intervista Campanini

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intervista Campanini
TRENTO E PROVINCIA
Corriere del Trentino Domenica 22 Marzo 2015
L’insorgenza del terrorismo islamico, le
suggestioni del califfato (ideale politico-istituzionale del sunnismo), tasselli di mondo — dal Medio Oriente all’Africa — destabilizzati dalla guerra,
il rimbalzo del sangue che inquieta l’Europa. Se si
miscelano gli ingredienti nel deformante sistema
mediatico, il risultato è l’hegeliana «notte in cui
tutte le vacche sono nere». Cioè fenomeni dai tratti
metastorici che allontanano, per come sono raccontati, una loro possibile conoscenza. Invece, «il
primo atto terroristico di matrice islamica è datato
1974 e fu un tentativo di colpo di Stato contro l’allora presidente egiziano Sadat» spiega Massimo
Campanini, professore di Storia dei Paesi islamici
all’università di Trento e autore di innumerevoli
volumi sulla cultura e la politica islamica (tra cui il
recentissimo «Islam e politica», Mulino 2015, in libreria dal 26 marzo), per rimettere in riga le
sgrammaticature del racconto coevo e recuperare
una prospettiva storica. Così dalla «grande fitna»
all’idea di una «via islamica alla democrazia»,
Campanini riavvolge il nastro portando luce su
una civiltà e una cultura che condivide la nostra
quotidianità.
Professor Campanini, partiamo dalle radici: a
differenza della credenza comune il Corano è un
testo sacro senza riferimenti politici se non generici né indicazioni su un possibile stato islamico.
«In effetti, non esiste alcun cenno all’eventualità
di uno stato né tantomeno con connotazioni islamiche. Più in generale, ci sono tre principi che
possono essere riconducibili al campo politico. Il
primo è il versetto dei potenti (sura 4, versetti 5859) che parla della giustizia dei governanti e dell’obbedienza dei governati; il secondo (sura 42,
versetto 38) è il principio della consultazione: il
Corano dice semplicemente che i credenti, quando prendono una decisione, devono consultarsi
tra loro. Cosa possa significare è aperto ad un’ampia speculazione. Ci sono stati pensatori, come il
marocchino Mohamed Abed al-Jabri, che hanno
legato la consultazione al periodo storico, e quindi, per esempio, alla democrazia parlamentare. Infine, vi è un terzo principio (3, 104 e 110) politicizzabile: prescrivere il bene e proibire il male. Anche
qui il dettato coranico è generico, si può oscillare
dal proibire le bevande inebrianti al promuovere la
guerra santa contro un regime tirannico».
È il motivo per cui l’interpretazione è diventata centrale nello sviluppo dell’Islam.
«Nell’Islam medioevale si è identificata con
l’opinione degli ulema (teologi e giureconsulti, depositari della shari’a, ndr): erano il tramite tra il califfo o sultano e il popolo. Quindi l’interpretazione
è fondamentale».
Nella storia dell’Islam, con ricadute attuali, si
è posta la questione della frattura tra sunnismo
e sciismo.
«La “grande fitna” è l’avvenimento cruciale nella
storia dell’Islam e fu la lotta civile tra il califfo Alì e
il suo avversario Mu awiya, fondatore della dinastia degli Omayyadi. La grande fitna, consumatasi
tra il 656 e il 661, è determinante per tre ragioni: ha
rappresentato la fine dell’unità della comunità
islamica, dell’umma che per l’Islam è carismatica,
dunque la sua frattura ha segnato la dissoluzione
di un ideale; è alla base della divisione tra sunniti e
sciiti; è diventata il simbolo di quello che alcuni
autori — tra cui Nasr Hamid Abu Zayd, Burhan
Ghalioun e al-Jabri — hanno definito “falsificazione della coscienza islamica”: ossia è il momento in
cui il governo esemplare, il califfato, diventa potenzialmente ingiusto. Nella storia, e così oggi, ritorna spesso l’idea della conciliazione tra sunniti e
sciiti perché in fondo l’Islam, a seguito di questa
frattura, ha perso la sua identità».
Ma non è l’idea dell’Isis e del suo modello di
califfato.
