una pianta sramata e una pianta alla quale sono stati tolti i boccioli. Anche abortire è
specializzato: una fioritura abortita è una fioritura che non ha avuto luogo. Qui è evidente la
141
240
all’esito regressivo di una metafora; la prova è che, nonostante
quell’espressione, non possiamo estendere alla rosa il resto della rete
concettuale tipica degli animali: infatti, se il vento o le api possono fecondare la
rosa, non per questo ci chiederemmo:
(18)
a. *La rosa è gravida?
b. *Quando le rose vanno in calore? Quando si accoppiano? In
primavera?144
A questo proposito, si considerino ancora le interpretazioni degli enunciati
seguenti:
(19)
a. Questa gatta è feconda.
b. Questo pero è fecondo.
L’enunciato (19a) potrebbe essere interpretato in due sensi: anzitutto, come
questa gatta è in calore; in secondo luogo, come questa gatta fa molti piccoli.
Invece, l’enunciato (19b) – dove potremmo sostituire pero con terreno –
potrebbe essere parafrasato solo con questo pero produce molti frutti: la
ragione è che un vegetale – a differenza di un animale – non va in calore. E in
ogni caso quei fiori non sono certamente la prole dell’albero. Si osservino le
domande seguenti:
(20)
a. Questo bambino è orfano? Dove / Chi sono i suoi genitori?
b. ?Questo cane è orfano? Dove / Quali145 sono i suoi genitori?
c. *Questa margherita è orfana? Dove / Quali sono i suoi genitori?
Gli enunciati (20a) sono coerenti; gli enunciati (20b) sono inappropriati; gli
enunciati in (20c) sono assurdi: nel caso delle piante il problema dei rapporti di
parentela (a meno di non essere biologi) non si pone. Mentre si pone il
problema della discendenza di una persona (che quindi può risultare orfana),
non si pone il problema della discendenza di una pianta (che perciò non può
risultare orfana). Di conseguenza, mentre per le persone e gli animali c’è una
serie di termini per indicare l’individuo nato (neonato, infante, cucciolo ecc.) e i
genitori (genitori, mamma o papà…), nel caso dei vegetali e delle cose non
abbiamo una rete di nomi specifici di parentela146: questa pianta è mamma o
padre o genitore di quest’altra. D’altra parte è quasi paradossale che il mondo
vegetale fornisca un modello metaforico per il concetto di discendenza che è
del tutto escluso dal regno vegetale: si pensi ad esempio alle espressioni albero
genealogico (che non esiste per le piante!) o stirpe (la cui etimologia rimanda a
ramo). Alle conclusioni precedenti – cioè che le piante non hanno prole – si
giunge osservando la differente coerenza delle espressioni:
(21)
a. Baby-tigre, baby-foca ecc.
b. *Baby-pero, *baby-quercia, ecc.
c. *Pianta-zio, pianta-cugino, pianta-madre, pianta-padre, ecc.
metafora regressiva verso fallire o non riuscire.
144
E i semi non sono uova; l’embrione non è un seme…
145
Si noti la differenza tra quali e chi che ricalca la distinzione tra persone e non: per un
cucciolo sarebbe inappropriato chiedere chi sono i suoi genitori?
146
Un bambino o un cucciolo sono partoriti, ma non un bocciolo.
241
2.5. Le nozioni di ‘vita’ e ‘età’
Si considerino gli enunciati seguenti:
(1)
a. Paolo è morto. Ha avuto una bella vita.
b. *I miei gerani sono morti. Hanno avuto una bella vita.
La domanda è: perché, a differenza di (1a), la ripresa anaforica di (1b) non
funziona? E la risposta non può che essere la seguente: non funziona perché
non c’è nessuna vita che i gerani hanno vissuto. Correlativamente, tra gli
enunciati seguenti solo i primi due sono coerenti:
(2)
a. Questa persona trascorre la sua esistenza sulle Ande.
b. Questo pesciolino trascorre la sua esistenza in un acquario.
c. *Questa rosa trascorre la sua esistenza in un vaso.
d. *Questo melo trascorre la sua esistenza in un bosco.
e. *Questi libri trascorrono la loro esistenza sugli scaffali.
Per i vegetali e le cose risultano insomma incoerenti espressioni quali
trascorrere / passare /consumare… la propria vita /esistenza / il proprio
tempo… Biologicamente parlando, i vegetali sono esseri viventi perché
muoiono; tuttavia, i vegetali e le cose non hanno una ‘esistenza’, un ‘tempo’,
una ‘vita’ nello stesso senso in cui ce l’hanno le gli animali e le persone. Questa
idea di esistenza o di vita – di passare la propria vita o trascorrere la propria
esistenza – è esclusa per le cose e le piante: che invece conoscono solo la
dimensione del trovarsi.
Si considerino ora gli esempi seguenti:
(3)
a. Paolo è cresciuto fino a 14 anni. E poi più.
b. *Le rose sono cresciute fino a 3 anni. E poi più.
In (3a) – in cui fino è coerente – potremmo inserire fino all’età di 14 anni o
semplicemente fino ai 14 anni: i 14 anni di una persona esistono e quindi
possono funzionare come termine di un processo di crescita. Al contrario,
nell’enunciato (3b) – in cui fino è incoerente – non potremmo inserire né fino
all’età di 3 anni, né fino ai 3 anni: i 3 anni di una pianta non esistono e quindi
non possono funzionare come termine del processo di crescita. Questo vuol
dire che i 14 anni di una persona sono una età; ma i 3 anni di una pianta non
sono una età; non sono nulla. Si noti che gli esempi seguenti – con per – si
comportano in maniera esattamente speculare rispetto ai precedenti:
(4)
a. *Paolo è cresciuto per 14 anni. E poi più.
b. Le rose sono cresciute per 3 anni. E poi più.
Si considerino gli esempi seguenti:
(5)
(6)
a. Una quercia giovane / appena nata.
b. Una persona giovane / un bambino appena nato.
a. Una persona vecchia.
b. Una quercia vecchia.
242
Una quercia giovane è una quercia spuntata da poco o recente o nuova; ma un
bambino appena nato non è un bambino spuntato da poco o recente. Una
quercia vecchia è una quercia spuntata da molto tempo, ma una persona
vecchia non è tanto una persona nata da tempo quanto una persona anziana o
nell’età della vecchiaia. Se questo non bastasse, si notino le differenti
implicazioni (o inferenze esterne o messaggi) che possiamo trarre da (2): il
sintagma (2a) potrebbe essere usato per suggerire che la persone in questione è
prossima alla morte, ma difficilmente useremmo (2b) per comunicare che la
quercia sta per morire147. Ne deriva che in (5) e (6) troviamo diversi impieghi
di giovane, appena nato e vecchio: e la ragione di questa differenza è che alle
piante (come alle cose148) non è concesso di avere un’infanzia, una giovinezza o
una vecchiaia. Può essere utile osservare quello che accade predicando vecchio
di artefatti o strumenti:
(7)
(8)
a. Questo computer è vecchio.
b. Questa automobile è vecchia.
a. Questa penna è vecchia.
b. Questa tazzina è vecchia.
L’interpretazione di vecchio in (7) e (8) distribuisce gli artefatti tra due poli.
Da un lato, abbiamo il computer e l’automobile la cui funzione è
particolarmente evidente: qui vecchio è parafrasabile con superato o obsoleto;
dall’altro lato, abbiamo la penna e la tazzina la cui funzione passa in secondo
piano: qui vecchio non significa tanto obsoleto ma semplicemente costruito da
molto tempo149. Si consideri ora:
(9)
a. Questa sega è vecchia.
b. Questa sega è antica.
In (9a) vecchia potrebbe essere spontaneamente interpretato come non più in
grado di tagliare bene: cioè obsoleta. Ma in (9b) questa implicazione non
sarebbe l’interpretazione più immediata: una sega antica, infatti, non è
anzitutto una sega vecchissima (e quindi non ottimale) ma ad esempio una sega
utilizzata da antiche popolazioni o un pezzo di antiquariato. La domanda è:
quali sono le condizioni di coerenza di queste interpretazioni? La risposta è che
vecchio, nell’impiego di (9a), presuppone che il soggetto faccia parte, per così
dire, del nostro mondo: la condizione alla quale possiamo dire che una sega
vecchia è una sega che funzionerà poco bene, cioè, è che si ponga il problema
della sua impiegabilità. Se dunque non saremmo propensi a interpretare una
sega antica come una sega che funzionerà poco bene, vuol dire che per essa non
si pone il problema della sua impiegabilità: qui è venuta meno la sua
caratterizzazione qua strumento ed è venuta meno perché è come se fosse
collocata in un altro mondo. Antica, in altre parole, buca la barriera de tempo e
colloca gli oggetti in un ‘altrove’. Tutto questo non ha nulla di misterioso:
dicendo che uno strumento vecchio è collocato nel ‘nostro mondo’ intendo
semplicemente che per esso si pone il problema dell’impiegabilità; dicendo che
Certo, se dico questi fiori sono vecchi posso implicare che appassiranno, che dureranno
poco o che non posso regalarli; tuttavia, qui non sarebbe in gioco l’idea di morte: più o meno
come se dicessi questo telefonino è vecchio per comunicare che potrebbe rompersi fra poco.
148
Una montagna vecchia è una montagna che c’è o che si è formata da molto tempo;
147
Si noti che nessuno degli impieghi precedenti è analogo a quello in cui il soggetto è una
persona (ad es. mia nonna è vecchia): e questo è mostrato dal sostantivo un vecchio, una vecchia
o la vecchiaia (?la vecchiaia dell’automobile; la vecchiaia di mia nonna)
149
243
uno strumento antico non è collocato nel ‘nostro mondo’ – intendo soltanto
che per esso non si pone più il problema dell’impiegabilità. Una sega vecchia,
insomma, è una sega da buttare via; una sega antica è una sega da mettere in
un museo. Si noti che, volendo, è possibile interpretare (9b) come un caso
estremo di (9a): in questa lettura, cioè, antica varrebbe vecchissima e quindi la
sega sarebbe dipinta, a maggior ragione, come inutilizzabile. Questa lettura
emerge ancora più chiaramente se al posto della sega introduciamo un
computer. Tuttavia, se riflettiamo su come è avvenuta quest’ultima
interpretazione, ci rendiamo conto di aver fatto leva sull’idea che per la sega in
questione si pone il problema del suo utilizzo da parte nostra: questa è la
condizione che ci ha permesso di piegare l’idea di antica verso quella di vecchia
ottenendo (con un processo regressivo) vecchissima. Del resto, questa lettura
emerge più chiaramente con l’esempio del computer proprio perché il
computer oggetto appartiene esclusivamente al nostro mondo (e non a quello
di popolazioni passate).
2.6. La nozione di ‘abitare’
Si confrontino gli esempi seguenti:
(1)
(2)
a. Le stelle alpine vivono in alta montagna. Questo è il loro habitat
ideale.
b. Gli stambecchi vivono in alta montagna. Questo è il loro habitat
ideale.
a. *Gli italiani vivono in Italia. Questo è il loro habitat ideale.
b. *Gli italiani vivono in zone temperate. Questo è il loro habitat ideale.
c. *I tuareg vivono nel deserto / in zone desertiche. Questo è il loro
habitat ideale.
La ripresa anaforica questo funziona in (1), ma non in (2) perché in (1) ma non
in (2) c’è l’idea di un habitat che può essere ripresa: ne deriva che i vegetali e
gli animali hanno un habitat ma non le persone. Si noti inoltre, per inciso, che
l’impiego di vivere in (1a) si distingue da quello che troviamo in (1b) e in (2):
nel primo caso, vivere – cioè crescere – esclude l’idea di morte; nel secondo,
invece, l’idea di morte fa parte del modo di vita in questione.
Si considerino adesso gli enunciati seguenti:
(3)
(4)
(5)
a. Ho sfrattato l’inquilino.
b. Hanno esiliato il monarca.
a. ?Ho sfrattato il mio gatto.
b. ?Ho esiliato il mio gatto.
a. *Ho sfrattato i miei gerani.
b. *Ho esiliato i miei gerani.
Passando da (3) a (5) si registra un climax: gli enunciati (3) sono neutri, gli
enunciati (4) sono inappropriati, gli enunciati (5) sono incoerenti. Il fatto che
gli enunciati (3) siano coerenti e appropriati prova che il luogo in cui una
persona trascorre la sua esistenza possa essere una patria o un’abitazione. Il
fatto che gli enunciati (4) siano inappropriati prova che un animale (come una
persona) trascorre la propria esistenza; tuttavia, a differenza di una persona, il
luogo in cui questo accade non è un’abitazione o una patria ma una tana o un
244
territorio. Il fatto che gli enunciati (5) siano incoerenti prova che i vegetali
(come le cose) non trascorrono un’esistenza, ma occupano un luogo: e questo
luogo non è né un’abitazione né una patria. Ancora una volta, dunque,
constatiamo che gli animali si collocano all’interno della stessa categoria
ontologica delle persone ma in posizione marginale; le piante, invece, fuori. A
questo proposito, può essere utile confrontare:
(6)
(7)
a. Nel mio giardino vive un folletto / un barbone.
b. Nel mio giardino vive una talpa.
c. ?Nel mio giardino vive un vecchio melo150.
d. *Sulla mia scrivania vive una tazzina di caffè.
a. Nel mio giardino abita un folletto / un barbone.
b. ?Nel mio giardino abita una talpa.
c. *Nel mio giardino abita un vecchio melo.
d. *Sulla mia scrivania abita una tazzina di caffè.
Passando da (6) a (7), l’incoerenza si alza di una posizione. Da un lato, vivere in
(6b) è coerente e appropriato come in (6a), in (6c) è inappropriato e sarebbe
sostituito con crescere, in (6d) è incoerente. Dall’altro lato, abitare in (7b) è già
inappropriato, mentre in (7c-d) è incoerente. Ne deriva che i predicati vivere e
abitare, negli impieghi considerati, consentono di classificare ciascuno a suo
modo i soggetti coinvolti: vivere distingue tra entità biologiche (folletto,
barbone, talpa e melo) e cose (tazzina), abitare distingue tra persone più o
meno prototipiche (folletto, barbone e talpa) e no (melo, tazzina).
2.7. Le nozioni di ‘educazione’, ‘coltivazione’ e ‘allevamento’
Educare un bambino vuol dire insegnargli a comportarsi, ma educare
un cane vuol dire addestrarlo. Per cogliere la differenza si considerino gli
esempi seguenti:
(1)
a. Questo bambino è un gran maleducato!
b. ?Questo cane è un gran maleducato!
Mentre l’esclamazione (1a) è coerente, (1b) non la è. Questo permette di
distinguere due impieghi di maleducato: uno che condivide il presupposto di
(1a) – cioè la distinzione tra persone e animali – e l’altro che non lo contiene.
L’osservazione precedente si riflette sull’interpretazione della negazione in:
(2)
a. Questo bambino non è educato.
b. Questo cane non è educato.
In (2a), non è educato sarebbe interpretato come è maleducato (cioè come (1a)):
qui educato sarebbe un aggettivo e la negazione sarebbe ‘interna’; in (2b),
invece, non è educato sarebbe interpretato come non è stato educato, ovvero
Vivere per i vegetali può essere impiegato solo in riferimento alla specie e non
all’individuo: La stella alpina vive sulle rocce. ?Questa stella alpina vive sulle rocce dietro casa
mia. Per le piante sono inoltre bloccate espressioni come vivere di…: Le iene vivono di carogne.
Gli alberi vivono delle sostanze presenti nel suolo. ?L’edera vive abbarbicandosi sulle altre
piante.
150
245
non è stato addestrato: qui educato sarebbe un participio passato e la
negazione sarebbe ‘esterna’. La condizione che orienta queste interpretazioni è
la differenza tra animali e persone. Una stalla può essere considerata un
allevamento di mucche, ma un asilo non è un allevamento di bambini. Se è vero
che si allevano bambini e cuccioli ma non fiori o alberi, è altrettanto vero che il
nome allevamento risulta appropriato solo per gli animali. Quanto a
coltivazione è naturalmente appropriato per le piante ma si applica anche ad
alcuni esseri viventi come in: una coltivazione di germi, una coltivazione di
spore…, dove però risulta più appropriato coltura (coltura della api, dei vermi
ecc.).
Può essere utile confrontare le due espressioni seguenti:
(3)
a. Allevano uomini / Un allevamento di uomini.
b. Coltivavano uomini / Una coltivazione di uomini.
In (3a), gli uomini sono visti come bestiame: l’effetto è degradante o grottesco
e l’emozione appropriata è l’indignazione; in (3b), invece, gli uomini sono visti
come vegetali: qui l’effetto non è degradante ma straniante e la reazione
appropriata non è l’indignazione ma qualcosa di ancora diverso. E se parliamo
di «orrore» in entrambi i casi, non possiamo farlo nello stesso senso. La
condizione di possibilità di tutto questo è che in (3a) si taglia un confine
interno alla stessa classe ontologica, in (3b) invece tra due classi ontologiche
diverse151.
2.8. Tipi di piante, animali e persone
Vorrei concludere queste scorribande con alcune osservazioni relative
ai tipi di animali, piante e persone. Per illustrare quello che intendo, si
considerino le domande seguenti:
(1)
(2)
(3)
a. Chi è Paolo?
b. Cosa è Paolo?
a. ?Chi è Django?
b. Cosa è Django?
a. *Chi è questo fiore?
b. Cosa è questo fiore?
Incominciamo da (1). Una risposta spontanea a (1a) potrebbe essere: un
italiano, mio cugino, un bambino152. Risposte spontanee a (1b) potrebbero
essere invece: uno studente, un attore, un professore ecc. e in genere ruoli
sociali. Il punto essenziale è che non risponderemmo mai a (1b) usando una
categoria come un mammifero.
Passiamo a (2). Anzitutto – posto che Django sia un cane – posso
rispondere a (2a) dicendo il cane della mia amica; tuttavia, se in (2a) invece del
nome proprio avessi avuto un dimostrativo o un soggetto sottointeso, la
domanda sarebbe risultata incoerente. Si immagini di domandare (2a)
Non c’è niente di male nell’usare metafore vegetali per gli uomini, dato che non c’è
pericolo di confusione in quanto appartengono ad ambiti ontologici distinti; mentre usare
metafore animali tende ad essere degradante (tranne casi come le api ecc) perché appartengono
allo stesso dominio ontologico.
152
Questi sono i cosiddetti «stati identificanti»
151
246
riferendosi a una persona e a un cane entrambi sconosciuti: mentre nel primo
caso, la risposta sarebbe non lo so, nel secondo la domanda suonerebbe
assurda. Per quanto riguarda (2b), il punto è che la risposta spontanea sarebbe
esattamente quella esclusa da (1b): cioè qualcosa del tipo un labrador o un
mammifero. Sbagliare a rispondere a (1b), insomma, è completamente diverso
dallo sbagliare a rispondere a (2b).
Se ora ci volgiamo a (3), ci troviamo al polo estremo rispetto a (1):
come in (2b), la risposta a (3b) consisterebbe nel fornire la specie a cui
appartiene il fiore; a differenza di (2a), non sarebbe mai possibile trasferire sul
fiore una rete di relazioni sociali: è il fiore di Maria non è una risposta alla
domanda Chi è questo fiore?.
La condizioni di coerenza del funzionamento delle domande (1), (2) e
(3) sono le distinzioni tra persone e animali da un lato e vegetali e cose
dall’altro lato. Il fatto che lo spazio di risposte possibili di (1b) sia quello dei
ruoli sociali presuppone che una persona diventi saliente non in quanto
animale appartenente ad una specie, ma in quanto individuo appartenente ad
una società; il fatto che lo spazio di risposte possibili di (3b) sia quelle delle
categorie botaniche presuppone che un vegetale diventi salienti in quanto
elemento appartenente a una classificazione naturale. Gli animali, invece,
individuano un caso intermedio: non prototipico di persone. Questo si riflette
immediatamente nell’impiego di conoscere:
(4)
a. Maria conosce Paolo.
b. Maria conosce i fiori.
In (4a) conoscere potrebbe essere parafrasato con ha già incontrato; in (4b),
invece, sarebbe parafrasato come sa riconoscere a che tipo appartengono i fiori.
Il problema di classificare una persona come un mammifero, semplicemente,
non si pone perché una persona non è presupposta come un animale.
Si considerino ora le domande seguenti:
(5)
a. Chi è Titty?
b. Cos’è Titty?
Come noto, Titty è il nome del canarino inventato da Hanna Barbera,
antagonista del gatto Silvestro. Ora, le domande (5) sono entrambe sensate e a
entrambe potremmo rispondere con: un canarino! Il punto è che le
presupposizioni alla base di queste risposte – e i relativi impieghi di un
canarino – sono diversi.
Incominciamo da (5b). Questa domanda – se astraiamo dal fatto che
Titty sia un personaggio fittizio – è identica a (2b). Quando di fronte a (5b)
rispondiamo un canarino ci comportiamo esattamente come se rispondessimo
un canarino alla domanda cos’è riferita a un uccellino che ci si posa sul
davanzale.
Passiamo ora a (5a). Se qualcuno ci domanda (5a) e noi rispondiamo un
canarino, la nostra risposta è analoga a (1a): cioè al caso in cui alla domanda
Chi è Paolo? rispondessimo Un francese! Quando rispondiamo un canarino a
(5a), insomma, il sintagma un canarino non è più impiegato in quanto categoria
che classifica una specie di animali, ma in quanto «stato identificante» di una
persona: come, appunto, un francese o un pellerossa.
Le osservazioni precedenti implicano due corollari. Anzitutto, che per
247
le persone non esistono specie come esistono per gli animali o i vegetali153: la
prova è che se personifichiamo un animale o un vegetale la sua specie si
trasforma in uno stato identificante e quindi uno stato identificante non è una
specie. Il secondo corollario è che quando in una favola o in un cartone
animato troviamo tutta una popolazione di canarini, gatti, topi, maiali ecc., il
loro essere canarino, topo ecc. non sono differenze che delimitano specie
diverse – come accadrebbe nel mondo reale – ma differenze che
presuppongono l’appartenenza a una stessa specie: come – nel mondo reale – le
differenti nazionalità o etnie presuppongono l’appartenenza alla medesima
specie umana. I gatti, i topi e i canarini delle favole, insomma, non sono altro
che persone con l’aspetto di un gatto, un canarino o un topo (una sorta di
replicanti à la Blade runner o caricature).
Le specie di animali e vegetali non sono paragonabili alle etnie o
nazionalità: le prime rispondono alla domanda cosa è?, le seconde alla domanda
chi è? Ma le specie di animali e vegetali non sono neppure paragonabili ai ruoli
sociali: infatti, se è vero che entrambi sono una risposta alla domanda cosa è, è
altrettanto vero che la risposta che daremmo nel caso di una persona (ad es.
(1b)) esclude quella che daremmo nel caso di un animale o un vegetale (ad es.
(2b) o (3b)).
Se ora osserviamo l’ambito delle persone, ci rendiamo conto che – a
differenza di quanto accade per gli animali e i vegetali – c’è tutta una fascia di
caratteristiche che chiameremmo «qualità morali»: generoso, avaro, ipocrita,
sincero, coraggioso, vigliacco ecc. La situazione che si delinea, insomma, è
questa: da un lato, abbiamo diversissime specie di vegetali e animali; dall’altro
lato, abbiamo diverse nazionalità o etnie di persone; ma mentre al di sopra
delle specie di animali e vegetali non c’è nulla, al di sopra delle varie etnie e
nazionalità di persone c’è quella fascia di qualità morali che abbiamo appena
menzionato.
Ci si potrebbe allora chiedere quale sia la funzione di queste qualità: se,
ad esempio, distinguano specie o tipi di persone così come le specie o i tipi di
animali e se, quindi, ci sono gli avari e i probi come ci sono i lupi e gli agnelli.
La risposta è no: quelle qualità non hanno la funzione di distinguere
specie di persone, ma hanno una funzione unificante senza alcuna controparte
nel campo degli animali e dei vegetali. Per comprendere quello che intendo è
sufficiente osservare due esempi come i seguenti:
(6)
a. *Una scimmia deve essere un maiale?
b. Una persona deve essere avara?154
La domanda (6a) è del tutto assurda: incomprensibile; la domanda (6b), invece,
riceverebbe una risposta decisa: no. La ragione per cui (6a) è assurda è che tra
le scimmie e i maiali esiste un muro logico: sono cioè due specie distinte e il
problema che una scimmia dovrebbe essere un maiale non si pone. La
condizione alla quale la domanda (6b) è sensata, invece, è che non c’è un muro
logico tra le persone avare e quelle generose: cioè non sono due specie distinte
di persone ma la stessa.
Più precisamente, una persona è presupposta essenzialmente generosa
esattamente come è presupposta essenzialmente libera: è per questo che
Si notino inoltre le espressioni regno animale e regno vegetale. Non esiste un regno
‘umano’. La stessa distinzione tra animali e vegetali si colloca fuori dall’ambito delle persone.
154
O anche criticare o esprimere biasimo per un animale. Ma si potrebbe criticare o
esprimere biasimo per una pianta?
153
248
possiamo fare esperienza di generosi e avari, liberi e schiavi ed è per questo che
c’è il dovere di non essere avari. L’avarizia, insomma, è l’ombra proiettata dalla
generosità esattamente come la possibilità di essere schiavi è l’ombra
proiettata dalla libertà ideale155. L’ombra è la prova migliore dell’esistenza
della luce. E’ in questo senso che dico che quella delle persone avare non è una
classe o una specie di persone.
Il fatto che sia assurdo dire che un piccione dovrebbe essere un felino
prova che un piccione e un gatto sono presupposti come entità essenzialmente
diverse: appartenenti a specie diverse; il fatto che sia sensato dire che una
persona avara dovrebbe essere generosa prova che le persone sono presupposte
come entità appartenenti allo stesso tipo logico156: che ha le caratteristiche
della generosità, dell’onestà, ecc.
Questo mi pare si applichi anche per le altre virtù morali e per il problema del male in
generale.
156
Ed è rispetto a questo tipo logico che possono essere diverse: una più onesta o
generosa dell’altra.
155
249
PARTE IV
Tipi di presupposizioni di base
Con il capitolo 11 può dirsi compiuto il tentativo di questa tesi: delineare un
percorso che re-orienti lo sguardo sul fenomeno della presupposizione
deviandolo dai presupposti discorsivi a quelli di base. Tuttavia, nel momento
in cui ci si affaccia sul territorio inesplorato di questi ultimi, può sorgere la
curiosità di conoscerne la morfologia. La Parte IV è dedicata a fornire qualche
idea in tal senso e si compone di tre capitoli: capitolo 12, capitolo 13 e capitolo
14. Una presupposizione di base – di quelle esemplificate al § 2 del capitolo 11
o al § 3 del capitolo 9 – è ad esempio Il ghiaccio è un ‘concreto’. Che il ghiaccio
sia concreto significa che può essere coerentemente toccato, urtato, spostato,
spaccato, scolpito, ecc. Una presupposizione di base del genere, dunque,
risponde a una domanda come: Quali sono i tipi di relazioni in cui le entità
possono coerentemente combinarsi? Questa domanda può essere opposta ad
altre due: Quali sono i tipi di entità reali? e Quali sono i tipi di proprietà che le
entità possono coerentemente avere? Ciascuna di queste domande individua un
tipo di presupposizioni di base: un esempio del primo è Il ghiaccio è un’entità
reale; un esempio del secondo è Il ghiaccio è freddo. Questi tipi di
presupposizioni di base sono il tema, rispettivamente, dei capitoli 12 e 13. Al
capitolo 14 toccherà illustrare un particolare tipo di presupposizione di base
isolato al 13.
250
CAPITOLO 12
La presupposizione di esistenza
251
Indice del capitolo
1. Esistenza reale vs. esistenza testuale
1.1. L’indipendenza logica tra significato e riferimento
1.2. La sospensione della predicazione
1.3. La nozione di spazio anaforico
1.4. Oggetti completi vs. oggetti incompleti
2. La nozione di r-esistenza
2.1. Dimensione reale vs. dimensione fittizia
2.2. Una caratterizzazione intuitiva della r-esistenza
2.3. Una caratterizzazione kantiana della r-esistenza
2.4. Confronto tra le posizioni di A. Bonomi e I. Kant
3. Presupposizioni di base dell’ontologia puntuale
254
254
255
256
258
261
261
263
264
266
267
252
0. Introduzione
Le presupposizioni di base sono proposizioni della metafisica
descrittiva: cioè regole della nostra ontologia naturale. Di conseguenza, un
modo spontaneo di classificarle è in base alle parti di quest’ultima: l’ontologia
naturale, infatti, non è un territorio uniforme. Come scrive M. Prandi
(sottolineature mie):
An explicit formulation of natural ontology tries to answer three interconnected
questions: what exists? Which formal kinds of beings exist? Which substantial kinds
of entities can be conceived of, and what relations can they enter into? The first
question defines ontology in a narrow sense. Its object is the kinds of beings which
are actually assumed to exist or to have existed in our shared world. Wolves, for
instance, are generally assumed to exist, whereas unicorns are not. […] The second
question does not look at the actual existence of beings but at their formal possibility.
It governs the distribution of possible entities among such formal kinds as particular
individuals, classes, masses and instances of masses. Unicorns, for instance, do not
exist in the real world; if they existed they would be individuals belonging to a class.
[…] The third question has also to do with possibility. This possibility, however, is
not formal but substantial. The substantial side of ontology classify different
substantial kinds of beings and governs their access to different substantial kinds of
properties and processes. If unicorn existed, they would be animate non-human
beings, like horses or lions. They would be allowed to sleep and eat, suffer and die,
but not to speak an articulated language. Natural ontology is interested in all these
questions, each of which seeks to understand some of our natural presuppositions.
Consistency criteria form the subset of natural presuppositions that is included within
the scope of the third questions. (Prandi 2004: 229-230).
Le presupposizioni di base come le distinzioni tra cose, animali, vegetali
e persone esplorate al capitolo 10 rientrano nello spazio di quella che M.
Prandi chiama «ontologia relazionale sostanziale»: l’ambito della terza
domanda della citazione. Questo induce a interrogarsi su quali siano le
presupposizioni di base che rientrano nello spazio di ciò che M. Prandi chiama
«ontologia narrow sense» (o «puntuale» come qui la etichettiamo) e «ontologia
relazionale formale»: gli ambiti della prima e seconda domanda della citazione.
E tra questi, in particolare, il primo occupa una posizione di rilievo per due
ragioni: perché il problema di ciò che vi è definisce l’ontologia per
antonomasia; perché il problema dell’esistenza è all’origine del dibattito sulla
presupposizione. Noblesse oblige, dunque, che ci si occupi di quest’ultimo;
lascerò invece da parte l’ambito di presupposizioni di base inerenti
all’ontologia relazionale formale157.
Mi chiedo tuttavia se quest’ultimo non rappresenti una sorta di ‘fisica’ della nostra
concettualizzazione di oggetti e processi. In esso, cioè, rientrano distinzioni come quella tra
masse, individui, istanze di masse e processi, e – all’interno dei tipi di processi, categorie come
l’Aktionsart (o Azione) – il fatto che alcuni siano concepiti come puntuali piuttosto che
durativi, o telici piuttosto che stativi, ecc. Per illustrare quello che intendo si confronti:
(0)
a. Il cielo piange.
b. Paolo ha saltato il fosso per tre ore.
Da un lato, una lettura banale ma immediata di (0a) potrebbe essere:
(0)
c. Sta piovendo.
Dall’altro lato, (0b) riceverebbe un’interpretazione iterativa parafrasabile come:
(0)
d. Paolo ha continuato a balzare da una parte all’altra del fosso per tre ore.
La condizione alla quale (0a) può essere interpretato come (0c) è fare leva sull’idea che il cielo
non è una persona; la condizione alla quale (0b) può essere interpretato come (0d) è fare leva
sull’idea che il processo di saltare il fosso non abbia durata interna. Che il cielo non sia una
157
253
1. Esistenza reale vs. esistenza testuale
1.1. L’indipendenza logica tra significato e riferimento
Immaginiamo di avere davanti un tavolo con un bambino e un micio
seduti sopra. Se distendo il braccio, allungo il dito indice e dico un bambino! la
reazione spontanea è pensare che mi sia riferito al bambino e non al micio. Ma
perché? La risposta più immediata sarebbe: «perché hai detto un bambino».
Questa risposta è mossa dall’idea – tipica del nostro atteggiamento naturale –
che il referente di un nome sia un oggetto appartenente alla classe definita dal
suo significato. Questa idea, tuttavia, è sbagliata.
In primo luogo, avrei potuto puntare il dito in una certa direzione
senza dire nulla e il mio interlocutore avrebbe potuto comunque individuare il
referente corretto valutando solo la direzione del dito. In secondo luogo, avrei
potuto benissimo indicare il bimbo usando un gattino e produrre così una
metafora referenziale. Ma se questo è vero, allora il significato di un sintagma
nominale non è né una condizione necessaria, né sufficiente all’individuazione
del referente: tra il significato e il referente sussiste una relazione di
indipendenza logica esattamente come tra un dito puntato e gli oggetti che
potrebbe indicare.
Le azioni di indicare un bambino usando i sintagmi un bambino e un
gattino esibiscono rispettivamente le predicazioni indirette rese esplicite dalle
frasi seguenti:
(1)
a. Il bambino è un bambino.
b. Il bambino è un gattino.
Le predicazioni (1) presentano una designazione coerente del referente in
posizione di soggetto e il significato usato per indicarlo come nome del
predicato. E’ possibile stabilire se la predicazione indiretta sia conflittuale o
tautologica soltanto dopo aver individuato un referente: cioè dopo aver capito
se si parla di un bambino o di un gatto. Di conseguenza, la funzione elettiva del
significato il bambino o il gattino non può essere quella di indicare un
referente, bensì quella di essere confrontato al referente dopo che è stato
individuato indipendentemente. Se a questo punto ritorniamo alla domanda di
partenza, ci rendiamo conto che non sono state le parole a compiere l’atto di
riferimento, ma una persona che in qualche modo ha attirato l’attenzione di
un’altra persona su un oggetto presente in una situazione concreta condivisa
da entrambi: il campo indicale (cfr. Prandi 2004: 18-25).
L’atteggiamento naturale appena rilevato – cioè la tendenza a
individuare come referente un oggetto coperto dal significato impiegato – è
una sorta di astuzia della lingua che procede nella direzione di un’ideale
trasparenza comunicativa. Questa è la ragione per cui di fronte a sintagmi
quali il bambino o il gattino siamo spinti a pensare che il loro referente debba
persona è una presupposizione di base dell’ontologia relazionale sostanziale; che il processo di
saltare il fosso non sia durativo ma puntuale è una presupposizione di base dell’ontologia
relazionale formale. Potremmo allora parlare qui di «metafora formale»: interpretando (0a)
come (0c) e (0b) come (0d) compiamo un analogo processo di regressione; la differenza è che
mentre nel primo caso abbiamo a che fare con contenuti di concetti, nel secondo abbiamo a che
fare con la loro forma.
254
essere un bambino o un gatto; ma, d’altra parte, è anche la ragione per cui di
fronte a una frase come il gattino miagola siamo spinti a pensare che descriva
un gatto che miagola: cioè che comunichi un messaggio coincidente con il suo
significato. Tuttavia, come hanno mostrato le osservazioni precedenti,
l’atteggiamento naturale nasconde un atto di riferimento tautologico:
(2)
a. Il gattino miagola
|
un gatto è un gatto
b. Il gattino miagola
|
un bambino è un gatto
Per poter stabilire se l’enunciato il gattino miagola descriva un gatto che
miagola o ad esempio un bambino che piange dobbiamo: prima, identificare il
referente del sintagma nominale; dopo, confrontare il referente e il sintagma
nominale risolvendo l’eventuale conflitto; soltanto a questo punto, scatta la
predicazione. Se non si riesce ad identificare un referente (risolvendo
l’eventuale conflitto con il significato usato come indice) la predicazione resta
praticamente sospesa.
1.2. La sospensione della predicazione
Alla luce delle osservazioni precedenti, si considerino due esempi come:
(2)
(3)
Il gattino miagola.
Il re di Francia è calvo.
Il significato delle frasi (2) e (3) delinea lo schema ideale di un possibile assetto
di stato di cose. Questo schema è una struttura astratta – confinata in una
sorta di mondo delle idee al di là del tempo e dello spazio – fino a quando non
viene usata in un campo indicale concreto per comunicare un messaggio.
Quando questo accade, i sintagmi nominali (nella fattispecie il gattino e il re di
Francia) arpionano dei referenti in una situazione contingente o in uno spazio
di conoscenze condivise; ed è soltanto dopo questo aggancio che per noi ha
senso valutare la predicazione. Prima la predicazione era compiuta in teoria ma
soltanto potenziale in pratica; nel momento in cui avviene l’attracco al porto di
un campo indicale, la predicazione diventa attuale anche in pratica e per noi ha
senso valutarla.
