link al file - Liceo Classico Lorenzo Costa

Transcript

link al file - Liceo Classico Lorenzo Costa
Dossier
“Permanenze e innovazioni nei miti
di metamorfosi tra letteratura e arte
visiva”
Dossier realizzato dalle classi IV C e IV D del “Liceo Classico L.
Costa” con la coordinazione della professoressa Valentina Zocco.
Indice
1.
Premessa
2.
Miti di metamorfosi
3.
Metamorfosi: continuità e innovazione
4.
Ovidio e “Le Metamorfosi”
5.
Io e Giove
6.
Dipinto: “Giove e Io”
7.
Pan e Siringa
8.
“Metamorfosi di Siringa”: testo greco
9.
Dipinto: “La ninfa Siringa inseguita da
Pan”
10. Callisto
11. Giove e Callisto
12. Confronto mito ovidiano e greco di Callisto
13. Dipinto: “Giove e Callisto”
14. Eliadi
15. Dipinto: “La metamorfosi in pioppi delle
Eliadi”
16. Europa
17. Dipinto: “Il ratto di Europa”
18. Narciso
19. Alcune interpretazione del mito di Narciso
20. Dipinto: ”Narciso alla fonte”
21. Eco
22. Dipinto: “Eco e Narciso”
23. Piramo e Tisbe
24. Aracne
25. Aracne da tessitrice a…: versione greca
del mito
26. Mito di Aracne: confronto tra il testo di
Ovidio e il testo greco
27. Dipinto: “Aracne e Minerva”
28. Tereo, Procne e Filomela
29. Apollo e Dafne
30. Dipinto: “Apollo e Dafne” di Tiepolo
31. Dipinto: “Apollo e Dafne” di A. Del Pollaiolo
32. Apollo e Giacinto
33. Apollo e Giacinto
34. Dipinto: “La morte di Giacinto” di B. West
35. Apollo e Leucotoe
36. Dipinto: “Apollo e Leucotoe”
37. Ciparisso
38. Dipinto: “Ciparisso”
39. Pigmalione
40. Dipinto: “Pigmalione e Galatea”
41. Mirra
42. Mirra
43. Adone: la nascita
44. Dipinto: “La nascita di Adone”
45. Morte di Adone
46.
47.
48.
49.
50.
51.
Dipinto: “Venere e Adone”
Dipinto: “La morte di Adone”
Orfeo e Euridice
Orfeo e le Menadi
Dipinto: “Orfeo e Euridice”
Dipinto: “Orfeo”di Gustave Courtois
1.
Premessa
Durante l’anno scolastico noi alunni delle classi 4^C e 4^D
abbiamo avuto modo di essere introdotti allo studio e all’analisi
dei miti di metamorfosi nell’antichità fino alla modernità,
spaziando da brani tratti dal testo “Le metamorfosi” di Ovidio,
celebre poeta latino, a brani greci, a dipinti rappresentanti
appunto scene di mutazioni metamorfiche ispirati al poema di
Ovidio e rivisitate da artisti moderni.
All’interno del seguente dossier si potranno trovare perciò analisi
del testo, confronti tra varianti mitiche greche e latine e
descrizioni di dipinti accomunati dalla tematica di sfondo della
metamorfosi.
Mettendo
a
confronto
i
vari
elementi
(dipinti-brani)
sottolineeremo ciò che potranno riscontrare i lettori ovvero la
presenza di una delle caratteristiche tipiche del mito: la
permanenza e quindi l’atemporalità dei messaggi insiti nel
racconto mitico.
Saremo poi anche in grado di enfatizzare e confrontare gli
elementi che, aggiuntisi nel tempo, hanno determinato le
innovazioni ai messaggi degli autori antichi e moderni.
Pistelli Tommaso, IV D
1
2.
La
Miti di metamorfosi
parola
mito
deriva
dal
greco
μύ ο
che
significa
prevalentemente «narrazione, racconto orale». Il mito tratta
quindi in particolare gli argomenti relativi agli dei e le loro
imprese. Le caratteristiche del mito sono: l'oralità, che era una
caratteristica fondamentale perché quando esso è nato non
esisteva
la
scrittura,
perciò
il
mito
era
tramandato
da
generazione in generazione; la sacralità, perché il mito era legato
a riti, pratiche sacre giustificate dal racconto stesso; la
polivalenza, dato che il mito può avere vari significati simbolici;
la plasticità, perché esso in virtù dei simboli di cui si sostanzia
può essere interpretato e rielaborato in base alle esigenze
dell'epoca e dell’autore che lo rivisita; l'aspetto educativo e
conoscitivo per il tentativo di spiegare attraverso una narrazione
dai tratti fantastici le origini dell'universo, la creazione del
mondo, la nascita degli dei e la loro rivelazione; l'atemporalità,
perché appunto il mito si conserva ancora oggi nonostante che il
carattere sacrale-religioso dell'antichità sia stato sicuramente
ridimensionato.