«No, perché le correnti di estremismo terrorista, da al-Qaeda a Isis, mantengono una netta opposizione contro lo sciismo e quindi tradiscono lo
spirito della conciliazione dell’umma. È uno dei
motivi per cui il sedicente califfato dell’Isis non
può essere considerato come tale. La vera umma è
coesa mentre l’Isis predica una nuova fitna, una lacerazione della comunità».
Quando è datata la fine dell’istituzione califfale?
«Termina nel 1258 quando l’ultimo califfo abbaside venne ucciso dai mongoli. Dopo quella data ci
sono state diverse dinastie che hanno rivendicato
il titolo califfale come gli hafsidi di Tunisi o alcuni
sultani ottomani. Ma l’idea del califfato torna ciclicamente, come dicevamo, perché per i sunniti è lo
Stato perfetto voluto da Dio al di sopra delle differenze nazionali e dei particolarismi locali».
Ripercorrendo linearmente la storia dell’Islam, il suo periodo più florido è stato tra l’VIII e il XIII secolo che ha visto la presenza di intellettuali come Avicenna e Averroè.
«È il periodo classico. Avicenna e Averroè sono i
pensatori più noti al grande pubblico, ma non
dobbiamo dimenticare gli scienziati come alKhwarizmi, matematico e fondatore dell’algebra.
Dal suo nome deriva, poi, la nostra parola “algoritmo”. Il linguaggio della chimica è ricco di vocaboli
arabi come “alcol”, “alambicco”, “elisir”, “chimica”. E ancora “zero”, “cifra”, “divano” sono tutti
lemmi che noi abbiamo mutuato dall’arabo. PersiTRENTO
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TN
Campanini racconta l’Islam politico
«L’estremismo è nato nel 1974
L’Isis? Non ha sostegno popolare»
In uscita il nuovo libro del filosofo. «Califfato, l’inerzia dell’Occidente è stupefacente»
«Il pensiero musulmano è compatibile con la democrazia. Contano i contesti sociali»
L’autore
 Massimo
Campanini
insegna
all’università di
Trento. Tra i
suoi libri: Islam
e politica (Il
Mulino), Storia
del Medio
Oriente (Il
Mulino), Oltre
la democrazia
(Mimesis)
Preghiera La Festa del sacrificio a Trento: un bambino osserva la preghiera (Foto Rensi)
no nel gioco degli scacchi, l’espressione “scacco
matto” è di derivazione persiana: “shah matà” che
vuol dire “il re è morto”. Sono solo esempi per
spiegare come le culture arabe e islamiche siano
presenti all’interno della nostra civiltà».
A questa fase di espansione, fa seguito però
un lungo Medioevo.
«A partire dal XVI secolo la civiltà islamica si è
involuta e ha conosciuto una profonda decadenza.
Una delle cause è stata la mancata evoluzione delle
strutture economiche e sociali che, a un certo punto, si sono irrigidite. Il sistema economico islamico è rimasto mercantilistico senza mai affrontare
la fase capitalistica. In secondo luogo, si è registrata un’ipertrofia della giurisprudenza. L’aspetto
giuridico ha fagocitato tutte le espressioni di pensiero più razionalistiche come la filosofia. Infine, il
mondo musulmano ha perso la sua forza centripeta e si sono affermate tendenze centrifughe che
hanno innescato una frantumazione politico-territoriale. A partire dall’XI e dal XII secolo, in particolare, le invasioni mongole hanno semidistrutto
la struttura del mondo centroasiatico».
E l’elemento religioso quanto c’entra in questo declino?
«C’entra nella misura in cui è legato al diritto. Il
filosofo franco-algerino Mohammed Arkoun ha
anche sostenuto che l’universo musulmano aveva
creato un insieme di credenze — lui lo definiva il
“pensato” — al di fuori del quale rimaneva un “impensato” che era “impensabile”. Secondo Arkoun

scende anche l’aspetto del secolarismo. Il 90% del
territorio musulmano fu soggiogato direttamente
o indirettamente all’imperialismo occidentale, solo Turchia e Arabia Saudita rimasero fuori dal dominio. Ciò ha condotto da un lato alla nascita dello
stato moderno, postwestfaliano, che il mondo
islamico non conosceva, e dall’altro al confrontoscontro con alcuni concetti: secolarismo, nazione,
sovranità popolare, libertà individuale. Gli intellettuali musulmani hanno reagito con una diade ancora attuale: la modernizzazione dell’Islam (è il caso di Sayyid Ahmad Khan) o l’islamizzazione della
modernità professata dalla corrente “salafiyya” e
da autori come Ridà, al-Afghani, Abdu e Ben Badis. Corrente, va precisato, che non ha nulla a che
vedere con i salafiti odierni: il movimento vissuto a
cavallo tra l’Ottocento e il Novecento era riformista, mentre i salafiti oggidì sono conservatori o reazionari».