La differenza tra (2) e (3) consiste nel risultato dell’atteggiamento
naturale a cui abbiamo accennato. Nel primo caso, l’idea che il gattino indichi
un gattino produce il miraggio del cosiddetto «significato letterale»; nel
secondo, invece, l’idea che il re di Francia debba indicare l’attuale re di Francia
produce un senso di imbarazzo perché non si riesce ad individuare alcun
referente. In quest’ultimo caso, cioè, si realizza in maniera evidente la
sospensione pratica della predicazione. Ho parlato di «sospensione pratica
della predicazione» per evidenziare come la conseguenza che deriva dalla
mancata individuazione di un referente sia una conseguenza eidetica e cioè non
immediatamente connessa con il carattere empirico di un ipotetico referente.
Questo punto, come nota A. Bonomi, è stato negletto proprio dagli
studiosi che hanno evidenziato e difeso con maggior forza l’intuizione alla base
255
della cosiddetta «presupposizione di esistenza del referente»: cioè, anzitutto,
G. Frege e P. F. Strawson. Infatti, la giustificazione che essi fornirebbero per il
blocco pratico della predicazione in (3) sarebbe grossomodo la seguente: «in
(3), la predicazione è inceppata perché attualmente non c’è alcun re di
Francia». Questa giustificazione, tuttavia, non sarebbe sufficientemente
accurata e dovrebbe essere completata così: «la sospensione pratica della
predicazione in (3) è dovuta all’impossibilità di individuare un referente in un
campo indicale o in uno spazio di conoscenze condivise; e questo perché, nella
fattispecie, non siamo interessati ad ipotetiche entità immaginarie ma solo reali
e attuali». Da un lato – come abbiamo constatato con (1) e (2) – ciò che causa
lo scacco pratico della predicazione è il fallimento dell’atto di riferimento e non
il fatto che un certo referente sia un’entità reale piuttosto che fittizia. E’
precisamente in questo senso che le risposte di G. Frege e P. F. Strawson
possono essere considerate troppo ellittiche. Dall’altro lato, è altrettanto
chiaro che individuare un referente in un’entità fittizia – magari postulata ad
hoc – può non essere una mossa considerata valida se, come capita
generalmente, si è interessati soltanto a ciò che è reale. In questo senso, le
risposte di G. Frege e P. F. Strawson sono non solo comprensibili, ma
condivisibili.
La morale da trarre è che sarebbe certamente eccessivo non riconoscere
la rilevanza del carattere reale o fittizio di un oggetto per la cosiddetta
«presupposizione di esistenza del referente»; tuttavia, sarebbe senza dubbio
scorretto non riconoscerne la subordinazione rispetto al mero atto di
riferimento: cioè all’individuazione di una qualsiasi entità all’interno di un
campo indicale o di uno spazio di conoscenze condivise. Il prof. Bonomi, ad
esempio, esiste realmente mentre Nausicaa no (purtroppo); tuttavia, questo
non ha alcuna rilevanza sulla possibilità di predicazione. Una predicazione
come Nausicaa è la figlia del re dei Feaci funziona benissimo perché il
riferimento ha comunque successo.
1.3. La nozione di spazio anaforico
A. Bonomi distingue due nozioni di esistenza: una intra-linguistica
(etichettata «l-esistenza») e l’altra extra-linguistica o reale (etichettata «resistenza»). Usare una nozione extra-linguistica di esistenza vuol dire
affermare, ad esempio, che le farfalle esistono e le fate no: è l’idea di ontologia
narrow sense, che potremmo etichettare «ontologia puntuale». Usare una
nozione intra-linguistica di esistenza, invece, vuol dire affermare che qualcosa
esiste all’interno di un campo indicale o di uno spazio di conoscenze condivise:
cioè che lo si può identificare o, più semplicemente, che testualmente dato. Per
questa ragione, l’etichetta «l-esistenza» potrebbe essere sostituita da «tesistenza»: cioè l’esistenza all’interno di un testo.
In ogni caso, per illustrare questa dicotomia, si osservino gli esempi
seguenti:
(4)
a. Questo foglio è bianco.
b. Giulio Cesare non ha conquistato la Gallia.
c. Don Rodrigo era un signorotto.
d. Achille era un codardo.
Gli enunciati (4a-b) non sono affatto identici a (4c-d): in particolare, è assai
256
diverso l’impiego che per ciascuna coppia faremmo dei termini «vero» e
«falso». Tuttavia, spontaneamente, saremmo disposti a considerare tutti gli
enunciati (4) come veri o falsi: qui cioè, a meno di non sospendere il senso
comune, il meccanismo della predicazione scatta. E se la predicazione scatta,
allora i sintagmi nominali soggetto devono individuare dei referenti. Per
quanto riguarda (4a-b), diremmo che Giulio Cesare e Questo foglio indichino
oggetti reali: il primo collocato più o meno duemilacento anni fa, il secondo
collocato qui e ora. Per quanto riguarda (4c-d), invece, diremmo che Achille e
don Rodrigo indichino oggetti fittizi: il primo collocato nell’Iliade, il secondo
nei Promessi Sposi.
Se percepiamo gli esempi (4c-d) come veri o falsi analogamente a (4a-b)
e se i referenti di (4c-d) non sono oggetti reali, allora l’esistenza reale non è
quella che viene presupposta quando si parla di «presupposizione di esistenza
del referente». Come sostiene A. Bonomi:
[…] esistere non è altro che essere identificato in uno spazio linguistico (in quello che
chiameremo spazio anaforico) e sarebbe forse più appropriato parlare di
presupposizione di identificazione anziché di presupposizione di esistenza […].
(Bonomi 1979: 18)
La conclusione precedente è da condividere in pieno. In particolare, essa attira
l’attenzione sul fatto che non è la r-esistenza a giustificare l’identificazione; al
contrario, è partendo dall’identificazione che si possono definire, in modo
differenziale, la t-esistenza o la r-esistenza. Il problema del tipo di esistenza,
insomma, si pone solo dopo che l’identificazione è avvenuta. A partire da qui, il
mio intento consisterà non tanto nel descrivere la t-esistenza, quanto
nell’evidenziare la presenza e la rilevanza di un’autentica «presupposizione di
esistenza» fondata sulla r-esistenza. Credo infatti che proprio l’analisi di A.
Bonomi offra strumenti particolarmente utile per esplorare quest’ultima. E il
primo passo in questa direzione è l’idea della costruzione di uno spazio di
conoscenze condivise o «spazio anaforico» (Bonomi 1979: 26).
Se la t-esistenza è definita nei termini dell’individuazione di un punto
all’interno di uno spazio di conoscenze condivise, è possibile porre il problema
della natura e della costituzione di questo spazio di conoscenze. Si osservino
gli enunciati seguenti:
(5)
a. Giorgio ha vinto l’Escalade.
b. Il cavaliere mascherato di Ginevra ha salvato la città.
c. Nicole Kidman ha vinto l’Escalade.
d. Zorro ha salvato la città.
La differenza tra (5a-b) e (5c-d) è che esclusivamente nel primo caso saremmo
spinti a ribattere: Chi? E la ragione è che i referenti di (8c-d) ci sono dati in
uno spazio linguistico condiviso di oggetti reali e fittizi, ma questo non accade
per (8a-b). Lo spazio linguistico all’interno del quale sono collocati i referenti
può essere non solo dato come in (5c-d), ma anche costruito. Per rendersene
conto è sufficiente anteporre a (5a-b) un enunciato producendo le sequenze
seguenti:
(6)
a. Ieri, al bar, ho incontrato una persona che si chiama Giorgio.
Giorgio ha vinto l’Escalade.
b. C’era una volta, a Ginevra, un cavaliere mascherato. Il cavaliere
mascherato ha salvato la città.
257
In (6) è chiaro che non si rileva alcun problema di riferimento perché in
entrambi i casi viene introdotto un oggetto nel primo enunciato che poi verrà
indicato nel secondo: in (5) si trovano insomma le prime maglie di una catena
anaforica. A questo punto si aprono due ordini di conseguenze.
In primo luogo, occorre notare come le catene anaforiche (9) possano
essere proseguite; ad esempio nel modo seguente:
(7)
a. […]Giorgio. Giorgio ha vinto l’Escalade […] Il vincitore
dell’Escalade è stato arrestato per traffico di droga.
b. […]un cavaliere mascherato. Il cavaliere mascherato ha salvato la
città […] Il salvatore della città di Ginevra si trovava in una
situazione critica.
I sintagmi nominali soggetto il vincitore dell’Escalade e il salvatore della città
rimandano agli stessi referenti di (6) mediante le proprietà che in (7) erano
state introdotte. Allungando le catene anaforiche, si introducono più vie per
indicare i referenti in questione: l’intreccio di queste vie, nella terminologia di
A. Bonomi, prende il nome di «spazio anaforico» ed è lo spazio di conoscenze
che dobbiamo condividere per poter indicare quei referenti.
In secondo luogo, le catene anaforiche introdotte in (6) e proseguite in
(7) possono essere distinte in base al punto in cui sono attaccate. In (7a), la
catena è agganciata al mondo reale: qui il referente è esterno al testo, nel
mondo in cui si trovano il parlante che dice io e l’interlocutore a cui si rivolge
(il tu). In (7b), al contrario, la catena è slegata dal mondo reale: qui il referente
è costituito dal testo, la formula c’era una volta crea in quel momento un
oggetto fittizio.
Il differente punto di aggancio delle catene anaforiche ha una
conseguenza importante: esso consente infatti di distinguere la natura di
un’entità fittizia da quella di un’entità reale. Poiché il referente di (9a) o (10a) è
esterno al testo – cioè è un oggetto reale – non coincide con lo spazio anaforico
condiviso: Giorgio è altro rispetto a ciò che sappiamo di lui. Poiché il referente
di (9b) o (10b) è interno al testo – cioè è un oggetto fittizio – coincide
completamente con lo spazio anaforico condiviso ed è da questo definito: un
personaggio di fantasia è tutto e solo ciò che sappiamo di lui.
Un modo sintetico per illustrare questa differenza è pensare al celebre
quadro di Magritte in cui è raffigurata una pipa con la scritta ceci n’est pas une
pipe. Qui il pittore ha potuto ottenere un effetto di sorpresa perché il referente
dell’icona è un oggetto reale, esterno al quadro: è per questa ragione che la
scritta può imporre di retro-categorizzare la figura da icona del referente a
mero disegno. Ma se al posto della pipa avessimo avuto un personaggio di
fantasia non sarebbe stato possibile ottenere un effetto analogo: non avrebbe
avuto alcun senso, ad esempio, dipingere paperino e scriverci sotto questo non
è paperino, ma solo il suo disegno. E la ragione, naturalmente, è che il
referente ritratto non è nient’altro se non il suo disegno.
1.4. Oggetti completi vs. oggetti incompleti
Nell’economia del nostro discorso la distinzione tra entità reali e fittizie
è fondamentale. Per chiarirla, si immagini di dover stabilire quale differenza
sussista tra la biografia di Giulio Cesare e le parti dei Promessi Sposi in cui si
258
parla di don Rodrigo. La risposta va cercata nella funzione delle parole: la
funzione delle parole della biografia è adattarsi al mondo reale, quella delle
parole dei Promessi Sposi è costituire un mondo fittizio158. Se Manzoni avesse
scritto qualcosa di diverso su don Rodrigo, don Rodrigo sarebbe stato un
personaggio diverso, ma se l’autore della biografia di Giulio Cesare avesse
scritto qualcosa di diverso, la vita di Giulio Cesare non sarebbe stata diversa.
Una biografia può essere falsa o imprecisa e quindi ha senso correggerla e
approfondirla scoprendo cose nuove sulla persona descritta, ma è assurdo
pensare che I Promessi Sposi abbiano detto il falso (e quindi il vero) su don
Rodrigo ed è assurdo cercare di approfondire la vita di don Rodrigo al di là di
quello che ne scrive Manzoni. Don Rodrigo è creato dai Promessi Sposi e
coincide con ciò che Manzoni ha scritto di lui: al di là di questo non c’è nulla;
Giulio Cesare, invece, non è creato dalla sua biografia ed è indipendente da ciò
che il biografo ha scritto di lui.
A. Bonomi cattura queste osservazioni per mezzo delle nozioni di
«oggetto completo» e «incompleto» (Bonomi 1979: 46-47). Un oggetto fittizio
è completo o «piatto»: cioè coincide interamente con le proprietà che gli
vengono attribuite al di là delle quali non c’è nulla che possa essere esplorato e
di cui si possano scoprire cose nuove. Un oggetto reale è incompleto o
«profondo»: è qualcosa di altro rispetto a tutte le sue proprietà e quindi è
possibile esplorarlo scoprendone di nuove o scoprendo di aver sbagliato ad
attribuirgliene qualcuna. Se immaginiamo che don Rodrigo sia stato un grande
amico di Renzo non stiamo più pensando a don Rodrigo e ai Promessi Sposi,
ma a un’altra storia con un altro personaggio; con il lessico tecnico di A.
Bonomi, un oggetto fittizio è un oggetto le cui proprietà «gli ineriscono
necessariamente»: se ne cambio una ottengo un oggetto diverso. Se
immaginiamo che Giulio Cesare non abbia invaso la Gallia, non stiamo
pensando a un’altra persona o a un’altra storia, ma alla stessa persona che ha
agito diversamente e alla stessa storia mondiale che è andata diversamente;
con il lessico tecnico di A. Bonomi, un oggetto reale è un oggetto le cui
proprietà «gli ineriscono accidentalmente»: se ne cambio una ottengo non un
altro oggetto, ma lo stesso oggetto modificato.
Tradotte in fenomeni linguistici, le osservazioni precedenti consentono
di comprendere la diversa natura della difficoltà che avremmo nel rispondere a
domande come le seguenti:
(8)
a. Giulio Cesare collezionava farfalle?
b. *Don Rodrigo collezionava farfalle?
La difficoltà di rispondere a (8a) è pratica: qui ignoriamo se Giulio Cesare
collezionasse farfalle; cercare di scoprirlo può essere un’impresa disperata, ma
è sensata perché Giulio Cesare è una persona reale. Di conseguenza, (8a) è una
domanda felice perché ha senso dubitare su come rispondere. La difficoltà di
rispondere a (8b), invece, è teorica: qui non ha senso dire che ignoriamo se don
Rodrigo collezionasse farfalle; cercare di scoprirlo è non impossibile, ma
assurdo perché don Rodrigo è un personaggio fittizio e il romanzo di Manzoni
non dice nulla al riguardo. Cercare di scoprire qualcosa su don Rodrigo
Per quanto riguarda la biografia avrei potuto impiegare la nozione di direzione di
adattamento: nelle fattispecie parole-mondo. Questa nozione, tuttavia, è inapplicabile nel caso
dei Promessi sposi: qui infatti non si sarebbe potuto usare la direzione reciproca (mondo-parole)
perché in questo caso le parole non trasformano né modificano il nostro mondo (come in un atto
performativo), ma ne creano uno ‘alternativo’.
158
259
sarebbe come cercare di scoprire cosa contenga un cassetto dipinto; tutto
quello che possiamo fare, questa volta, è solo immaginare se un tipo di persona
come don Rodrigo avrebbe potuto collezionare farfalle. Di conseguenza, (8b) è
un atto linguistico infelice o incoerente perché non ha senso essere incerti su
cosa rispondere.
Il punto essenziale è che la condizione alla quale possiamo renderci
conto della difficoltà nel rispondere a (8a) o (8b) è sapere a chi ci si riferisca con
i nomi Giulio Cesare e don Rodrigo; d’altra parte, ciò che determina la natura
di questa difficoltà è precisamente il carattere reale o fittizio del referente
individuato. Ne deriva che l’infelicità o l’incoerenza di (8b) ci presenta un
fenomeno inerente non alla t-esistenza, che deve essere soddisfatta in
entrambi, ma alla r-esistenza. Esplorare la r-esistenza, cioè descrivere in cosa
consista la realtà o non-realtà di un oggetto, vuol dire studiare fenomeni
analoghi a quello che si manifesta in (8b). Ma ve ne sono?
Si considerino enunciati come i seguenti:
(9)
(10)
a. Invidio Bill Gates per la sua ricchezza.
b. *Invidio zio Paperone per la sua ricchezza.
a. Ammiro madre Teresa per il suo coraggio.
b. *Ammiro Robin Hood per il suo coraggio.
La differenza tra (9a) o (10a) e (9b) o (10b) è identica a quella che intercorre tra
(8a) e (8b). Come è sensato intraprendere una ricerca per scoprire se Giulio
Cesare collezionasse qualcosa perché Giulio Cesare è una persona realmente
esistita, così è sensato provare invidia o ammirazione per Bill Gates o madre
Teresa: qui troviamo l’ammirazione o l’invidia in carne ed ossa. D’altra parte,
come è assurdo intraprendere una ricerca per scoprire se don Rodrigo
collezionasse qualcosa perché don Rodrigo è pura invenzione, così è assurdo
provare invidia per zio Paperone o ammirazione Robin Hood: questa volta
avremmo soltanto l’ombra o la rappresentazione di quell’ammirazione e
quell’invidia che proveremmo nei confronti di persone reali. Se qualcuno
asserisse (10a) difficilmente sarebbe disposto ad ammettere che intendesse
soltanto ammiro un tipo di persona che si comporta come madre Teresa; al
contrario, chi affermasse (10b) potrebbe intendere solo ammiro un tipo di
persona che si comporta come Robin Hood perché, appunto, Robin Hood è un
personaggio fittizio e in quanto tale non può essere il destinatario della nostra
ammirazione (così come del nostro disprezzo, odio, amore o condanna). Un
personaggio, chiaramente, potrebbe essere visto solo come un tipo, o una
figura, di proprietà e comportamenti reali.
D’altra parte immaginiamo qualcuno che esprime i desideri seguenti:
(11)
a. Desidero infangare la memoria di (proseguire gli ideali di) Madre
Teresa.
b. *Desidero infangare la memoria di (proseguire gli ideali di) Robin
Hood.
E’ chiaro che il desiderio ritratto da (11a) potrebbe essere considerato abietto o
lodevole, ma sarebbe comunque sensato; quello ritratto da (14b), al contrario,
non è né abietto, né lodevole: è semplicemente assurdo. I sentimenti provati
nei confronti di Robin Hood, insomma, non sono tali spingere a un’azione:
esattamente come non penseremmo mai di usare Excalibur per uccidere una
persona, così l’odio nei confronti di un personaggio fittizio non può fondare
260
alcuna nostra azione.
E, ancora, si considerino gli imperativi seguenti:
(12)
a. Abbi rispetto per Madre Teresa!
b. *Abbi rispetto per Robin Hood!
L’enunciato (12a) ordina un’azione sensata perché ci appare sensato rispettare
o mancare di rispetto a persone reali (vive o morte); l’enunciato (12b), invece,
ordina un’azione priva di senso. La domanda cosa vuol dire rispettare madre
Teresa? ha delle risposte possibili: ad esempio, non profanare la sua tomba. La
domanda cosa vuol dire rispettare Robin Hood?, al contrario, è assurda.
Cercare un modo di portar rispetto a Robin Hood, oppure di offenderlo è
assurdo tanto sensato quanto tentare di scoprire quale sia il suo piatto
preferito.
In sintesi, gli esempi (8a), (9a), (10a), (11a), (12a) presentano domande,
azioni o emozioni che potremmo essere disposti a rispondere, a intraprendere o
a provare; al contrario, gli esempi (8b), (9b), (10b), (11b), (12b) presentano
domande, azioni o emozioni che ci sembrerebbe assai poco sensato rispondere,
intraprendere o provare seriamente. Ciò che rende sensate o meno le azioni o
le emozioni esibite dagli enunciati (11), (12), (14) e (15) è il carattere reale o
fittizio del referente individuato. Ciò che distingue tutti questi enunciati è solo
il tipo di azione o emozione o atto linguistico che viene reso sensato o assurdo.
Delimitare in cosa consista il carattere reale o fittizio di una certa entità – cioè
descrivere la r-esistenza – significa dunque ricostruire quali sono le azioni o le
emozioni che per noi è sensato compiere o provare nei suoi confronti. Questi, a
mio avviso, sono i casi più interessanti in cui si manifesta la presupposizione di
r-esistenza159. Se questo è vero, l’ambito dell’esistenza – ovvero dell’ontologia
puntuale – rivela una struttura simile a quella dell’ontologia sostanziale; la
differenza è questa: un’ontologia sostanziale definisce, per mezzo di relazioni
concettuali concepibili, tipi possibili (ad esempio, animali, vegetali, persone);
invece un’ontologia puntuale definisce, sempre per mezzo di relazioni
concettuali concepibili, tipi reali (ad esempio lupi che sono animali, ma non fate
che sarebbero persone). In entrambi i casi – sia quello dei tipi possibili, sia
quello dei tipi reali – il criterio è lo stesso, ed è di carattere eidetico: la
coerenza.
2. La nozione di r-esistenza
2.1. Dimensione reale vs. dimensione fittizia
159
A questo proposito si può accennare seguente corollario. Guardare una scena di guerra
o giocare a fare la guerra può essere estremamente divertente; ma fare la guerra o guardare
un’uccisione che si presuppone reale suscita orrore. La differenza tra i due tipi di sentimenti è
determinata dalla presupposizione di r-esistenza. Del resto, per considerare un ambito meno
truculento, la presupposizione di r-esistenza è alla base ad esempio della differenza tra svolgere
un’attività per gioco e per lavoro. Questa differenza non consiste in primo luogo nel grado di
accuratezza con cui viene svolta l’attività in questione, bensì nel fatto che in un caso abbiamo
una presupposizione di r-esistenza o realtà ma non nell’altro: ed è precisamente da ciò che
dipende, eventualmente, il diverso grado di accuratezza e il carattere in qualche modo ‘onirico’
dei giochi. In generale, queste osservazioni sottolineano come sarebbe interessante esplorare il
modo in cui determinate emozioni o sentimenti variano al variare della presupposizione di resistenza.
261
Osservando gli enunciati (8-12), ci si rende conto di come la distinzione
tra (a) e (b) delinei un confine netto tra entità reali (per le quali ha senso
provare emozioni, emettere giudizi morali o intraprendere ricerche
scientifiche) e fittizie (per le quali nessuno di questi comportamenti è sensato).
Così, ad esempio, possiamo ammirare madre Teresa o Gandhi e proseguirne
gli ideali; oppure, ancora, un generale di oggi può ammirare o invidiare l’abilità
politica e strategica di Giulio Cesare. Questo vuol dire che, in maniera certo
non sorprendente, la distinzione tra entità reali e fittizie colloca le persone vive
e le persone morte nello stesso spazio logico: quello, appunto, delle entità reali.
Le azioni, gli ideali, le speranze, i fini di una persona realmente esistita
sono una nostra eredità: sono cioè collocati sul medesimo continuum sul quale
ci troviamo e rispetto al quale possiamo proseguire o deviare; ma nulla del
genere accade per un personaggio fittizio. Se questo è vero, si delineano
soltanto due dimensioni: da un lato, l’asse del reale che si estende dal passato al
futuro; dall’altro lato, la pianura del fittizio. Il primo è popolato da oggetti
esplorabili: che possono essere destinatari di autentici sentimenti, emozioni,
giudizi morali o responsabilità; il secondo è popolato da oggetti privi di
profondità, che non possono offrire appoggio né ad azioni né a sentimenti160. Il
confine tra queste due dimensioni è tracciato precisamente dalle azioni che
saremmo disposti a compiere nei confronti di un’entità fittizia piuttosto che
reale. Questo punto, ancora una volta, è catturato da A. Bonomi attraverso la
sua critica all’idea in base alla quale ogni mondo di fantasia individuerebbe un
mondo possibile opposto a quello reale:
[…] penso che sia del tutto fuorviante ritenere, come si fa spesso, che per esempio un
romanzo o un lembo di immaginazione siano davvero da considerarsi come « mondi
possibili » nel senso preciso e impegnativo della parola: infatti, essi non sono altro che
insiemi frammentari ed essenzialmente incompleti di stati di cose. (Bonomi 1979: 58).
L’osservazione precedente è stata invece negletta da un’autrice come J.
D. Fodor, la cui posizione per certi aspetti è tuttavia simile alla nostra. Per
illustrare quello che intendo si considerino gli enunciati seguenti:
(13)
(14)
a. Don Rodrigo era un frate.
b. Don Rodrigo era un signorotto.
c. Don Rodrigo collezionava farfalle?
a. Giulio Cesare era un frate.
b. Giulio Cesare era un generale.
c. Giulio Cesare collezionava farfalle?
Nella prospettiva di J. D. Fodor, gli enunciati (13a-b) verrebbero valutati «veri
o falsi rispetto al mondo fittizio dei Promessi Sposi», mentre quelli (14a-b)
sarebbero valutati «veri o falsi rispetto al mondo reale». Il punto, tuttavia, è
che «vero o falso rispetto a un mondo fittizio» è diverso da «vero o falso
rispetto al mondo reale».
Questo fatto è mostrato chiaramente dai rispettivi esempi (c). In (14c)
E non a caso infatti, mentre gli eventi del nostro mondo sono ordinati in una
successione temporale – cioè ordinati secondo una medesima direzione – non c’è alcun rapporto
tra tutte le varie storie che si possono immaginare. E’ cioè sensato chiedersi se i dinosauri un
evento passato è avvenuto prima o dopo un altro, ma non ha senso chiedersi se la vicenda di
Superman sia avvenuta prima o dopo quella di Robin Hood. Qui, tutto quello che possiamo fare
è parlare di ‘ambientazione’. D’altra parte, se immaginiamo di unire due storie in una stessa
linea temporale, ecco che ne facciamo una saga con una propria cronologia.
160
262
siamo incerti sul fatto che Giulio Cesare collezionasse farfalle; al contrario, in
(13c) – proprio per la natura fittizia di don Rodrigo – la precedente incertezza
non avrebbe alcun senso. Ma se per Don Rodrigo non ha senso dubitare sulle
proprietà che può possedere, allora anche quando vi attribuiamo veridicamente
o meno una certa proprietà non lo possiamo fare nello stesso senso in cui lo
faremmo per un individuo rispetto al quale invece avrebbe senso essere incerti.
In sintesi, il fatto che (13c) e (14c) differiscano così radicalmente, implica che in
(13a-b) e (14a-b) «vero» e «falso» non siano impiegati alla stessa maniera: nel
caso di (13a-b) abbiamo autentiche valutazioni di verità, nel caso di (14a-b) no.
Certo, il nostro uso di «vero» o «falso» è sotto-determinato a questo rispetto,
ma ciò è una prova del fatto che tale distinzione è talmente ovvia da passare
quasi inosservata. Detto altrimenti: nel caso di (13) le nozioni di «vero» e
«falso» sono meta-testuali e perciò tautologiche: qui non c’è un mondo
empirico e incerto da esplorare, ma un mondo tautologico da esplicitare. E la
tautologia ha questa forma: «Don Rodrigo non era un frate ma in signorotto
perché Alessandro Manzoni ha scritto così».
Ma l’aspetto più interessante delle osservazioni precedenti è forse un
altro. Infatti, tracciando il confine tra entità reali e fittizie, gli enunciati (8-12)
si comportano in maniera uniforme: risultano sensati o assurdi a seconda dei
casi. Tuttavia, se restiamo al di qua del confine – cioè nel territorio delle entità
reali, dove i precedenti enunciati risultano sensati – questi ultimi assumono un
ventaglio di possibili accezioni che possiamo descrivere. Si prenda ad esempio
il rispetto. Come sappiamo, esso assume un valore diverso a seconda del ruolo
della persona in posizione di complemento oggetto e del suo rapporto con il
soggetto; per rendersene conto, è sufficiente osservare espressioni quali:
rispettare mia mamma, rispettare la mia ragazza, rispettare un mio dipendente,
rispettare il mio insegnante, rispettare un mio amico, rispettare un contratto
ecc. Ne deriva che possiamo (cominciare a) descrivere il nostro concetto
condiviso di mamma, fidanzata, dipendente, amico ecc. ricostruendo le
accezioni che il significato di rispettare assume per ciascuno. D’altra parte,
spostandoci ad un grado di generalità più elevato (dalle classi di oggetti alle
iperclassi, secondo la terminologia di G. Gross) è possibile chiedersi in che
senso si possa rispettare o mancare di rispetto ad una persona in generale (cioè
al di là di un ruolo contingente che intrattiene col soggetto) o ad una persona
morta e forse persino anche ad una persona futura: facendo questo, si
porterebbero alla luce, come in una sorta di scavo archeologico, le forme dei
nostri concetti condivisi di «persona», «persona morta», «persona futura».
Il punto che mi preme sottolineare, insomma, è che qui si apre tutto un
territorio da esplorare, come nel caso dei vegetali. E il modo per farlo è
esplorare le condizioni di coerenza delle azioni che compiremmo o delle
sensazioni che avremmo compiendole.
2.2. Una caratterizzazione intuitiva della r-esistenza
Se dovessimo indicare la differenza tra entità reali come Giulio Cesare
o Hitler ed entità fittizie come don Rodrigo o Excalibur, l’unica strada
percorribile consisterebbe nell’osservare quali azioni saremmo disposti a
compiere nei confronti di un oggetto cosiddetto «reale», ma non di uno
cosiddetto «fittizio». Se Excalibur esistesse sarebbe una spada e non un’ascia e
si troverebbe in fondo a un lago scozzese e non in armeria; analogamente, se
don Rodrigo fosse esistito sarebbe stato un signore e non un contadino,
263
avrebbe avuto al suo servizio dei bravi e sarebbe stato un farabutto. Tuttavia,
nessuno sarebbe disposto ad andare a cercare Excalibur in qualche lago della
Scozia o a pensare che sia un’arma possibile con cui fare un duello; nessuno
sarebbe disposto a intraprendere una ricerca per scoprire se don Rodrigo
avesse amato collezionare trofei di caccia o avesse avuto un castello di venti o
trenta stanze; e ancora: tutti sarebbero disposti condannare o disprezzare un
tipo di persona come don Rodrigo, ma non avrebbe senso condannare o
disprezzare lo stesso don Rodrigo. Al contrario, intraprendere una ricerca per
scoprire se Giulio Cesare avesse amato cacciare piuttosto che collezionare
farfalle, oppure ammirarlo in prima persona per la sua abilità politica è del
tutto sensato. Affermare che Excalibur o don Rodrigo non esistano o non siano
esistiti realmente significa non essere disposti né a intraprendere una ricerca
per scoprire nuove informazioni su di essi, né a farne gli oggetti di giudizi
morali o di stati intenzionali come l’ammirazione. Ciò che chiamiamo
«esistenza reale» o «r-esistenza», dunque, è la condizione di coerenza sulla
quale facciamo affidamento quando compiamo quelle azioni o proviamo quelle
emozioni.
2.3. Una caratterizzazione kantiana della r-esistenza
L’impostazione qui presentata coincide con quella di I. Kant nella
Critica della ragion pura. Come è noto, nella sezione della dialettica
trascendentale dedicata alla prova ontologica dell’esistenza di Dio, scrive
(sottolineature mie):
Essere, manifestamente, non è un predicato reale, ossia il concetto di qualcosa tale da
potersi aggiungere al concetto d’una cosa. Essere è semplicemente la posizione d’una
cosa o di talune determinazioni in se stesse. […] Ora, se io prendo il soggetto (Dio)
unitamente a tutti i suoi predicati (di cui fa parte l’onnipotenza), e dico: «Dio è»,
oppure «C’è un Dio», allora non attribuisco alcun nuovo predicato al concetto di Dio,
ma pongo soltanto il soggetto in se stesso con tutti i suoi predicati, ossia l ’o g g e t t
o in relazione col mio c o n c e t t o» (Kant 1787, 1996: 382).
E poco dopo:
Oggetto e concetto non possono che avere un contenuto rigorosamente identico, e
nulla può essere aggiunto al concetto (che esprime la semplice possibilità) per il fatto
che il suo oggetto sia pensato come assolutamente dato (mediante l’espressione: esso
è). […] se l’oggetto possedesse qualcosa in più del concetto questo non esprimerebbe
integralmente l’oggetto e non ne sarebbe più il concetto (Kant 1787, 1996: 382).
Consideriamo ad esempio il concetto di «drago»: un drago è un grosso
rettile, è capace di sputare fuoco ed è un animale mitico. Nei termini di I. Kant,
le prime due predicazioni sarebbero considerate «reali» – cioè in grado di
entrare in relazione con il contenuto del soggetto a cui sono applicate – la
terza invece no. Questo punto può essere illustrato in due passi. Si immagini
innanzitutto che i draghi esistano davvero ed esistano con tutta la lista di
proprietà che vengono loro attribuite: in questo caso, potremmo dire che ciò
che esiste è esattamente ciò a cui pensavamo. Si immagini ora che i draghi
esistano ma che non siano capaci di sputare fuoco: questa volta non potremmo
più affermare che ciò che esiste coincida esattamente con ciò a cui pensavamo.
Più precisamente, in quest’ultimo caso, si aprirebbero due possibilità:
264
potremmo dire che quelli che vediamo non siano veramente draghi, oppure
potremmo modificare la nostra idea di drago prototipico decentrando o
eliminando la capacità di sputare fuoco. Quello che conta, tuttavia, è che
indipendentemente dall’alternativa scelta il concetto condiviso di drago
verrebbe contraddetto. Nel primo caso – in cui immaginiamo esistere qualcosa
che non esiste – non si rinviene alcun tipo di contraddizione: in questo senso,
esistere non interagisce col concetto dell’oggetto e cioè, nel lessico kantiano,
«non è una proprietà o un predicato reale». Al contrario, nel secondo caso – in
cui togliamo o aggiungiamo caratteristiche come essere capace di sputare
fuoco – si rinviene una contraddizione: in questo senso, essere capace di
sputare fuoco interagisce col concetto di drago, ovvero «è una proprietà o un
predicato reale»161.
Ma se affermare che i draghi esistono non significa né affermare che
sono capaci di volare, né che sono capaci di sputare fuoco, né che sono rettili,
né qualsiasi altro predicato reale di quel concetto, che cosa significa? La
risposta è fornita dallo stesso I. Kant nel primo passo riportato e nel nostro
caso suonerebbe così: «affermare che i draghi esistono vuol dire porli, con tutte
le proprietà che gli riconosciamo». Nella prospettiva qui delineata questa
risposta non è affatto misteriosa. Noi poniamo un certo oggetto – i draghi,
Giulio Cesare o don Rodrigo – quando siamo disposti a compiere azioni o a
provare emozioni che vi fanno affidamento o, in una parola, che lo
presuppongono. Affermare che i draghi siano o non siano reali, quindi, non
significa descriverli – come se dicessimo che sono capaci di volare piuttosto che
sputare fuoco – ma porre o meno la condizione alla quale avrebbe senso
compiere azioni come quelle di andarli a cacciare, di preoccuparsi per la loro
estinzione o di studiarli scientificamente.
Si consideri l’azione di intraprendere un viaggio alla ricerca di Troia.
Questa azione fa affidamento sull’idea che Troia sia reale esattamente come
l’esperienza di gesta buone o cattive fa affidamento sull’idea che le persone
siano dotate di libero arbitrio. Come sappiamo, se vediamo una persona che ci
sfila il portafoglio ciò che vediamo non è che quella persona è dotata di libero
arbitrio, ma che ci sta rubando il portafoglio: che sia dotata di libero arbitrio è
la condizione alla quale possiamo vedere che ci sta rubando il portafoglio e non
che lo stiamo semplicemente smarrendo. Analogamente, il fatto che
intraprendiamo un viaggio per andare a dissotterrare una città o che stimiamo
una persona non prova che quella persona e quella città siano reali ma che noi
le presupponiamo come tali162. Se dopo anni di scavi in un certo luogo
riuscissimo a riesumare la città di Troia, ciò che avremmo dimostrato – e di cui
avremmo compiuto esperienza – sarebbe il fatto che Troia sorgeva proprio in
quel punto; se non rinvenissimo neppure il coccio di un’anfora, ciò che
avremmo dimostrato – e di cui avremmo compiuto esperienza – sarebbe il fatto
che Troia non era situata in quel luogo. In nessuno dei due casi avremmo
fornito una dimostrazione – o fatto esperienza – della realtà o dell’irrealtà di
Troia; in tutti e due i casi – con le nostre stesse azioni – avremmo fatto
affidamento sull’esistenza di Troia. Ciò che davvero sarebbe stato coerente con
Cosi se fisso un oggetto posso negare tutti i predicati e rimane l’involucro del concetto.
Che dire allora delle sensazioni? Si può affermare che toccare un oggetto o udire un
suono non dimostra che il suono o l’oggetto esistono, ma lo presuppone: fa affidamento su
questo fatto. In effetti, l’esistenza di un oggetto o il fatto che un oggetto sia reale non è un dato
della mia percezione esattamente come non lo è il libero arbitrio. Il fatto che un oggetto sia
reale è invece la condizione di possibilità per la quale posso toccarlo o non riuscire a toccarlo
esattamente come il libero arbitrio è la condizione di possibilità alla quale ci possono essere
azioni morali o immorali.