I racconti mitici si dividono in varie tipologie: per esempio i miti
cosmogonici e antropogonici. I miti cosmogonici cercano di
spiegare l'origine del
ó μο invece quelli antropogonici cercano
di spiegare l'origine dell'uomo. In questo dossier vengono trattati
i miti di metamorfosi.
La
parola
metamorfosi
deriva
dal
greco
με αμó φω
«trasformazione», che a sua volta deriva da με αμο φóω che
significa «trasformo». In generale si intende la trasformazione di
un essere in un altro di natura diversa. Ci sono vari tipi di
2
metamorfosi: di tipo discendente se viene considerata come una
punizione,
ascendente
se
viene
considerata
come
una
ricompensa ed eziologica se cerca di spiegare un fenomeno, un
rito o l’esistenza di un elemento naturale.
Il poeta che ci ha lasciato un repertorio molto ampio di miti di tal
genere è Ovidio, poeta latino vissuto al tempo di Augusto che
scrisse tante opere tra le quali anche "Le Metamorfosi", un
poema in esametri in 15 libri che narra soprattutto miti di tipo
eziologico che terminano appunto con la trasformazione dei
personaggi in animali, stelle, rocce.
Simonelli Davide, IV C
3
3.
Metamorfosi: continuità e innovazione
La metamorfosi all’interno dell’opera “Le Metamorfosi” di Ovidio
è la tematica principale. La parola metamorfosi è una parola
composta che deriva dal greco με ά e μο φή con il significato di
«cambiamento di forma, trasformazione». Questo è il tema
preponderante all’interno dell’opera, in quanto tutti i personaggi,
protagonisti dei miti, subiscono trasformazioni che possono
renderli esseri migliori, quindi la metamorfosi è vista come un
dono, un premio (metamorfosi ascendente), ed è solitamente in
elementi naturali come dei fiori o delle stelle, oppure può fungere
da punizione e quindi far diventare gli uomini animali o rocce.
La metamorfosi è dovuta sempre ad un influsso divino, in
quanto sono gli dei a decidere del destino dei mortali.
La metamorfosi, nella maggior parte dei casi dell’opera di Ovidio,
è legata alla tematica dell’amore, in particolare a quella
dell’amore
impossibile
e
dell’amore
visto
come
fuga
ed
inseguimento e come la fiamma che arde il cuore dei mortali e
degli immortali. In Ovidio, infatti, gli dei sono soggiogati dalla
forza dell’amore tanto quanto lo sono gli uomini e come questi
ultimi non possono sfuggirvi. L’amore è un elemento che mostra
la continua validità del mito in quanto è un concetto inalienabile
che viene vissuto da tutti gli uomini al giorno d’oggi così come
nell’epoca greca e latina o, più in generale, in tutti i periodi
passati. L’amore è infatti una forza che si estende e si manifesta
perennemente e rende i miti di metamorfosi validi sempre.
La metamorfosi inoltre nel miti di Ovidio va a spiegare la
formazione di un determinato elemento o fenomeno naturale:
questo aspetto porta il concetto a sé stante di metamorfosi ad
4
essere continuo nel tempo in quanto spiega la presenza di
fenomeni ed elementi naturali presenti tutt’ora sulla terra
proprio come nel passato (valore eziologico della metamorfosi).
Infine, i miti di metamorfosi di Ovidio contengono in sé quel
valore paideutico tipico piuttosto del mito greco, da cui il poeta
latino attinge, valido prevalentemente per la società antica, ma
che si può facilmente adattare anche a quella moderna. La
metamorfosi può infatti essere punitiva o esaltativa: nel primo
caso, tramite la metamorfosi, gli uomini, i lettori dell’opera
comprendono quali siano i comportamenti da non seguire onde
evitare la punizione divina, nel secondo invece, i lettori
capiscono i comportamenti positivi degni della ricompensa degli
dei. Questi elementi, nonostante la trasformazione delle epoche
da quella greca a quella odierna, possono essere colti come
elementi di continuità in quanto mostrano comportamenti
sempre
negativi
(l’arroganza,
la
tracotanza,…)
e
modelli
comportamentali sempre positivi (l’amore per gli altri, rispetto
dei limiti..) che appunto hanno una validità atemporale.
In conclusione, la metamorfosi è elemento di continuità e
innovazione in quanto si estende nel tempo senza limite e porta
con sé aspetti della vita antica e moderna allo stesso modo,
mostrando l’aspetto di continuità e innovazione del mito stesso,
che ha una dimensione atemporale e quindi una validità
imperitura.
Arena Benedetta, IV D
5
4.
Ovidio e ”Le Metamorfosi”
Ovidio è un autore latino vissuto durante l’epoca di Augusto.