Nel periodo post-coloniale ci fu l’affermazione del nazionalismo e del socialismo, ma non di
modelli democratici. Lei sostiene che la democrazia liberale e secolarizzata è estranea all’Islam e che viceversa ci sono i presupposti per
una «via islamica alla democrazia». Su cosa si
fonderebbe?
«Nel pensiero politico islamico classico ci sono
concetti compatibili con forme democratiche: la
consultazione (shurà), il consenso (ijmâ ) e il bene pubblico. È evidente che sono i presupposti
procedurali della democrazia, poi si pone il tema
È una religione senza Chiesa e senza clero,
dunque è sbagliato parlare di teocrazia. Semmai
è un cesaropapismo. Le «primavere arabe»?
Sono fallite per mancanza di egemonia
è anche la ragione per cui i Paesi arabi accettano
con difficoltà la democrazia e spronava quindi a
una revisione interpretativa del Corano. È un
mainstream di pensiero che ovviamente non è riconosciuto dai tradizionalisti, il cui messaggio è
prevalente nel popolo. Tuttavia non bisogna commettere l’errore, molto diffuso, di assimilare il
conservatorismo islamico con l’estremismo terrorista».
Come nel caso dei Fratelli musulmani e di
uno dei loro teorici più noti, Sayyid Qutb.
«I Fratelli musulmani sono una forza politica
conservatrice e Sayyid Qutb è stato un pensatore
che ha accentuato il suo radicalismo per via della
lunga detenzione e delle torture subite nelle carceri egiziane (venne poi giustiziato, ndr). Ma i testi di
al-Qaeda, per esempio, sono ferocemente contro i
Fratelli musulmani poiché accusati di non ribellarsi e di essere conniventi. Qutb asseriva che era
doveroso combattere contro il regime empio, ma
in fin dei conti lo diceva anche Marx».
Il Medioevo islamico fu interrotto bruscamente dal colonialismo, quindi dal confronto
anche intellettuale con l’Occidente.
«L’impatto fu enorme, oltre agli aspetti militari
e tecnologici, perché la società islamica non aveva
vissuto le tre rivoluzioni occidentali: quella scientifica, quella industriale e quella francese da cui di-
dei valori».
Cioè dei diritti umani.
«Si ricollega alla questione dei cosiddetti “fini
della legge” che sono la salvaguardia della vita,
della proprietà, della religione, della ragione e della prole. Sono i diritti umani secondo la shari’a che
da un punto di vista esteriore non sono dissimili
dai nostri. Prevedono la difesa della vita, il diritto
di professare la propria religione, la libertà di opinione. E poi la certezza della paternità, che è un riflesso tipico della cultura mediorientale. La differenza è legata alla declinazione di questi valori nei
diversi contesti politici e sociali. È un punto importante perché, come si vede, non è il principio
religioso a non funzionare».
La sovranità politica è, però, fissata in Dio nel
pensiero islamico.
«Certamente, tuttavia non è dirimente perché
se anche Dio è sovrano il potere lo gestisce l’uomo.
Diversi pensatori, come Hasan al-Turabi, affermano che il sistema islamico è un sistema democratico perché si regge sul consenso dei governati. Yusuf Al-Qaradawi sostiene analogamente che lo
Stato islamico è uno Stato civile retto dalla legge, e
dunque implicitamente democratico visto che la
democrazia si fonda sul rispetto delle legge. Escludono, inoltre, che possa essere teocratico».
Che è anche la sua posizione nell’affermare
che l’Islam non ha dato vita a una teocrazia.