161
162
265
l’idea dell’irrealtà della città Troia, sarebbe stata non la sua ricerca – fruttuosa
o fallimentare – ma il non sorgere neppure del problema. Tornando a I. Kant,
dunque, affermare ad esempio che Troia ospitava due torri significa
descriverla; affermare che sia esistita, invece, non significa descriverla ma
esplicitare la condizione alla quale è sensato andarla a cercare e fallire.
2.4.
Confronto tra le posizioni di A. Bonomi e I. Kant riguardo alla
r-esistenza.
A questo punto è possibile delimitare la nostra posizione separandola
da quella di A. Bonomi. Egli scrive (sottolineature mie):
Sarebbe […] assurdo pensare che se comincio un discorso con un enunciato del tipo
‘La tal cosa è l’oggetto del discorso’, o con qualcosa di analogo, io riesca con ciò ad
asserire, anziché a presupporre, la l-esistenza. Infatti, l’espressione stessa ‘la tal cosa’
presuppone qui l’identificazione. Ma se questo è vero, ne consegue che in un enunciato
come:
(8)
L’abominevole uomo delle nevi esiste
ciò che è asserito non è ovviamente la l-esistenza, ma [… la] r-esistenza. […] Così
[…] completando la simmetria rispetto alla l-esistenza, diremo che in generale la resistenza può essere asserita, non presupposta.
Infatti, la possibilità di riconoscere o meno l’esistenza reale di qualcosa non
può dipendere, come nel caso della l-esistenza, dalle caratteristiche del nostro spazio
anaforico (che è di natura puramente concettuale), ma è una questione d’esperienza: «
reale » non è semplicemente ciò che è costruito a partire da certe nozioni linguistiche
o concettuali, ma ciò che è altresì localizzato in quella struttura spazio-temporale che
costituisce le condizioni di possibilità dell’oggetto in generale: non basta, dunque, che
esso sia « pensato », ma deve anche essere in qualche modo oggetto di un’intuizione
empirica. Così, benché diverga superficialmente dalla posizione kantiana per il fatto di
riconoscere la predicabilità dell’esistenza, la posizione qui delineata ne fa propria
l’asserzione fondamentale, secondo cui l’esistenza non è un fatto di linguaggio (non
discende dai soli concetti), ma, appunto, un fatto d’esperienza (Bonomi 1979: 33-34 ).
Dal mio punto di vista, la r-esistenza è una presupposizione alla stregua
della l-esistenza. Infatti, come suggeriscono gli esempi dei draghi o di Troia, la
r-esistenza non può costituire il contenuto di un’esperienza possibile o, come
direbbe I. Kant, di «un’intuizione empirica»; al contrario, la possibilità di fare o
non fare esperienza di un certo oggetto presuppone che questo oggetto sia
reale.
Noi, ad esempio, possiamo fare esperienza del fatto che al mondo vi
siano zero tigri: è sensato andare a contare quante tigri siano rimaste (e magari
constatare che ve ne sono zero) perché le tigri sono entità reali. In termini
kantiani, se qualcuno affermasse che al mondo ci sono zero tigri o zero
tirannosauri esprimerebbe un «giudizio sintetico a posteriori»: ci troveremmo
cioè di fronte ad un «fatto» possibile del nostro mondo. Al contrario, non
possiamo fare esperienza del fatto che al mondo vi sono zero fate: non ha senso
andare a contare quante fate vi siano (e quindi constatare che ve ne sono zero)
perché le fate non sono entità reali. Se qualcuno affermasse che le fate o i
tirannosauri sono entità irreali o reali, non compirebbe un autentico atto di
asserzione più di quanto lo compirebbe dicendo che la luna non è una persona.
In termini kantiani, ci troveremmo di fronte a un «giudizio sintetico a priori»
266
che non descrive un «fatto» del nostro mondo, ma una condizione
trascendentale di possibilità alla quale possiamo avere o meno determinati
fatti.
In questa prospettiva si comprende anche il rapporto tra r-esistenza e lesistenza, che lo stesso A. Bonomi definisce come una r-esistenza indebolita:
quindi, in ultima analisi, un caso particolare di r-esistenza. Fare un duello con
qualcuno è un’attività esattamente come parlare con qualcuno di qualcosa: ciò
che rende sensato procurarsi Excalibur per un duello è la presupposizione che
Excalibur sia reale; ciò che rende sensato parlare di Excalibur è la
presupposizione che sia identificabile dal mio interlocutore in uno spazio di
conoscenze condivise o, come direbbe A. Bonomi, in uno «spazio anaforico».
La differenza tra le due presupposizioni riguarda non le modalità del
fondamento, ma le pratiche fondate: è evidente infatti che attribuire un
predicato ad un soggetto – cioè parlarne – è una pratica molto più povera di
procurarsi un’arma per combattere. Questa povertà, del resto, è virtuosa
perché richiedendo condizioni di coerenza molto meno impegnative consente
di parlare di qualsiasi cosa, quando invece per noi non ha senso usare qualsiasi
cosa – ad esempio Excalibur o la bacchetta di Merlino – per combattere un
duello.
3. Presupposizioni di base dell’ontologia puntuale
Se una sera la luna fosse velata, nessuno si chiederebbe se è triste; e la
ragione, ovviamente, è che facciamo affidamento sull’idea che la luna non sia
una persona. Analogamente, nessuno sarebbe disposto a intraprendere una
ricerca per scoprire se don Rodrigo amasse collezionare farfalle; e la ragione è
che facciamo affidamento sull’idea che don Rodrigo, a differenza di Giulio
Cesare, sia un personaggio fittizio.
In entrambi i casi, questi fatti si riflettono sulla nostra percezione degli
enunciati corrispondenti:
(15)
(16)
(17)
(18)
a. *La luna è triste, questa sera?
b. Maria è triste, questa sera?
a. (*)Don Rodrigo collezionava farfalle?
b. Giulio Cesare collezionava farfalle?
a. (*)Le fate volano?
b. I tirannosauri volavano?
a. (*)Quante fate ci sono al mondo?
b. Quanti tirannosauri ci sono al mondo?
Certo, fra (15) e (16-18) sussiste una differenza notevole: mentre (15a) presenta
un contenuto concettualmente incoerente, gli esempi (16-18a) presentano
domande coerenti che, semplicemente, apparirebbe bizzarro porsi. Quello che
conta, però, è il fatto che sia in (15a) sia in (15-18a) percepiremmo un’anomalia.
Se questo è vero, tale anomalia non può che derivare dalla differenza tra gli
enunciati (a) rispetto a (b) e cioè dalla variazione del soggetto da cosa a
persona nel primo caso e da entità fittizia a reale nel secondo:
(19)
(20)
a. La luna non è un’entità animata.
b. Maria è una persona.
a. Don Rodrigo è un personaggio fittizio.
267
(21)
b. Giulio Cesare è una persona reale.
a. Le fate sono creature fittizie.
b. I dinosauri sono creature reali.
Il punto è che – prescindendo dall’importante differenza a cui si è
accennato – gli enunciati (19-21) intrattengono nei confronti di (15-18) la
medesima relazione di presupposizione. Per rendersene conto è sufficiente
considerare le negazioni seguenti:
(15)
(16)
(17)
(18)
c. La luna non è triste perché non è una persona.
d. Maria non è triste perché sa che Paolo ritornerà.
c. Don Rodrigo non collezionava farfalle perché non è mai esistito.
d. Giulio Cesare non collezionava farfalle perché le detestava.
c. Le fate non volano perché non esistono.
d. I tirannosauri non volavano perché non avevano ali.
c. Al mondo non ci sono fate perché le fate sono personaggi di fantasia.
d. Al mondo non ci sono tirannosauri perché avevano il sangue freddo.
Le subordinate in (d) scelgono un elemento all’interno di paradigmi che
oppongono ragioni più o meno valide per non collezionare farfalle, per non
essere tristi, per non poter volare e per non essere sopravvissuti all’era
glaciale: in questo senso, le negazioni delle rispettive principali sono «interne».
Le subordinate di (c), invece, operano fuori dai paradigmi precedenti che
risultano perciò disattivati: in questo senso, le negazioni delle rispettive
principali sono «esterne».
Le proposizioni subordinate in (d) presentano autentiche giustificazioni
a favore delle principali: il fatto che Giulio Cesare detestasse le farfalle, ad
esempio, è una ragione che potremmo addurre per sostenere la tesi che non le
collezionava e il fatto che i tirannosauri fossero sprovvisti di ali è un motivo
per sostenere che non volavano. In termini kantiani, tutte le predicazioni (d)
esprimono veri «atti di giudizio»: possiamo cioè essere in dubbio sul fatto che
Maria sia triste piuttosto che felice, che Giulio Cesare collezionasse farfalle
piuttosto che trofei di caccia o che al mondo sia sopravvissuto qualche
tirannosauro e possiamo andare a cercare prove pro o contra questi giudizi.
Al contrario, le proposizioni subordinate in (c) non presentano
autentiche giustificazioni nei confronti delle rispettive principali: infatti,
nessuno addurrebbe la circostanza che Giulio Cesare sia un personaggio
storico per sostenere che poteva collezionare farfalle o che i tirannosauri siano
esistiti veramente per sostenere che avrebbero potuto anche volare. In termini
kantiani, tutte le predicazioni (c) non esprimono «atti di giudizio»: non ha
senso essere in dubbio su cosa collezionasse don Rodrigo, su cosa stia
provando la luna o su quante fate siano al mondo e di conseguenza non ha
senso andare a cercare prove pro o contra queste idee.
Le subordinate di (d) – cioè in ultima analisi gli enunciati (b) –
presentano le condizioni alle quali è sensato avere giustificazioni come (c):
dubitandone e valutandole corrette o scorrette. E’ perché Giulio Cesare è
esistito, ad esempio, che ha senso sbagliare o essere incerti riguardo a ciò che
amava collezionare ed è perché i dinosauri sono esistiti che ha senso
intraprendere una ricerca per verificare quanti ne siano rimasti e constatare,
magari, che attualmente ve ne sono zero.
Quanto alla differenza tra (19) e (20-21) – e quindi tra (15a) e (16-18a)
– essa riguarda non il loro essere presupposizioni di base, bensì il tipo di
268
ontologia sulla quale si applicano. Gli enunciati (19) individuano
presupposizioni dell’ontologia naturale sostanziale, che si riflettono
direttamente nella coerenza della predicazione. Gli enunciati (20-21)
individuano invece una presupposizione dell’ontologia tout court o puntuale,
che non si riflette nella coerenza della predicazione ma nelle azioni o emozioni
concrete che saremmo disposti a compiere nei confronti di una certa entità.
Se gli enunciati (19) e (20-21) presentano due presupposizioni di base –
inerenti all’ontologia naturale sostanziale piuttosto che puntuale – è
ragionevole applicare a entrambi il medesimo schema di analisi ed osservare il
punto a partire dal quale cominciano a divergere. Si osservino gli esempi
seguenti:
(22)
(23)
La luna sorride.
a. Mago Merlino è saggio.
b. L’attuale re di Francia è calvo.
c. Don Rodrigo collezionava farfalle.
Possiamo distinguere due dimensioni o assi: «orizzontale» e «verticale». La
dimensione «orizzontale» è inerente alla coerenza concettuale della
predicazione: è la dimensione dell’enunciato in cui si riflettono le regole della
componente sostanziale dell’ontologia naturale. La dimensione «verticale»,
invece, è inerente alla scelta dell’ontologia di sfondo – reale o fittizia – nella
quale è calata la predicazione.
Consideriamo anzitutto (22). Qui la dimensione orizzontale è
incoerente, mentre quella verticale delinea due alternative: spostarsi in un
mondo fantastico in cui alla luna è concesso sorridere, oppure restare
saldamente ancorati all’ontologia condivisa. Nel primo caso, il conflitto a
livello della dimensione orizzontale è dissolto; nel secondo caso, invece, la
ricchezza di quest’ultimo apre un ventaglio indefinito di soluzioni possibili: da
quelle che regrediscono verso il polo della sostituzione, a quelle proiettate
verso il polo dell’interazione. Questa è la mappa che schizza M. Prandi (Prandi
2004: 378-380) nella sua analisi degli enunciati metaforici. Lo stesso schema
può essere applicato anche a (23).
Si prenda ad esempio (23a). Certo, qui non si rileva alcuna incoerenza
sull’asse orizzontale, ma quello verticale offre le medesime alternative di (22):
spostarsi nel mondo fittizio della saga di re Artù, oppure restare coi piedi per
terra. Scegliendo la seconda strada emerge tutta la differenza rispetto a (22):
infatti, mentre prima sull’asse orizzontale incontravamo un conflitto, ora non
accade nulla del genere. In (22) il problema era capire in che senso un corpo
celeste potesse sorridere: e questo apriva una rosa amplissima di soluzioni
possibili. In (23a), invece, il problema è soltanto capire in che senso un
personaggio di fantasia possa – davvero – essere saggio: e qui l’unica soluzione
è dire che non può esserlo perché non è reale.
Di conseguenza, se confrontiamo:
(24)
a. La luna non sorride perché non è una persona.
b. La luna brilla.
c. Mago Merlino non è saggio perché non esiste.
ci rendiamo conto che mentre (24a) è soltanto l’alternativa meno fantasiosa
con la quale spiegare in che senso la luna possa sorridere, (24c) è l’unica
risposta che possiamo dare a chi domandi in che senso un personaggio fittizio
269
possa realmente essere saggio. Più precisamente, sia in (24a) che in (24c) la
luna e Mago Merlino subiscono una drastica retro-categorizzazione al di qua
dei concetti di persona e cosa o di entità reale o immaginaria; la differenza è
che mentre nel secondo caso questa è l’unica possibilità, nel primo è la meno
interessante.
Ritorniamo a questo punto a (23b), affiancandovi:
(24)
d. Il re di Francia non può essere calvo perché non esiste.
La strada interpretativa che conduceva da (23a) a (24c) è identica a quella che
conduce da (23b) a (24d): ribattendo a (23b) con (24d), cioè, ci comporteremmo
come se il re di Francia indicasse un’entità fittizia e come se decidessimo di
restare sulla posizione dell’asse verticale che individua la nostra ontologia
condivisa. La differenza tra (23b) e (21a) si riduce semplicemente al fatto che
mentre nel caso di Merlino potevamo rifugiarci in un preciso mondo fittizio
spostandoci sull’asse verticale, questo non è altrettanto facile per il re di
Francia. L’intuizione precedente, del resto, è stata catturata da proprio J. D.
Fodor:
My proposal is that we respond to sentences containing the phrase The King of
France in the same way as to sentences about any fictional individual. The only
difference is that the king of France is a very thin fiction specified for no properties at
all except being the king of France. (Fodor 1979: 205)
Il caso di (23c) è simile ai precedenti, ma presenta una leggera
differenza. Anzitutto, di fronte a (23c) rimarremmo in imbarazzo esattamente
come di fronte a (23b); tuttavia, mentre la ragione dell’imbarazzo di (23b) è
esplicitata da (24c), una risposta come:
(24)
e. Don Rodrigo non collezionava farfalle perché non è mai esistito.
non cattura il senso immediato in cui (23c) ci pare fuori luogo. Quest’ultimo,
infatti, è catturato da:
(24)
f. Don Rodrigo non collezionava farfalle perché Manzoni non ha
scritto questo.
Se ora analizziamo (23c) secondo lo schema precedentemente applicato, ci
accorgiamo che differisce da (23a) o (23b) relativamente alla dimensione
verticale. Infatti – tendendo fermo che i referenti sono oggetti fittizi – mentre
le letture (24c) o (24d) derivano dal tentativo di restare ancorati all’ontologia
condivisa, la lettura (24f) deriva dal tentativo di spostarsi, lungo l’asse
verticale, in un mondo fantastico. Lo scacco, questa volta, nasce dalla natura –
piatta, completa, non-esplorabile – di qualsiasi mondo fittizio.
Se di fronte a (23a) ribattiamo con (24c), evidenziamo un problema
prodotto dal tentativo di chiederci in che senso un personaggio fittizio possa
compiere un’azione reale; invece, se ribattiamo a (23c) con (24f) evidenziamo
un problema prodotto dal tentativo di chiederci in che senso il personaggio di
un racconto possa compiere o non compiere azioni che non sono specificate in
quel racconto. E’ vero che ci troviamo comunque in una situazione di stallo, ma
vi giungiamo per due strade diverse: da una parte, la nostra attenzione è
focalizzata sul mondo reale; dall’altra parte sul mondo fittizio. Al primo stallo,
si contrappone il caso di una persona in carne ed ossa che può davvero
270
collezionare o no farfalle; al secondo stallo, si contrappone il caso del
personaggio di un racconto in cui si dice se colleziona o no farfalle.
Rispetto alla proposta di B. Russell, quelle di G. Frege e P. F. Strawson
presentano il limite di non offrire un’analisi chiara del fenomeno (e
dell’intuizione) della cosiddetta «lettura a negazione esterna». Dal nostro
punto di vista, invece – pur mantenendo l’idea dell’infelicità di enunciati come
(23) – le interpretazioni (24) non sono affatto problematiche. Un enunciato
quale (23b), ad esempio, individua un caso particolare di soluzione metaforica
regressiva esattamente come (22a). Certo, di fronte a (23b) a rigore non si
potrebbe parlare di «metafora» giacché non sussiste alcun conflitto sull’asse
orizzontale. Tuttavia, quello che conta è che la lettura (24c) nasce percorrendo
la stessa strada – anche se più povera a causa della differenza tra le
presupposizioni in gioco – lungo la quale nasce (24b), rispetto a cui (24a) è solo
un’alternativa.
271
CAPITOLO 13
Presupposizioni atomiche
272
Indice del capitolo
0. Introduzione
1. Presupposizioni combinatorie vs. presupposizioni inerenti
1.0. Introduzione
1.1. Impossibilità di giustificazione e impossibilità di definizione
1.2. Lessemi descrivibili vs. lessemi esclusivamente indicabili
1.2.1. Definizione circolare o ostensiva
1.2.2. Definizione riduzionista
1.2.3. Definizione ‘poetica’
1.3. Presupposizioni atomiche
2. Due tipi di presupposizioni atomiche
2.0. Introduzione
2.1. Percezioni di valore
2.1.1. Percezioni di valore sensoriali
2.1.2. Inciso: inerenza essenziale e non-essenziale
2.1.3. Percezioni di valore morali
2.2. Livelli di presupposizioni atomiche
2.2.1. Presupposizioni atomiche di primo e secondo livello
2.2.2 Presupposizioni atomiche di terzo livello?
2.3. Un problema
3. Dai mattoni alle stelle
3.0. Introduzione
3.1. Verso un’analisi di buono, giusto (e bello)
3.1.1. Una prospettiva ‘kantiana’
3.1.2. Prima precisazione
3.1.3. Seconda precisazione
3.1.4. Terza precisazione
3.2. Estensione dell’analisi di buono, giusto (e bello)
3.2.1. La bellezza di un viso e di un paesaggio
3.2.2. Il predicato vero
3.3. Un bilancio
274
278
278
278
278
278
280
282
283
284
284
284
284
286
287
288
288
289
290
291
291
291
291
292
293
293
294
294
295
298
273
0. Introduzione
Nel capitolo 11, ho fatto reagire tra loro due dimensioni dell’ontologia
naturale circoscritte da due diverse domande: In quali tipi di relazioni le entità
possono coerentemente combinarsi? e Quali tipi di entità sono reali? Le
presupposizioni di base esaminate fino a quel momento hanno così assunto una
peculiare colorazione, che da un lato le ha rivelate appartenenti all’ontologia
relazionale e dall’altro lato le ha separate da quelle dell’ontologia puntuale. Al
capitolo 12 procederò sulla stessa linea, ma farò reagire la domanda inerente
all’ontologia relazionale sostanziale (cioè: In quali tipi di relazioni le entità
possono coerentemente combinarsi?) con quest’altra: Quali tipi di proprietà
possono inerire alle singole entità? Così, mentre il capitolo 12 evidenziava la
differenza tra un’ontologia che legifera sui tipi di combinazioni fra entità e una
che legifera sui tipi reali di entità, il capitolo 13 evidenzierà la differenza tra
un’ontologia che legifera sui tipi di relazioni in cui le entità possono combinarsi
e una che legifera sui tipi di proprietà che possono inerire alle singole entità.
Possiamo allora ribattezzare «presupposizioni di base combinatorie» i
presupposti dell’ontologia relazionale sostanziale e introdurre il nuovo tipo di
presupposti con il nome di «presupposizioni di base inerenti» o «atomiche».
Esempi di presupposizioni di base inerenti sono le percezioni sensoriali (di
colore, sapore, ecc., e di dolore o piacere fisico), ma anche ciò che indichiamo
con termini quali buono, bello o giusto.
Il modo migliore per fornire un’idea intuitiva di questo nuovo genere di
presupposizioni è riferirsi alla teoria dei primitivi o universali semantici
sviluppata da A. Wierzbicka. Ridotta all’osso, questa teoria postula – per tutte
le lingue naturali – un duplice isomorfismo che investe un preciso insieme di
lessemi e un preciso insieme di combinazioni possibili di questi lessemi.
All’interno del primo rientrano concetti come io, tu, qualcosa, qualcuno,
questo, buono, cattivo, vedere, volere, pensare, ecc.: questi sono i primitivi o
universali semantici (Semantic Primitives). All’interno del secondo rientrano
combinazioni come qualcuno vede questo, mi sento bene, ecc.: questa è la
sintassi dei primitivi semantici (Syntax of Universal Semantic Primitives). In
effetti, se vedere, io e questo sono termini ‘primitivi’, la loro combinazione in
formule come io vedo questo origina strutture altrettanto ‘primitive’. A questo
proposito, due citazioni mi paiono rivelatrici:
In positing the elements I, WANT, DO and THIS as innate and universal conceptual
primitives, I am also positing certain innate and universal rules of syntax – not in the
sense of some intuitively unverifiable formal syntax à la Chomsky, but in the sense of
intuitively verifiable patterns determining possible combinations of primitive
concepts. (Wierzbicka 1996: 19)
Thus, the theory posits the existence not only of an innate and universal “lexicon of
human thoughts”, but also of an innate and universal “syntax of human thoughts”.
Taken together, these two hypothesis amount to positing something that can be
called “a language of thought”, or lingua mentalis, as I called it in the title of my 1980
book (Wierzbicka 1996: 20).
Al fine dell’introduzione delle presupposizioni inerenti o atomiche, interessa il
primo aspetto della teoria di A. Wierzbicka: nei termini dell’ultima citazione,
non la syntax of human thoughts ma il lexicon of human thoughts. A dire il
vero, si potrebbe essere tentati di applicare la prima etichetta alle nostre
presupposizioni combinatorie, cosicché alla syntax e al lexicon summenzionati
274
corrisponderebbero rispettivamente le presupposizioni combinatorie e
atomiche. Tuttavia, questa mossa mi pare esercitare una violenza eccessiva e
non necessaria sulla teoria di Wierzbicka163. Nella presente introduzione
preferisco allora evidenziare alcuni punti di contatto e differenza tra primitivi
semantici e presupposizioni di base con lo scopo di offrire un’idea intuitiva di
ciò che intendo parlando di presupposizioni inerenti o atomiche. Queste ultime
saranno poi discusse nel resto del capitolo.
Incominciamo dai punti di contatto. Anzitutto, A. Wierzbicka individua
nell’impossibilità di definizione la caratteristica centrale dei suoi primitivi, e la
giustifica in base al fatto che la loro funzione è offrire i termini ultimi di
definizione per tutti gli altri concetti. Ecco, al riguardo, un passo centrale
(sottolineature mie):
One cannot define all words, because the very idea of ‘defining’ implies that there is
not only something to be defined (a definiendum) but also something to define it (a
definiens, or rather, set of “definiens”). The elements which can be used to define the
meaning of words (or any other meanings) cannot be defined themselves; rather they
must be accepted as “indefinibilia”, that is, as semantic primes, in terms of which all
complex meanings can be coherently represented (Wierzbicka 1996: 10).
Ma questo è precisamente il tratto essenziale delle presupposizioni di base.
Un secondo ambito di contatto emerge osservando l’attenzione che A.
Wierzbicka rivolge alla ricostruzione dei folk concepts (Wierzbicka 1996:
capitoli 11, 12). Per illustrare quello che intendo, si ritorni il capitolo 10 e in
particolare al § 2.3. di cui riporto per comodità il passo seguente:
b1)
b2)
le piante ad alto fusto sono quelle entità che selezionano l’accezione tagliare di
abbattere;
i vegetali sono quelle entità che selezionano l’accezione appassire di seccare.
[…] la proposizione b1) appartiene a una «sociologia o antropologia sincronica»; la
proposizione b2) appartiene a una metafisica descrittiva sincronica, ovvero a una
lessicologia filosofica.
Sia le classi di oggetti, sia le iperclassi sono presupposti: la differenza consiste
nel livello di generalità. Se questo è vero, anche le discipline che si occupano di
questi presupposti si differenziano per il grado di generalità ma inglobano, allo
stesso modo, la linguistica e in primo luogo la semantica lessicale. In questa
prospettiva, l’insistenza di A. Wierzbicka sul fatto che l’analisi semantica
fornisca uno strumento per ricostruire gli ambiti concettuali condivisi dai
membri di una determinata società non appare affatto casuale. Non solo, ma
osservando le tecniche proposte a tale scopo (Wierzbicka 1996: 353-360) ci
rendiamo conto che l’autrice è consapevole dell’inutilità di un’indagine diretta:
cosa che rimanda a quanto da noi suggerito al capitolo 10, sub. § 3.1. Più
precisamente:
Generally speaking, directly classificatory questions (“Is an X a Y?” or “What is an
Come ho sottolineato, infatti, la syntax of human thoughts è in primo luogo concepita
da A. Wierzbicka come una serie di combinazioni di termini primi: stringhe primarie. Non è
escluso che non possano essere ricondotte alle restrizioni di selezione e alle nostre
presupposizioni di base combinatorie; ma discutere questo punto richiederebbe un lavoro
critico il cui scopo non è quello del presente lavoro.
163
275
X?”)164 are unhelpful in the analysis of folk taxonomies. What is more illuminating
and reliable is the acceptability of sentences referring to individual creatures, such as
“Look at that fish over there!” said with respect to a jellyfish, or “How many birds can
you see?” with respect to groups including geese, bats, or bees; […] Similarly,
Dougherty […]reports that all students in one of her samples placed butterflies in
the insect category […]. But presumably, the same informants would not say “See
that insect over there?” or “What a beautiful insect!” with reference to a butterfly.
This suggest that their responses were confusing scientific categorisation with
everyday language, and misrepresented the subconscious folk taxonomy reflected in
their actual use of language. As pointed out by Boas (1911) and Sapir (1927), the
categorisation reflected in language is unconscious, and it is for this very reason that
language is such a revealing and valuable guide to culture […] (Wierzbicka 1996:
353-355)
Dalla citazione precedente si evince la persuasione che i folk concepts possano
essere rivelati solo verificando se vi siano pratiche che vi fanno affidamento165.
Ma se questo è vero, troviamo l’assunzione implicita che i folk concepts siano
condizioni di coerenza e cioè presupposti: non presupposti di base o primitivi,
ma presupposti ‘culturali’ o ‘etnici’. Da questo punto di vista, allora, l’idea delle
classi oggetto di G. Gross può fornire alla ricerca antropologica qui in gioco
uno strumento particolarmente fine e approfondito di analisi del linguaggio. In
effetti, se è vero che A. Wierzbicka propone di osservare la lingua per inferirne
la forma dei folk concepts è anche vero che lo fa (mi pare) in maniera un po’
intuitiva, come testimoniato dai passi seguenti:
To begin with, there is lexical evidence. In the case of mice […] The adjective mousy
(as in mousy hair or mousy appearance) suggests that mices are indeed seen as
particularly inconspicuous, hard to notice, grayish-brownish in colour. The noun
mousetrap documents the fact that mice are seen as creatures that are unwelcome in
human dwellings […] The noun mouser (as in “she is a good mouser”) documents
the psychological reality of the link between mice and cats […] (Wierzbicka 1996:
345).
Common phrases such as quite as a mouse or poor as a church mouse are also a source
of evidence. The first of these two phrases underscores the perceived quietness of
mice, and the second, their perceived connection with human houses as a place which
(unlike a church) can be seen as a permanent source of food. Another source of
evidence is to be found in conventional metaphors. A person (normally a woman) who
is called a mouse is perceived as quite, shy, […] Literature, in particular poetry, is
also a valuable source of evidence […] (Wierzbicka 1996: 346)166
Passiamo ora ai punti di differenza tra presupposizioni di base e
primitivi semantici: essi sono, principalmente, due. Il primo – fondamentale – è
Questo perché le persone fanno affidamento sui loro concetti senza problematizzarli
per porre altri problemi. Questo ovviamente è vero a maggior ragione per le presupposizioni
di base.
165
Si veda ad esempio il passo sul riferimento (Wierzbicka 1996: 355).
166
Altri punti di contatto tra la teoria di Wierzbicka e la nostra che vale la pena di notare
sono i seguenti. In primo luogo, l’idea che i primitivi – come le nostre presupposizioni di base
– non sono assiomi nel senso che non sono arbitrari: «[…] constructors and students of
artificial languages often place great emphasis on the arbitrariness of “primitive terms”. […]
But the idea that the same applies to the semantics of natural language is a fallacy […]
(Wierzbicka 1996: 10)». In secondo luogo, l’idea che la possibilità della variazione culturale
dipenda da un nocciolo di universali. In terzo luogo, la subordinazione del linguaggio tecnico a
quello naturale (cosa che ricorda Strawson): «[…] it is our understanding of technical terms
and theoretical constructs which has to rest, ultimately, on our intuitive understanding of
simple sentences such as “I want to do this” or “I want you to do this” (Wierzbicka 1996: 20)».
164
276
il seguente. Sebbene talvolta gli universali siano chiamati «foundamental
human concepts», la loro natura di universali ‘linguistici’ è fuori discussione.
Dal nostro punto di vista, invece – in analogia con quanto sostenuto per le
restrizioni di selezione – le presupposizioni di base sono sì primitivi ma non
sono entità linguistiche o semantiche. A dire il vero, un’applicazione stretta
dell’idea che gli universali siano puramente linguistici porterebbe a un esito
paradossale. La loro condivisione da parte di tutte le lingue, infatti, non
potrebbe che apparire un fatto accidentale: la circostanza, contingente, che
tutte le lingue presentino alcune strutture in perfetto isomorfismo. Una
scappatoia – seguita dalla stessa A. Wierzbicka – è radicare gli universali nella
biologia umana: ancorandoli al codice genetico e considerandoli innati. In tal
senso, allora, potrebbero essere ribattezzati «primitivi biologici».
Quest’ultima osservazione introduce il secondo punto di differenza tra
primitivi (così come sono teorizzati nella letteratura linguistica) e
presupposizioni di base. Il fatto è che, per vedere salvaguardata la loro
stabilità, le presupposizioni di base non hanno bisogno di essere radicate nel
codice genetico più di quanto non ne abbiano bisogno le leggi logiche.
Reificare le une e le altre in un supporto biologico significa semplicemente
compiere un errore categoriale di stampo riduzionista. Ma se pensiamo i
primitivi come extralinguistici e non radicati in una struttura biologica, allora
non ha più senso né (ovviamente) chiamarli primitivi biologici, né tantomeno
primitivi semantici: basta chiamarli primitivi concettuali167.
L’impressione che si ricava dalla lettura delle liste di universali
proposte da A. Wierzbicka è insomma duplice: da un lato, la studiosa sembra
essere davvero sensibile ai concetti primi e alle fondamentali distinzioni
ontologiche (come quella tra persone e cose); dall’altro lato, tuttavia, sembra
osservare questi concetti e distinzioni basilari principalmente nelle loro
manifestazioni asservite all’economia della lingua. In effetti, tra i primitivi
troviamo sia concetti come io, tu, qualcuno, qualcosa, questo, sia concetti come
vedere, sentire, udire, buono o cattivo. Ora, se è vero che tutti sono termini
primi, e in quanto tali indefinibili su un piano strettamente lessicologico, è
altrettanto vero che mentre alcuni hanno una funzione interna alla dinamica
della lingua (individuare il locutore e l’interlocutore a ciascun turno di un
dialogo, o fornire degli strumenti alla deissi), altri hanno uno spessore
concettuale specifico. Di conseguenza, potremmo pensare di restringere
l’etichetta di universali linguistici ai primi e riservare quella di universali
concettuali ai secondi: primitivi come io, tu e questo possono essere definititi
‘utensili linguistici’; primitivi come udire, pensare, buono, cattivo individuano
azioni o concetti base della nostra forma di vita non asserviti alla lingua. E’
precisamente tra questi ultimi si annoverano le presupposizioni di base inerenti
o atomiche.
Nel seguito del capitolo cercherò di chiarire più analiticamente questo
nuovo tipo di presupposizioni e di presentare alcuni esempi che (come nel caso
delle presupposizioni combinatorie) non vogliono essere né esaustivi né
sistematici ma solo illustrativi.
Per inciso, è rivelatore che A. Wierzbicka (1996: 17) rinvii esplicitamente alla nozione
di prelinguistic meanings di D. I. Slobin. Questa nozione è paradossale: da un lato, vorrebbe
individuare qualcosa al di là della lingua; dall’altro lato, descrive questo qualcosa in termini
linguistici. L’impressione che se ne ricava è che l’intuizione (corretta) di un primitivo non
linguistico sia frenata dal pregiudizio (scorretto) che tutti i concetti non possano che essere
linguistici.
167
277
1. Presupposizioni combinatorie vs. presupposizioni inerenti
1.0. Introduzione
Per definire le presupposizioni di base inerenti è necessario
contrapporle alle presupposizioni di base combinatorie; e per fare questo
occorre: dapprima, stabilire che entrambe sono presupposizioni di base (sub. §§
1.1. e 1.2); quindi, catturare la peculiarità delle une rispetto alle altre (sub. §
1.3.).
1.1. Impossibilità di giustificazione e impossibilità di definizione
Come abbiamo visto al capitolo 2, sub. § 3.1.2, il segno fondamentale di
una presupposizione di base è che non può essere giustificata, se non de dicto o
circolarmente:
(0)
a. Perché Paolo è una persona?
b. . …perché può provare dolore.
c. …perché sì.
[de dicto]
[circolare]
Ma affermare che non si possa rispondere a (0a) equivale ad affermare
che non si possa rispondere a:
(0)
d. Cosa è una persona?
E, in effetti, le possibili risposte a (0d) sono ancora o de dicto o circolari:
(0)
e. …Un’entità che prova dolore.
f. …Paolo o Giacomo.
[de dicto]
[circolare]
Da un lato, che (0e) sia la corrispondente de dicto di (0b) è chiaro: a entrambe
potrebbe essere obiettato che Paolo o l’entità in questione provano dolore
perché sono persone e non viceversa; di conseguenza, (0b) e (0e) sono risposte
non a (0a) o (0d), bensì a: Perché dici che Paolo è una persona? e Perché
definisci «persona» una certa entità? Dall’altro lato, che (0f) sia la
corrispondente circolare di (0c) è altrettanto chiaro: Paolo e Giacomo non sono
definizioni di persona, ma esempi; di conseguenza, non spiegano il definiendum
ma lo presuppongono. Affermare che una presupposizione di base non possa
essere giustificata equivale ad affermare che non possa essere definita: cioè che
possiamo soltanto presentare (pseudo)definizioni circolari o illustrazioni.
A questo punto, se trovassimo altri esempi che si comportano in
maniera analoga, potremmo annoverarli a buon diritto tra le presupposizioni
di base. Questo è precisamente quanto avviene con i contenuti di percezioni.
1.2. Lessemi descrivibili vs. lessemi esclusivamente indicabili
1.2.1. Definizione circolare o ostensiva
Se disegno una margherita su un foglio, ciò che ho davanti non è la
278
margherita ma la sua rappresentazione; se coloro un foglio di azzurro, ciò che
ho davanti non è la rappresentazione dell’azzurro: è l’azzurro, in carne ed ossa.
Posso disegnare un fiore, ma non posso disegnare un colore. Questa intuizione
suggerisce di distinguere lessemi o concetti il cui contenuto può essere
descritto e lessemi concetti il cui contenuto può essere solo indicato.
Per chiarire quello che intendo, immaginiamo che qualcuno ci chieda:
(1)
a. Spiegami, per favore, cosa sono una margherita, un martello e un
cognato.
Qui non avremmo difficoltà a rispondere; ad esempio, aprendo lo Zingarelli
potremmo dire:
Margherita
Martello
Cognato
[…] 1 Erba perenne delle Composite con grandi capolini isolati
costituiti da un bottone giallo al centro e linguette bianche disposte a
raggiera […]
[…] 1 Utensile per battere, conficcare chiodi e sim., costituito da un
blocchetto di acciaio di foggia varia con manico solitamente in legno
[…]
[…] 1 Marito della sorella | Fratello della moglie o del marito […]
Definire una margherita vuol dire descriverne l’immagine; definire un martello
vuol dire descriverne la funzione e correlativamente la forma: cioè il suo
impiego; definire la nozione di cognato vuol dire descrivere la sua posizione
all’interno del sistema di parentele dell’italiano. Definire il contenuto di
margherita, martello o cognato significa compiere descrizioni fra loro molto
diverse; ma in ogni caso significa descrivere qualcosa.