Scrisse un’opera in versi intitolata “Le Metamorfosi” formata da
15 libri nella quale sono narrati miti che hanno in comune una
fine che prevede il protagonista trasformarsi in un oggetto o
animale, quindi in qualcosa di natura diversa.
Ovidio in questi poemi è il narratore principale ma usa anche
altre voci narranti di secondo grado; usa la tecnica alessandrina
che prevede l’incastro di racconti mitici e non una narrazione
continua.
Il poeta, distaccandosi dalla civiltà greca arcaica, con i suoi miti
vuole esibire le sue abilità, la bravura nelle descrizioni e non
vuole esprimere un giudizio o un’interpretazione del mondo.
Vuole quindi intrattenere il lettore.
A questo punto si può parlare di virtuosismo poetico e in effetti
le sue descrizioni sono eccellenti. Infatti nei suoi miti durante la
metamorfosi descrive le trasformazioni puntualmente con ritmo
quasi reale.
Ovidio nei suoi miti attribuisce inoltre agli dei sentimenti e
sensazioni umane e quindi li umanizza.
Alcuni critici considerano l’arte di Ovidio un ‘miracolo laico’,
perché descrive prodigi non in termini miracolistici e religiosi ma
con una certa razionalizzazione tanto da rendere il ‘mirum’ quasi
familiare e accettabile anche ad un lettore incredulo. Anche in
questo risiede la straordinaria arte dell’autore.
Ferraro Matteo IV C
6
5.
Io e Giove
Il mito, tratto dall’opera “Le Metamorfosi” di Ovidio, narra le
vicende
di
Io,
figlia
di
Inaco.
Un giorno Io attira l’attenzione del re degli dei, Giove, che decide
di unirsi alla ragazza. Questo desta le ire della moglie di Giove,
Giunone; il dio allora trasforma Io in una giovenca, per
nascondere alla moglie la vera identità della ragazza. Giunone
però vuole in dono la giovenca e Giove decide di donargliela. Per
evitare che il marito gliela sottragga, affida la giovenca ad Argo
dai cento occhi, con il compito di vegliare su di lei. Un giorno
durante la sua prigionia Io si reca sulla riva del fiume Inaco,
dove incontra il padre; lì cerca di svelargli la sua identità e il
padre si addolora per l’accaduto. Giove poi manda Ermes a
liberare Io e ad uccidere Argo.
Dopo averlo ucciso, Giunone infuriata fa fuggire Io che si rifugia
sulle
rive
nuovamente
del Nilo, e prega l’aiuto
le
sue
fattezze
di Giove, riacquista
umane
e
genera
Epafo
Dal punto di vista dell’analisi, nella prima sequenza troviamo il
primo campo semantico del mito, ossia quello della tristezza («il
pianto, piangendo, infelicissimo»); è presente un’analessi «ma
l’aveva vista». Le parole «bosco profondo, bosco, nascondiglio
segreto, nascose, nebbia» fanno parte del campo semantico del
segreto, dell’oscurità, e la nebbia in particolare è un espediente
che Giove usa per catturare la ragazza. Queste parole inoltre
vengono utilizzate da Ovidio per suscitare nel lettore una
visualizzazione delle immagini. Troviamo inoltre il campo
semantico della fuga («fuggirmi, fuggiva») e vari epiteti riferiti alla
figura di Giove «scettro del cielo, fulmini». Nella seconda
7
sequenza troviamo il campo semantico del tradimento («amori
furtivi, colto sul fatto, tradisce»); inoltre è presente la tematica
della metamorfosi, legata alla prima trasformazione di Io e ad
essa è riferito il campo semantico dell’amore («amata, amore»).
Nella terza sequenza troviamo il campo semantico del timore
«timore, temendo» legato a Giunone per il possibile tradimento
del marito.
In questa sequenza poi troviamo la tematica della bestialità
contrapposta a quella dell’umanità, e della crisi d’identità della
ragazza trasformata in giovenca («muggiti, voce»); a lei è legato il
campo semantico della tristezza («lacrime, infelice, lutto») riferito
a Inaco, triste per la sfortunata sorte della figlia.
La quarta sequenza è caratterizzata da un dialogo tra Ermes,
mandato da Giove, e Argo, il custode della ragazza. Inoltre è
presente il campo semantico del sonno («addormentare, sonno,
sopore») riferito ad Argo che si addormenta al suono delle canne
suonato da Ermes.
Da qui inizia il canto di Ermes che racconta la storia di Pan e
Siringa, con la tecnica del racconto ad incastro.
Nella quinta sequenza abbiamo un’apostrofe del poeta riguardo
ad Argo, ucciso da Ermes; qui è presente una metamorfosi
eziologica, perché spiega la forma del pavone, che nel mito di
Ovidio non è altro che l’uccello di Giunone ornato degli occhi di
Argo ormai morto. Qui abbiamo la tematica della metamorfosi,
legata alla seconda trasformazione di Io, che viene riportata alle
fattezze originali; quindi possiamo parlare di una metamorfosi
temporanea.