«Non lo è per tre motivi. Intanto l’Islam non ha
una Chiesa né un clero e poi anche se alla base c’è
la legge rivelata (shari’a) questa non è un diritto canonico. Non è una legge emanata da una struttura
ecclesiastica. Infine, se si studia attentamente la
storia islamica si può notare una strumentalizzazione dell’elemento religioso da parte di quello politico, quasi mai il contrario. I sovrani hanno utilizzato la religione, gli ulema non hanno invece di
norma provato ad addomesticare lo Stato. Detto in
altro modo e per usare le categorie dell’Occidente,
l’Islam assomiglia ad un cesaropapismo».
Sovraesposizione mediatica e strumentalizzazione politico-culturale hanno attribuito all’Islam un carattere aggressivo e terrorista generalizzato.
«Il primo atto di lotta armata islamica risale, invece, al 1974 quando un gruppo di attentatori cercò
di realizzare un colpo di Stato in Egitto contro il
presidente Sadat. Quindi è una questione che si è
posta negli ultimi quarant’anni, peraltro con intensità differente. Più in generale il radicalismo
islamico si diffonde a partire dagli anni Settanta
perché la Guerra dei sei giorni (il conflitto che aveva opposto Israele a Egitto, Siria e Giordania nel
1967, ndr) e la crisi del nasserismo avevano indotto
molti ad abbandonare il laicismo secolarista, socialista e panarabista protagonista della decolonizzazione per tornare all’Islam. Questo quadro
già fragile si è poi complicato con la crisi economica, la degenerazione di governi corrotti, il neocolonialismo occidentale che hanno provocato una
polveriera da cui ha attinto consenso l’estremismo
islamista».
Una delle ultime fenomenologie dell’estremismo terrorista è lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria (Isis). Qual è l’adesione popolare a questa idea di califfato?
«L’Isis non ha alcuna base popolare, come non
l’aveva al-Qaeda. Rimane per il momento un’avanguardia e trovo stupefacente e inquietante l’inerzia
con cui l’Occidente assiste alla sua espansione, delegando la resistenza, per esempio, ai curdi. Ciò
suscita in me il sospetto che non ci sia da parte dell’Occidente la volontà politica di contrastare seriamente l’Isis, che evidentemente serve a qualcuno o
a qualcosa, per esempio come pretesto per fare la
guerra all’Islam. Non al terrorismo, ma proprio all’Islam, nel senso di ideologia. Così come un tempo si faceva la guerra al comunismo. Certamente è
possibile che le crisi economico-sociali possano
accrescere le simpatie di massa per i movimenti
radicali».
La primavera araba è stato un evento mediaticamente potente, ma che politicamente non si è
compiuto. Tunisia a parte, in molti Paesi la situazione si è involuta. A cosa abbiamo assistito
realmente? Quanto è pesato in ciò l’immaturità
di quella che chiamiamo in Europa «società civile»?
«Le cosiddette primavere arabe sono certamente fallite in retrospettiva. Inizialmente, nella maggior parte dei casi — almeno in Tunisia, Egitto, Siria e Yemen, meno in Libia secondo me — sono
stati movimenti popolari spontanei che hanno rivendicato “pane, libertà e giustizia” nei confronti
di regimi corrotti e oppressivi. Mancando, però, di
una direzione politica — di una visione egemonica, avrebbe detto Gramsci —, si sono presto esauriti lasciando spazio alle lotte di potere. In una prima fase, segnatamente in Tunisia ed Egitto, sono
andati al potere partiti islamisti moderati che hanno tentato un laboratorio di sperimentazione politica potenzialmente originale. Per vari motivi tale
esperimento non ha raggiunto i suoi obiettivi e, in
Tunisia, il partito Ennahda è stato riassorbito nel
quadro istituzionale, mentre, in Egitto, i Fratelli
musulmani sono stati ancora una volta duramente
repressi e al potere sono tornati i militari, riproducendo esattamente le condizioni dei tempi di Mubarak. In Libia e in Siria le rivolte hanno disgregato
lo stato allora esistente ma sulle macerie di questo
non si è riusciti a ricostruire qualcosa di nuovo.
Certamente, l’arretratezza della società civile ha
una responsabilità in tutto ciò, ma non per la sua
immaturità, direi, quanto per la sua gracilità: i regimi dittatoriali precedenti hanno cercato in tutti i
modi di impedire lo sviluppo di una società civile,
potenzialmente foriera di opposizione, e dunque
questa è stata compressa, sebbene in quanto a
proponimenti sia sufficientemente maturata per
rivendicare i diritti».
Simone Casalini
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