Si immagini ora che qualcuno ci chieda:
(1)
b. Spiegami, per favore, cos’è il colore azzurro.
Qui ci troveremmo in imbarazzo perché non riusciremmo più a fornire una
descrizione. Se vogliamo fornire una risposta utile a chi domanda (1b),
abbiamo una sola possibilità: indicare al nostro interlocutore come provare
l’esperienza in cui consiste quel colore. Ecco, infatti, come il VLI definisce
azzurro:
Azzurro
[…] 1 Il colore del cielo sereno […].
Questa definizione è circolare.
La definizione di azzurro del VLI è circolare in un senso analogo a
quello in cui lo è la definizione di un termine deittico: ad esempio, il
dimostrativo questo o il pronome personale io. Dallo Zingarelli:
Questo
Io
[…] Indica persona animale o cosa vicina a chi parla […]
[…] Indica la persona che parla […]
Le definizioni precedenti sono circolari perché potrebbero essere riformulate
così: «Questo: ciò a cui ci si riferisce dicendo questo», «Io: la persona che dice
io». Se confrontiamo queste definizioni con quella di azzurro, ci rendiamo
conto che in entrambi i casi il significato ingloba il riferimento a una situazione
extralinguistica: il cielo, piuttosto che lo spazio circostante al locutore o il
locutore stesso. La differenza non riguarda la struttura circolare del significato
279
ma il tipo di situazione extralinguistica alla quale si fa riferimento nel
significato: nel caso di questo e io, è la situazione contingente dell’atto di
parola; nel caso di azzurro, è un’esperienza stabile e condivisa. Se dunque,
rifacendoci a E. Benveniste (1966, 1994) consideriamo la suddetta circolarità di
contenuto una proprietà essenziale di ciò che è «intrinsecamente deittico»,
possiamo affermare che questo e io sono deittici stricto sensu, mentre lessemi
come azzurro sono deittici lato sensu.
Per chiarire la circolarità del contenuto di un lessema come azzurro, lo
si confronti ad esempio con margherita. In entrambi i casi, la direzione della
definizione è centrifuga: dalla lingua verso l’esperienza; con i termini di M.
Prandi, sono entrambi «concetti eso-centrici»:
The core of a given concept may be provided either by a language-specific bundle of
distinctive features or by a point of reference directly located outside lexical
structures, in the field of experience [è il caso di margherita e azzurro]. The concept
may be defined as endocentric in the former case, as exocentric in the latter (Prandi
2004: 169)
Tra un lessema esocentrico come margherita e uno altrettanto esocentrico
come azzurro, M. Prandi rileva una differenza: al primo, si adatta una
definizione sostanziale; al secondo, una differenziale.
Colour concepts are at one and the same time language-specific, even highly
idiosyncratic, and exocentric, that is, identified and differentiated thanks to external
cognitive anchors. […] Before describing a colour category in terms of shared
experience of typical phenomena, one has to circumscribe the area it covers in
differential terms. At the same time, the differentiation of colour concepts does not
rely on definite differential dimensions internal to lexical paradigms, but rests on the
identification of salient chromatic differences within a largely shared, if not universal
experience […] (Prandi 2004: 173-174)
Tuttavia, c’è un’altra differenza che riguarda non il ricorso all’esperienza, ma il
ruolo che essa gioca nella definizione: nel caso di margherita, l’esperienza offre
l’oggetto da descrivere; nel caso di azzurro, l’esperienza entra – lei stessa –
nella definizione. Il disegno di una margherita che possiamo trovare accanto
alla sua entrata lessicale affianca la definizione vera e propria, l’azzurro che
troviamo nella tavola di colori nelle prime pagine di un vocabolario come lo
Zingarelli ‘è’ la definizione di azzurro. Ma questo non significa nient’altro se
non che azzurro non può essere definito bensì soltanto esemplificato.
Se a questo punto sommiamo alle osservazioni appena condotte a
quanto affermato sub. § 1.1, ne deriva che il colore azzurro è un esempio di
presupposizione di base. Infatti, è una presupposizione di base inerente.
1.2.2. Definizione riduzionista
Ritorniamo alla richiesta (1b). Se la soluzione offerta dal VLI è la più
utile non è l’unica possibile. Per definire azzurro, infatti, si potrebbe optare per
una via riduzionista. Un esempio celebre di quello che intendo con «definizione
riduzionista» è l’inizio de L’uomo senza qualità:
Sull'Atlantico un minimo barometrico avanzava in direzione orientale incontro a un
massimo incombente sulla Russia, e non mostrava per il momento alcuna tendenza a
schivarlo spostandosi verso nord. Le isoterme e le isotere si comportavano a dovere.
280
La temperatura dell'aria era in rapporto normale con la temperatura media annua, con
la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con
l'oscillazione mensile aperiodica. Il sorgere e il tramontare del sole e della luna, le fasi
della luna, di Venere, dell'anello di Saturno e molti altri importanti fenomeni si
succedevano conforme alle previsioni degli annuari astronomici. Il vapore acqueo
nell'aria aveva la tensione massima, e l'umidità atmosferica era scarsa. Insomma, con
una frase che quantunque un po' antiquata riassume benissimo i fatti: era una bella
giornata d'agosto dell'anno 1913[...]
Un esempio più banale, invece, è la definizione di calore offerta dallo
Zingarelli:
Calore: […] s. m., 1 (fis.) Energia della materia dipendente dall’energia cinetica del
moto disordinato delle particelle che costituiscono la materia stessa […]
Definizioni del genere sono tipiche delle enciclopedie e presuppongono la
conoscenza della percezione in gioco, senza la quale risulterebbero
incomprensibili; come scrive G. E. Moore:
[…] a moment’s reflection is sufficient to shew that those light-vibrations are not
themselves what we mean by [blue]. They are not what we perceive. […] The most
we can be entitled to say of those vibrations is that they are what corresponds in
space to the [blue] which we actually perceive (Moore 1903: 10).
L’inadeguatezza di una definizione riduzionista è mostrata dall’opacità
della deduzione seguente:
(2)
a. Il calore di questa estate è davvero insopportabile.
b. Il calore è l’energia cinetica delle particelle che costituiscono la
materia.
c. L’energia cinetica delle particelle che costituiscono la materia questa
estate è davvero insopportabile.
In (2c) l’effetto di stranezza non è prodotto dalla presenza di registri opposti
(comune e tecnico), ma da una vera e propria frattura ontologica (cfr. capitolo
9, § 3.2.2.).
Si confronti (2b) con:
(3)
a. Il calore è ciò che sentiamo stando al sole.
b. Una margherita è un fiore con petali allungati e bianchi, disposti a
raggiera intorno a un cuore giallo.
In (3a-b), il predicato dice esattamente ciò che immaginiamo quando pensiamo
al soggetto; ma in (2b) la situazione è diversa. Quando pensiamo al calore non
immaginiamo uno sciame di particelle impazzite: in (2b), cioè, il soggetto e il
predicato mettono a confronto due immagini diverse. Ma se questo è vero,
allora – per noi – il calore non è il movimento delle particelle. L’enunciato (2b),
insomma, è simile non a (3a-b), ma a:
(3)
c. Una collina è un libro da sfogliare.
ed è precisamente in ciò che consiste il suo valore scientifico: cioè il fatto che
accresca le nostre conoscenze.
Si confronti ora (2c) con:
281
(3)
d. Il sole sorride.
Interpretare (3d) letteralmente vuol dire adattare il sole all’idea di persona
saltando l’ostacolo in base al quale un astro non è una persona: il risultato,
dunque, consisterà nel pensare un mondo fantastico dove il sole sorride come
un essere umano. In questo senso, abbiamo compiuto un balzo dalla nostra
ontologia condivida a un’altra. Se interpretiamo (2c) nei termini di (2a), accade
qualcosa di analogo: come nell’interpretazione letterale di (3d) il sole non era
più ciò è che nella realtà ma una persona, così in (2c) l’energia cinetica non è
più ciò che essa è in fisica ma il calore che sentiamo sulla pelle. Anche questa
volta, si realizza un salto ontologico; la differenza è che si passa da un luogo
collocato al di sotto della nostra ontologia condivisa (la spiegazione scientifica
del mondo) all’ontologia nella quale, appunto, viviamo: un po’ come se si
passasse dalla fisica quantistica dove vale la geometria non-euclidea, alla fisica
classica dove vale la geometria euclidea. Se questo è vero, interpretare (2c)
come (2a) è speculare rispetto a interpretare (3d) letteralmente e quindi fa
affidamento sul fatto che – per noi – il calore non sia l’energia cinetica
sprigionata dal movimento delle particelle di materia.
Una definizione riduzionista è quindi in ultima analisi un tipo di
metafora e non è altro che ciò che G. E. Moore chiama «fallacia naturalistica»:
It may be true that all things which are yellow produce a certain kind of vibrations in
the light. And it is a fact, that Ethics aims at discovering what are those other
properties belonging to all things which are good. But far too many philosophers
have thought that when they named those other properties they were actually
defining good; that these properties, in fact, were simply not ‘other’, but absolutely
and entirely the same with goodness. This view I propose to call the ‘naturalistic
fallacy’ […] (Moore 1903: 10).
Immaginiamo, ad esempio, che tutti gli oggetti di forma circolare siano anche
azzurri. Per definire azzurro, apparentemente, potremmo pensare di affermare:
«azzurri sono tutti quegli oggetti che hanno forma circolare»; ma sarebbe
inutile: il fatto di avere ben chiaro cosa sia una forma circolare, infatti, non ci
permette ancora di capire cosa sia il colore azzurro. Quello che ci serve sono
esempi concreti; perciò la definizione deve usare quegli oggetti come esempi di
luoghi dove trovare l’azzurro e cioè dire: «l’azzurro è il colore degli oggetti di
forma circolare». In questo modo, naturalmente, non si è definito l’azzurro ma
si è indicato dove trovarlo.
1.2.3. Definizione ‘poetica’
Ma di fronte (1b) – al di là della definizione circolare o riduzionista –
c’è ancora un’altra possibilità: la definizione poetica. Per chiarire quello che
intendo, si immagini di restare all’interno dello spettro della nostra ontologia
naturale ma di rifiutare comunque una definizione circolare o ostensiva: come
definiremo allora azzurro o calore? Questo è il problema che si porrebbe un
poeta o chi dovesse descrivere un colore a una persona cieca. Il tipo di
conflitto, insomma, è quello da cui scaturiscono le sinestesie: «come dipingere
una musica o una sensazione di calore?», «come descrivere il gusto di un vino
o l’azzurro?».
La sessantaduesima lirica delle Poesie sparse di R. M. Rilke descrive la
282
musica così:
(4)
Musica: respiro delle statue. Forse:
silenzio delle immagini. Tu lingua ove le lingue
cessano. Tempo a picco sul corso
dei cuori che passano.
Molto sinteticamente, in (4) troviamo quattro atti di riferimento metaforici (la
musica è respiro delle statue, silenzio delle immagini, lingua…, tempo a
picco…) realizzati per mezzo di sintagmi nominali a loro volta internamente
conflittuali. Come si vede, la poesia chiede di trovare analogie tra la musica e
un altro ambito percettivo: nel fare questo, facciamo affidamento sull’azzurro,
sulla musica e sul calore come su oggetti primi indefinibili, quasi come divinità.
Il punto è che se proviamo a definire un suono o un colore (in generale,
una sensazione) e se rifiutiamo sia una definizione circolare, sia una definizione
riduzionista, non possiamo fare altro che girare intorno al nostro oggetto
proponendo analogie con altri ambiti (percettivi ma non solo) senza mai
poterlo affrontare direttamente: un po’ come se fosse, appunto, una sorta di
divinità alla quale non abbiamo accesso diretto.
1.3. Presupposizioni atomiche
Le osservazioni condotte sub. § 1.2, suggeriscono che ci sono contenuti
– ad esempio, colori suoni, sapori, odori, sensazioni tattili e percezioni
sensoriali in genere – indefinibili. «Indefinibili» significa che possono ricevere
solo pseudo-definizioni: poetiche, riduzioniste o circolari-ostensive. Colori
suoni, sapori, odori, sensazioni tattili e percezioni sensoriali in genere possono
dunque essere considerati presupposti di base: e precisamente «presupposti di
base inerenti». Essi non circoscrivono tipi possibili di relazioni in cui le entità
possono combinarsi, ma proprietà che ineriscono (in modo necessario o
contingente, come vedremo) a singole entità168.
La differenza tra presupposizioni di base combinatorie e inerenti è che
mentre quelle non entrano nella definizione degli oggetti, queste sono
indispensabili. Mentre rosso entra nella definizione di Ferrari, oggetto
concreto no: per definire una Ferrari non diremmo una Ferrari è un oggetto
concreto come per definire una segretaria non diremmo una segretaria è un
essere umano. Questa osservazione ci istruisce sulla funzione dei presupposti
di base inerenti: sono atomi – di colore, sapore, piacere, dolore ecc. – di cui è
fatto il nostro mondo. Per questa ragione potremmo ribattezzarli
«presupposizioni atomiche».
Le presupposizioni atomiche sono le idee che G. E. Moore accosta a
buono nel celebre passo della sua Etica:
[...] «good» has no definition because it is simple and has no parts. It is one of those
innumerable objects of thought which are themselves incapable of definition, because
they are the ultimate terms by reference to which whatever is capable of definition
must be defined (Moore 1903: 9-10).
Con il lessico di M. Prandi (2004: 122-124) – che riprende una distinzione di
Aristotele – sono «concetti relazionali», come del resto le presupposizioni di base
combinatorie.
168
283
Possiamo descrivere o chiedere di descriverci una margherita o il fuoco, ma
non ha senso né descrivere né chiedere di descriverci il bianco, il giallo, il rosso
o la sensazione di bruciore. Questi ultimi sono i mattoni di cui sono fatti la
margherita e il fuoco: cioè, più in generale, i concetti descrivibili. In sintesi,
oggetto concreto, essere umano e rosso, sono degli estremi: i primi due
collocati al limite superiore e l’ultimo al limite inferiore della nostra ontologia
naturale; concetti come rosa o segretaria, invece, sono ‘intermedi’ ed è per
questi che le definizioni hanno davvero senso.
2. Due tipi di presupposizioni atomiche
2.0. Introduzione
Dopo aver introdotto l’ambito delle presupposizioni di base atomiche,
vorrei delineare un percorso che lo attraversi: che passi dall’idea che il fuoco
brucia, all’idea che una bruciatura è dolorosa, fino all’idea che il dolore di una
bruciatura è ‘qualcosa di male’; oppure, dall’idea che rubare è disonesto a quella
che comportarsi disonestamente non è giusto. Lo scopo di un simile percorso è
duplice: da un lato, presentare esempi di presupposizioni atomiche (sub. § 2.1);
dall’altro lato, rilevare un confine che delimita due tipi di presupposizioni
atomiche (sub. §§ 2.2. e 2.3).
Si consideri una sensazione come il calore provato toccando un
oggetto. Come vedremo, è possibile passare da questo calore al bruciore (al
dolore) che può suscitare, ma poi occorre fermarsi: non è più possibile, cioè,
passare in maniera lineare all’idea che quel dolore è qualcosa di male. Il calore,
il dolore e l’idea che questo sia ‘qualcosa di male’ sono tutte presupposizioni
atomiche; ma tra le prime due e l’ultima c’è un confine che rivela una
divergenza di funzione.
2.1. Percezioni di valore
2.1.1. Percezioni di valore sensoriali
Come abbiamo visto lungo il § 1, l’azzurro, il dolce o il caldo – e in
generale le percezioni sensoriali – sono presupposizioni atomiche. Questo fatto
induce a interrogarsi sul piacere o il dolore che si possono provare
nell’assaggiare un tiramisù o nel toccare una fiamma. Intuitivamente, il
bruciore di una fiamma non è solo calore ma calore-doloroso169: un termine
come bruciore, dunque, non esprime solo una percezione sensoriale bruta ma
una percezione sensoriale colorata o rivestita di valore (positivo o negativo).
In italiano, non ci sono lessemi specializzati per catturare e distinguere
il bruciore di una fiamma, di uno schiaffo o di una sconfitta; tuttavia, a ciascuno
di essi sono legate sensazioni diverse alle quali, in linea di principio, potremmo
associare una diversa etichetta. Non è difficile rendersi conto che, se lo
facessimo, ci troveremmo in una situazione analoga a quella dei lessemi di
colore; per definire il dolore di una scottatura, ad esempio, possiamo solo: o
Qui si pone il problema del rapporto tra sensazione fisica e dolore. Ovviamente non ha
senso chiedersi dopo quanto calore comincia il dolore. Il concetto di emergenza è assurdo e
inevitabilmente misterioso in quanto confonde diversi livelli di categorizzazione
(analogamente al problema del mucchio).
169
284
indicare come fare per provare quella sensazione170, oppure usare descrizioni
riduzioniste o poetiche. Se questo è vero, come prevedibile, le percezioni di
piacere o dolore sono presupposizioni puntuali o atomi così come le percezioni
dell’azzurro, del liscio o del dolce171.
Il fatto che le percezioni di piacere e dolore siano presupposizioni di
base (atomiche) può essere ulteriormente confermato osservando le domande
seguenti:
(5)
(6)
a. Perché questo cucchiaio brucia?
b. Perché questo piatto è freddo?
c. Perché ti fa male la guancia?
a. …perché è stato sul fuoco.
b. …perché è stato nel ghiaccio.
c. …perché ho preso un ceffone.
Al gruppo di domande (5) si può rispondere con (6). Tuttavia, interrogando (6)
ci troviamo davanti a un’impasse:
(7)
a. Perché il fuoco brucia?
b. Perché il ghiaccio è freddo?
c. Perché uno schiaffo è doloroso?
Si confronti (6a) con (7a). Essere incerti su cosa rispondere a (6a) significa
dubitare se il cucchiaio è rovente perché qualcuno l’ha scaldato con un
accendino piuttosto che mettendolo direttamente sul fornello, oppure sui
motivi per cui qualcuno ha compiuto una di quelle azioni; ma non vorrà mai
dire essere incerti sull’idea che il fuoco bruci. La condizione alla quale è
sensato domandare (6a) è precisamente non domandare (7a): cioè far leva
sull’idea che il fuoco brucia. Questa idea è la presupposizione che apre il
paradigma di risposte possibili a (6a).
Ovviamente, la lingua permette di costruire una domanda come (6a)
non solo per un fatto per cui è sensato porla, ma anche per un’idea per cui non
è sensato porla: è il caso di (7a). Se in (6a) la domanda era sensata perché
faceva leva sull’idea che il fuoco brucia, la domanda (7a) non ha più alcun punto
d’appoggio su cui far leva: è una domanda nel vuoto. Una reazione spontanea è
quella di ridarle un punto d’appoggio passando a un’altra ontologia: e una
soluzione può essere quella di passare a un’ontologia ‘sub-atomica’ che produce
una risposta riduzionista come il fuoco brucia perché ossida.
Più in generale, tornando a (7), le risposte spontanee sarebbero cose
come: …perché sì, …è così e basta oppure, nel caso di (7a-b) …perché
altrimenti non sarebbe fuoco, …perché altrimenti non sarebbe ghiaccio.
D’altra parte, sentiremmo che rispondere in termini chimici, medici, sociologici
o psicanalitici – e più in generale cercare spiegazioni – vorrebbe dire falsare la
Del resto, questo sembra inscritto nella stessa forma il dolore di uno schiaffo dove la
specificazione esplicita appunto il percorso che conduce a quell’esperienza di dolore.
171
A questo proposito tre osservazioni. A rigore, i concetti di questo tipo – proprio in
quando indescrivibili e quindi non-complessi – non dovrebbero essere neppure chiamati
concetti. In secondo luogo, si noti come non abbiamo una palette fine di termini specializzati
per le varie sfumature di dolore così come li abbiamo per i vari colori: da un lato sembrerebbe
possibile averli; dall’altro la nostra lingua non sembra così specializzata. Si noti anche come
molti lessemi siano lessemi di percezione in entrambi i sensi: ad esempio bruciore. E questo è
inevitabile: sia per la subordinazione delle percezioni di secondo livello a quelle di primo, sia
(conseguentemente) per il carattere globale della nostra esperienza.
170
285
nostra visione naturale delle cose. Il fatto che le domande (7) siano assurde e
non possano ricevere una risposta richiede di essere spiegato; per farlo, occorre
riconoscere che l’idea che il fuoco bruci, il ghiaccio sia freddo o uno schiaffo
doloroso sono presupposizioni di base atomiche.
Ci si soffermi un istante sugli enunciati seguenti:
(8)
a. Perché il cielo è blu?
b. …Perché le nuvole si sono aperte.
Di fronte a (8a), ci troveremmo nello stesso imbarazzo di (7a) perché il cielo è
uno dei luoghi prototipici per indicare il colore blu. Proprio per questo,
tuttavia, (8a) può essere interpretato non come inerente al rapporto tra il
colore e il suo supporto (il cielo), ma come: perché il cielo è tornato blu? Ed è a
questa interpretazione che (8b) davvero risponde.
2.1.2. Inciso: inerenza essenziale e non-essenziale
Sub. § 1.3. avevamo accennato, tra parentesi, al fatto che ci sono
proprietà che ineriscono a entità in modo necessario e altre in modo
contingente. Le osservazioni condotte sub. § 2.1.1. consentono di sviluppare
questo accenno.
Vi sono oggetti in grado di funzionare come punti di riferimento
prototipici per indicare le presupposizioni atomiche. Il ghiaccio e il fuoco, ad
esempio, sono punti di reperimento prototipici per il freddo e il bruciore:
infatti, la domanda perché il ghiaccio è freddo? lascia interdetti; al contrario,
un piatto o una moneta non funzionano come punti di reperimento prototipici:
infatti, alle domande perché il piatto è freddo? o perché la moneta è rovente?
posso rispondere perché è stato nel ghiaccio o perché è stata nel fuoco.
Gli oggetti che funzionano come punti di riferimento prototipici di una
qualità sono quelli a cui quella qualità inerisce necessariamente. Assaggiamo
un cibo e lo troviamo dolce o caldo: questa dolcezza e questo calore – in quanto
tali – sono presupposizioni atomiche, ma che quel cibo sia caldo o dolce non è
una presupposizione di base. Tocchiamo una fiamma e ci bruciamo: questa
volta, non solo la sensazione di bruciore – in quanto tale – è una
presupposizione di base, ma anche che il fuoco brucia172.
Si considerino gli enunciati seguenti:
(9)
a. Se la pizza non fosse fredda…
b. Se il ghiaccio non fosse freddo…
…la mangerei.
…?
In (9) abbiamo la medesima forma del congiuntivo, che sarebbe etichettata
«periodo ipotetico della possibilità». Tuttavia, il risultato è diverso.
L’enunciato (9a) suggerisce che probabilmente la pizza è davvero fredda;
l’enunciato (9b) ha un effetto contro-fattuale: qui il punto non è che il ghiaccio
sia freddo con tutta probabilità, ma che viene presentato come possibile
qualcosa di impossibile. Un riflesso è che in (9b) è molto più difficile che in (9a)
immaginare una conseguenza: proprio perché non si riesce a pensare la
Per inciso, che il fuoco brucia non è un fatto; per rendersene conto si consideri la
stranezza di: ?Paolo oggi ha scoperto che il fuoco brucia. E’ chiaro che noi possiamo anche
guardare a ciò come a un fatto, ma nel farlo sospendiamo il nostro atteggiamento naturale.
172
286
premessa173. Del resto, si potrebbe proseguire (9b) con non sarebbe ghiaccio,
ma non si proseguirebbe (9a) con non sarebbe una pizza174. L’idea che il
ghiaccio è freddo o lo zucchero è dolce sono presupposizioni di base puntuali:
giudizi sintetici a priori175.
2.1.3. Percezioni di valore morali
Le qualità morali sono presupposizioni atomiche come le percezioni
sensoriali; si considerino infatti gli enunciati seguenti:
(10)
(11)
a. Perché rubare è disonesto?
b. Se rubare non fosse disonesto…
a. Perché è giusto comportarsi onestamente?
b. Se comportarsi onestamente non fosse giusto…
Per quanto riguarda (10) e (11), possono essere ripetute le osservazioni
condotte per (7). Se questo è vero, gli enunciati:
(10)
(11)
c. Rubare è disonesto.
c. Comportarsi onestamente è giusto.
sono come il ghiaccio è freddo e il fuoco brucia: giudizi sintetici a priori176.
Onesto (ma anche generoso, sincero, gentile ecc.)177 – di una persona o
un’azione – sono atomi: non possiamo descriverli, ma possiamo riconoscerli.
Non esiste un concetto di azione onesta che possiamo definire a priori e con il
quale poi possiamo esplorare la realtà; al contrario, possiamo trovare e
riconoscere esempi di azioni oneste guardandoci intorno. Non possiamo
definire in cosa consista comportarsi onestamente più di quanto possiamo
definire in cosa consista l’essere blu di un oggetto: possiamo solo riconoscere
la generosità o l’onestà quando le vediamo. Si osservi, ad esempio, la
definizione dello Zingarelli:
Ovviamente posso dire Se il ghiaccio non fosse freddo, non lo userei per conservare il
gelato (Se fossi fuoco arderei il mondo), ma per trarre quella conseguenza devo appunto fare
173
come se quell’ipotesi fosse possibile, cioè come se si desse il caso che il ghiaccio potesse essere
sia freddo che caldo. Questo è come pensare al sole che sorride davvero: è lo stesso
procedimento concettuale dell’interpretazione letterale di una metafora.
174
Il periodo ipotetico dell’impossibilità deriva dalla presenza di un’incoerenza: cioè dal
presentare come possibile qualcosa che possibile non è. La sensazione dell’impossibilità è la
prova della violazione di una presupposizione di base.
175
Secondo S. Kripke, sarebbero giudizi sintetici a posteriori: in fondo non lo imparo con
l’esperienza che lo zucchero è dolce? Qui c’è un problema con la nozione di esperienza. Io
assaggio il tiramisù per sapere se è dolce, ma non assaggio lo zucchero per sapere se è dolce.
Quest’ultima esperienza la fa il bambino o lo straniero, ma poi quello che conta è che per fare le
altre non farà più questa. E’ la stessa questione dell’idea che il fuoco brucia non è un fatto.
176
Nel caso del tiramisù, se aumento la dolcezza ottengo un pessimo tiramisù; ma nel
caso dell’onestà o la generosità se le aumento non ottengo una persona pessima. Tuttavia, se le
diminuisco sì.
177
Come l’onestà si comporta ad esempio la gentilezza. Anche qui ci rendiamo conto che
dovremmo fornire degli esempi: un atto di gentilezza è ad esempio quello di cedere il posto
sull’autobus. La gentilezza inerisce a questo atto come il colore a un oggetto o il sapore a un
pezzo di dolce, e come a questo sapore inerisce il piacere a quell’atto inerisce il buono. La
gentilezza è diversa dall’onestà come l’azzurro è diverso dal rosso e come un oggetto può
avere più colori così nulla esclude che un’azione gentile possa essere anche onesta e altre cose.
287
Onesto […] A. agg. 1 Che si astiene dal compiere atti malvagi, illegali o illeciti, sia
per osservanza di principi giuridici o morali, sia per radicato senso della giustizia
[…]
Un furto – ad es. estrarre il portafoglio dalle tasche di un passante – è
disonesto. Tuttavia, come accadeva nel caso degli oggetti circolari azzurri,
possiamo descrivere la meccanica di quell’atto senza con ciò comprendere cosa
sia l’onestà. La differenza, rispetto al colore, consiste in ciò: che un oggetto
circolare può anche non essere azzurro, ma l’atto di estrarre il portafoglio dalle
tasche dei passanti – se è un furto – non può non essere disonesto. Il
parallelismo corretto, dunque, non è tanto con i colori quanto con il ghiaccio e
il fuoco: non posso comprendere cosa è un furto senza dire che è disonesto
esattamente come non posso comprendere cosa sono il fuoco o il ghiaccio
senza dire che l’uno è freddo e l’altro brucia. In sintesi, l’onestà come l’azzurro
è indefinibile nel senso che posso solo indicare gli atti che hanno il colore
dell’onestà; a differenza dell’azzurro e come il fuoco, l’onestà inerisce
necessariamente a una certa azione (ad es. un furto).
2.2. Livelli di presupposizioni atomiche
2.2.1. Presupposizioni atomiche di primo e secondo livello
Il calore che una coperta può avere e il piacere che questo calore può
suscitare sono presupposizioni atomiche: ma che rapporto c’è tra esse?
Intuitivamente, un oggetto non risulta piacevole o spiacevole in se stesso, ma
per una sua caratteristica: ad esempio, può avere un certo tepore o una certa
forma, ed è questo che risulterà piacevole o spiacevole. Si immagini una
coperta calda e soffice e si considerino le domande seguenti:
(12)
a. Cosa è piacevole di questa coperta?
b. Cosa è caldo di questa coperta?
La domanda (12a) non pone alcun problema: si può rispondere Il suo calore o
La sua morbidezza. Ma la domanda (12b) o non ha una risposta o ne ha una
circolare: relativa all’intero (ad es. La coperta stessa) o a una parte (ad es. La
sua superficie, L’angolo su cui ha dormito il gatto). Questo fatto si riflette negli
enunciati seguenti:
(13)
(14)
a. Questa coperta è calda.
a. Questa coperta è piacevole.
In (14a), è possibile sostituire il soggetto con il nome del predicato di (13a)
ottenendo (14b):
(14)
b. Il calore di questa coperta è piacevole.
Ma in (13a) non c’è nulla – se non l’oggetto stesso o una sua parte – che
possiamo sostituire al posto del soggetto:
(13)
b. Ø è calda.
La conclusione è che il calore della coperta è una presupposizione
288
atomica o percezione «di primo livello», mentre la piacevolezza suscitata da
questo calore è una presupposizione atomica o percezione «di secondo
livello»178: le percezioni di primo livello (ad es. l’azzurro, il salato, il ruvido, il
caldo) e le percezioni di secondo livello (ad es. il piacere o il dolore a quelle
legato) sono gerarchizzate nel senso le seconde presuppongono le prime e
aderiscono ad esse come queste all’oggetto179.
Se ora si domandasse cosa sia questo «oggetto» – il piano zero su cui
aderisce la percezione di primo livello – la risposta sarebbe kantiana: un
noumeno. Quest’ultimo non può essere colto nella sua nudità, ma solo
attraverso altre percezioni di primo livello: rispondendo a (12b) con la sua
superficie o il suo pelo, ad esempio, non facciamo altro che spostarci su altre
percezioni di primo livello che a loro volta presuppongono fanno affidamento
su un oggetto ‘noumenico’ in modo analogo a quanto accadeva nella
definizione poetica della musica per mezzo di altre percezioni. Giriamo intorno
al noumeno come a un perno. Ovviamente, ciò non significa che il suddetto
«noumeno» non esista; al contrario: è un fatto che noi abbiamo ciò che ho
etichettato «percezioni di primo livello» (sensazioni tattili, gustative, uditive
ecc.); la condizione di possibilità di questo fatto è l’esistenza di un oggetto
noumenico. Le percezioni di primo livello presuppongono a loro volta il livello
zero180. Le percezioni di primo livello girano intorno al noumeno (o al livello
zero) come satelliti intorno a un pianeta: è vero che non possiamo vedere
direttamente il pianeta, ma vediamo le orbite dei suoi satelliti: quindi possiamo
postulare l’esistenza di quel pianeta (come accadde per Plutone).
2.2.2 Presupposizioni atomiche di terzo livello?
Distinguere tra percezioni di primo e secondo livello, spinge a chiedersi
se esistano anche percezioni di terzo livello. Intuitivamente, infatti, diremmo
che una scottatura non è solo calore-doloroso ma anche, in linea di massima,
qualcosa di male: a cosa ci si riferisce qui con qualcosa di male?
Evidentemente, non alle sensazioni di primo livello: cioè non a una
certa stimolazione tattile, gustativa o uditiva; dunque, dobbiamo riferirci alla
percezione di secondo livello: cioè alla stimolazione sensoriale rivestita di
piacevolezza o dolore. Se questo è vero, le percezioni di secondo livello
sembrerebbero mediare tra quelle di primo e il riferimento ad esse in quanto
buone o cattive: queste ultime, quindi, potrebbero essere considerate «di terzo
livello» perché, appunto, aderiscono a quelle di secondo. Questa idea sembra
ragionevole: un cibo dal gusto gradevole o una figura armonica, ad esempio,
manifestano una vocazione naturale ad essere chiamati buono e bella. Questa
idea, tuttavia, non funziona.
La ragione è che riapplicando l’analisi condotta sub. § 2.2.1. si incontra
una difficoltà. Mentre (14a) era analizzabile in (14b), la stessa cosa non vale
per:
(15)
a. Questo tiramisù è buono.
Il fatto che usiamo la forma contratta dipende dalla nostra percezione globale
dell’oggetto. La percezione di un oggetto, dunque, è sì globale (nel senso che percezioni di
primo e secondo livello avvengono contemporaneamente), ma composita e cioè analizzabile,
appunto, in percezioni di primo e secondo livello.
179
Il rapporto tra oggetto e percezione di primo livello è naturalmente contingente nel
caso della coperta e necessario nel caso del fuoco.
180
La sensibilità non dimostra l’esistenza della realtà esterna: la presuppone.
178
289
b. Il sapore di questo tiramisù è buono.
c. ?Il piacere del sapore di questo tiramisù è buono.
In (15a-b), l’accezione di buono è identica: dire un tiramisù è buono equivale a
dire che il suo sapore è buono, come se il sapore fosse inseparabile dal tiramisù
stesso. Ma l’accezione di (15c) è diversa: dire che il piacere procurato dal
tiramisù è buono – qualsiasi cosa significhi – non equivale affatto a dire che il
suo sapore è buono. In (15c), semmai, dovremmo dire che il piacere suscitato
dal sapore del tiramisù è una cosa buona o qualcosa di buono.
L’osservazione degli enunciati (15), dunque, rivela un confine: dopo le
percezioni di secondo livello non possiamo procedere semplicemente a un terzo
livello, ma dobbiamo fermarci. Se al di là delle presupposizioni atomiche di
secondo livello c’è qualcosa, questo qualcosa intrattiene con esse una relazione
diversa da quella che esse intrattengono con le presupposizioni atomiche di
primo livello. Ma allora: che differenza c’è tra affermare che un tiramisù è
dolce o che ha un gusto gradevole e che è buono?
2.3. Un problema
La domanda con cui si conclude il § 2.2.2. ne genera, per analogia, una
serie di altre. Che differenza c’è tra affermare che un’azione è disonesta e che è
ingiusta? Che differenza c’è tra affermare che un viso o un quadro è fatto così e
così o che è armonico e che è bello? Che differenza c’è tra affermare che
un’asserzione descrive correttamente la realtà (o vi corrisponde o vi combacia)
e che è vera? Questo nugolo di domande può essere schematizzato per mezzo
delle liste seguenti181:
(α)
(β)
a. la gradevolezza del sapore di tiramisù
b. l’onestà di un’azione
c. l’armonia dei colori di un dipinto
d. l’armonia dei lineamenti di un volto
e l’armonia delle forme di un paesaggio
f. la ‘corrispondenza’ tra un’asserzione e la realtà
a. la bontà di un tiramisù
b. la giustizia di un’azione
c. la bellezza di un dipinto
d. la bellezza di un volto
e. la bellezza di un paesaggio
f. la verità di un’asserzione
La lista (α) presenta percezioni di secondo livello: più precisamente, la
percezione di secondo livello è contenuta dalla testa del sintagma mentre la
specificazione contiene la percezione di primo livello che funziona da supporto
per la prima. La lista (β) presenta invece quelle che sub. § 2.2.2. si pensava
(erroneamente) di etichettate «percezioni di terzo livello». Il problema è capire
la relazione tra (α) e (β).
Questo problema può essere messo a fuoco per mezzo dell’intuizione
seguente. Come gli elementi di (α), gli elementi di (β) sono presupposizioni di
base: presupposizioni di base atomiche. A differenza degli elementi di (α), gli
Le espressioni di ciascuna riga, naturalmente, non sono definizioni ma hanno una
funzione meramente illustrativa; eventualmente potrebbero essere ampliate o sostituite da
altre più adeguate.
181
290
elementi di (β) non individuano atomi di esperienza, ma atomi assiologici che
rendono sensate e dotate di contenuto certe esperienze. Gli elementi di (α) e (β)
differiscono per la funzione: la funzione dei primi è fornire i mattoni che
costituiscono la nostra esperienza; la funzione dei secondi è fornire i punti
cardinali che la polarizzano, le stelle che la orientano.
Il § 3. è dedicato a sviluppare questa intuizione.