De Mite Valentina IV C
8
6.
Dipinto:“Giove e Io”
Giove e Io”
Il dipinto “Giove e Io” del 1531 di Antonio Allegri detto il
“Correggio”, rappresenta Giove trasformatosi in nube per avere
un rapporto con la ninfa Io e sfuggire all’ira di Giunone.
Ovidio racconta che la ninfa fugge dal dio e che per non essere
scoperto dalla moglie si nasconde nella nebbia. Giunone capisce
9
che lo strano repentino mutare di tempo è ricollegabile ad un
espediente del marito e Giove decide di trasformare Io in una
giovenca che donerà alla moglie per non insospettirla, la quale a
sua volta la affiderà ad Argo mostro dai cento occhi che verrà poi
ucciso da Ermes. Liberata la giovenca, Giove decide di
ritrasformarla in essere umano e dalla loro unione si narra poi
che sia nato Epafo.
Osservando il quadro, in primo piano si vede la ninfa che
sembra essere consenziente ad avere un rapporto con il dio,
infatti viene dipinta con il capo reclinato come se stesse per
baciarlo.
Spazio più ampio viene lasciato alla nube nella quale si
intravede il viso del dio che si confonde con lo sfondo che
sembra voler indicare il cambiamento improvviso di tempo
voluto proprio dallo stesso Giove per nascondersi con la ragazza.
Nello spazio occupato dalla nuvola si intravedono delle foglie per
rappresentare il luogo dove si svolge la vicenda, cioè il bosco e la
natura.
La ragazza invece viene raffigurata di spalle con il viso rivolto
verso il dio e nuda con la veste bianca lasciata cadere accanto a
lei.
Sul lato più basso del quadro si osserva un cervo che si
abbevera a un piccolo fiume che scorre proprio vicino alla
ragazza e che sembra non accorgersi di ciò che sta succedendo
alle sue spalle.
Il vaso dipinto vicino al cervo allude forse al fiume, padre della
ninfa oppure rimanda all’antichità classica.
Infine i colori usati dal pittore sono molto scuri, questo per dare
un senso di oscurità dovuto alla grande nube che simboleggia il
10
tradimento del dio e che con i colori scuri comunica l’idea della
“fuga” dalla moglie.
Questo
quadro rappresenta
solo una sequenza del mito
raccontato da Ovidio e non l’intera vicenda.
Tuttavia il quadro non rappresenta il mito come viene raccontato
da Ovidio che ci descrive la ragazza impaurita che fugge dal dio
nel bosco,infatti si notano alcune differenza: nel quadro, la
ragazza viene raffigurata come consenziente ad avere un
rapporto con Giove.
Possiamo comprendere questa differenza perché l’intento del
pittore era quello di rappresentare non la tragedia della
metamorfosi ma i tradimenti che Giove spesso si concedeva.
Todaro Valentina IV D
11
7.
Pan e Siringa
Il brano è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, autore latino
vissuto ai tempi di Augusto. Ovidio usa spesso la tecnica
alessandrina del racconto ad incastro,che gli permette di evitare
la successione elencativa delle vicende, incastrandone una o più
all’interno di un’altra, come avviene in questo brano, dove Ovidio
inserisce il mito di Pan e Siringa all’interno del mito di Io nel
momento in cui Ermes cerca di sconfiggere Argo per liberare la
fanciulla trasformata in giovenca e decide di addormentarlo
raccontando il mito di Pan. Si prova perciò quasi una vertigine
perché le voci narranti si alternano e cambiano spesso. Ovidio
ha collegato queste due vicende per affinità (l’amore non
corrisposto, lo spazio boschivo, la condizione tragica della
fanciulla).
Il mito racconta che Pan, figlio di Ermes si innamorò di
Siringa,ninfa seguace di Diana. La naiade, per sfuggire a Pan
scappò nei pressi di una palude dove, vedendosi raggiunta,
invocò le Naiadi, che la mutarono in canne palustri. Pan, nel
momento in cui pensava di aver raggiunto la ninfa, si trovò
davanti a un fascio di canne che mosse dal vento mandavano un
suono delicato simile a un lamento. Allora Pan, utilizzò le canne
per
costruire
uno
strumento
musicale:
la
siringa.
La prima sequenza, di tipo narrativo, racconta come Siringa si
era presa gioco della caccia dei satiri e degli dei e vestita come
Diana voleva ingannare e passare per la figlia di Latona,
tentativo mal riuscito poiché non possedeva l’arco d’oro.
Il primo campo semantico è proprio quello relativo alla caccia
(caccia, Diana, arco, corno) e assume due connotazioni diverse:
12
una fa riferimento alla caccia amorosa che satiri e dei mettono in
atto nei confronti di Siringa e che elude regolarmente; l’altra alla
caccia che mette in atto la naiade volendo eguagliare Diana. È
vero che rispetto alla dea le mancava l’arco d’oro ma riusciva
ugualmente
ad
ingannare
tutti.
Il secondo campo semantico è quello della natura (boschi, fertili
campi) e si intreccia con il primo nella misura in cui si allude in
particolare alle selve e ai boschi in cui si muove la caccia.
Il narratore è Ovidio,la focalizzazione è zero, però nel momento
in cui Ovidio vuole mettere in evidenza il punto di vista di Pan,la
focalizzazione è interna e multipla, lo spazio è aperto e reale e
l’epoca
come
in
ogni
mito
non
è
specificata.
La seconda sequenza, sia mimetica sia diegetica, racconta come
Pan si innamori di Siringa e di come lei tenti di fuggire non
ricambiando quest’amore. Il primo campo semantico è relativo
alla mancanza di colloquio fra Pan e Siringa, nonostante il
desiderio di Pan. Ovidio infatti, al posto delle parole che Pan
vorrebbe dirle, mette le virgolette e una linea orizzontale e
aggiunge
poi
«restava
di
dirle».
Il secondo campo semantico è quello della fuga (fuggì, fuga) che
evidenzia come la dea non voglia assolutamente corrispondere
l’amore
di
Pan
in
ossequio
alla
dea
della
caccia.
La terza sequenza, narrativa e descrittiva, racconta di come
Siringa, trovandosi davanti ad un fiume che le impediva la fuga,
supplicò le sorelle dell’acqua poiché la trasformassero. Pan,
credendo di aver raggiunto la ragazza, invece del suo corpo
strinse delle canne palustri e notò che il vento, mosso dentro le
canne, dava un suono delicato come un lamento. Allora, Pan,
incantato da questo lamento, esattamente com’era incantato
13
dalla ninfa, decide di unire insieme le canne, formando cosi un
nuovo strumento musicale, la siringa, con il quale solo avrebbe
potuto avere quel colloquio che non era riuscito ad instaurare
con
la
fanciulla
prima
della
metamorfosi.
L’unico campo semantico riscontrato in questa sequenza è
quello della metamorfosi (trasformassero, canne, suono tenue,
dolcezza del suono): la siringa diventa così il mezzo del colloquio
con il quale Pan sarà legato per sempre alla naiade amata. Per
fare ciò Pan mette insieme con la cera canne disuguali e cosi
mantiene
vivo
il
nome
della
ragazza.
Questo è un mito eziologico perché cerca di spiegare l’origine del
flauto.
Laviosa Elena IV D
14
8.
Metamorfosi di Siringa: testo greco
Traduzione
La siringa non era uno strumento musicale ma una bella
vergine, che conduceva capre al pascolo nelle foreste, danzava
con le ninfe, cantava come adesso. Pan poi si invaghiva di
questa, ma la vergine derideva il suo amore. Pan dunque la
inseguiva; la fanciulla poi, chiamata Siringa, sfuggendogli si
nasconde tra canne, ma sparisce nella palude. Poi Pan
percuotendo le canne per l'ira, poiché non trovava la fanciulla,
ideava lo strumento, avendo legato con la cera canne diseguali,
come anche loro avevano amore diseguale. Così Siringa si
trasformava in strumento musicale.
Tematiche
All'interno della versione si riscontrano il campo semantico della
natura («capre, pascolo, foreste, canne, palude») che potrebbe
rimandare alla natura agreste e in parte animale di Pan; in
particolare il bosco era il luogo tipico in cui il dio era solito
consumare le sue violenze. Si riscontra poi il campo semantico
15
dell'amore di Pan («invaghiva, amore»), non corrisposto da
Siringa; è possibile individuare inoltre anche il campo semantico
della verginità («bella vergine, Ninfe, vergine») che rispecchia la
natura e gli ideali della ninfa Siringa. Si riscontra poi il campo
semantico della musica («strumento musicale, cantava,
strumento») legato a ciò in cui la fanciulla si trasformerà. Infine
individuiamo il campo semantico della fuga («inseguiva,
sfuggendogli, nascondeva, spariva»), la causa della
trasformazione di Siringa.
Piarulli Emanuele, IV D
16
9.
Dipinto:“La ninfa Siringa inseguita da Pan”
di Brueghel dei Velluti e Pieter Paul Rubens
Il dipinto intitolato “La ninfa Siringa inseguita da Pan”, realizzato
nel 1620 da Brueghel dei Velluti e Pieter Paul Rubens, è
conservato
nella
pinacoteca di
Brera.
Dal titolo si
può evincere
che
l’opera
raffigura una
scena
famoso
di
Pan
del
mito
e
Siringa, tratto
dall’opera “Le Metamorfosi” del celebre poeta latino Ovidio.