3. Dai mattoni alle stelle
3.0. Introduzione
Il § 3 si articola in tre tempi, secondo la trama seguente. In primo
luogo, sub. § 3.1., mi concentrerò per semplicità sulle righe (a) e (b) della lista
(β) del § 2.3.: lo scopo sarà suggerire una possibile analisi dei predicati buono e
giusto in enunciati come Questo tiramisù è buono o Rubare è ingiusto. In
secondo luogo, sub. § 3.2, prenderò in considerazione le altre righe della lista
(β) del § 2.3.: prestando particolare attenzione a (d) ed (e) sub. § 3.2.1., e a (f)
sub. § 3.2.3.. In terzo luogo, sub. § 3.3., ritornerò alla questione principale
chiarendo in che senso gli elementi di (β) al § 2.3 – differenza di quelli di (α) –
funzionano come stelle fisse o punti cardinali.
3.1. Verso un’analisi di buono, giusto (e bello)
3.1.1. Una prospettiva ‘kantiana’
La dolcezza di un tiramisù è quello che proviamo (a certe condizioni)
sulla punta della lingua quando lo assaggiamo, esattamente come l’azzurro è
ciò che vediamo (a certe condizioni) alzando gli occhi al cielo. Ma non si può
dire che la bontà del tiramisù sia quello che proviamo sulla punta della lingua
quando lo assaggiamo, e neppure che la bellezza del cielo azzurro sia ciò che
vediamo quando alziamo lo sguardo. La bontà di un tiramisù o la bellezza del
cielo non sono contenuti di esperienza. Analogamente, se vediamo un
borseggiatore che estrae il portafoglio dalle tasche di un passante, ciò che
vediamo è che sta avvenendo un furto: cioè, in quell’istante, sentiamo la
disonestà dell’azione esattamente come toccando il ghiaccio sentiremmo
freddo. Ma, ancora una volta, non sarebbe corretto dire che in quell’istante
vediamo anche che rubare è ingiusto. Che rubare è ingiusto non è un possibile
contenuto di esperienza come invece la disonestà di un’azione. Se questo è
vero, la che si pone è: se dicendo che un tiramisù è buono o che un’azione è
giusta, non riconosciamo una proprietà al tiramisù o all’azione (come faremmo
dicendo che è dolce o utile o disonesta), cosa facciamo?
La risposta ripete quella di I. Kant (Kant 1787, 1996: 382) riguardo alla
questione dell’esistenza. Dire che rubare è ingiusto non significa riconoscere
una proprietà a un’azione, ma riconoscere che esiste il dovere di non rubare:
cioè che il dovere non devi rubare! è un dovere reale. Se di un tiramisù dico che
è buono, non gli attribuisco nessun’altra qualità rispetto a quando dico che il
suo gusto è fatto in un certo modo o che ha una certa gradevolezza: in termini
kantiani, «non aggiungo nulla al concetto dell’oggetto». Se di un tiramisù dico
che è buono, semplicemente, pongo o riconosco quel tiramisù (col suo gusto
particolare) come un modello: cioè come un tiramisù che deve piacere o come
291
un tiramisù deve essere cucinato.
A prova di ciò, si considerino due osservazioni. In primo luogo, non si
consiglia a qualcuno un tiramisù con un certo gusto per i tratti di quel gusto in
se stesso, ma perché è buono; più in generale: non si consiglia di provare un
certo piacere per se stesso ma perché è buono. Buono è insomma il titolo che
diamo a quegli oggetti e che li rende, ad esempio, oggetti di consiglio. In
secondo luogo, se è vero che un assaggio di tiramisù, è dolce, piacevole e
buono, è altrettanto vero che mentre non possiamo separare il piacevole dal
dolce, possiamo separare il buono dal piacevole e considerare buone cose che
non sono piacevoli: ad esempio, una medicina. In sintesi: come dire che rubare
è ingiusto significa riconoscere che non si deve rubare, così dire che un
tiramisù è buono significa riconoscere che deve piacere o che è come un
tiramisù deve essere cucinato.
Di conseguenza, potremmo proporre l’analisi seguente:
(1)
(2)
a.
b.
c.
a.
b.
c.
Questo tiramisù è buono
Questo tiramisù deve piacere!
Questo tiramisù è come un tiramisù deve essere (cucinato).
Rubare è sbagliato
Non si deve rubare!
Un ladro è come una persona non deve essere.
Ma a questo punto, chiaramente, possiamo aggiungere anche la riga (c) della
lista (β):
(3)
a.
b.
c.
Questo quadro è bello
Questo quadro deve piacere!
Questo quadro è come un libro deve essere scritto.
Il prossimo passo sarà precisare tre punti dell’analisi appena proposta.
3.1.2. Prima precisazione
Una prima questione riguarda la nozione di dovere presente negli
enunciati (c). Qui dobbiamo chiarire: cosa vi sia di comune nel dovere presente
in (1c), (2c), (3c) e cosa, invece, di diverso.
Stipulare un contratto con qualcuno che non lo rispetterà, andare al
ristorante di un cuoco che non si propone di cucinare cibi buoni, partecipare
alla mostra di un pittore che non si propone di dipingere quadri belli (ma
naturalmente anche leggere la pubblicazione di uno scienziato che non si
propone di dire il vero) sono tutte pratiche prive di senso. Questo è il minimo
comun denominatore della nozione di dovere usata in (1c), (2c) e (3c): è in
questo senso che il comportamento di una persona deve essere orientato alla
giustizia, quello di un cuoco deve essere orientato alla bontà dei cibi, quello di
un pittore deve essere orientato alla bellezza dei quadri (e quello di uno
scienziato deve alla verità delle sue ipotesi).
Un cuoco che non mirasse a cucinare cibi buoni, un pittore che non
mirasse a dipingere quadri belli (e uno scienziato che non mirasse a dire cose
vere) non farebbero nulla di male: semplicemente, infrangerebbero un dovere
che li vincola qua cuoco, pittore (e scienziato). Invece, se uccidessero,
infrangerebbero un dovere che li vincola – li obbliga – qua persone. Nel primo
292
caso, non si comporterebbero da cuoco, pittore (o scienziato); nel secondo caso,
non si comporterebbero da persone. Questa è la differenza tra la nozione di
dovere in (2c) da un lato e in (1c) e (3c) dall’altro lato: essa non riguarda lo
statuto categorico dell’imperativo, ma il fatto che il primo è morale e gli no.
In sintesi, tutti gli imperativi (1c), (2c) e (3c) sono categorici:
semplicemente, questo loro carattere si manifesta come un fatto puramente
logico in (1c) e (3c), e come un fatto morale in (2c). In altre parole: in (2c)
troviamo un imperativo categorico assoluto, in (1c) e (3c) troviamo imperativi
categorici limitati a una categoria di persone o a una certa pratica182.
3.1.3. Seconda precisazione
Una seconda questione riguarda gli enunciati (b): se la prescrizione di
(2b) è chiara, che senso hanno invece (1b) e (3b)?
Ancora una volta, la risposta è offerta da I. Kant in un celebre passo
della Critica del giudizio:
Riguardo al gradevole, ognuno si accontenta del fatto che il proprio giudizio […]
resti confinato appunto alla sua persona. […] Con il bello le cose vanno in modo del
tutto diverso. Sarebbe (proprio al contrario) ridicolo se qualcuno che si piccasse di non
essere privo di gusto ritenesse valida giustificazione il dire di un certo oggetto […]
«E’ bello per me». Perché non deve chiamarlo bello se piace solo a lui. Ci possono
essere tante cose attraenti e gradevoli per lui […] ma s dichiara bello qualcosa, allora
egli si aspetta dagli altri appunto lo stesso compiacimento: non giudica solo per sé ma
per ciascuno, e parla allora della bellezza come se fosse una proprietà delle cose. Dice
perciò che la cosa è bella; e nel proprio giudizio di compiacimento conta sull’accordo
degli altri non, mettiamo, perché li ha trovati più volte effettivamente d’accordo col
suo giudizio: il loro accordo, invece, egli lo esige (Kant 1790, 1995: 171-173).
E ancora, al Quarto momento dell’Analitica del bello:
In tutti i giudizi con cui definiamo qualcosa bello non permettiamo a nessuno di essere
di opinione diversa, senza però fondare il nostro giudizio su concetti, ma solo sul
nostro sentimento, che dunque poniamo a fondamento non in quanto sentimento
privato, bensì come un sentimento che abbiamo in comune. Ora, questo senso comune,
per questo scopo, non può essere fondato sull’esperienza; esso, infatti, vuol autorizzare
a dare giudizi nei quali si parla di «dovere»: non dice che ciascuno sarà d’accordo col
nostro giudizio, ma che deve accordarcisi […]
Bello è ciò che, senza concetto, viene riconosciuto come oggetto di un compiacimento
necessario (Kant 1790, 1996: 243-247).
3.1.4. Terza precisazione
Può essere utile confrontare tutto ciò con quanto accade per un coltello. Si potrebbe
pensare che un buon coltello sia come un coltello deve essere costruito: analogamente a un
tiramisù buono, che è come un tiramisù deve essere cucinato. Tuttavia, c’è una differenza
fondamentale. Un buon coltello è un coltello tagliente. Di conseguenza, un coltello non deve
essere costruito tagliente in nome di un valore in quanto tale, ma in vista di un fine
determinato: tagliare. Invece, un cuoco deve cucinare cibi buoni, un pittore dipingere quadri
belli e tutti dobbiamo compiere azioni giuste non in vista di un fine determinato, ma per la
bontà (dei cibi), la bellezza e la giustizia in quanto tali. La bontà di un coltello – di uno
strumento – è analizzabile; la bontà di un cibo, la bellezza di un quadro o la giustizia di
un’azione non è analizzabile.
182
293
L’ultima questione che vorrei sottolineare è questa: mentre può essere
intuitivamente accettabile chiamare «presupposizione di base» un enunciato
come uccidere il prossimo è sbagliato o non si deve uccidere il prossimo, lo è
meno chiamare «presupposizione di base» enunciati come Questo tiramisù è
buono o Questo dipinto è bello. Queste ultime, infatti, se valgono come
presupposizioni valgono come tali solo per chi conosce quel quadro o quel
tiramisù. Qui, la questione è delicata.
Da un lato, una risposta è implicita nelle precedenti citazioni kantiane:
certo, non tutti conoscono questo quadro o questo tiramisù; tuttavia, che
questo quadro è bello o che questo tiramisù è buono significa che coloro i quali
ne facessero la conoscenza dovrebbero riconoscerli bello o buono. Dall’altro
lato, il problema sollevato attira l’attenzione sul fatto che ci sono idee che
funzionano sì come presupposizioni di base, ma limitatamente alla vita di una
persona. All’interno di quest’ultima, tuttavia, sono presupposizioni di base e
non contingenti: un esempio è l’amore di un figlio verso i genitori.
Ci si chieda: Perché vuoi bene a tua mamma? A parte il fatto
(fondamentale) che al di fuori della solita aula accademica una simile domanda
non sorgerebbe, se pur ci si ostinasse a porla, la risposta sarebbe circolare:
…Perché è mia mamma! Né si risponderebbe dicendo Perché mi garantisce la
sopravvivenza o perché è un istinto insito in ogni mammifero… E se qualcuno
insistesse dicendo qualcosa come: ma perché vuoi bene proprio a tua mamma?
In fondo, avresti potuto nascere da qualsiasi altra persona e ora diresti – con la
stessa certezza – di voler bene a quell’altra persona! il suo argomento sarebbe
semplicemente non pertinente. L’amore verso qualcuno (quando c’è) è
immotivato e a priori: è una presupposizione di base – e non contingente –
perché informa la vita intera di una persona. Ma è una presupposizione di base
di quella vita soltanto. Ritorneremo su questo punto183.
3.2. Estensione dell’analisi di buono, giusto (e bello)
3.2.1. La bellezza di un viso e di un paesaggio
Avendo condotto le precisazioni precedenti, possiamo aggiungere alle
analisi (1-3) queste altre:
(4)
(5)
a.
b.
c.
a.
b.
c.
Questo viso è bello
Questo viso deve piacere!
?Questo viso è come un viso deve essere.
Questo paesaggio è bello
Questo paesaggio deve piacere!
?Questo paesaggio è come un paesaggio deve essere!
Per quanto riguarda (4) e (5) ci sono due ordini di osservazioni da compiere:
essi riguardano l’intersezione tra tipi diversi di presupposizioni di base.
Il primo ordine di osservazioni nasce dall’intersezione tra la bellezza e
la distinzione tra persone e cose: esso consente di separare (4) da (5). In questo
senso, è ragionevole aspettarsi che vi siano due tipi diversi di bellezza che
riposano su diverse presupposizioni di base collocate in diverse regioni
ontologiche. Ma tralasceremo questo punto.
Qualcosa di analogo accade con l’idea di designatore rigido. Un nome proprio è
inerisce a un individuo necessariamente limitatamente alla fissazione del referente
183
294
Il secondo ordine di osservazioni nasce dall’intersezione tra la bellezza
e la distinzione tra artefatti ed entità naturali: esso consente di separare (4) e
(5) da (1) e (3). Né un viso, né un paesaggio sono artefatti: è ovviamente per
questa ragione che (4c) e (5c) suonano assurdi. Tuttavia, proprio questa
assurdità si rivela informativa.
Coerentemente con l’impostazione antropocentrica suggerita al capitolo
10 sub. § 3.3., la stranezza di (4c) e (5c) ci informa che – da un punto di vista
teorico – la bellezza di un’entità naturale è ottenibile a partire dalla bellezza di
un artefatto, che quindi possiede una priorità logica. In altre parole, la bellezza
di un’entità naturale sarebbe la bellezza di un’opera d’arte senza autore. In
altre parole ancora, la bellezza di un’entità naturale consisterebbe in una sorta
di interpretazione metaforica (più o meno proiettiva) di quella artistica:
consisterebbe cioè nell’effetto prodotto dal conflitto dovuto al tentativo di
pensare un’opera d’arte senza artista.
3.2.2. Il predicato vero
L’ultima domanda posta sub. § 2.3. riguardava la differenza tra
un’asserzione che descrive correttamente la realtà e un’asserzione vera184. Qui,
invece di proporre un’analisi sul modello di (1-5), mi pare più utile procedere
diversamente; cioè confrontando gli enunciati seguenti:
(6)
a. Maria è una persona.
b. Giulio Cesare è un personaggio reale.
c. Questo quadro è bello.
d. Uccidere il prossimo è sbagliato.
e. E’ vero che è avvenuta l’unità d’Italia.
(La proposizione «E’ avvenuta l’unità d’Italia» è vera)
Gli enunciati (6) esprimono tutti presupposizioni di base: (6a) appartiene
all’ontologia relazionale sostanziale; (6b) appartiene all’ontologia puntuale; (6ce) sono presupposizioni di base atomiche. Per rendersene conto, si considerino
le rispettive domande della forma Perché (6)?
(7)
a. *Perché Maria è una persona?
b. *Perché Giulio Cesare è un personaggio reale?
c. *Perché questo viso è bello?
d. *Perché uccidere il prossimo è sbagliato?
e. *Perché è vero che l’unità d’Italia è avvenuta?
(Perché la proposizione «L’unità d’Italia è avvenuta» è vera?)
In primo luogo, intuitivamente, nessuna delle domande (7) è felice: nella vita
quotidiana, cioè, nessuna di esse si porrebbe. Anzi, la reazione immediata di
fronte a qualcuno che si ostinasse a chiedere (7) sarebbe la stizza. Questa
insofferenza è la sensazione tipica che si prova quando viene toccata una
presupposizione di base: come se fosse urtato un nervo scoperto. In secondo
luogo, di fronte a (7) si possono fornire soltanto risposte circolari o de dicto.
Le risposte circolari – quelle che probabilmente offriremmo a livello
pre-teorico – avrebbero un aspetto simile a questo:
La discussione sul predicato vero è un topos della filosofia del linguaggio, e la sua
esplorazione dettagliata trascende ovviamente l’ambito di questa tesi. Mi limito a rinviare, a
titolo di esempio, alla raccolta di classici edita da G. Pitcher (Pitcher 1964).
184
295
(8)
a. Maria è una persona … non so… perché è nata così!
b. Giulio Cesare è un personaggio reale … perché è esistito!
c. Questo tramonto è bello … non so… mi piace, è bello e basta!
d. Uccidere il prossimo è sbagliato … perché non si deve!
e. E’ vero che l’unità d’Italia è avvenuta … perché è avvenuta!
Le risposte de dicto – che forse tenderemmo a dare dopo aver riflettuto –
avrebbero invece un aspetto simile a questo:
(9)
a. Maria è una persona perché può essere malvagia.
b. Giulio Cesare è un personaggio reale perché ha senso deplorarlo
c. Questo viso è bello perché ha queste proporzioni / perché è una
promessa di riproduzione
d. Uccidere il prossimo è sbagliato perché socialmente inutile
e. La proposizione «L’unità d’Italia è avvenuta» è vera perché descrive
esattamente come sono andate le cose.
Gli enunciati (8a-b) e (9a-b) non dovrebbero avere bisogno di
particolari spiegazioni; e neppure (8c-d) e (9c-d). Gli enunciati (9c-d)
presentano due casi di interpretazione riduttiva o «fallacia naturalistica» (con i
termini di G. E. Moore). In particolare, (9c) pretende di schiacciare la bellezza
sulla forma o addirittura sulla biologia: la prima versione potrebbe essere il
tipo di risposta a (7c) si un critico, la seconda versione quello di uno
psicanalista o un biologo; entrambe le risposte, da un punto di vista
fenomenologico, sarebbero fuori scala. Passiamo a (8e) e (9e). L’enunciato (8e),
a ben guardare, non è altro che la definizione tarskiana di verità: la
proposizione «la neve è bianca» è vera se e solo se la neve è bianca. L’enunciato
(9e), invece, è l’esplicitazione della cosiddetta «teoria corrispondentista della
verità». Ora, il punto è semplicemente questo: che (8e) e (9e) sono i
corrispondenti, nell’ambito della verità, di (8c-d) e (9c-d) negli ambiti della
bellezza e della giustizia. Affermare che la verità di una proposizione consista
nella corrispondenza con la realtà significa commettere lo stesso tipo di errore
di ridurre la bellezza di un quadro ad una configurazione di linee e colori o la
bontà di un tiramisù a un rapporto tra dolcezza e fragranza o la giustizia
all’utilità. E’ chiaro che tra questi livelli vi sia una convergenza
fenomenologica, ma ridurre l’uno all’altro significa compiere una fallacia
naturalistica.
Si ritorni ancora a (8e) in risposta a (7e), e lo si confronti con:
(10)
a. Perché è avvenuta l’unità d’Italia?
b. L’unità d’Italia è avvenuta per queste e queste altre ragioni storiche.
L’enunciato (10b) è una risposta autentica: né circolare, né de dicto, ma
sintetica. Solo che è una risposta a (10a) e non a (7e): quest’ultimo, infatti, non
può avere risposta perché è una domanda inerente alle presupposizioni di base.
Insomma, attribuire vero a una tesi o un’asserzione è una ‘meta’ che
cerchiamo di raggiungere offrendo ragioni. In questo senso, la verità è la stella
polare verso la quale navighiamo sulle correnti delle argomentazioni. Quando
attribuiamo vero a una tesi o una teoria, lo spazio della navigazione si chiude:
dire è vero significa precisamente terminare la ricerca di ragioni e porre quella
tesi o quella teoria come un presupposto su cui si fa affidamento, fuori
296
discussione. A conferma di ciò si considerino le due osservazioni seguenti. Da
un lato, rimettere in discussione cose ritenute vere (si pensi ad esempio al
negazionismo degli eventi storici) suscita un odio particolare: segno che si
toccano presupposti che sono ormai diventati di base (e qui ci si ricollega con
la questione sollevata sub. § 3.1.4.). Dall’altro lato, è un luogo comune
sostenere che un’asserzione debba essere confrontata alla realtà; tuttavia,
questo confronto non è il nostro atteggiamento naturale. Infatti, il modo
migliore di mancare di rispetto a chi asserisce qualcosa è precisamente andare
a controllare se ha detto il vero: cioè dimostrare di non considerare quello che
ha detto come un presupposto su cui fare affidamento.
A questo proposito, vorrei concludere il paragrafo con altre due
osservazioni. La prima deriva da una coppia di citazioni, rispettivamente di J.
L. Austin e dei due linguisti D. Sperber e D. Wilson:
Supponiamo di mettere a confronto <<la Francia è esagonale>> con i fatti, in questo
caso, suppongo, con la Francia: quest’asserzione è vera o falsa? Ebbene, se volete, fino
ad un certo punto; naturalmente io posso capire ciò che intendi con il dire che è vera
per certi propositi e scopi. Va abbastanza bene per un generale di massimo grado,
forse, ma non per un geografo. <<Naturalmente è piuttosto approssimativo>>,
dovremmo dire, e va piuttosto bene come asserzione piuttosto approssimativa>>. Ma
allora qualcuno dice: <<Ma è vera o falsa? Non mi interessa se è approssimativa o
meno; senza dubbio è approssimativa, ma deve essere vera o falsa – è un’asserzione,
no?>> (Austin 1962, 1996: 104-105).
Suppose that Marie lives in Issy-les-Moulineaux, fifty meters outside the Paris city
limits. At a cocktail party in London, she meets Peter. He asks her where she lives,
and she answers: “I live in Paris”. Literally speaking, Marie’s answer is not true, but
under ordinary circumstances it is not misleading (Sperber&Wilson 1986b: 18-19)
Ovviamente, nell’ultima citazione, se Marie avesse detto “Vivo a Issy-lesMoulinex” – cioè avesse fornito un enunciato descrittivamente corretto –
avrebbe anche dato un’informazione fuorviante: il suo atto comunicativo
sarebbe stato inadeguato e (con il lessico di Sperber&Wilson) avrebbe
condotto Peter a trarre implicature false e non vere. Per quanto riguarda il
nostro discorso, il punto è questo: il carattere ‘approssimativo’ delle espressioni
riportate nelle citazioni precedenti suggerisce che la corrispondenza o
somiglianza descrittiva tra l’enunciato e la realtà è una proprietà del messaggio
come i colori sono una proprietà del dipinto, ma la verità dell’enunciato no
esattamente come la bellezza non è una proprietà del dipinto. La verità è il
punto cardinale verso il quale l’enunciato (se è un’asserzione) è orientato; e dire
che l’enunciato o il messaggio è vero significa dire che è un presupposto sul
quale si può fare affidamento.
La seconda (e ultima) osservazione per chiarire quello che intendo è la
distinzione tra asserzione o affermazione (che sono fenomeni comunicativi) e
descrizione o rappresentazione (che non sono fenomeni comunicativi). Se
disegno una signora che esce di casa per compiere un ritratto (cioè una
rappresentazione o descrizione), il mio scopo è quello di raffigurarla con
precisione; ed è alla luce di questo scopo che ha senso giudicare il ritratto. Se
dipingo una signora che esce di casa per asserire o affermare a suo marito che è
uscita di casa, il mio scopo è comunicare un messaggio; e ha senso giudicare la
mia opera sulla base della constatazione che la signora sia davvero uscita. Nel
primo caso non viene comunicato alcun messaggio e il disegno è valutato in
base al parametro della verosimiglianza. Nel secondo caso viene comunicato un
messaggio e il disegno è valutato in base al parametro del vero e del falso. A
297
colui al quale il disegno è rivolto qua rappresentazione viene chiesto
semplicemente di giudicarne la somiglianza; a colui al quale il disegno è rivolto
qua asserzione viene chiesto un atto di fiducia: cioè di farvi affidamento e di
agire come se il fatto in questione fosse accaduto. Se questo è vero,
un’asserzione non è semplicemente una rappresentazione, ma è l’assicurazione
(o promessa) che una certa rappresentazione è somigliante ad uno stato di cose.
Le condizioni di adattamento di una descrizione (o un ritratto) sono non il vero
o il falso, bensì la corrispondenza o verosimiglianza; le condizioni di
adattamento di un’asserzione o affermazione sono non la corrispondenza o
verosimiglianza, bensì il vero e il falso. La funzione del predicato è vero,
dunque, non è designare la corrispondenza tra parole e mondo, ma,
tipicamente, garantire che tale corrispondenza sussista: cioè appunto farne un
presupposto sul quale si possa fare affidamento. Ed è conseguenza di ciò che a
noi paia che designi anzitutto la corrispondenza. Dire di un’asserzione che è
vera è un po’ come dire di una persona che è sincera o che si ha fiducia in lei:
cioè che si può fare affidamento su quello che dice.
3.3. Un bilancio
Si ritorni agi enunciati (6): se li si osserva in parallelo si può trarre il
bilancio seguente. Dire che Maria è una persona non significa asserire qualche
sua proprietà (come dire che è triste), ma porre la condizione di coerenza alla
quale possiamo chiedersi perché è triste. Che sentiamo coerente chiederci
perché è triste non prova che Maria è una persona, ma prova che lo
presupponiamo. Dire che Giulio Cesare è un personaggio reale o che è vero che
l’unità d’Italia è avvenuta non significa asserire qualche loro proprietà (come
dire che Cesare era calvo o che l’unità d’Italia ha giovato o no ai Savoia), ma
porre la condizione alla quale siamo pronti ad ammirare o deplorare Cesare, a
sentirci orgogliosi o meno di essere italiani o a intraprendere ricerche storiche.
Queste sensazioni non provano che Giulio Cesare sia un personaggio reale o
che è vero che l’Unità d’Italia è avvenuta, ma provano che viviamo
coerentemente con queste idee. Dire che uccidere il prossimo è sbagliato non
significa attribuire una proprietà a un’azione (come dire che o inutile), ma
porre o esplicitare la condizione alla quale noi sentiamo l’imperativo non
uccidere! e sentiamo deprecabile uccidere. Che sentiamo questo non prova che
c’è quell’imperativo ma che non possiamo vivere senza presupporlo.
Lo scopo del § 3 era distinguere due tipi di presupposizioni atomiche
precisando l’intuizione avanzata sub. § 2.3.. A questo punto, possiamo farlo nel
modo seguente. Da un lato, ci sono presupposizioni atomiche come l’azzurro
del cielo, la dolcezza di un tiramisù, e il bruciore di una fiamma o la
gradevolezza di un tiramisù; dall’altro lato, ci sono presupposizioni atomiche
come la bellezza del cielo azzurro e la bontà del tiramisù. Entrambe queste
presupposizioni – in quanto presupposizioni di base – sono indefinibili.
Tuttavia, mentre le prime individuano contenuti di esperienza che possono
essere localizzati, le seconde individuano contenuti assiologici che non possono
essere localizzati. Questa differenza è legata a una diversa funzione: la funzione
delle une è fornire i mattoni primi di cui è composta la realtà, la funzione delle
altre è fornire le stelle o i punti cardinali per orientarci nella realtà.
Ritorniamo a domande come queste:
(11)
a. Perché questo quadro è bello? / Perché questo tiramisù è buono?
298
b. In cosa consiste la bellezza di questo quadro?/In cosa consiste la
bontà di questo tiramisù?
Le domande (11) vertono su presupposizioni di base: di conseguenza,
rispondere non è difficile ma costitutivamente impossibile. Il punto centrale
(come sottolineato sub. § 2.3.3.) è che (11) non sono interrogativi che
normalmente ci porremmo: anzi, se posti esplicitamente tendiamo a rifiutarli
considerandoli assurdi. La domanda perché questo quadro è bello? è la
corrispondente di perché Maria è una persona? Ora, il nostro atteggiamento
naturale consiste non nel porre queste domande, bensì nel presupporle
costantemente: noi cioè orientiamo i nostri comportamenti – valutiamo,
preferiamo e magari litighiamo – coerentemente con risposte a domande come
(11). Ma queste domande non le poniamo: poniamo domande, compiamo scelte,
valutazioni che presuppongono risposte ad esse. Il solo luogo in cui potremmo
chiedere esplicitamente (11) è lo spazio innaturale di un’aula di filosofia,
durante una lezione di estetica: in questo senso, presupponiamo un’estetica così
come presupponiamo un’ontologia relazionale sostanziale; e possiamo
ricostruire l’una come possiamo ricostruire l’altra: perseguendo un progetto di
metafisica descrittiva. Se a questo punto ci chiediamo quale sia la funzione di
buono, bello o giusto, possiamo rispondere da due punti di vista: uno interno e
uno esterno alle domande (11).
Nella prima prospettiva, il punto è descrivere come funzionano le
suddette domande. Ora, qui, buono e bello funzionano come agenti reattivi in
un’esplosione. Introducono in domande come (11) un contenuto pieno, ma
indefinibile: cioè tale da produrre esclusivamente metafore e quindi il florilegio
di risposte regressive o proiettive in cui consistono le varie estetiche. Tutte le
estetiche sono definizioni di bello o buono; poiché bello o buono sono
indefinibili – in quanto presupposizioni atomiche – tutte le definizioni possibili
sono interpretazioni metaforiche: più regressive (cioè più simili alla definizione
di riduzionista di azzurro) o più proiettive (cioè più simili alla definizione
poetica di azzurro). Le estetiche, quindi, sono potenzialmente infinite: come le
interpretazioni di una metafora nascono da un conflitto, così le estetiche
nascono da un conflitto, precisamente dal tentativo di definire l’indefinibile.
Concludere che questo tentativo sia stupido o inutile significa semplicemente
rifiutare la natura umana; al contrario, la presenza delle estetiche è un fatto e
questo fatto prova che facciamo affidamento sul bello e sul buono – cioè sul
loro consistere in qualcosa o avere un contenuto pieno – come sull’esistenza di
divinità.
Nella seconda prospettiva, il punto è trovare una ragione al perché
domande come (11) vengano non poste esplicitamente, ma presupposte dai
nostri comportamenti in quanto coerenti con risposte ad esse. In tale
prospettiva, la funzione di buono e bello è permetterci di discutere, litigare,
paragonare e confrontare gli uni con gli altri le nostre sensazioni e percezioni
di piacevolezza. E’ per questo motivo che buono, bello, giusto vengono
presupposti con un contenuto pieno, condiviso e non localizzabile come quello
della percezione del dolce o del piacevole. Il loro contenuto è sì un ideale, ma
un ideale che costituisce la condizione di coerenza della nostra possibilità di
disaccordo: sono come stelle fisse per orientarci o punti cardinali. In questo
senso, buono, bello e giusto sono intrinsecamente ‘pubblici’ o ‘comunitari’: è
perché abbiamo bisogno di mettere in comune le nostre sensazioni e percezioni
che ci sono quei termini. E se anche fossimo su un’isola deserta, nel momento
in cui riconosciamo qualcosa come bello presupponiamo l’intera forma di vita
299
umana così come la presupponiamo scoprendo una legge logica.
300
CAPITOLO 14
Buono e bello
301
Indice del capitolo
0. Introduzione
1. Impieghi intrinseci vs. estrinseci
1.1. Impieghi estrinseci e intrinseci di buono
1.2. Impieghi estrinseci e intrinseci di bello
2. Applicazione della dicotomia «intrinseco vs. estrinseco»
2.1. Analitico vs. sintetico
2.2. Condizioni di coerenza di domande
2.2.1. Domande possibili e impossibili
2.2.3. Obiezione
2.3. Ti amo come proposizione sintetica a priori
3. Desideri di base
3.0. Introduzione
3.1. Pseudo desideri
3.1.1. Essere una brava persona
3.1.2. Dipingere quadri belli
3.1.3. Desideri e imperativi
3.2. Esempi di desideri di base
303
303
303
305
307
307
308
308
309
310
312
312
313
313
313
314
315
302
0. Introduzione
Il capitolo 14 è dedicato ad esemplificare il funzionamento di due delle
presupposizioni atomiche che al capitolo 13 sono state paragonate a stelle fisse
o punti cardinali: buono e bello. A questo scopo, distingueremo due impieghi (o
fasci di impieghi) degli aggettivi buono e bello, che etichetteremo «estrinseco»
e «intrinseco»185: l’impiego intrinseco individua una presupposizione di base
atomica che funziona da punto cardinale. Tuttavia, per comprendere il ruolo
che qui svolge la nozione di presupposizione, è necessaria una premessa.
Se dovessimo dimostrare a qualcuno l’esistenza di un punto cardinale –
l’Est, ad esempio – potremmo trovarci in imbarazzo. Da un lato, sarebbe
ridicolo indicare un punto su una carta geografica: e la ragione, ovviamente, è
che non c’è alcun luogo che sia l’Est. Dall’altro lato, sarebbe ugualmente
ridicolo concludere che l’Est non esista: cioè che camminare verso Est o verso
Ovest – e quindi orientarsi – sia pura illusione. La soluzione è semplice: le
azioni di camminare verso Est o asserire che uno stato si trova a Est di un
altro non dimostrano che l’Est esiste, ma fanno affidamento sul fatto che –
ovvero presuppongono che – l’Est esista. Per illustrare l’intuizione precedente,
si considerino gli enunciati:
(0)
a. Dove si trova la Cina?
b. Come si fa ad andare in Cina?
Ad Est dell’Italia.
Andando verso Est.
La funzione del punto cardinale che chiamiamo Est è permetterci di rispondere
– in maniera corretta o scorretta – a domande come (0a) e (0b). Proprio per
questo, tuttavia, non ha senso chiedersi:
(0)
c. Dove si trova l’Est?
d. Come si fa ad andare a Est?
A Est.
Andando verso Est.
Andando verso la Cina.
Qualora si cercasse di rispondere a domande come (0c-d), si potrebbero
soltanto offrire o risposte circolari o risposte che fanno già affidamento su –
cioè presuppongono – l’Est. Ad esempio, se ribattessimo a (0d) dicendo
Andando verso la Cina! non staremmo affatto spiegando come andare a Est,
ma come andare in un luogo che si trova a Est.
Affermando che l’impiego intrinseco di buono e bello individua la
presenza di una presupposizione intendo che funziona come l’Est.
1. Impieghi intrinseci vs. estrinseci
1.1. Impieghi estrinseci e intrinseci di buono
Prendiamo le coppie di esempi seguenti:
(1)
(2)
a. Un buon coltello.
b. Questo coltello è buono.
a. Un buon cuore.
Questa terminologia è ovviamente tratta da G. E. Moore (Moore 1910). La mia
trattazione, comunque, seguirà un filo coerente con il tema e l’argomentazione di questa tesi.
Tra i contributi più importanti su buono, oltre a quello di G. E. Moore segnalo (Kats 1964).
185
303
(3)
b. Questo cuore è buono.
a. Un buon mare.
b. Questo mare è buono.
Il valore di buono negli esempi (1-3) dipende in maniera cruciale dalla risposta
ad una domanda come α:
(α)
buono per che cosa?
Una risposta ad (α) – …per tagliare piuttosto che …per pompare il sangue – è
incapsulata dai nomi coltello e cuore in (1a) e (2a). Nel primo caso, ad esempio,
buono assume spontaneamente l’accezione di tagliente; tuttavia, se la risposta
ad (α) fosse buono per tagliare il pane, ecco che (1a) sarebbe interpretato come
Un coltello seghettato. Gli esempi (2) e (3) sono accomunati dal fatto che, a
differenza di (1), riguardano oggetti naturali; gli esempi (2) e (3), invece, si
distinguono tra loro per il fatto che il mare non è sistematicamente connesso
ad una funzione. Tuttavia, la risposta ad (α) per la determinazione del valore di
buono resta fondamentale: di fronte a buono per nuotare piuttosto che a buono
per fare surf otterremo infatti un mare calmo piuttosto che un mare mosso.
Quando le interpretazioni di buono dipendono dalla risposta a una
domanda come (α), possiamo dire che buono abbia un uso «estrinseco»: cioè,
appunto, definito rispetto a un fine esterno. Uno strumento come un coltello,
ad esempio, è un oggetto costruito da una persona in vista di un fine; un
elemento naturale non è costruito da una persona, ma può essere impiegato in
vista di un fine o destinato dalla natura ad una funzione. Buono – nell’uso
estrinseco – valuta questa relazione tra l’oggetto e il fine o la funzione. In (1),
(2) e (3), buono è predicato di elementi appartenenti a diverse classi di oggetti:
in questo senso troviamo comunque impieghi diversi; quello che conta,
tuttavia, è che la domanda (α) permette di raggruppare tutti questi impieghi in
un unico insieme. Chiamiamo «impieghi estrinseci di buono» quelli che sono
circoscritti dalla coerenza della domanda (α) indipendentemente dalle altre
differenze che possono avere.
Consideriamo adesso un altro tipo di artefatto:
(4)
a. Un buon tiramisù.
b. Questo tiramisù è buono.
Qui il valore assunto da buono si colloca sulla medesima scala di squisito:
(4)
c. Questo tiramisù è buono, ma quest’altro è squisito.
Il punto è che l’impiego di buono che troviamo in (4) è diverso da quello
presente in (1), (2) o (3) perché non dipende da (α).
Apparentemente, si potrebbe obiettare che un tiramisù – essendo un
cibo – incapsuli una risposta ad (α), del tipo buono per essere mangiato: come
se un cibo fosse uno strumento la cui funzione è essere mangiato o nutrire.