Nella parte destra del quadro notiamo la presenza di due
individui e uno all’inseguimento dell’altro: dall’aspetto bestiale
dell’inseguitore, per metà umano e per metà caprino, realizziamo
che si tratta di Pan, quindi possiamo dedurre che la fanciulla
inseguita sia la ninfa Siringa. Più volte nei racconti mitologici si
narra del dio agreste intento in inseguimenti di fanciulle: a
causa del suo aspetto infatti la volontà di appagare il proprio
17
desiderio amoroso veniva spesso respinta, cosa che lo induceva
a ricorrere ad atti violenti e selvaggi.
Nell’espressione di Pan si legge tutta la volgare attrazione per la
sfortunata ninfa, la quale invece, rassegnata, rallenta la corsa e
con sguardo supplichevole e mani rivolte verso il cielo, prega le
sorelle affinché la trasformino per poter sfuggire alla violenza
carnale del satiro. I corpi dei due sono seminudi e nel caso di
Siringa hanno tratti delicati e morbidi, nel caso di Pan tratti
grezzi e bestiali; i pochi panni che li coprono sono scomposti,
gonfiati dal vento e danno l’idea della dinamicità della fuga che,
come ho già detto, nel caso della ninfa sta per arrestarsi.
Per quanto riguarda il paesaggio, ci troviamo presso un fiume, il
«placido e sabbioso Ladone» [cit. Ovidio] padre della fanciulla,
che
impedisce
il
proseguimento
della
fuga
di
Siringa,
costringendola così a invocare l’aiuto delle sorelle che poi la
trasformeranno in una canna. Qui notiamo la presenza di volatili
tipici dei corsi fluviali (probabilmente anatre, papere) che
fuggono spaventati dalla violenta corsa dei due: essi non sono
menzionati da Ovidio nella sua opera. Nel dipinto inoltre c’è
molta vegetazione e questo, unito alla presenza di animali,
potrebbe essere un riferimento alla natura agreste, boschiva e in
parte bestiale di Pan. Sullo sfondo, oltre la vegetazione, si scorge
un angolo di cielo rossastro e arancione, probabilmente all’alba o
al tramonto. I colori principali sono caldi (rosso, giallo,
arancione, marrone.. ), elemento che potrebbe essere un
riferimento al calore della passione di Pan per Siringa.
Dal momento che l’esigenza del pittore è quella di isolare una
scena di tutto il mito, non è, a mio parere, la metamorfosi il
18
tema sul quale dei Velluti e Rubens vogliono far soffermare
maggiormente l’attenzione, in quanto la ninfa ha ancora le
sembianze umane e solitamente, nei dipinti che raffigurano le
metamorfosi, i soggetti delle trasformazioni non sono totalmente
umani, ma hanno alcune parti, se non tutto il
corpo,
trasformati. Ritengo piuttosto che lo scopo dei pittori fosse quello
di rappresentare o uno dei tanti tentativi d’approccio amoroso di
Pan o la tematica della passione e dell’amore violento nei miti.
Come ho già detto, l’opera è stata realizzata nel 1620, periodo in
cui si sviluppò la corrente artistica del Barocco, che è irregolare
antitesi con l’arte classica, disarmonica e esagerata e di cui
proprio Pieter Paul Rubens è uno dei massimi esponenti per
quanto riguarda la pittura.
Può sorprendere che gli autori abbiano scelto da rappresentare
proprio un mito: i miti infatti sono tipici della civiltà classica,
caratterizzata invece da un’arte quasi perfetta, pura, geometrica,
con dei canoni da rispettare (es. canone di Policleto) che quindi
non si addice allo stile Barocco.
Piarulli Emanuele, IV D
19
10.
Callisto
Il mito proposto è tratto da "Le metamorfosi", raccolta scritta dal
poeta latino Ovidio, vissuto durante l'epoca dell'imperatore
Augusto.
Nella prima sequenza del brano troviamo il dio Giove che mentre
fa scorrere fiumi, crescere erba, alberi e boschi si accorge di una
fanciulla che stava cacciando con un arco. Questa stanca si
dirige verso un bosco e si sdraia al suolo per riposare. Si
possono riscontrare in questa sequenza il campo semantico della
natura ("fiumi", "terra", "erba", "fronde", "alberi", "sole", "selva",
"suolo erboso") che è tipico di questi miti e ci è utile per capire
che lo spazio in cui si svolge la vicenda è aperto.
Un altro campo semantico è quello della caccia testimoniato
dalle parole "arco", "asta levigata" e "faretra" che può rimandare
alla natura selvaggia e ancora agli spazi aperti.
Il tempo della vicenda è indeterminato in quanto non vi sono
elementi che ci possono far capire l'epoca in cui sono svolti i
fatti.