Una simile obiezione, tuttavia, è contro-intuitiva perché non sarebbe in grado
di distinguere un cibo da una flebo. Inoltre, trascura diverse cose. In primo
luogo, non tiene conto dell’autosufficienza che (4b) manifesta rispetto a (1b),
(2b) o (3b): in questi ultimi, la mancanza di una qualche risposta ad (α)
generava un’anomalia, ma nessuna anomalia o latenza si percepisce in (4b) che
è pienamente accettabile e autosufficiente. In secondo luogo, l’interpretazione
304
che in (1), (2) o (3) daremmo di buono attende di essere determinata dalla
specificazione di un fine esterno: cioè la risposta che diamo ad (α). Questo
emerge in modo evidente nel caso di (3), dove buono assume addirittura
accezioni contrarie a seconda del fine per cui l’oggetto è impiegato. Invece,
l’interpretazione di buono che daremmo in (4) è determinata intrinsecamente:
cioè dall’entità a cui è applicato. In (3), l’interpretazione di buono (un mare
mosso piuttosto che calmo) varia al variare del fine (fare surf piuttosto che
nuotare); in un esempio come (4), l’interpretazione di buono varia non al
variare della – presunta – funzione di un cibo, ma al variare del cibo stesso: un
tiramisù e una pizza, infatti, dovrebbero condividere la stessa funzione di
essere mangiati, ma un buon tiramisù è dolce mentre una buona pizza no.
La conclusione è che in (4) il funzionamento di buono sia non
estrinseco, ma «intrinseco»: cioè dipendente dall’oggetto stesso a cui è
applicato e non da un fine esterno (incapsulato o meno nell’oggetto). Un
coltello è una macchina per tagliare: se è buono (cioè affilato) lo è perché deve
essere impiegato per tagliare. Un tiramisù – e in generale un cibo – non è una
macchina per mangiare: se è buono (ad esempio dolce) lo è in se stesso e non
perché deve essere mangiato da qualcuno.
Nella prospettiva qui delineata le persone si avvicinano ai tiramisù e si
differenziano dai coltelli:
(5)
a. Una buona persona.
b. Questa persona è buona.
Intuitivamente in (5) – come in (4) e a differenza di (1), (2) e (3) – buono
assume un’accezione piena o autosufficiente: tale cioè da non rinviare a nulla al
di là dell’oggetto di cui è predicato, ovvero ad una possibile risposta ad α. Gli
esempi (5), infatti, sarebbero spontaneamente interpretati nel senso di una
persona brava, onesta o generosa e la domanda una persona brava a fare che
cosa? sarebbe fuori luogo. Quest’ultima domanda, invece, ritornerebbe
pertinente nel caso in cui la persona fosse ricoperta con un ruolo sociale: un
buon idraulico, ad esempio, è un idraulico che ripara bene i tubi esattamente
come un buon coltello è un coltello che taglia bene. In questo caso,
ritroveremmo l’impiego estrinseco di buono. Confrontando (5) con (4), inoltre,
si noterà che nel caso delle persone, le interpretazioni di buono rimangono
identiche. Tra una pizza e un tiramisù entrambi buoni, la prima sarà salata e la
seconda no; tra una commedia e una tragedia entrambe belle, la prima farà
ridere e la seconda piangere; ma la stessa cosa non vale per le persone: due
persone buone lo sono nello stesso senso. Le persone, insomma, si comportano
come se fossero tutto lo stesso tipo di dolce. In sintesi, allora, se una persona è
buona lo è nello stesso senso in cui un tiramisù è buono: cioè intrinsecamente.
1.2. Impieghi estrinseci e intrinseci di bello
Si considerino ora gli esempi seguenti:
(6)
a. Un buon libro.
b. Un buon quadro.
Intuitivamente, gli enunciati (6) verrebbero interpretati come valutazioni: se
questo è vero, buono opera non sul libro o sul quadro in quanto oggetto
305
materiale ma in quanto opera (d’arte).
A questo punto, si confronti (6) con (1a) o (4)
(1)
(4)
a. Un buon coltello.
b. Un buon tiramisù.
Certo, apparentemente sono entrambe valutazioni: possiamo cioè immaginare
che siano enunciati emessi da un mastro artigiano, da un capocuoco o da un
critico verso il lavoro di un apprendista. Tuttavia, c’è una differenza: mentre il
mastro artigiano affermando (1a) sa quello che dice, il capocuoco e il critico
affermando (6) o (4a) non sanno quello che dicono. La prova è che il mastro
artigiano può testare se il coltello è buono – cioè verificare se taglia – passando
il polpastrello sulla lama; ma come possono, il critico e il capocuoco, testare la
bontà del tiramisù o del libro? Si risponderà: assaggiandolo o leggendolo. Ad
esempio, potrebbero dire: E’ un buon tiramisù perché ha questa particolare
armonia di sapore e consistenza; oppure: E’ un buon libro perché la trama è
strutturata in questo modo e lo stile non è mai ridondante. Ma ci sarà sempre
qualcuno che potrà ribattere: Per me queste cose non contano affatto! Con
quale criterio sostieni che un tiramisù è buono se ha quella particolare armonia
tra sapore e consistenza? Con quale criterio sostieni che un libro è bello se ha
la trama e lo stile di quel tipo piuttosto che un altro? Invece, di fronte a un
coltello che non taglia, nessuno potrà mai ribattere: Per me, che tagli o meno,
non conta niente!; oppure: Con che criterio sostieni che un buon coltello è un
coltello che taglia? La ragione di questa differenza è chiara: il mastro artigiano
può valutare il coltello perché il coltello ha una funzione, ma il capocuoco e il
critico non possono valutare il tiramisù o il libro perché non hanno una
funzione. La sensatezza o l’assurdità delle risposte immaginate mostra che
mentre nel caso del coltello tagliente è un’analisi di buono, nel caso del
tiramisù e del libro le caratteristiche di sapore e stile sono interpretazioni di
buono e bello. E questo perché mentre nel primo caso buono è definibile, negli
altri non lo è. La conclusione, naturalmente, non è che l’impiego di buono in
(4a) o in (6) sia privo di senso; ma che tale senso non è quello di (1a): questo è
estrinseco, quello intrinseco. La possibilità dell’applicazione della massima de
gustibus… non è un segno dell’assurdità dell’espressione un buon libro, ma un
segno della sua differenza rispetto a un buon coltello.
Una volta mostrato che in (6) abbiamo un impiego di buono intrinseco
come quello del tiramisù (anche se qualitativamente diverso), il passo
successivo è mostrare che per un quadro o un libro, l’aggettivo appropriato
sarebbe non tanto buono quanto bello. A questo scopo, si consideri:
(7)
a. *La bontà di questo quadro mi colpisce.
b. *La bontà di questo coltello.
c. La bontà di questo tiramisù mi sconvolge.
Sebbene in (6) troviamo un impiego intrinseco di buono, la sua
nominalizzazione produce l’enunciato inappropriato (7a): questo si comporta
come (7b), che è derivato da un impiego estrinseco di buono. Il problema,
tuttavia, può essere risolto sostituendo semplicemente buono con bello in
(6)186:
(8)
a. Un bel quadro.
186
Nel caso del coltello dovremmo sostituire bontà con qualcosa come utilità.
306
b. La bellezza di questo quadro mi colpisce.
c. Questo quadro è bello.
In (8) bello è il corrispettivo di buono in (4) e siccome in (4) buono aveva un
uso intrinseco, diremo che anche bello in (6) ha un uso intrinseco; del resto a
(6) si applicano le stesse considerazioni sulla valutazione condotte per buono.
Il fatto che sia sensato parlare di uso intrinseco per bello, del resto, è
mostrato dalla possibilità di individuare un uso che si fonde a quello estrinseco
di buono. A questo proposito, si osservino gli esempi seguenti:
(9)
a. Una bella lavatrice.
b. Questa lavatrice è bella.
Una bella lavatrice non è tanto e non è solo una lavatrice bella a vedersi, ma
una lavatrice che funziona bene: ne consegue che in (9) – dove troviamo un
elettrodomestico – bello ha un impiego analogo a quello estrinseco di buono.
In (9), anzi, bello diventa un antonimo di buono: una bella lavatrice, infatti, è
intuitivamente una lavatrice migliore rispetto a una che definiremmo buona. Si
noti per inciso che questa coalescenza tra gli impieghi estrinseci di buono e
bello risulta: praticamente inevitabile per elettrodomestici (lavatrice,
computer, televisione, frullatore…); possibile per uno strumento come un
coltello (un bel coltello sarà un coltello tagliente, ma se dico questo coltello è
bello intendo esteticamente bello); quasi impossibile nel caso di un mobile
(questa sedia è bella o una bella sedia non indica una sedia particolarmente
resistente).
In sintesi, buono oltre all’uso intrinseco per i cibi, ha un uso intrinseco
anche per le opere d’arte e qui vale bello. Del resto, ancora una volta, a seconda
del tipo di oggetto, bello potrà essere interpretato diversamente: una bella
commedia (scritta bene), ad esempio, farà ridere, ma una bella tragedia (scritta
bene) farà piangere187.
2. Applicazione della dicotomia «intrinseco vs. estrinseco»
2.1. Analitico vs. sintetico
Che la distinzione «intrinseco vs. estrinseco» non sia infondata è
mostrato dal confronto tra gli enunciati seguenti:
(10)
(11)
a. Un buon coltello per tagliare il pane è un coltello seghettato.
b. Un buon mare per fare surf è un mare mosso.
a. Un tiramisù buono è un tiramisù squisito.
b. Un bel libro è un libro scritto bene.
c. Una persona buona è una persona brava.
Gli enunciati (10) e (11) esplicitano semplicemente gli impieghi di buono che
abbiamo considerato, ed appartengono a tipi logici diversi.
Gli enunciati (10) sono sintetici: se non so cosa sia un buon coltello o un
buon mare, il predicato me lo chiarisce offrendomi un’informazione
Il che non vuol dire che una commedia o una tragedia possano essere pensate come
macchine o strumenti per far ridere o piangere: altrimenti sarebbero psicofarmaci. Queste cioè
sono interpretazioni di bello e non analisi: sono fallacie naturalistiche.
187
307
positivamente rilevante. Gli enunciati (11) sono analitici o circolari: se non so
già cosa sia un tiramisù buono o una persona buona, il predicato non è in grado
di chiarirmelo perché non fa altro che ripetere il contenuto del soggetto.
2.2. Condizioni di coerenza di domande
2.2.1. Domande possibili e impossibili
Che la dicotomia «intrinseco vs. estrinseco» non sia inutile è mostrato
dal fatto che consente di giustificare il comportamento di alcuni gruppi di
domande.
Si consideri anzitutto (12) e (13):
(12)
(13)
a. Cosa è un buon coltello?
b. Cosa è un quadro cubista?
a. Come si fa a costruire un buon (tagliente) coltello?
b. Come si fa a dipingere un quadro cubista?
c. Come si fa a cucinare un tiramisù dolce?
I gruppi (12) e (13) contengono, rispettivamente, domande socratiche e
domande pratiche. A entrambi daremmo una risposta immediata: una tecnica
da seguire, più o meno complessa. Analogamente, avevamo:
(0)
a. Dove si trova la Cina?
b. Come si fa ad andare in Cina?
Ad Est dell’Italia.
Andando verso Est.
Consideriamo adesso queste altre domande, dove buono compare in uso
intrinseco:
(14)
(15)
a. Cosa è un tiramisù buono?
b. Cosa è un quadro bello?
c. Cosa è una persona buona?
a. Come si fa a cucinare un tiramisù buono?
b. Come si fa a dipingere un quadro bello?
c. Come si fa ad essere una persona buona?
Ancora una volta (14) e (15) contengono domande socratiche e pratiche.
Queste domande – dove troviamo buono in un uso intrinseco – ci metterebbero
in imbarazzo esattamente come quando dovevamo rispondere a:
(0)
c. Dove si trova l’Est?
d. Come si fa ad andare a Est?
Per rendere un tiramisù più dolce basta zuccherarlo, per dipingere un quadro
cubista o scrivere un sonetto bisogna seguire certe regole di composizione; ma
quali sono le regole da seguire per cucinare un piatto squisito, scrivere un bel
libro, dipingere un quadro bello o essere una brava persona?
Si confrontino (12a) e (14a):
(12)
(14)
a. Cosa è un buon coltello?
a. Cosa è un tiramisù buono?
308
Immaginiamo di avere davanti la ricetta di un tiramisù e una serie di istruzioni
per costruire un coltello. La ricetta di un tiramisù in cui ad un certo punto
comparisse una frase quale Ora rendete l’impasto squisito! sarebbe ridicola. Ma
una serie di istruzioni per costruire un coltello in cui non comparisse una frase
come Ora affilate il pezzo di ferro sarebbe incompleta. Se questo è vero,
costruire un buon coltello è un problema da risolvere: è il compito di un
ingegnere; cucinare un tiramisù buono, invece, non è un problema da risolvere:
è l’impresa di un artista188.
Si confrontino (12b) e (14b).
(12)
(14)
b. Cosa è un quadro cubista?
b. Cosa è un quadro bello?
Un’accademia di pittura o una facoltà di lettere che promettesse di insegnare a
dipingere quadri belli o scrivere belle poesie sarebbe ridicola o millantatoria;
ma un’accademia di pittura o una facoltà di lettere che non insegnassero la
tecnica cubista o la metrica di un sonetto presenterebbero delle lacune nel
proprio piano di studi. Se questo è vero, può esistere una tecnica o procedura
da seguire – e quindi da insegnare o imparare – per costruire un coltello
affilato (un buon coltello), cucinare un tiramisù più o meno dolce, dipingere un
quadro cubista o scrivere un sonetto: cioè rispondere a domande del tipo (12) o
(13). Ma, rigorosamente parlando, non può esistere una tecnica da seguire – e
quindi da insegnare o imparare – per cucinare un tiramisù buono, dipingere un
quadro bello o scrivere una bella poesia: cioè rispondere a domande del tipo
(14) o (15) dove buono compare in un uso intrinseco.
Del resto, la storia dell’arte e la storia della scienza sembrano differire
in questo: che ogni opera d’arte presenta all’altra non uno scalino o una verità
sulla quale salire, ma un esempio di bellezza che quest’ultima potrà soltanto
imitare o interpretare. La storia della scienza, insomma, procede per
accumulazioni e rivoluzioni; la storia dell’arte per esemplificazioni189. Qualcosa
di analogo, inoltre, avviene nel campo dell’educazione: ad essere brave persone
non lo si può insegnare o spiegare nello stesso senso in cui si insegna o si
spiega una tecnica; si possono soltanto offrire esempi di comportamenti
coerenti con l’idea di una persona buona.
2.2.3. Obiezione
Certo, di fronte alle domande (15) si può obiettare che sia comunque
possibile rispondere qualcosa come:
(16)
a. Zuccherandolo molto! / Seguendo la ricetta della nonna / …
b. Usando una tecnica cubista / puntinista /…
c. Aiutando le vecchiette ad attraversare la strada / comportandosi
onestamente /…
Di fronte a (15a) o (15c) sarebbe naturale ribattere con (16a) o (16c); mentre un
Per questo la cucina può essere considerata una forma d’arte. Nel fatto che un dolce
riesca bene c’è una componente di gratuità, come nel fatto che un dipinto venga bello.
189
Come mostra Kuhn (1962) la scienza procede per rivoluzioni e cambiamenti di
paradigmi; tuttavia, la nostra percezione è quella di una scala.
188
309
pittore, probabilmente, ribatterà a (15b) con la versione di (16b) che cattura il
suo stile.
Tuttavia, se osserviamo le risposte (16) ci accorgiamo di aver risposto
non tanto a (15) quanto a (13): cioè di aver interpretato (16) come (13). Più
precisamente, le risposte (16) non spiegano cosa sia un tiramisù buono o un
libro bello o una brava persona, ma presentano tecniche da seguire per
produrre un esempio di un tiramisù considerato buono, di un quadro
considerato bello o di azioni compiute da persone buone. E’ perché
presupponiamo che un tiramisù particolarmente dolce, o preparato in un certo
modo, sia buono che consideriamo (16a) una risposta a (15a); è perché
presupponiamo che un quadro cubista sia bello che possiamo considerare (16b)
una risposta a (15b); ed è perché presupponiamo che aiutare le vecchiette ad
attraversare la strada o essere onesti siano azioni buone che consideriamo (16c)
una risposta a (15c). Ma questo è esattamente quanto accadeva tentando di
rispondere a (0d):
(0)
d. Come si fa ad andare a Est? Andando verso la Cina.
Queste osservazioni, risultano confermate se consideriamo le rispettive
domande socratiche (14). Di fronte ad esse, infatti, l’atteggiamento naturale è
fornire esempi di tiramisù che sono buoni, di quadri che sono belli o di azioni
che sono compiute da brave persone. Al contrario, se ci chiedessero (12a) non
avrebbe senso fornire un esempio perché potremmo sciorinare la spiegazione
di cosa sia effettivamente un coltello che taglia e di come costruirlo. Socrate,
dunque, chiedeva di definire ciò che definito non può essere: e la sua lamentela
di fronte al fatto che gli venissero forniti soltanto esempi era infondata.
2.3. Ti amo come proposizione sintetica a priori
Dalle osservazioni condotte lungo il § 2., si desume che quando
troviamo buono e bello nell’impiego definito «intrinseco» sub. § 1, siamo in
presenza di una presupposizione di base: di una presupposizione di base
atomica. Più precisamente, ci troviamo di fronte a un oggetto primo non
ulteriormente analizzabile e non individuabile in alcun contenuto di
esperienza: è una stella fissa o un punto cardinale in base al quale orientiamo la
nostra vita. Ed è precisamente da questo che derivano l’aspetto tautologico o
analitico sottolineato in (11) e l’impossibilità a fornire vere risposte per (14) o
(15).
Si confrontino ora gli enunciati seguenti:
(17)
a. Paolo è buono.
b. Paolo è una persona.
Gli enunciati (17) sono gerarchizzati: in particolare, si può dire che la
presupposizione combinatoria (cfr. § 1 al capitolo 12) espressa da (17b) è una
condizione di possibilità della presupposizione inerente (cfr. 1 al capitolo 12)
espressa da (17b). In entrambi i casi, comunque, ci troviamo di fronte a
presupposizioni di base. L’idea che Paolo sia una persona, ad esempio, rende
sensato cercare una serie di motivi – e non cause – alle sue azioni, mentre l’idea
che Paolo sia buono rende sensato cercare alcuni motivi e non altri per le sue
azioni. Se presuppongo che Paolo sia una persona buona, potrò essere in
310
dubbio su quali fini buoni lo hanno spinto ad agire in un certo modo nei miei
confronti; oppure, se vedo solo fini negativi e mantengo ferma la
presupposizione che è buono ecco che, come si dice, avrò fiducia o fede in lui.
Del resto non è un caso che la formula dell’avere fiducia sia concessiva:
nonostante tutto, ho fiducia in lui. Per illustrare questo punto, si immaginino
due generali in guerra: dove ciascuno presupporrà l’altro un nemico. In un caso
del genere è esclusa – a priori – la possibilità di compiere buone azioni: infatti,
se uno arrecasse un vantaggio all’altro, la sua azione verrebbe percepita non
come un’azione buona o caritatevole, ma come un errore. Di conseguenza, è
impossibile provare che l’uno non sia (o sia) nemico dell’altro: qui, per
mostrare che una certa azione è buona ci vuole qualcosa di simile ad un
miracolo190.
A questo punto, però emerge una differenza tra (17a) e (17b):
differenza, alla quale che si era accennato al capitolo 13, sub. § 3.1.4. Il fatto
che Paolo sia una persona non è un caso: qui non ha senso dire che avrebbe
potuto essere altrimenti. Che Paolo sia un burattino invece che una persona
non è un’ipotesi possibile. Ma il fatto che Paolo sia buono, tutto sommato, può
essere considerato un caso: avrebbe potuto essere altrimenti. Che Paolo sia una
persona cattiva invece che buona ci pare un’ipotesi possibile. E tuttavia, come
abbiamo visto sopra l’idea che Paolo sia una persona buona (o cattiva) funziona
da presupposizione. Questa differenza sottolinea nuovamente (cfr. capitolo 13,
§ 3.1.4.,) come vi siano presupposizioni che – pur non essendo contingenti ma
di base – risplendono per la vita intera di una persona soltanto e talvolta
addirittura solo per certi periodi: l’amore verso i propri genitori o i propri figli
è un tipico esempio del primo caso, l’amore per la propria fidanzata o l’amicizia
sono esempi del secondo caso. Prendiamo l’amore per la propria fidanzata:
laddove risplende è a priori, immotivato e necessario. Si pensi al proprio
‘partner’ e ci si chieda: Perché lo amo? Questa domanda è ancora una volta il
corrispondente di Perché Paolo è una persona? Se analizziamo le risposte a
quella domanda ci accorgiamo che sono circolari o de dicto: ad esempio, non si
ama la propria fidanzata perché la si stima ma è vero il contrario: la si stima e
si avrò sempre fiducia in lei perché la si ama.
E’ il caso che fa in modo che uno spermatozoo fecondi un ovulo, è un
caso che un bambino sia partorito da una donna piuttosto che un’altra, è il caso
che fa incontrare due persone e forse degli ormoni innescano qualche reazione
chimica, ma tutto questo non è pertinente: questi fatti non sono risposte alle
domande Perché amo mio figlio? Perché amo mia madre? Perché amo mia
moglie? più di quanto lo siano tutti i casi esaminati in questa tesi. E non sono
risposte perché quelle domande non hanno risposta; e non hanno risposta
perché vertono su presupposizioni di base. Presupposizioni di base forse di un
paio di persone e forse solo per un certo periodo, ma presupposizioni di base.
Si ritorni ancora alle nozioni di «designatore rigido» e «verità
necessaria a posteriori» esaminate al capitolo 9 sub. §§ 1.2.2. e 1.3. come
abbiamo visto, parlare di «verità necessaria a posteriori» è paradossale perché
significa mescolare un tratto di una prospettiva interna o sincronica
(necessaria) e un tratto di una prospettiva esterna o diacronica (a posteriori).
Proprio per questo, una volta consapevoli della sua struttura, insieme alla
Quello che è interessante è che, ad un certo punto, possiamo vedere un’azione
caritatevole o buona. Ciò che noi percepiamo, insomma, non è il fatto che una persona sia
buona, ma le sue azioni buone. Nel momento in cui percepiamo un’azione come buona ecco che
la condizione di possibilità che l’ha resa possibile è stata che la persona che l’ha compiuta sia
stata buona. Quando vediamo un’azione come buona è come quando vediamo un miracolo.
190
311
nozione di «designatore rigido» è perfetta per pensare presupposizioni di base
come l’amore per il proprio figlio o per la propria moglie: l’analogon della
fissazione del riferimento (cioè dell’a posteriori) è la catena causa che ad
esempio porta a incontrare una persona o ad avere quel figlio, l’analogon
dell’uso contro fattuale del nome proprio (cioè della necessità) è che non si ama
il proprio figlio o la propria moglie per quella catena causale: ma in maniera a
priori, immotivata e necessaria. Sarà pure una banalità ma da un punto di vista
logico è proprio vero che l’amore è per sempre fino a quando dura: e questa è
anche la migliore definizione di «designatore rigido».
3. Desideri di base
3.0. Introduzione
Sub. § 2.2., abbiamo visto che non può esistere una tecnica da seguire
per dipingere un quadro bello o essere una buona persona: cioè che non ci sono
mezzi da usare per scrivere una bella poesia nel senso in cui ci possono essere
per costruire un coltello o un’automobile. Se questo è vero, dipingere un
quadro bello – così come tutti gli impieghi intrinseci di buono e bello – non
possono essere contenuti di fini, desideri, progetti, speranze o paure. Questa è
una conseguenza diretta del fatto che gli impieghi intrinseci individuano
presupposizioni di base.
Al capitolo 2, sub. § 3.2., abbiamo visto che un enunciato come Paolo è
una persona individua una presupposizione di base e di conseguenza non può
essere il contenuto proposizionale di alcun atteggiamento (ad esempio,
credenza, dubbio, ipotesi, asserzione). Ora, se anche un enunciato come Questo
quadro è bello individua una presupposizione di base, neppure esso può entrare
come contenuto proposizionale di alcun atteggiamento (ad esempio, fine,
progetto, desiderio, speranza o paura)191.
Si osservino gli esempi seguenti:
(1)
(2)
a. Desidero essere una brava persona.
b. Desidero scrivere un bel romanzo.
a. Desidero riportare il portafoglio alla signora.
b. Desidero scrivere un giallo.
Di fronte a (1) e (2), non pare sussistere alcuna differenza evidente. In effetti,
perché essere una brava persona o scrivere un bel romanzo non dovrebbero
essere contenuti possibili di desideri? Non sono forse cose che uno può
desiderare come (1)? No. I contenuti intenzionali degli enunciati (2) sono
proposizioni: di conseguenza i rispettivi desideri sono desideri sensati. Il
contenuti intenzionali degli enunciati (1) non sono proposizioni ma
presupposizioni di base: di conseguenza i rispettivi ‘desideri’ non sono sensati.
Sono pseudo desideri o «desideri di base». Il § 3 è dedicato a illustrare questa
idea (sub. 3.1.) e a discutere qualche esempio di desiderio di base (sub. § 3.2.).
Questo mostra, per inciso, che il carattere formale della logica arriva fino ad un certo
punto: e precisamente fino alle presupposizioni di base escluse. Si considerino le scritture Px o
Ix, dove la prima rappresenta un termine della logica dei predicati e la seconda l’analisi di stato
intenzionale e contenuto: ebbene, non possiamo avere qualsiasi cosa dentro x. Possiamo avere
qualsiasi cosa che non sia una presupposizione di base.
191
312
3.1. Pseudo desideri
3.1.1. Essere una brava persona
Se a uno scrittore domando cosa desideri?, lui potrà rispondermi
scrivere un bel romanzo! e questa risposta può anche sembrare naturale. Ma se
a una persona chiedo cosa desideri? e quella mi risponde essere buono! o essere
onesto! o fare il mio dovere! la sua risposta potrebbe sembrare un po’ ‘strana’.
Con ciò intendo che, di fronte a una simile risposta, capiremmo che quella
persona non ci ha espresso un desiderio come tutti gli altri (come se ad
esempio avesse detto desidero andare al tal concerto), ma qualcosa come un
suo ideale di vita. Questo è rivelatore perché mostra che abbiamo la netta
percezione che il precedente non sia un desiderio (come tutti gli altri).
Il fatto è che una persona buona e una cattiva saranno abitate, ciascuna,
da diverse popolazioni di desideri: ad esempio (1a) piuttosto che il suo
contrario. Una persona buona o cattiva potrà mettere a punto un piano per
realizzare quel desiderio e potrà provare la paura o la speranza di riuscirci o
meno. Ma cosa vuol dire: sperare di essere una persona buona o temere di non
esserlo? Ci si soffermi un istante su questa paura: se cerchiamo di concepirla, è
naturale attribuirle un carattere ‘abissale’ o ‘indeterminato’ rispetto a qualsiasi
altra paura determinata (ad esempio, quella di non riuscire a restituire il
portafoglio). Questo prova che la paura di essere persone cattive non è come le
altre. E ancora: quale piano si può mettere a punto per essere buone persone?
Se cerchiamo di concepire qualcosa del genere, ci rendiamo conto che il modo
migliore non è sedersi a un tavolo ed elucubrare un progetto, ma ‘dimenticare’
o ‘mettere in sottofondo’ il fine di essere persone buone e cominciare ad agire
coerentemente con quell’idea. In sintesi, avere paura di essere una cattiva
persona e desiderare essere una brava persona non sono desideri o paure
autentiche: essere una cattiva persona o essere una brava persona, quindi, non
possono essere contenuti di fini o volontà192.
3.1.2. Dipingere quadri belli
A chi desidera dipingere quadri belli, il consiglio migliore è di
‘dimenticare’ o ‘mettere in soffitta’ questo desiderio e cominciare a dipingere.
Ma per chiarire ulteriormente perché (1b) non è un desiderio possibile, si
considerino le osservazioni seguenti. In primo luogo, a (1b) si applicano le
medesime considerazioni sulla paura evocate per (1a). In altre parole: possiamo
dire chiaramente in cosa consista fallire nel costruire una buona automobile o
la trama di un giallo e quindi la paura di non riuscirci ha un senso; ma non
possiamo dire chiaramente in cosa consista scrivere un libro brutto e quindi
tale paura non ha davvero un senso. Questa differenza, naturalmente, deriva
dalla sostanziale impossibilità – nel secondo caso – di rispondere alla domanda
cosa è un quadro bello? In secondo luogo, un pittore che dipinge un quadro
bello non procede come un artigiano o un meccanico che cerca di costruire un
coltello tagliente, ma come un cane che fiuta la bellezza. L’iter di un artista
(cfr. Collingwood 1938, 1958: 15-36) non è avere un progetto in mente e
Del resto, tutti sappiamo che dobbiamo essere persone oneste o brave persone: e
proprio per questo gli enunciati desidero essere onesto o desidero essere una brava persona ci
sembrano strani. Questi non sono desideri che normalmente ci poniamo.
192
313
realizzare questo progetto, ma assomiglia piuttosto al seguente: dipinge uno
schizzo, lo guarda, vede se è bello, prova a modificarlo, lo riguarda, vede se è
più o meno bello, e così via. La bontà di uno strumento sta a monte rispetto
all’impresa dell’artigiano di costruirlo, ma la bellezza di un quadro, per
l’artista, sta a valle: è collocata all’orizzonte, è una stella polare. L’artista
procede come un marinaio o un segugio.
Il desiderio di costruire un’automobile che fa 100 km con un litro è un
desiderio sensato, ma il desiderio di dipingere un quadro bello o essere una
brava persona non lo è. Poiché il contenuto del desiderio di costruire
un’automobile che fa 100 km con un litro è chiaro e distinto, ne consegue che:
anche la relativa paura di fallire avrà un contenuto chiaro e distinto; il
problema come si fa a costruire una macchina che fa 100 km con un litro? può
essere difficile da risolvere ma è sensato. Invece, poiché il desiderio di
dipingere un quadro bello o essere una buona persona non ha un contenuto
chiaro e distinto: neanche la relativa paura ha un contenuto determinato; e il
problema come si fa a dipingere un quadro bello? o come si fa ad essere una
buona persona? non è sensato.
A questo punto, dovrebbe risultare più chiara la ragione per cui
sostenevo che gli enunciati (1) non esprimono autentici desideri e, nello stesso
tempo, la ragione per cui questa idea appare in prima istanza paradossale. Da
un lato, cercare di dipingere un quadro bello o di essere una brava persona non
sono desideri come gli altri, ma desideri di base: che costituisce la condizione di
coerenza dell’azione di dipingere (cioè dell’essere un artista) e del nostro
comportamento tout court (cioè dell’essere una persona). Se cerchiamo di
immaginare un pittore che non vuole dipingere quadri belli – quadri di valore
– accade semplicemente che la sua attività si svuota di senso: andare ad una sua
mostra, per esempio, ci sembrerebbe solo una perdita di tempo. Di
conseguenza, diventa del tutto naturale pensare che un pittore voglia o
desideri dipingere quadri belli. Ma questo desiderio è appunto la proiezione del
fatto che dipingere quadri belli è la condizione di coerenza dell’azione di
dipingere: e quindi che sia effettivamente un desiderio o un fine come gli altri è
un’illusione, per quanto funzionale e motivata.
3.1.3. Desideri e imperativi
La stessa cosa, naturalmente, avviene per essere una buona persona, ma
per illustrare meglio questo punto, occorre osservare i rapporti tra (1) e (2) con
i relativi enunciati imperativi.
Le idee che possono essere contenuti di desideri, come gli enunciati (2),
possono anche essere contenuti di imperativi ipotetici:
(3)
a. Se vuoi restituire il portafoglio al tuo amico, devi …andare a Parigi.
b. Se vuoi dipingere un quadro cubista, devi …fare così e così.
La protasi di (3) è sensata: di conseguenza, ci può essere un modello cognitivo
che suggerisce un’apodosi.
Le idee che non possono essere contenuti di desiderio, come gli
enunciati (1), non possono essere contenuti di imperativi ipotetici:
(4)
a. Se vuoi essere una persona buona devi…
b. Se vuoi dipingere un quadro bello devi…
Ø
Ø
314
La protasi di (4) è insensata e di conseguenza non c’è un modello cognitivo in
grado di suggerire un’apodosi. Si noti che in (4) – se proprio dovessimo trovare
delle possibili apodosi – risulterebbe naturale procedere ex negativo (come in
certe definizioni di Dio): ad esempio, dire se vuoi dipingere un quadro bello
non devi fare questo e quest’altro; al contrario, in (3), sarebbe naturale
procedere ex positivo: di fronte alla domanda come costruire una macchina che
fa 100 km con un litro?, cioè, sarebbe bizzarro cominciare ad elencare le cose
che non si devono fare.
Se dovessimo tradurre (2) in enunciati imperativi, sarebbe spontaneo
usare non degli imperativi ipotetici, ma categorici:
(5)
a. Devi essere una brava persona!
b. Devi dipingere un quadro bello!
Se un contenuto che non può entrare come oggetto di un desiderio (ad es.
essere una brava persona) viene calato in un imperativo, origina un imperativo
categorico (per la discussione della nozione di dovere in (5) rimando al capitolo
13. § 3.1).
3.2. Esempi di desideri di base
Alle osservazioni sui desideri di base potrebbero essere legate le
seguenti. Si consideri:
(6)
(7)
a. *Desidero / Voglio vivere.
b. *Come si fa a vivere?
a. Desidero / Voglio fare un viaggio in Islanda.
b. Come si fa ad andare in Islanda?
Intuitivamente, (7a) esprime un desiderio sensato ma non (6a): fare un viaggio
in Islanda, cioè, può essere il contenuto di un desiderio (e di un fine o
progetto), ma vivere non può essere il contento di un desiderio (né di un fine o
progetto). Una conferma proviene da un’apparente obiezione.
Certo, se sono malato o in grave pericolo posso dire cose come:
Desidero vivere o Spero di vivere o Ho paura di morire193. Tuttavia, quando
formuliamo simili desideri o paure abbiamo la netta sensazione che tutti gli
altri vengano polverizzati: è in questo senso che si dice che la salute è la cosa
più importante o che quando manca la salute ci si rende conto di come tutto il
resto sia effimero. E’ proprio questo il punto: che – normalmente – non si
pensa alla salute o a vivere, e che quando invece la salute viene meno o la
possibilità di morire diventa reale, tutto il resto crolla. Questo prova che
facciamo affidamento sulla salute e sulla vita come sulla terra sulla quale
camminiamo: essa costituisce il suolo sul quale desideriamo e costruiamo le
nostre vite. Tutte le paure o le speranze che normalmente proviamo
presuppongono questo suolo; la paura di morire nasce precisamente quando
viene meno quel suolo. La paura di morire dunque non è una paura come le
altre: queste poggiano su un suolo di presupposizioni di base, quella è il
sentimento che si prova quando tale suolo viene meno. La salute – la vita –
non è un oggetto di desiderio, ma è il presupposto sul quale poggiano i nostri
193
Si considerino anche le espressioni se vuoi vivere, se vuoi morire… fai così…
315
desideri e i nostri fini: qualcosa che diamo per scontato.
L’ambito della vita, tra l’altro, è utile perché illustra la differenza tra
presupposizione e credenza: infatti, questo è un caso in cui le nostre credenze
sono contrarie rispetto alle nostre presupposizioni. Interrogati, tutti
affermeremmo di credere di dover morire: e questa credenza è senza dubbio
giustificata. Tuttavia, nessuno si comporta coerentemente con essa. Infatti,
nonostante siamo tutti destinati a morire per noi ha senso curarci: ma – se
fossimo coerenti con le nostre credenze – la morte dovrebbe essere un buon
motivo per ritenere inutile curarsi. Se al funerale di mia madre rido felice, non
posso giustificarmi dicendo che aveva cento anni; e se un mio amico perde un
suo caro, non posso consolarlo dicendogli che tutti gli uomini sono mortali:
ancora una volta, questo non è coerente con il fatto che dobbiamo morire ma
che non dobbiamo morire. Che dobbiamo morire non è un fatto per noi, al
contrario noi facciamo affidamento sull’idea di vivere per sempre e ci
comportiamo coerentemente con questa idea. Vivere, insomma, è qualcosa che
non dovremmo mai trovarci in condizioni da desiderare194.
Alla luce delle osservazioni precedenti, si consideri il celebre passo di
Shakespeare:
who would bear the whips and scorns of time,
The oppressor's wrong, the proud man's contumely,
The pangs of despised love, the law's delay,
The insolence of office and the spurns
That patient merit of the unworthy takes,
When he himself might his quietus make
With a bare bodkin?
E la sua risposta:
who would fardels bear,
To grunt and sweat under a weary life,
But that the dread of something after death,
The undiscover'd country from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?
La domanda e la risposta pronunciate da Amleto potrebbero essere
parafrasate molto goffamente come segue:
(8)
a. Perché continui a vivere nonostante tutte le ingiustizie e le avversità?
b. Perché non eviti tutte le ingiustizie e le avversità suicidandoti?
c. Continuo a vivere perché l’insicurezza di ciò che troverò dopo la
morte mi frena dal suicidarmi.
Se non avessimo appena letto il passo di Shakespeare con tutto il suo pathos,
uno scambio dialogico come (8) si apparirebbe ridicolo e surreale. Questa
sensazione è sprigionata da una frattura a livello delle nostre presupposizioni
di base. Il punto essenziale per il nostro discorso è che domande come (8a-b),
semplicemente, non si pongono. Porle significa fare come se ci fosse un
Mi chiedo se in questo modo non possiamo delimitare bisogni o diritti di base: cioè
quell’insieme di cose che non dovremmo mai essere in condizioni di desiderare.
194
316
paradigma di mezzi per risolvere un problema laddove invece non c’è alcun
paradigma di mezzi possibili perché non c’è alcun problema da risolvere; e non
c’è alcun problema da risolvere perché il punto in questione è il presupposto
che circoscrive lo spazio stesso dei problemi da risolvere. La domanda (8a),
normalmente, non sorge perché noi non facciamo affidamento su togliersi la
vita come su un mezzo possibile – quindi né buono, né cattivo – per superare le
angustie che ci possono capitare: di fronte a un’avversità, possiamo pensare a
un’infinità di strategie per uscirne ma non a quella. Prenderla in
considerazione è come pensare di risolvere un problema matematico
stracciando il foglio sul quale è scritto195; con ciò non intendo che una simile
possibilità sia esclusa tout court, ma intendo dire che chi la considera – chi la
rende appunto una possibilità – si trova in uno stato molto particolare: in
quello di una persona alla quale determinate vicende hanno scosso i pilastri
della nostra forma di vita196 (questo è il caso, ad esempio, di Amleto).
Il presupposto alla base di (8a) – e quindi della risposta (8c) – è che ci
sono motivi che ci spingono a vivere o a restare in vita. L’idea di (8c) è che il
motivo per cui restiamo in vita – non ci suicidiamo di fronte alle avversità – è
la paura suscitata dall’incertezza per ciò che troveremo dopo la morte. Non è
difficile immaginare, a posteriori, un modello della risposta precedente: una
persona perseguitata in patria che è frenata dall’emigrare a causa
dell’incertezza relativa alla sorte che troverà. Questo modello produce
domande analoghe a (8):
(9)
a. Perché resti nonostante la persecuzione?
b. Perché non eviti la persecuzione emigrando?
c. Resto perché l’insicurezza della sorte che troverò altrove mi frena.
Porre le domande (8a-b) vuol dire fare come se fossero equivalenti a (9a-b):
cioè come se potesse esistere un motivo per vivere così come può esserci per
restare in un paese. La risposta (8c) può essere pensata come un trasferimento
analogico di (9c) dall’ambito concettuale del restare in un luogo all’ambito
concettuale della vita e della morte. E la condizione alla quale può avvenire
questo trasferimento analogico è appunto che vi sia un motivo per vivere. Ma
non c’è alcun motivo per vivere: si vive e questa è una presupposizione di base.
Non è che la vita sia immotivata è che è collocata fuori dall’ambito della
motivazione: il problema della motivazione – perché vivi? – cioè non si pone, e
tutte le risposte che diamo ad una simile domanda non potranno che essere
metaforiche.
Il fatto che tra (8) e (9) sussista un rapporto di analogia – e dunque che
in (8) non si ponga il problema della motivazione che invece si pone in (9) – è
mostrato dalla semplice osservazione che nello scambio dialogico di (9) non c’è
alcun carattere ridicolo o surreale: nulla rivela una frattura nelle
presupposizioni di base. In (9) problema di emigrare è un problema che può
essere davvero posto e discusso: e quindi può avere motivi che frenano o
spingono ad una soluzione o a un’altra. Ma discutere del suicidio per uscire
dalle difficoltà o discutere se rimanere o no in vita non sono problemi che
normalmente sorgono: se non, come abbiamo visto, per una persona sconvolta.
Ma se questo è vero, possiamo anche capire perché la risposta che Shakespeare
mette in bocca ad Amleto sia così suggestiva – o se preferiamo bella – perché
O risolvere il problema dell’aids predicando la castità; o risolvere il problema dei
divorzi eliminando il matrimonio.
196
Una disgrazia – in questo senso – è il contrario di un miracolo.
195
317
in ultima analisi riposa su una metafora. Asserire che restiamo in vita perché
siamo dei codardi è suggestivo per la stessa ragione per cui, mutatis mutandis
è suggestivo asserire che il sole sorride: nel primo caso si viola il presupposto
che il vivere si collochi fuori dall’ambito concettuale della motivazione, nel
secondo caso si viola il presupposto che il sole non sia una persona. Il fatto che
gli enunciati restiamo in vita perché siamo dei codardi e il sole sorride possano
sembrare suggestivi prova che facciamo affidamento sull’idee che la vita sia
immotivata e che il sole non sia una persona; il fatto che gli enunciati resto in
Italia perché sono un codardo e Paolo sorride non siano suggestivi prova che
facciamo affidamento sull’idea che abitare in uno stato piuttosto che in un altro
possa essere motivato e che Paolo sia una persona.
Se la vita non può essere contenuto di un desiderio autentico e se non
può avere motivazioni, è ragionevole aspettarsi che non possa neppure essere
contenuto di piacere. a questo proposito, si considerino gli enunciati seguenti:
(10)
a. A mio nonno piaceva vivere.
b. Sei felice di vivere?
Intuitivamente, in (10) non interpreteremmo vivere nel senso del mero
funzionamento biologico ma come un insieme di azioni che si fanno da vivi (ad
es. mangiare, viaggiare, ecc.). La ragione di questo spostamento metonimico è
appunto che la vita sia un presupposto su cui facciamo affidamento: il nostro
sguardo è per così dire rivolto su ciò che poggia su questo presupposto e non
sul presupposto stesso.
318
CONCLUSIONE
319
CAPITOLO 15
Il progetto di un iperdizionario
320
Indice del capitolo
1. La tesi in compendio
2. Il mio desiderio
3. Un dizionario filosofico
3.1. A nord del Dizionario
3.2. Le caratteristiche di un iper-dizionario
3.2.1. Lo stile trascendentale
3.2.2. Le parti di un iper-dizionario
3.2.3. Il metodo delle definizioni
3.3. L’utilità di un iper-dizionario
322
324
326
326
327
327
328
329
330
321
1. La tesi in compendio
Al capitolo 1 sub. § 1.1., è stata proposta un’idea «strutturale» o
«funzionale» di presupposizione. Secondo questa idea, la presupposizione è la
funzione di condizione di coerenza svolta da uno stato di cose nei confronti di
una pratica. Si immagini, ad esempio, che un nostro amico abbia smesso di
fumare: la circostanza che egli fosse un fumatore funziona come condizione di
coerenza di quel fatto e del fatto che, se non avesse smesso di fumare, avrebbe
continuato a farlo. Questa definizione ha due caratteristiche cruciali. In primo
luogo, delinea una relazione pragmatica nel senso di extra-linguistica (cfr.
capitolo 1, § 3.2.1.): i due elementi in relazione, cioè, sono stati di cose o uno
stato di cose e una pratica197. In secondo luogo, tra questo stato di cose e
questa pratica – tra il presupposto e ciò che si fonda sul presupposto – c’è un
rapporto direttamente proporzionale, come tra l’apertura di un rubinetto e il
flusso d’acqua che ne fuoriesce (cfr. capitolo 1, § 1.1.). Quanto più è ampia e
generale la pratica in questione, tanto più è ampio e generale (o «sistematico»,
cfr. capitolo 1, § 3.2.1) ciò che funziona come presupposto nei suoi confronti.
Per ottenere questa tesi, è sufficiente ruotare la manopola del rubinetto in un
senso o nell’altro: se la stringiamo – se consideriamo pratiche dalla durata
limitata come un atto di domanda, di promessa o di vendita – otteniamo le
presupposizioni contingenti (considerate alla Parte II); se la allarghiamo – se
consideriamo pratiche che si estendono a tutta la nostra vita – otteniamo le
presupposizioni di base (considerate alla Parte III e IV).
Sopra, per illustrare il funzionamento della nozione strutturale di
presupposizione, ho considerato la pratica di smettere di fumare. Ma avrei
potuto considerarne un’altra, ad esempio: affermare che un nostro amico abbia
smesso di fumare. In questo caso, ovviamente, ciò a cui ci saremmo trovati di
fronte sarebbe stato affermare qualcosa e non smettere di fumare: di
conseguenza, il fatto che il nostro amico fosse un fumatore non sarebbe più
stato una presupposizione per la semplice ragione che non sarebbe più stata in
gioco la pratica per la quale funzionava da presupposizione. Sostenere che il
fatto che il nostro amico fumasse sia una presupposizione dell’azione di
affermare che abbia smesso di fumare è come sostenere che sia una
presupposizione dell’azione di andare comprare un gelato. La pratica di
affermare qualcosa è una pratica discorsiva e, in quanto tale, ha condizioni di
coerenza sue proprie esattamente come qualsiasi altra. Tuttavia, la pratica del
discorso si differenzia dalle altre perché è formale: l’azione di smettere di
fumare ha un contenuto concettuale e di conseguenza la sua coerenza è una
coerenza concettuale; l’azione di fare un discorso, in quanto tale, è vuota e non
ha un contenuto concettuale suo proprio: di conseguenza, la sua coerenza è la
Intuitivamente, quello che intendo dovrebbe essere afferrabile. Tuttavia, l’impiego
dell’espressione «stato di cose» necessita di qualche precisazione perché è usata qui in modo
astratto. Anzitutto, parlo di «stato di cose» facendo astrazione dall’opposizione con
«processo»: scavalcando l’usuale contrapposizione tra staticità e dinamicità, dunque, «stato di
cose» e «processo» sono qui sinonimi e valgono un «fatto» nel senso della proposizione I.I del
Tractatus logico-philosophicus (Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose). In secondo
luogo, parlo di «stato di cose» astraendo dalla differenza tra avvenimenti e pratiche (cioè
azioni compiute da persone libere e responsabili): i casi di presupposizione che ci interessano
riguardano fatti che, in particolare, sono pratiche. In terzo luogo, parlo di «stato di cose»
facendo astrazione anche dalla questione – fondamentale – che le presupposizioni di base, a
rigore, non sono fatti del mondo. In sintesi, uso l’espressione «stato di cose» semplicemente
per indicare qualcosa in carne ed ossa, in opposizione a ciò che invece è il contenuto di una
rappresentazione linguistica.
197
322
coerenza tematica dei contenuti che la riempiono. Ma i contenuti che la
riempiono riflettono pratiche extralinguistiche dotate di coerenza concettuale
(cfr. capitolo 4, § 3). Se questo è vero ne derivano tre conseguenze.
In primo luogo, ciò che al capitolo 2, sub. § 2.2., ho chiamato «modello
dello specchio»: l’idea che nelle restrizioni di selezione si rispecchino le
condizioni di coerenza – le presupposizioni – dei processi ideati. In secondo
luogo, e conseguentemente, ciò che al capitolo 2 sub. § 2.3.3. ho etichettato
«paradosso dello specchio»: l’idea che le condizioni di coerenza delle pratiche
ideate – pur essendo in se stesse molto più stabili di quelle della pratica del
discorso – risultino sottomesse alle condizioni di coerenza di quest’ultima.
Questa conseguenza è particolarmente importante perché fa degli enunciati il
laboratorio e il modello in cui violare – e quindi rilevare – le presupposizioni di
base. In terzo luogo, da tutto questo deriva che la coerenza testuale, nel suo
complesso, sia un fenomeno non omogeneo ma eterogeneo: cioè, come
argomentato al capitolo 4 sub. § 3, stratificata.
Se la coerenza testuale è stratificata, possiamo pensare ad essa come a
un mare. Sulla superficie – come le onde o le increspature dell’acqua –
troviamo le presupposizioni della pratica del discorso in quanto tale: cioè
sostanzialmente i mezzi informativi deputati alla funzione testuale. Più in
profondità, nuotano gli attivatori: cioè i riflessi, nella lingua, delle condizioni di
coerenza di pratiche extralinguistiche contingenti. Sul fondale, troviamo
invece le barriere coralline delle restrizioni di selezione: cioè i riflessi, nella
lingua, delle condizioni di coerenza della nostra forma di vita. Gli esploratori
di questo mare potranno compiere due ordini di ricerche.
Da un lato, potranno essere interessati al ruolo linguistico svolto dalle
presupposizioni: in questo caso i criteri di selezione saranno tagliati fuori.
Questi esploratori scenderanno fino agli attivatori per risalire poi verso la
superficie: fuor di metafora, si tratta di descrivere e delimitare il contributo
degli attivatori alla funzione testuale. E’ quanto si è tentato di fare nella Parte
II di questa tesi, e in particolare al capitolo 5. A questo proposito, ci sono due
punti che è utile richiamare. Anzitutto, occorre sempre tenere presente che le
presupposizioni attivate dai cosiddetti «attivatori» non sono davvero
presupposizioni, ma riflessi nella lingua di presupposizioni di pratiche
extralinguistiche. Come scrive R. G. Collingwood:
There is no verbal impossibility in the way of asking a man whom you suppose to be
an indulgent husband whether he has stopped beating his wife. But there is a logical
impossibility; for that question arises from the presupposition that he has been in the
habit of beating her. If he is not supposed to have been in that habit, the question
whether he has stopped ‘does not arise’ (Collingwood 1940, 1998: 25-26)
Smettere di picchiare la propria moglie ha come condizione di coerenza il fatto
di avere una moglie e il fatto di avere l’abitudine di picchiarla. Nel momento in
cui costruisco quel processo come contenuto di un enunciato è chiaro che
idealmente le condizioni di coerenza restano invariate; tuttavia, è altrettanto
chiaro che vengono anch’esse ‘incorporate’ nella lingua. Di conseguenza, non
sarà più una questione di verità o realtà del presupposto, ma del fatto che esso
sia dato o accessibile nell’universo del discorso (cfr. capitolo 5, § 3.3.). In
secondo luogo (ed è l’altro punto sul quale cui vorrei attirare l’attenzione)
occorre rilevare come i presupposti degli attivatori si collochino comunque ad
un certo grado di profondità: questo significa che sono subordinati alle
condizioni di coerenza della pratica discorsiva in quanto tale (cioè a
presupposizioni più ‘superficiali’, secondo la nostra metafora), come
323
l’individuazione di un referente.
Ma gli esploratori del mare della coerenza testuale, dall’altro lato,
potranno essere interessati alla scoperta delle presupposizioni di base: in
questo caso, punteranno dritto verso il fondale, e le restrizioni di selezione
rivestiranno un ruolo centrale. A questo genere di esplorazione sono dedicate
le Parti III e IV della tesi, di cui riassumerò i risultati al capitolo seguente.
Per ora, il punto essenziale è che, qualunque sia l’interesse
dell’esplorazione, ci si immerge sempre nello stesso mare: la coerenza testuale.
2. Il mio desiderio
Ecco qualche enunciato che invita a giustificare una presupposizione di
base: Perché Maria è una persona? Perché una quercia non è una persona?
Quale è il piatto preferito di Batman? Perché vuoi bene a tua madre? Perché
uccidere è male?
Per strada, al di fuori della solita aula di filosofia, la reazione spontanea
di fronte a enunciati del genere è di rifiuto. Questo rifiuto può manifestarsi
come una sensazione di assurdità o di stizza. Questa stizza deriva da uno
scetticismo in base al quale, per tali questioni, sembra valere l’arbitrio più
assoluto: e quindi porle pare semplicemente inutile. Come scrive R. G.
Collingwood (sottolineatura mia):
[…] When an absolute presupposition is touched, the invitation [a giustificarla] will
be rejected even with a certain degree of violence (Collingwood 1940, 1999: 44)
Ma il rifiuto summenzionato non si manifesterebbe soltanto per strada, bensì
anche in un’aula di linguistica. Qui le domande precedenti verrebbero bollate
come «filosofiche» nel senso più spregiativo, e le impressioni di assurdità o
inutilità si tradurrebbero nell’idea che – a fortiori – quegli enunciati non sono
cose serie da studiare. Le cose serie che si studiano in un’aula di linguistica
sono le condizioni di coerenza della domanda Il re di Francia è calvo? o Jack ha
smesso di picchiare sua moglie? O le condizioni di coerenza dell’impiego di
ormai o viceversa o invece…
Scrive ancora R. G. Collingwood:
In unscientific thinking our thoughts are coagulated into knots and tangles; we fish
up a thought out of our minds like an anchor foul of its own cable, hanging upsidedown and draped in a seaweed with shellfish sticking to it, and dump the whole thing
on a deck quite pleased with ourselves for having got it up at all. Thinking
scientifically means disentangling all this mess, and reducing a knot of thoughts in
which everything sticks together anyhow to a system or series of thoughts in which
thinking then thoughts is at one an the same time thinking connexions between them.
Logicians have paid a great deal of attention to some kinds of connection between
thoughts, but to other kinds not so much. The theory of presupposition they have
tended to neglect […] (Collingwood 1940, 1998: 22-23)
Nell’ultima citazione potremmo sostituire logicians con linguists. In effetti, per
quanto riguarda la presupposizione, paradossalmente, i linguisti hanno posto
grande attenzione ad alcuni tipi di enunciati e non ad altri: ma sono proprio
questi ultimi che individuano i casi prototipici del fenomeno. In linguistica, è
usuale far mostra di sapienza epistemologica rifiutando di occuparsi degli
enunciati che esprimono presupposizioni di base: ma in questo modo si esercita
324
nei loro confronti non l’atteggiamento scientifico bensì il tipico atteggiamento
naturale che consiste nel farvi affidamento senza metterli in discussione (e
questo è naturalmente una prova ulteriore del loro carattere di ‘fondo’).
In questo panorama, il mio desiderio è assistere a uno studio delle
condizioni di coerenza degli enunciati che esprimono presupposizioni di base
condotto con lo stesso acume con cui i linguisti studiano cose come ormai o
viceversa o i classici attivatori di presupposizioni. Ed è a questo desiderio che
la Parte III di questa tesi risponde.
In primo luogo, la nozione di predicazione indiretta (capitolo 9, § 1.1.)
getta un ponte tra le regole dell’ontologia naturale e le condizioni di coerenza
degli enunciati: in questo modo, giustifica la possibilità di studiare le prime
usando i secondi come modello. In secondo luogo, le nozioni di «schema
predicativo» e «classe di oggetti» (capitolo 10, § 1) consentono di approntare,
in concreto, gli strumenti per esplorare le presupposizioni di base e di definire
(cfr. capitolo 10, § 2) l’intimo rapporto tra linguistica (lessicologia generativa)
e filosofia («metafisica descrittiva» con i termini di P. F. Strawson). Il risultato,
come rilevato al capitolo 10 sub. § 2.3., è che intraprendere uno studio di
semantica lessicale generativa e uno studio di metafisica descrittiva significa
semplicemente percorrere la stessa strada in direzioni opposte. Insomma: è la
stessa impresa perseguita da punti di vista complementari. Se questo è vero,
posso riformulare il mio desiderio in due modi: dalla parte di ipotetici lettorilinguisti e dalla parte di ipotetici lettori-filosofi.
Nel primo caso, i 14 capitoli precedenti possono essere visti come il
tentativo di prendere per mano un linguista e condurlo ad essere un filosofo:
mostrandogli che ciò ha sempre fatto per mestiere non è diverso da un’impresa
filosofica e che quest’ultima è la naturale prosecuzione del suo lavoro.
Per quanto riguarda il secondo caso, è necessaria una breve premessa:
P. F. Strawson (Strawson 1992) sostituisce l’immagine della filosofia-cometerapia di L. Wittgenstein e quella della filosofia-come-mappa di G. Ryle con la
sua immagine della filosofia-come-grammatica. A fronte di questa premessa, io
vorrei prendere sul serio la proposta di P. F. Strawson e sostenere che una
parte saliente della sua ‘grammatica’ è la lessicologia generativa: in questo
senso, l’idea della filosofia-come-grammatica si specificherebbe nell’idea di una
lessicologia filosofica (cfr. capitolo 10, § 2.3). Per illustrare quello che intendo,
si legga il seguente passo di L. Wittgenstein:
Chi non ha presente la molteplicità dei giuochi linguistici, tenderà forse a porsi
domande come questa: «che cos’è una domanda?» – è la constatazione che non so una
certa cosa così e così, o è la constatazione che desidero che l’altro mi dica…? O è la
descrizione del mio stato d’animo di incertezza? […]
Pensa a quante cose disparate vengano chiamate «descrizione» : Descrizione della
posizione di un corpo mediante le sue coordinate; descrizione dell’espressione di un
volto; descrizione di una sensazione tattile; di un rumore (Wittgenstein 1953, 1999:
22).
A me pare che, interpretando la nozione di «uso» di L. Wittgenstein nel senso
rigoroso messo a punto da G. Gross (cfr. capitolo 10, § 1.2.), il passo
precedente guadagni in chiarezza. Si immagini infatti di sostituire le parole
domanda e descrizione con il lessema ala e le varie illustrazioni di cosa siano
una domanda o una descrizione con le varie accezioni individuabili per quel
lessema (cfr. capitolo 10 § 1.1.). Il risultato è che il passo citato coincide
perfettamente con l’idea di «schema predicativo» proposta da G. Gross: questa
nozione, allora, costituirà la nostra interpretazione dell’idea di «gioco
325
linguistico». Ma tale interpretazione ha un riflesso sul modo di intendere il
compito della filosofia.
Infatti, sia nel Tractatus logico-philosophicus, sia nelle Ricerche
filosofiche, il ruolo della filosofia è negativo: terapeutico, appunto. La
differenza riguarda il metodo della cura, legato a una diversa concezione della
proposizione e del significato. Quanto alle Ricerche filosofiche – che risultano
più pertinenti per il nostro discorso – la patologia si sviluppa quando una
parola è usata in un gioco linguistico attribuendole surrettiziamente il
significato che assume all’interno di un altro gioco linguistico. Il compito del
filosofo-medico consiste quindi nel districare i fili del garbuglio e nel riportare
gli usi delle parole nel recinto dei propri giochi linguistici: come pecore nei
propri ovili. Sennonché, in una prospettiva linguistica, questa è una posizione
eccessivamente normativa: perché sarebbe come rifiutare l’uso di liquido in
espressioni quali il denaro è liquido. In una prospettiva linguistica – e
specialmente nell’ottica di una semantica lessicale à la G. Gross o di uno studio
dei tropi à la M. Prandi – il punto non è raddrizzare l’impiego dei lessemi, ma
descrivere le linee di forza lungo le quali può essere piegato il loro significato
usandolo in giochi linguistici diversi (cfr. capitolo 9, § 3.1.). Tra queste linee di
forza vi sono le presupposizioni di base, ovvero le regole dell’ontologia
naturale. Si presenta dunque per la filosofia – cioè per la descrizione di quelle
condizioni di coerenza – l’occasione di svolgere una funzione positiva: ovvero,
portare alla luce le presupposizioni che sottendono i vari usi delle parole
osservando come questi ultimi vengano piegati in giochi linguistici diversi.
In sintesi, il mio desiderio per un ipotetico lettore-filosofo è questo:
persuaderlo che la linguistica (in primo luogo una semantica lessicale di
stampo generativo) possa costituire per la filosofia ciò che la matematica è per
la fisica (cfr. § capitolo 9, § 3.0.). E cioè presentare la possibilità di realizzare
quella svolta linguistica che, più che essere fallita (Rorty 1967, 1992), non è
mai davvero cominciata.
3. Un dizionario filosofico
3.1. A nord del Dizionario
L’idea di questa tesi può essere riformulata topograficamente. C’è un
territorio che si estende a sud di quello del Dizionario: è il continente
dell’Enciclopedia. L’Enciclopedia, cioè, presuppone il Dizionario nel senso che
fa affidamento su, e quindi tace, le informazioni fornite da quest’ultimo. Come
scrive M. Prandi (sottolineature mie):
The difference between a lexical definition and an encyclopedic definition is not
simply a matter of quantity of information […] but of relevance. […] An
encyclopedic description ideally contains what people are assumed not to know and
would like to know about objects denoted by words, and takes for granted what can
be assumed as shared by everybody. An encyclopedic description of a car, for instance,
is not expected to explain at length its socially assumed function, whereas one would
be surprised not to find in it a considerable amount of technical, and historical data,
and an accurate description of many types and famous models of cars. All this forms a
considerable amount of empirical data about cars, likely to enrich one’s empirical
knowledge. The definition of a concept [la definizione lessicale di un dizionario], on
the other hand, tries to makes explicit the tacit assumptions that are ideally shared by
everybody, that is, everything everybody takes for granted and relies upon when
326
using a word. As the nature of these tacit assumptions is not empirical, their
explication does not expand our body of positive knowledge. (Prandi 2004: 196-197).
Ma c’è un territorio anche a nord del Dizionario: esistono cioè idee che i
dizionari presuppongono nello stesso senso in cui le Enciclopedie
presuppongono i dizionari. Queste idee sono le grandi categorie ontologiche: le
presupposizioni di base. Come rilevato al capitolo 10, sub. § 2.2.1., nella
definizione di un lessema quale sedia entra ad esempio mobilio (cioè la classe di
oggetti a cui appartiene) ma non concreto (cioè la sua iperclasse). Questo
significa che il territorio del dizionario giunge fino alle classi di oggetti,
mentre le iperclassi si collocano al di là dei suoi confini nord così come le
informazioni enciclopediche si collocano al di là dei suoi confini sud.
La costruzione dell’Enciclopedia è compito delle scienze; la
ricostruzione di quest’altro dizionario è il compito di ciò che P. F. Strawson
chiama «metafisica descrittiva», che R. G. Collingwood chiama «The analysis
which detects absolute presuppositions […] (Collingwood 1940, 1998: 40)» e
che qui si è chiamato «lessicologia filosofica». L’esito più naturale di questa
tesi, dunque, è la proposta di un progetto di lessicologia filosofica.
Precisamente, la costruzione di un dizionario delle presupposizioni di base o
delle iperclassi (cfr. capitolo 10, § 2.2.1): un «iper-dizionario» o «dizionario
filosofico».
I prossimi paragrafi fisseranno alcuni punti che andranno tenuti in
considerazione nell’intraprendere un simile progetto.
3.2. Le caratteristiche di un iper-dizionario
3.2.1. Lo stile trascendentale
Chi redige un dizionario classico insegue i significati come un
cacciatore di taglie insegue dei fuggiaschi: da un lato, tiene in mano il bando
col nome del lessema ricercato; dall’altro lato, gli dà la caccia tra gli usi della
gente. Chi redige un dizionario filosofico, invece, non conosce a priori i nomi
delle sue entrate, ma li deve ricostruire a posteriori. In primo luogo, deve
portare alla luce le condizioni di coerenza di una serie di comportamenti o
emozioni (valutandone, come si è visto, il riflesso negli enunciati); quindi, può
raccogliere queste condizioni di coerenza in ‘nodi’; questi nodi costituiranno le
entrate del suo dizionario. Prendiamo l’esempio dei vegetali. Il primo passo è
osservare come ci sia una serie di entità che è sensato potare, veder fiorire o
veder morire nello stesso senso, ma non è sensato ferire o vederne il cadavere;
il secondo passo è etichettare «vegetale» l’insieme delle condizioni di coerenza
di questi comportamenti.
A questo punto, sorge la domanda esemplificata al capitolo 10, sub. §
3.1.1.: a te sembra di non fare esperienza della sofferenza dei vegetali, ma sei
sicuro che non soffrano? Oppure: sei proprio sicuro che sia sensata la
distinzione tra vegetali e persone? E se anche quelli che tu chiamo «vegetali»
fossero in grado di provare sensazioni e avere desideri? Lo scetticismo di
questo tipo di domande è rivelatore perché consente di evidenziare – per
contrasto – lo stile di analisi di un dizionario filosofico. Per chiarire quello che
intendo, si legga il seguente passo tratto dalla prefazione alla seconda edizione
della Critica della ragion pura:
Sinora si è ammesso che ogni nostra conoscenza dovesse regolarsi sugli oggetti; ma
327
tutti i tentativi di stabilire intorno ad essi qualche cosa a priori, per mezzo dei
concetti, coi quali si sarebbe potuto allargare la nostra conoscenza, assumendo un tal
presupposto, non riuscirono a nulla. Si faccia, dunque, finalmente la prova di vedere se
saremo più fortunati nei problemi della metafisica, facendo l’ipotesi che gli oggetti
debbano regolarsi secondo la nostra conoscenza […] (Kant 1787, 1996: 17)
Porre il problema se sia proprio vero che una pianta non provi
sofferenza significa dubitare della giustezza delle nostre esperienze: cioè
dubitare della sensatezza di atteggiamenti naturali come il fatto di non sentirsi
colpevoli per aver potato una siepe o per non riconoscere un cadavere vedendo
un albero abbattuto. Porre questo dubbio significa chiedersi se, effettivamente,
la nostra idea di vegetale combaci con ciò che gli oggetti (che noi consideriamo
vegetali) sono in sé. Ma fare questo significa ammettere che l’idea di vegetale si
debba adattare agli oggetti: ovvero, ciò che I. Kant intende con l’espressione
«ammettere che la conoscenza debba regolarsi su oggetti». Lo studio delle
presupposizioni di base procede esattamente nel modo contrario.
Chi redige un iper-dizionario (o dizionario filosofico) deve considerare
le nostre esperienze – ad esempio gli atteggiamenti naturali che avremmo di
fronte ai vegetali (riflessi nelle condizioni di coerenza degli enunciati) – dati
originari: fuori discussione; e quindi ricostruirne le condizioni di coerenza. In
questo modo, egli esclude – a priori – lo scetticismo manifestato nelle domande
summenzionate. Ma questo significa precisamente rifiutare l’assunto che l’ha
generato e ammettere invece il suo contrario: cioè, con l’espressione di I. Kant,
«ammettere che gli oggetti debbano regolarsi secondo la nostra conoscenza».
In altre parole, chi redige un iper-dizionario assume che il suo oggetto di
studio siano non categorie che devono adattarsi all’esperienza ma condizioni di
possibilità dell’esperienza stessa: che è la definizione di «presupposizioni di
base». In questo senso, chi redige un dizionario di iperclassi deve avere uno
stile di ricerca «trascendentale».
3.2.2. Le parti di un iper-dizionario
Intuitivamente, un iper-dizionario si articolerà in sezioni che
rispecchiano i tipi di presupposizioni di base individuati alla Parte IV di questa
tesi. Avremo quindi: i) presupposizioni di base combinatorie: distinzioni tra
cose, vegetali, animali, persone, ecc.; ii) presupposizioni di base atomiche: atomi
percettivi (di primo e secondo livello: colori, sapori vs. piacere o dolore) e
atomi assiologici (ad es.: buono, bello o giusto); iii) presupposizioni
dell’ontologia puntuale: differenze tra personaggi fittizi e reali, o tra persone
vive e morte, o tra persone esistenti e future, o tra persone appartenenti alla
nostra comunità o non.
Ora, queste partizioni non possono che apparire abbozzate: dovranno
essere rifinite, forse riformulate e certamente sotto-specificate nel corso della
ricerca. Tuttavia, questa inesattezza è tutt’altro che un limite; al contrario,
suggerisce che l’impresa delineata è un’impresa conoscitiva possibile. Ci
troviamo insomma nella situazione di chi, su una nave, ha appena avvistato il
profilo di un continente: un continente reale, perciò imprevedibile e tutto da
esplorare. Ed è chiaro che se, dall’albero vedetta, cominciamo a disegnarne la
forma, non potremo che farlo in maniera approssimativa e orientativa.
328
3.2.3. Il metodo delle definizioni
A ben guardare, il metodo delle definizioni di un iper-dizionario è stato
l’argomento dei capitoli 9, 10, 12 e 13 di questa tesi; mentre la loro
esemplificazione ha costituito l’argomento dei capitoli 11 e 14. Tuttavia, non
sarà inutile tornarvi ora, in sede di conclusione.
Consideriamo ad esempio l’ontologia naturale relazionale. Le
definizioni saranno costruite ponendosi domande come: cosa è sensato fare con
un vegetale? Cosa con una persona o un animale? Oppure: quali sentimenti è
sensato provare per un animale? Quali sentimenti è sensato attribuirgli? E a
quali animali? O ancora, ad esempio: perché è sensato che una persona sia
stupida, ma non un computer? In che limiti può essere stupido un animale?
Perché è sensato invidiare una persona ma non un uccello, che pur è capace di
volare? E per rispondere a queste domande – così come per trovarne di altre e
più raffinate – occorrerà esaminare le condizioni di coerenza di enunciati o atti
linguistici che ritraggono i comportamenti stigmatizzati (seguendo, cioè,
l’esempio del § 3 del capitolo 9 e dell’intero capitolo 11).
A questo proposito, desidero sottolineare come un ruolo importante sia
svolto dal diverso tipo di emozioni o sentimenti connessi alla frustrazione di
presupposizioni di base piuttosto che contingenti (cfr. capitolo 2, §§ 3.1.3. e
3.2.4.; capitolo 9, § 1.1.1.; capitolo 11, § 2.1., 2.2.). Al capitolo 11, § 2.2., ad
esempio, abbiamo visto che fare un funerale a un cane è la caricatura di un
funerale e può suscitare una sensazione di ridicolo, ma fare un funerale a un
vaso di gerani non è la caricatura di un funerale e la sensazione che suscita è
diversa: l’abbiamo etichettata (certo grossolanamente) «grottesco». Il punto è
questo. Se siamo interessanti a descrivere le presupposizioni, possiamo
individuarne il livello facendo leva sulle nostre sensazioni o emozioni (ad
esempio, sul senso di ridicolo o di grottesco); viceversa, se siamo interessati a
descrivere le nostre sensazioni o emozioni, posiamo distinguerle e classificarle
facendo leva sul livello della presupposizione in gioco. La conseguenza è
duplice. Da un lato, la moltitudine di sensazioni o emozioni (dal ridicolo al
grottesco, dal cinismo alla compassione, dall’indignazione all’orrore, ecc…)
diventa ipso facto una messe di dati – un territorio di evidenza filosofica – in
grado di informarci sulla grammatica delle presupposizioni di base. Dall’altro
lato, i tipi di presupposizioni diventano uno strumento utile per indagare e
classificare quelle stesse sensazioni. Si pensi ad esempio all’ambito della satira:
perché non usare il dato che certi enunciati (le cosiddette «battute») suscitano
in noi reazioni di riso (e magari tipi diversi di riso) come evidenza filosofica in
grado di rivelare le presupposizioni di base su cui quel riso fa affidamento? Più
precisamente, si tratterebbe di smontare quegli enunciati esaminando
l’interazione tra la struttura linguistica e le presupposizioni di base in gioco.
Se ci spostiamo nell’ambito delle presupposizioni atomiche, la
situazione è analoga. Qui (cfr. capitolo 13, § 2.3.) possiamo fare leva sul dato
che è costitutivamente impossibile rispondere a domande come Perché vuoi
bene a tua moglie? o Perché non si deve uccidere o Perché questo è bello? non
per buttarle via, ma per descrivere le condizioni di coerenza alle quali ci
appaiono così. In questo modo potremmo studiare presupposti di base come
l’idea di bellezza di un viso piuttosto che di un dipinto o di un tramonto o l’idea
di diritto di base (ciò che non si dovrebbe mai essere in condizioni di
desiderare: cfr. capitolo 14, § 3.2).
E se ci volgiamo all’ontologia puntuale, ancora una volta, il metodo
seguito sarà analogo. Anche qui il punto è esaminare i sentimenti e le azioni
329
che saremmo disposti a provare o compiere relativamente a persone morte o
lontane. In questo modo, come sottolineato al capitolo 12 sub. § 2.1, potremo
circoscrivere i nostri concetti di persona morta o lontana esaminando le azioni
che sarebbe coerente e sensato compiere nei loro confronti. Così facendo
perverremo a delineare qualcosa di simile agli ambiti morali (moral realms)
teorizzati ad esempio da T. Mulgan:
The Realm of Necessity. We, as active members of a moral community encounter
someone who currently lacks the resources or capacities to participate fully in that
community. Such person has many unmet needs and undeveloped capacities. (This
unites the realms of bare humanity and needs.)
The Realm of Reciprocity. We, as active members of a moral community, decide how
we will interact in pursuit of our joint and individual goals. (This unites the realms of
community and goals.)
[…] I argued that our response to the plight of the distant starving belongs to the
Realm of Necessity, rather than Reciprocity, while our everyday lives are mostly lived
within the Realm of Reciprocity. […] The distinction tracks a significant difference
between two ways a situation can invite our moral attention and concern; between
two sources of moral reasons […] (Mulgan 2006: 345-346).