Nella seconda sequenza che va dal verso 422 al verso 433
troviamo Giove che si traveste in modo da avere l'aspetto di
Diana per potersi avvicinare alla fanciulla di nome Callisto la
quale loda la dea Diana ritenendola al di sopra di Giove. In
questa sequenza Giove violenta la fanciulla che non riesce a
fuggire perché troppo debole. La sequenza si apre con un
soliloquio da parte di Giove.
Si possono ancora riscontrare le parole "erba" e "boschi" che
vanno a comporre il campo semantico della natura riscontrabile
per tutto il mito.
20
Al verso 431 si può trovare una litote ("baci non casti"). In
questa sequenza troviamo il tema dell'offesa e dell'inganno:
offesa in quanto Callisto, non sapendo che chi aveva di fronte
era in realtà Giove, lo offende, e inganno poiché Giove inganna la
fanciulla travestendosi da Diana per poterla avvicinare.
Nella terza sequenza si riscontra la presenza di una ribellione,
ormai inutile, da parte di Callisto, la quale non vuole essere
violentata dal dio che ormai si è rivelato. Si riscontra il campo
semantico della ribellione testimoniata dalla parole "fuggire",
"ribellare", e "andarsene" che rimandano ad un amore visto come
una disperata fuga perché non ricambiato, come nel mito di
"Apollo e Dafne" e in quello di "Io".
Ancora una volta si può individuare il campo semantico della
natura ("cielo", "selva", "alberi", "ramo") e quello della caccia
("faretra" e "frecce").
La quarta sequenza si apre con l'arrivo di Diana, questa volta la
dea vera, presentata tramite una perifrasi ("Dictinna"). La
fanciulla diffidente fugge e ancora una volta ritroviamo il campo
semantico della fuga ricollegato al tema della sequenza. Inoltre
"inganno", "colpa", "pudore" vanno a costituire il campo
semantico della colpa.
La colpa è attribuita alla fanciulla Callisto in quanto non si è
mantenuta vergine. In parte non è una vera e propria colpa visto
che lei non sapeva che egli fosse il dio Giove.
Nella quinta sequenza si narra del momento in cui Diana, le
ninfe e Callisto si immergono nude nell'acqua di un fiume. In
questa sequenza Diana e le ninfe si accorgono della colpa
commessa dalla fanciulla, cioè aver perso la verginità e di
conseguenza essere rimasta incinta.
21
Il campo semantico della natura ricorre ancora in questa
sequenza facendoci intuire che lo spazio in cui si svolge la
vicenda è aperto ("bosco", "sabbie", "fiume", "onde"; acqua").
Inoltre è presente un epiteto, "Parassia", che indica la fanciulla
Callisto. In questa sequenza sono messi in evidenza il disagio e
la vergogna provati dalla fanciulla, che infatti esita ad entrare in
acqua per non essere sorpresa dalla dea che la caccia via.
La sesta sequenza ci introduce la figura di Giunone tramite una
perifrasi ("la sposa del dio tonante") la quale, infuriata, ha
intenzione di punire Callisto, non tanto per essersi unita a Giove
quanto per aver dato alla luce Arcade, figlio suo e di Giove. La
sequenza è narrativa, ma vi è la presenza di un soliloquio in cui
Giunone insulta Callisto e la incolpa d'adulterio.
A questo punto avviene la metamorfosi della fanciulla in un'orsa
dall'aspetto
selvaggio
e
bestiale:
in
questo
caso
essa
è
discendente perché punizione e perché trasformazione in
animale. Le parole usate per descrivere la trasformazione ci
fanno capire il registro alto dell'autore, infatti qui, e in tutto il
brano, fa uso di figure retoriche e aggettivi di uso non comune.
Nella settima sequenza viene descritta e narrata la vita di
Callisto una volta trasformata in orsa. Vengono evidenziati il duo
smarrimento per il vivere nel bosco e la paura dell'essere
catturata dai cacciatori, di cui lei un tempo faceva parte perché
amava cacciare. La narrazione viene accelerata dall'autore,
infatti capiamo che vi è stato un salto temporale nella narrazione
dalla frase "Aveva quindici anni", riferito al figlio della fanciulla,
ora orsa.
Nell'ottava sequenza viene narrato l'incontro tra Arcade ("nipote
di Licaone") con l'orsa sua madre. Callisto, che sembra
22
riconoscere il figlio, vi si avvicina, ma egli, terrorizzato sta per
trafiggerla. Giove la salva e sentendosi in colpa di averla fatta
diventare un essere tanto bestiale la trasforma in stella insieme
al figlio Arcade e insieme vanno a comporre la costellazione
dell'Orsa Maggiore in cielo.
Questo mito è di tipo eziologico e si riscontra sia una
metamorfosi discendente (da uomo ad animale) sia ascendente
(da animale a stella). Lo scopo del mito è quindi quello di
spiegare l'esistenza della costellazione dell'Orsa Maggiore tramite
una spiegazione erudita.