La condizione alla quale è sensato porre il problema se soddisfare i bisogni
naturali (needs) di qualcuno – e magari sentirsi obbligati a farlo – è
presupporre questo qualcuno in quanto essere vivente inserito nella catene
delle cause fenomeniche; viceversa, la condizione alla quale è sensato porre il
problema se andare incontro ai desideri o fini (goals) di qualcuno – e in quale
misura si possa essere obbligati a farlo o a non farlo – è presupporre questo
qualcuno non solo in quanto essere vivente ma in quanto essere vivente libero
e appartenente alla nostra stessa comunità. Il punto, dunque, è descrivere in
che misura e per quali entità saremmo disposti a porre quei problemi. Se lo
facessimo, apparirebbe allora, ad esempio, che per un membro della nostra
famiglia si porranno problemi del secondo tipo mentre per gli abitanti di un
villaggio colpito da una carestia di cui apprendiamo la notizia per televisione si
porrà piuttosto il primo tipo di problemi. Non solo, ma vedremmo che per un
animale si può, entro certi limiti, porre il problema di andare incontro ai suoi
desideri mentre difficilmente si porrà il problema di rispettarlo o meno. E
ancora, vedremmo che per una persona morta non è sensato preoccuparsi di
come sta, o sperare che sia felice; ma è sensato mancarle di rispetto. E così via.
Chiaramente, tutto questo ha un aspetto molto programmatico. Ma
l’intento di questa tesi non era quello di perseguire questo programma: era
mostrare che un programma del genere può essere perseguito.
3.3. L’utilità di un iper-dizionario
Lungo il corso di questa tesi, qua e là, sono emersi esempi che
alludevano a questioni pratico-etiche. Uno di questi, naturalmente, è il
riferimento agli ambiti morali in connessione con la presupposizione di
esistenza, condotto appena sopra sub. § 3.2.3.. Un altro è la questione del
fondamento degli imperativi categorici, accennato al capitolo 8 sub. § 3. Al
capitolo 9 sub. § 3.2., invece, si è alluso alla problematica del rapporto tra
essere umano e animale, che poi è serpeggiata lungo l’intero capitolo 11; e,
ancora al capitolo 9 ma sub. § 3.3., si è posta la questione dello statuto
ontologico dell’embrione. Quanto al capitolo 14, sub. § 3.2., si è accennato a
330
una serie di presupposizioni di base inerenti all’ambito della vita: ad esempio, il
fatto che vivere non possa essere un contenuto di desiderio e,
conseguentemente, il fatto che morire non sia concettualizzato come una
strategia per risolvere problemi. Inoltre, sempre al capitolo 14 sub. § 3.2.,
parlando di «desideri di base», si è alluso alla possibilità di circoscrivere, tra le
idee che rifiutano di entrare come contenuti intenzionali di desideri, la classe
dei diritti o dei bisogni di base: quelle cose, cioè, che non dovremmo essere mai
in condizioni da desiderare. Tutti questi sono spunti che mirano a suggerire
l’utilità pratico-etica di un dizionario filosofico come quello qui immaginato.
Cercherò di illustrare questo punto riprendendo la questione
dell’embrione. Riguardo allo statuto ontologico di un embrione umano – se
cioè sia o no una persona – si possono avere opinioni o ‘ipotesi’ o ‘teorie’
divergenti. Ma non è questo il punto: il punto sono le presupposizioni di base
sulle quali facciamo affidamento indipendentemente da ciò che crediamo o
pensiamo. Un modo per portarle alla luce è confrontare le domande seguenti
(cfr. capitolo 9, § 3.3.): Quale è la funzione di un embrione? vs. Quale è la
funzione di un bimbo? Indipendentemente dalle proprie convinzioni, nessuno
può negare di sentire queste domande profondamente diverse. I propri «giudizi
di accettabilità» (per usare un’espressione tipica della linguistica) suggeriscono
che mentre con la prima si compie un atto linguistico felice, la stessa cosa non
accade con la seconda. Questa sensazione è la prova – l’evidenza filosofica –
che un embrione e una persona sono presupposti in quanto appartenenti a
regioni ontologiche diverse. Negare la differenza tra le domande
summenzionate è come negare la differenza tra 5 + 5 = 10 e 5 + 5 = 9: essa è
radicata oggettivamente in noi, in ciò che I. Kant chiamerebbe «soggetto
trascendentale». E qualora si pensasse di negare il peso di tale differenza
linguistica riguardo alla questione ontologica in gioco, i capitoli 2, 8 e 9 sono
precisamente dedicati ad illustrare il legame tra condizioni di coerenza degli
enunciati e regole dell’ontologia naturale.
Al capitolo 10 sub. § 3.1.1. ho stigmatizzato l’atteggiamento naturale
che conduce a rispondere a domande inerenti alle presupposizioni di base come
si risponderebbe a domande su questioni contingenti: questo significa non
adottare lo stile trascendentale di cui ho parlato sub. § 3.2.1. ed è quanto
avviene sistematicamente nei dibattiti pubblici o politici. Un esempio è fornito
da un argomento relativo alla questione dei diritti delle coppie omosessuali che
talvolta capita di sentire. Esso può assumere la forma seguente198:
Se una famiglia fosse definita esclusivamente dall’amore reciproco di due persone, perché non
ammettere una famiglia formata da un uomo cinquantenne e una bambina di sei anni che si
vogliono bene? O addirittura: perché non ammettere che una persona e un cane che si vogliono
bene siano una famiglia? In entrambi i casi vi è l’incontro tra due libertà, ma ciò non toglie che
siano aberrazioni. Un criterio come l’amore reciproco, dunque, per quanto apparentemente
ragionevole non è sufficiente a definire una famiglia.
Il passo precedente presenta un argomento per assurdo volto a dimostrare
(con una conclusione allusiva) che, in soldoni, non si possono ammettere
coppie di persone omosessuali così come si ammettono coppie di persone
adulte eterosessuali. Questo è esattamente il modo sbagliato di procedere. La
Il seguente è un argomento avanzato da mons. Bagnasco e qui modificato da me.
Questa modificazione ha una funzione duplice: da un lato, mantenere ed evidenziare la
struttura logica dell’argomento; dall’altro lato, semplificarlo e indebolirlo: come si fa con un
virus per svilupparne il vaccino.
198
331
ragione è che qui è in gioco una presupposizione di base e una presupposizione
di base non è la conclusione di una dimostrazione. Lo stile dell’argomento
citato è cioè il contrario dello stile trascendentale menzionato sub. § 3.2.1. Il
punto non è convincere qualcuno delle proprie tesi, ma portare alla luce le
presupposizioni di base sulle quali facciamo affidamento: il punto non è
esplicitare analiticamente in cosa si differenzino gli esempi addotti, ma nel
mettere in rilievo che noi la differenza la percepiamo, eccome. Per illustrare
quello che intendo (nello spirito delle osservazioni condotte sub. § 3.2.3.), si
confrontino gli enunciati seguenti:
(1)
(2)
Perché non posso fare l’amore col mio cane, visto che ci vogliamo bene?
Perché non posso fare l’amore con questa persona (del mio stesso
sesso), visto che ci vogliamo bene?
Mi scuso per il cattivo gusto, ma questo cattivo gusto è precisamente il fuoco
della questione. Il punto essenziale è che tutti noi – anche chi propone
l’argomento citato – non sentiamo le domande (1) e (2) come uguali. La
domanda (1) è comica o grottesca o di cattivo gusto, ma non (2). Sembra
assurdo cercare davvero prove per (1): infatti, a nessuno sarebbe mai venute in
mente senza il bisogno di trovare ragioni per (2). Di fronte a (1), la reazione
spontanea è ribattere qualcosa come: Ma tu sei matto!; di fronte a (2), la
reazione spontanea è: non lo so… perché? Chi sostiene l’argomento riportato
sostiene che (2) lo fa sorridere esattamente come (1): o che di fronte a (2) ha la
stessa reazione che ha di fronte a (1). Ma chi fa questo o mente, o sospende i
suoi normali giudizi di accettabilità: ovvero, il suo senso comune.
Vediamo i dettagli. Consideriamo (1). La domanda (1) suscita un effetto
comico che nasce da un contrasto tra un fatto grammaticale e uno concettuale:
l’orientamento retorico positivo della struttura perché non… e l’assurdità dello
sposare un cane. Il carattere grottesco di (1), dunque, prova che noi
presupponiamo che sia assurdo sposare un cane. Adesso prendiamo (2). Qui,
nonostante l’orientamento positivo della domanda, non si percepisce alcun
effetto particolare: l’assenza di ironia in (2), quindi, prova che presupponiamo
che non sia affatto assurdo che due uomini si sposino. Chi domanda (1) può
presupporre che è assurdo sposare i cani perché questo è un dato su cui tutti
facciamo affidamento: infatti (1) è un enunciato comico, che potrebbe essere
pronunciato ironicamente. Chi domanda (2) non riesce a presupporre che sia
assurdo sposare due omosessuali perché questo non è un fatto sul quale
poggiano la nostra sensibilità e la nostra morale condivisa: infatti (2) non è un
enunciato che possa essere pronunciato ironicamente. La conclusione è questa:
è sensato che due persone omosessuali si sposino perché l’enunciato (2) non è
affatto ironico; è assurdo sposare un cane perché l’enunciato (1) è ironico199. E’
in questo senso che sostengo che le condizioni di coerenza degli enunciati
possono essere usate per far luce sulle presupposizioni di base (cfr. § 3.2.1).
In sintesi, possiamo distinguere due ordini di questioni. Da un lato, ci
sono domande che potremmo etichettare «politiche», quali: come dobbiamo
comportarci nei confronti di un embrione? come dobbiamo legiferare sulle
coppie omosessuali? Porre queste domande significa collocarsi nel foro del
dibattito pubblico e della ricerca di un’intesa reciproca; rispondere significa
La precedente, del resto, è la ragione per cui in una predica contro le coppie
omosessuali è consigliabile esordire con (1) e (2) – magari usando la struttura perché non – e
non invece con (3), a meno che non sia affiancato – magari allusivamente e in climax – a (1) e
(2).
199
332
decidere come orientare dei comportamenti200: in questo senso, ci troviamo
nell’ambito della politica o della ‘democrazia’. Il nostro atteggiamento naturale
è focalizzato su questo tipo di domande e, spontaneamente, tende a rispondere
a qualsiasi altra come se fosse una di quelle. Ma quello non è il solo tipo di
questioni. Dall’altro lato, ci sono questioni che etichetteremmo «filosofiche»,
quali: l’embrione è una persona? o l’amore tra persone omosessuali è identico a
quello tra persone eterosessuali? Tali questioni sono inerenti alle
presupposizioni di base. Porle non significa collocarsi nel foro del dibattito o
dell’intesa pubblica, ma al di fuori di esso: precisamente, alle sue fondamenta.
Rispondere non significa orientare dei comportamenti, ma portare alla luce e
constatare i presupposti – cioè l’iper-dizionario sommerso – sui quali fa
affidamento il nostro senso comune201. Questo è il compito di una lessicologia
filosofica.
I due ordini di domande precedenti non sono slegati; al contrario, porre
quelle primo tipo significa presupporre risposte a domande del secondo tipo.
L’ordine logico procede da queste a quelle. Sovvertire quest’ordine
confondendone i livelli non è soltanto scorretto, ma rischioso perché significa
non esplicitare l’iper-dizionario di presupposti coerentemente col quale
agiamo.
Come quando si descrive una regola grammaticale appartenente a quella che M.
Prandi chiama «grammatica delle scelte» (Prandi 2006: 3-8).
201
Come quando si descrive una regola grammaticale appartenente a quella che M.
Prandi chiama «grammatica delle regole» (Prandi 2006: 3-8).
200
333
Riferimenti bibliografici
AGAZZI 1976 = Agazzi Evandro, Criteri epistemologici fondamentali delle
discipline psicologiche. In: Problemi epistemologici della psicologia. Atti
del primo simposio di Villa Ponti. Varese 23-26 novembre 1974., Milano,
Università Cattolica del Sacro Cuore, 1976.
AGAZZI 1979 = Agazzi Evandro, Analogicità del concetto di scienza. Il
problema del rigore e dell’oggettività nelle scienze umane. In:
Epistemologia e scienze umane, Milano, Massimo, 1979.
AUSTIN 1962 = John Langshaw Austin, How to do things with words, Oxford
– New York, Oxford University Press, 1962. Tr. it. di Carla Vallata in:
John Langshaw Austin, Come fare cose con le parole (a c. di Carlo Penco
e Marina Sbisà) Genova, Marietti, 1996.
BENVENISTE 1966 = Emile Benveniste, Problèmes de linguistique générale.
Paris, Editions Gallimard, 1966. Tr. it di M. V. Giuliani, La natura dei
pronomi in: Emile Benveniste, Problemi di linguistica generale, Milano,
il Saggiatore, 1994.
BERTINETTO 1996 = Pier Marco Bertinetto, Tempo, aspetto e azione nel verbo
italiano. Il sistema dell’indicativo, Firenze, Accademia della Crusca, 1996.
BONOMI 1979 = Andrea Bonomi, Universi di discorso, Milano, Feltrinelli,
1979.
BURTON-ROBERTS 1989 = Noel Burton-Roberts, The limits to debate. A
revised theory of semantic presupposition, Cambridge, Cambridge
University Press, 1989.
CARDONA 1995 = Giorgio Raimondo Cardona, La foresta di piume. Manuale di
etnoscienza, Roma-Bari, Laterza, 1995.
CARNAP 1932 = Rudolf Carnap, Überwindung der Metaphysik durch logische
Analyse der Sprache in: “Erkenntnis”, II, 1932. Rist. In: Logical
positivism (eds. by A. J. Ayer), New York, Macmillan, 1959, pp. 60-81.
CHIERCHIA 1997 = Gennaro Chierchia, La semantica, Bologna, il Mulino,
1997.
CHOMSKY 1957 = Noam Chomsky, Syntactic structures, Paris, Mouton, 1957.
CHOMSKY 1965 = Noam Chomsky, Aspects of the Theory of Syntax,
Cambridge Mass., MIT Press, 1965.
CHOMSKY 1971 = Noam Chomsky, Deep structure, surface structure, and
semantic interpretation, in: Semantics – An interdisciplinary reader in
linguistics and psychology (eds. by D. D. Steinberg and L. A.
Jakobovits), Cambridge, Cambridge University Press, 1971, pp. 183-216.
334
CHOMSKY 1972 = Noam Chomsky, Some Empirical Issues in the Theory of
Transformational Grammar in: Goals of linguistic theory (eds.by S.
Peter), Stanford, Prentice-Hall, 1972.
COLLINGWOOD 1938 = Robin George Collingwood, the Principles of Art,
Oxford, Oxford University Press, 1938, 1958.
COLLINGWOOD 1940 = Robin George Collingwood, An Essay on Metaphysics,
Oxford, Clarendon Press, 1940, 1998.
CONTE 2007 = Amedeo Giovanni Conte, Frammento di teoria ante litteram
della presupposizione, in “Rivista internazionale di filosofia del diritto”,
84, 2007.
CONTE 1980 = Maria-Elisabeth Conte, Coerenza testuale. In : “Lingua e stile”,
1980, 15, pp.135-154. Riedito in : Maria-Elisabeth Conte,,Condizioni di
coerenza. Ricerche di linguistica testuale. Alessandria, Edizioni
dell’Orso, 1999, pp. 29-46.
CONTE 1981 = Maria-Elisabeth Conte, Deissi testuale e anafora. In :
Sull’anafora. Atti del seminario, Accademia della Crusca, 1978. Firenze,
Accademia della Crusca, 1981, pp. 37-74. Riedito in : Maria-Elisabeth
Conte, Condizioni di coerenza. Ricerche di linguistica testuale.
Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1999, pp. 11-28.
COOPER 1974 = David Cooper, Presupposition, Paris, Mouton, 1974.
DE CARO 2004 = Mario De Caro, Il libero arbitrio. Una introduzione, RomaBari, Laterza 2004.
DE MONTICELLI = Roberta De Monticelli, L’ordine del cuore. Etica e teoria
del sentire, Milano, Garzanti, 2003.
DUCROT 1972 = Oswald Ducrot, Dire et ne pas dire, Paris, Hermann, 1972.
Tr. it. di Romeo Galassi in: Oswald Ducrot, Dire e non dire, Roma,
Officina Edizioni, 1979.
DUCROT 1980 = Oswald Ducrot, Presupposizione e allusione, Enciclopedia
Einaudi, Torino, 1980, pp. 1083–1107.
FILLMORE 1969 = Charles Fillmore, Types of lexical information, in: Studies
in Syntax and Semantics (ed. By F. Kiefer), Dordrecht-Holland, Reidel
Publishing Company, 1989, pp. 109-137.
FILLMORE 1973 = Charles Fillmore, Verbs of judging, in: Präsuppositionen in
Philosophie und Linguistik (eds. by J. S. Petöfi, D. Franck), Frankfurt,
Athenäum Verlag, 1873, pp. 261-284..
FIRBAS 1987 = Jan Firbas, On the Operation of Communicative Dynamism in
Functional Sentence Perspective, in: “Leuvense Bijdragen”, 76, 1987, pp.
289-304. Tr. it. di P. Maturi in: Il campo di tensione (a c. di R. Sornicola
e A. Svoboda), Napoli, Liguori Editore, 1991, pp. 195-209.
335
FODOR 1979 = Janet Dean Fodor, In Defense of the Truth Value Gap in:
Syntax and semantics 11 (eds. by C. Oh and D. A. Dinnen) New York,
San Francisco, London, Academic Press, 1979, pp. 199-224.
FREGE 1892 = Gottlob Frege, Über Sinn und Bedeutung. In “Zeitschrift für
Philosophie und philosophische Kritik 100, 1892, pp.25-50. Riedito in :
Gottlob, Frege, Kleine Schriften, (a c. di I. Angelelli). Olms, Darmstadt,
1990, pp.143-162. Traduzione di Stefano Zecchi in : La struttura logica
del linguaggio (a c. di A. Bonomi), Milano, Bompiani, 2001, pp.9-32.
Riedito in : Carlo Penco, Eva Picardi, Frege. Senso, funzione e concetto.
Roma - Bari, Editori Laterza, 2001, pp.32-57.
GARCIA-MURGA 1998 = Fernando García Murga, Las presuposiciones
lingüísticas, Bilbao, Servicio Editorial. Universidad del País Vasco, 1998.
GAZDAR 1979 = Gerald Gazdar, A solution to the projection problem in:
Syntax and semantics 11: presupposition (eds. by Choon-Kyu Oh and
Dinnen David), New York, Academic Press, 1979, pp.57-89.
GEIS&ZWICKY 1971 = M. L. Geis and A. M. Zwicky, On invited inferences in:
“Linguistic Inquiry”, 2, 1971, pp.561-566.
GRICE 1975 = Herbert Paul Grice, Logic and conversation, in: Syntax and
semantics 3: Speech acts (eds. by P. Cole and J. L. Morgan), New York –
London, 1975, pp. 41-58. Rist.: Herbert Paul Grice, Studies in the way of
words, Harvard, Harvard University Press, 1991, pp. 22-40. Tr. it. di
Marina Sbisà in: Gli atti linguistici (a c. di M. Sbisà), Milano, Feltrinelli,
1978, pp. 199-219.
GRICE 1981 = Herbert Paul Grice, Presupposition and conversational
implicature, in: Radical Pragmatics (eds. by P. Cole), New York,
Academic Press, 1981. Rist. in: Herbert Paul Grice, Studies in the way of
words, Harvard, Harvard University Press, 1991, pp. 269-282.
GROSS 1998 = G. Gross « Pour une véritable fonction “synonymie” dans un
traitement d’un texte » in: Langages, 1998, 32, 131, pp. 103-114.
GROSS&PRANDI 2004 = Gaston Gross et Michele Prandi, La finalité –
Fondements conceptuels et genèse linguistique, Bruxelles, de
boeck.duculot, 2004. Tr. it. di Cristiana de Sanctis in: Gaston Gross,
Michele Prandi, Cristiana de Sanctis, La finalità – strutture concettuali e
forme di espressione in italiano, Bologna, Leo S. Olschki Editore, 2005.
HALLIDAY 1970 = Michael Alexander Kirkwood Halliday, Language Structure
and Language Function, in: New Horizons in Linguistics (eds. by John
Lyons), Harmondsworth, Penguin Books, 1970, pp. 140-165.
HAJICOVÁ 1972 = Eva Hajicová, Some Remarks on Presuppositions, in:
“PBML”, 17, 1972, pp. 11-23.
HAJICOVÁ 1973 = Eva Hajicová, Negation and Topic vs. Comment, in: “PP”,
336
16, 1973, pp. 81-93. Tr. it. di B. Forino in: Il campo di tensione (a c. di R.
Sornicola e A. Svoboda), Napoli, Liguori Editore, 1991, pp. 289-312.
HARRIS 1946 = Z. Harris, From morpheme to utterance in: “Language”, 22,
1946, pp. 161-173.
HAUSSER 1976 = Roland Hausser, Presupposition in Montague grammar in:
“Theoretical Linguistics”, 1976, 3, 3, pp. 245-280.
HEIDEGGER 1954 = Martin Heidegger, Saggi e discorsi (a c. di G. Vattimo)
Milano, Mursia, 2001.
HEIM 1988 = Irene Heim, On the projection problem for presuppositions in:
Proceedings of the Second West Coast Conference on Formal
Linguistics (eds. by D. Flickinger et al.), Stanford, Stanford University
Press, 1988, 114-125. Rist. in: Pragmatics. A Reader (eds. by S. Davis),
Oxford, Oxford University Press, 1991, pp. 397-405.
HORN 1989 = Laurence Horn, Natural History of Negation, Chicago, Chicago
University Press, 1989.
HUSSERL 1901 = Edmund Husserl, Logische Untersuchungen. Erster Teil:
Prolegomena zur reinen Logik Max Niemeyer, Halle a. d. S. 1900,
Logische Untersuchungen. Zweiter Teil: Untersuchungen zur
Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis 1901, Tr. it. di G. Piana in:
Edmund Husserl, Ricerche logiche (I e II), Milano, il Saggiatore, 1968.
HUSSERL 1911 = Edmund Husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft in
“Logos”, 1, 1910. Tr. it di C. Sinigaglia in: Edmund Husserl, La filosofia
come scienza rigorosa, Roma-Bari, Laterza, 2005.
HUSSERL 1913 = Edmund Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und
phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung
in die reine Phänomenologie in: Jahrbuch für Philosophie und
phänomenologische Forschung Max Niemeyer, Halle a. d. S., 1913. Tr. it
di G. Alliney e E. Filippini in: Edmund Husserl, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi,
2002.
KADMON 2001 = Nirit Kadmon, Formal pragmatics, Malden Mass., Blackwell
Publishing, 2001.
KANT 1781 = Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft. Riga, Hartknoch,
1781, 1787. Tr. it. G. Gentile e G. Lombardo–Radice in: Immanuel Kant,
Critica della ragion pura. Roma - Bari, Laterza, 1996.
KANT 1788 = Immanuel Kant, Kritik der praktischen Vernunft. Riga,
Hartknoch, 1788. Tr. it F. Capra in: Immanuel Kant, Critica della ragion
pratica. Roma-Bari, Laterza, 1997.
KANT 1790 = Immanuel Kant, Kritik der Urteilskraft. Riga, Hartknoch, 1790.
Tr. it: Immanuel Kant, Critica della capacità di giudizio (a c. di L.
337
Amoroso), Milano, BUR, 1998.
KARTTUNEN 1971 = Lauri Karttunen, Implicative verbs in “Language”, 1971,
47, 2, pp. 273-291. Rist. in: Präsuppositionen in Philosophie und
Linguistik (eds. by J. S. Petöfi, D. Franck), Frankfurt, Athenäum Verlag,
1873, pp. 285-313.
KARTTUNEN 1973 = Lauri Karttunen, Presuppositions of Compound
Sentences, in: “Linguistic Inquiry”, IV, 2, 1973, pp. 169-193.
KARTTUNEN 1974 = Lauri Karttunen, Presuppositions and linguistic context,
in: “Theoretical linguistics”, 1, 1974, 181-194. Ristampato in:
Pragmatics. A Reader (eds. by S. Davis), Oxford, Oxford University
Press, 1991, pp. 406-415.
KARTTUNEN&PETERS 1977 = Lauri Karttunen, Stanley Peters, Requiem for
presupposition, in: Proceedings of the Third Annual Meeting of the
Berkeley Linguistic Society, Berkeley, 1977, pp. 266-278.
KARTTUNEN&PETERS 1979 = Lauri Karttunen, Stanley Peters, Conventional
implicature, in: Syntax and semantics 11: presupposition (eds. by ChoonKyu Oh and Dinnen David), New York, Academic Press, 1979, pp.1-56.
KATS 1964 = Jerrold Kats, Semantic Theory and the Meaning of “Good”, in:
“Journal of Philosophy”, 1964, 61.
KIPARSKY&KIPARSKY 1973 = Paul Kiparsky and Carol Kiparsky, Fact in:
Präsuppositionen in Philosophie und Linguistik (eds. by J. S. Petöfi, D.
Franck), Frankfurt, Athenäum Verlag, 1973, pp. 315-354.
KLEIBER 1983 = Georges Kleiber, L’emploi sporadique du verbe povoir en
francais, in: La notion sémantico-logique de modalité (eds. by David, J. &
Kleiber) Paris, Klincksieck, 1983, pp.183-203.
KLEIBER 1990 = Georges Kleiber, La sémantique du prototype, Paris, Presses
Universitaires de France, 1990.
KRIPKE 1980 = Saul Kripke, Naming and Necessity in: Semantics of natural
language (eds. by D. Davidson and G. Harman), Oxford, Blackwell,
1980. Tr. it. di M. Santambrogio in: Saul Kripke, Nome e Necessità,
Torino, Bollati Boringhieri, 1999.
KUHN 1962 = Thomas Kuhn, The Structure of Scientific Revolutions, Chicago,
Chicago Univeristy Press, 1962. Tr. it. di A. Carugo in: Thomas Kuhn,
La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Torino, Einaudi, 1980.
KURODA 1969 = Sige-Yuki Kuroda, Remarks on selectional restrictions and
presuppositions, in: Studies in Syntax and Semantics (ed. By F. Kiefer),
Dordrecht-Holland, Reidel Publishing Company, 1989, pp. 138-167.
JAYEZ 2004 = Jaques Jayez, Presuppositions and pedigrees for discourse
markers in: Empirical Issues in Syntax and Semantics 5 (eds. by O.
338
Bonami and P. Cabrero Hoffherr), 2004, pp. 89-110.
VAN
INWAGEN 1993 = Peter van Inwagen, Methaphysics, Oxford, Oxford
University Press, 1993.
LANGENDOEN&SAVIN 1971 = Terence Langendoen, H. B. Savin, The
projection problem for presuppositions, in: Studies in Linguistic
Semantics (eds. by Ch. Fillmore and D. T. Langendoen), New York,
Holt, Rinehart and Winston Inc., 1971, pp. 55-62.
LANGENDOEN 1971 = Terence Langendoen, Presupposition and assertion in
semantics analysis of nouns and verbs in English in: Semantics – An
interdisciplinary reader in linguistics and psychology (eds. by D. D.
Steinberg and L. A. Jakobovits), Cambridge, Cambridge University
Press, 1971, pp. 341-344.
LANGACKER 1987 = Robert Langacker, Foundation of cognitive grammar I,
Stanford, Stanford University Press, 1987.
LANGACKER 1991 = Robert Langacker, Foundation of cognitive grammar II,
Stanford, Stanford University Press, 1991.
LE PESANT&MATHIEU-COLAS 1989 = Denis Le Pesant, Michel MathieuColas, Introduction aux classes d’objets, in : « Langages », 1989, 32, 131,
pp. 6-33.
LEONARDI 2001 = Paolo Leonardi, Presupposizioni e implicature, in:
Pragmatica (a c. di Franca Orletti), Roma, Carocci, 2001.
LEVINSON 1983 = Stephen Levinson, Pragmatics, Cambridge, Cambridge
University Press, 1983, trad. it. di Marcella Bertuccelli Papi, La
pragmatica, Bologna, il Mulino, 1993.
LEWIS 1969 = David Kellogg Lewis, Convention – A Philosophical Study,
Cambridge, Harvard University Press, 1969. Tr. it di G. Usberti in:
David Lewis, La convenzione, Milano, Bompiani, 1974.
LEWIS 1979 = David Kellogg Lewis, Scorekeeping in a Language Game, in:
“Journal of Philosophical Language”, 1979, 8, pp. 339-359. Rist. in:
Pragmatics. A Reader (eds by S. Davis), Oxford, Oxford University
Press, 1991, pp. 416-427.
MC. CAWLEY 1971 = Where do noun phrases come from? In: Semantics – An
interdisciplinary reader in linguistics and psychology (eds. by D. D.
Steinberg and L. A. Jakobovits), Cambridge, Cambridge University
Press, 1971, pp. 217-231.
MOORE 1903 = George Edward Moore, Principia Ethica, Cambridge,
Cambridge University Press, 1903.
MOORE 1925 = George Edward Moore, A defence of common sense, in:
George Edward Moore, Philosophical Papers, New York, Macmillan,
339
1959, pp. 32-59.
MULGAN 2001 = Tim Mulgan, The demands of consequentialism, Oxford,
Oxford University Press, 2001.
MULGAN 2006 = Tim Mulgan, Future people, Oxford, Oxford University
Press, 2006.
PITCHER 1964 = Truth (eds. by G. Pitcher), Englewood Cliffs New Jersey,
Prentice-Hall, 1964.
PRANDI 1998 = Michele Prandi, Contraintes conceptuelles sur la distribution :
réflexions sur la notion de classe d’objets in : « Langages », 1998, 32.
131, pp. 34-44.
PRANDI 2004 = Michele Prandi, The building blocks of meaning, AmsterdamPhiladelphia, 2004.
PRANDI 2006 = Michele Prandi, Le regole e le scelte, Torino, UTET, 2006.
QUINE 1960 = Willard Van Orman Quine, Word and Object, Massachusetts,
MIT press, 1960.
REPICI 2000 = Luciana Repici, Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei
Greci, Roma-Bari, Laterza, 2000.
RORTY 1967 = The linguistic turn (eds. By R. M. Rorty), Chicago, University
of Chicago, 1967, 1992.
RUSSELL 1905 = Bertrand Russell, On denoting in: “Mind”, 1905, 14, pp. 479493. Tr. it. di A. Bonomi in: La struttura logica del linguaggio, Milano,
Bompiani, 2001, pp.179-195.
RUSSELL 1921 = Bertrand Russell, The Analysis of Mind, Oxford, Oxford
University Press, 1921.
RUSSELL 1940 = Bertrand Russell, An Enquiry into Meaning and Truth,
London, George Allen and Unwin, 1940.
RYLE 1949 = Gilbert Ryle, The concept of mind, London, University of
Chicago Press, 1949.
SAUSSURE 1922 = Ferdinand de Saussure (a c. di Bally e Sechehaye), Cours de
linguistique générale. Paris, Editions Payot, 1922. Tr. it. di T. de Mauro
in: Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale. Roma-Bari,
Laterza, 1996
SBISÀ 2007 = Marina Sbisà, Detto non detto – Le forme della comunicazione
implicita, Bari, Laterza, 2007.
SEARLE 1969 = John Rogers Searle, Speech Acts: An essay in the Philosophy
of Language, Cambridge, Cambridge University Press, 1969, tr. it. di
340
Giorgio Raimondo Cardona in: John Rogers Searle, Atti linguistici –
Saggio di filosofia del linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
SEARLE 1979 = John Rogers Searle, Expression and meaning, Cambridge,
Cambridge University Press, 1979.
SEARLE 1983 = John Rogers Searle, Intentionality – An essay in the
philosophy of mind, Cambridge, Cambridge University Press, 1983. Tr.
it. di Daniele Barbieri in: John Rogers Searle, Della intenzionalità – Un
saggio di filosofia della conoscenza, Milano, Bompiani, 1985.
SEARLE 1995 = John Rogers Searle, The construction of social reality, New
York, The Free Press, 1995. Tr. it. di Andrea Bosco in: John Rogers
Searle, La costruzione della realtà sociale, Milano, Edizioni di comunità,
1996.
SGALL 1972 = Petr Sgall, Topic, Focus and the Ordering of Elements in
Semantic Representations, in: “PP”, 15, 1972, pp. 1-14. Tr. it. di P.
Maturi in: Il campo di tensione (a c. di R. Sornicola e A. Svoboda),
Napoli, Liguori Editore, 1991, pp. 259-288.
SOAMES 1989 = Scott Soames, Presupposition, in: Handbook of Philosophical
Logic, Volume IV (eds. by D. Gabbay and F. Guenthner), D. Reidel
Publishing Company, 1989, pp. 553-615.
SOMMERS 1963 = Fredrick Sommers, Types and Ontology in: Philosophical
logic (eds. by. Peter Strawson), Oxford, Oxford University Press, 1967,
pp. 139-169.
SPERBER&WILSON 1979 = Dan Sperber and Deirdre Wilson, Ordered
entailements: an alternative to presuppositional theories, in: Syntax and
Semantics - Presupposition 11, (eds. by Choon-Kyu Oh and David A.
Dinnen), New York, Academic Press, 1979, pp. 299-323.
SPERBER&WILSON 1986a = Dan Sperber and Deirdre Wilson, Relevance:
communication and cognition. Oxford, Blackwell, 1986, 1995.
SPERBER&WILSON 1986b = Dan Sperber and Deirdre Wilson, Façons de
parler, in: “Cahiers de linguistique française”, 1986, 7, pp. 9-41.
STALNAKER 1970 = Robert Culp Stalnaker, Pragmatics, “Synthese”, 22, 1970,
pp. 272-289. Tr. it. di Gabriele Usberti in: La struttura logica del
linguaggio (a c. di Andrea Bonomi), Milano, Bompiani, 2001, pp. 512530.
STALNAKER 1973 = Robert Culp Stalnaker, Presuppositions, “Journal of
Philosophical Logic”, 2, 1973, pp. 447-457. Tr. it. di Marina Sbisà in: Gli
atti linguistici, cit., 1978, pp. 240-251.
STALNAKER 1978 = Robert Culp Stalnaker, Assertion in: Syntax and semantics
9: Pragmatics (eds. by P. Cole), New York, Academic Press, 1978, pp.
315-322.
341
STRAWSON 1950 = Peter Frederick Strawson, On referring, in: “Mind”, 1950,
59, pp. 320-344. Tr. it. di G. Usberti in: La struttura logica del
linguaggio, cit., pp.197-224.
STRAWSON 1952 = Peter Frederick Strawson, Introduction to Logical Theory,
London, Methuen & Co., 1052. Tr. it. di A. Visalberghi in: P. F.
Strawson Introduzione alla Teoria Logica, Torino, Einaudi, 1961.
STRAWSON 1959 = Peter Frederick Strawson Individuals. An essay in
Descriptive Metaphysics, London, Methuen & Co., 1959, 1964.
STRAWSON 1964 = Peter Frederick Strawson, Identifying reference and truth
value, in: “Theoria”, 1964, XXX, pp. 96-118. Rist. in: Semantics – An
interdisciplinary reader in linguistics and psychology (eds. by D. D.
Steinberg and L. A. Jakobovits), Cambridge, Cambridge University
Press, 1971, pp. 86-99.
STRAWSON 1974 = Peter Frederick Strawson, Intention and convention in
Speech Acts, in: “Philosophical Review” 1974, 73, pp. 439-460. Rist in:
Pragmatics. A Reader (eds. by S. Davis), Oxford, Oxford University
Press, 1991, pp. 290-302.
STRAWSON 1992 = Peter Frederick Strawson, Analysis and Metaphysics,
Oxford, Oxford University Press, 1992.
SANDT 1992 = Rob van der Sandt Presupposition projection as
anaphora resolution, in: “Journal of Semantics”, 9, 1992, pp. 333-377.
VAN DER
Fraassen, Presupposition, implication and SelfReference, in: “The Journal of philoshophy”, LXV, 5, 1868, pp. 136-152.
Ristampato in: Präsuppositionen in Philosophie und Linguistik (eds. by J.
Petöfi, D. Franck), Frankfurt/M., Athenäum Verlag GmbH, 1973, pp.
97-116.
VAN FRAASSEN 1968 = Bas van
WIERZBICKA 1996 = Anna Wierzbicka, Semantics. Primes and Universals,
Oxford, Oxford University Press, 1996.
WILSON 1975 = Deirdre Wilson, Presuppositions and Non-Truth-Conditional
Semantics, London – New York – S. Francisco, Academic Press, 1975.
WITTGENSTEIN 1953 = Ludwig Josef Johann Wittgenstein, Philosophische
Untersuchuungen, Oxford, Basil Blackwell, 1953. Tr. it. di M. Trinchero
in: Ludwig Josef Johann Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino,
Einaudi, 1999.
WITTGENSTEIN 1961 = Ludwig Josef Johann Wittgenstein, Tractatus logicophilosophicus, London, Routledge and Keagan Paul, 1961. Tr. it di A. G.
Conte in: Ludwig Josef Johann Wittgenstein, Tractatus logicophilosophicus e Quaderni 1914-1916, Torino, Einaudi, 1998.
WITTGENSTEIN 1969 = Ludwig Josef Johann Wittgenstein, On Certainty,
342
Oxford, Basil Blackwell, 1969. Tr. it. di Mario Trinchero in: Ludwig
Wittgenstein, Della Certezza (saggio intr. di Aldo Gargani), Torino,
Einaudi, 1999.
343