Il tema è, come in tutti i miti appartenenti alla raccolta di "Le
metamorfosi", appunto quello della trasformazione. Un altro
tema riscontrato anche in altri miti analizzati è quello dell'amore
visto come un inseguimento. Si può individuare il tema del
tradimento di Giove nei confronti della moglie Giunone e infine
quello del destino avverso a cui i mortali sono spesso sottoposti,
in quanto Callisto non era consapevole del fatto che si stava
unendo
al
dio
e
che
quindi
non
voleva
commettere
volontariamente tale adulterio.
Bertani Elena, IV D
23
11.
Giove e Callisto
Il mito è tratto dall’opera “Le metamorfosi” di Ovidio, grande
autore latino vissuto nell’età augustea. Questo mito è eziologico
poiché spiega la formazione dell’astro dell’Orsa Maggiore.
La storia racconta di come Giove, dopo aver visto la ninfa
Callisto distesa in un prato, se ne innamora e, travestendosi da
Diana, le si avvicina e consuma un tradimento. Segue poi l’ira di
Giunone che trasforma la ragazza in un’orsa. Giove, allora,
sentendosi in colpa compie una seconda metamorfosi sulla
ragazza facendola diventare una stella, l’Orsa Maggiore appunto.
Nella
narrazione
riscontriamo
alcune
caratteristiche
che
accomunano tutte le sequenze. La focalizzazione è zero, ma in
alcune parti diventa interna poiché la vicenda prende il punto di
vista del personaggio. Il narratore è onnisciente e dal campo
semantico della natura possiamo dedurre che gli spazi siano
aperti, mentre come da caratteristica del mito, il tempo è
indefinito. Il racconto è una fabula poiché è rispettato l’ordine
cronologico degli avvenimenti.
La prima sequenza narra di come, dopo aver notato la fanciulla e
dopo essersi travestito da Diana, Giove consumi l’adulterio
contro il volere della povera ed impotente ninfa. Questa è una
sequenza
narrativa
poiché
contribuisce
all’evolversi
della
vicenda, la narrazione è diegetica poiché non sono presenti
discorsi diretti.
Riscontriamo diversi campi semantici, quello della natura che,
come detto in precedenza, ci fa capire che i luoghi sono aperti,
quello della caccia che ci aiuta a capire il travestimento di Giove.
24
κ presente inoltre la tematica dell’amore, insieme a quella del
travestimento, dell’inganno e del tradimento.
Con l’espressione “fuoco d’amore” abbiamo un linguaggio
connotativo
e
metaforico.
Abbiamo
anche
una
litote
nell’espressione “baci non casti” che è una figura retorica che
attenua un concetto negandolo. Abbiamo anche un soliloquio di
Giove il quale pensa che la moglie non verrà a sapere del
tradimento e che, anche se lo verrà a sapere, se la caverà con
una lite. Tutti questi accorgimenti stilistici rientrano nella
funzione di lingua poetica.
La seconda sequenza, anch’essa narrativa, narra della vergogna
che prova la fanciulla per non essere più vergine, tanto che dalla
dea Diana viene considerata addirittura “contaminata”. Il
momento in cui la fanciulla andandosene si sta per dimenticare
arco, frecce e faretra, ci fa capire quanto fosse sconvolta
dall’accaduto. Anche qui la narrazione è diegetica e possiamo
riscontrare la tematica della paura, nel momento in cui la
ragazza vede tornare Diana verso di lei, pensando che fosse
ancora Giove sotto travestimento. In questa sequenza, oltre al
campo semantico della natura già riscontrato in precedenza,
troviamo anche quella della colpa e dell’inganno.
Nella terza sequenza si narra di come Giunone, denominata con
la perifrasi “sposa del dio tonante”, accecata dalla rabbia,
trasformi la ninfa in un’orsa: questa è una metamorfosi
discendente, poiché la fanciulla viene trasformata da un essere
superiore ad uno inferiore, e viene quindi vista come una
punizione. Si riscontra quindi la tematica della colpa a cui segue
punizione. Dopo la metamorfosi troviamo il climax, quando la
fanciulla trasformata in orsa, risulta incapace di comunicare con
25
la parola. Troviamo anche diverse esclamazioni del narratore,
che interviene con l’intento di coinvolgere i lettori. La narrazione
è prevalentemente diegetica, ma troviamo anche una parte in cui
diventa mimetica e anche qui riscontriamo il campo semantico
della colpa.
Nella quarta sequenza abbiamo la seconda metamorfosi di
Callisto, questa volta ascendente, poiché viene trasformata da
orsa a stella per l’eternità. La narrazione è diegetica e con il
riferimento a Licaone Ovidio allude ad altri miti greci.
Nella quinta ed ultima sequenza si narra della collera di Giunone
quando vede la sua rivale splendere in cielo. Quindi riscontriamo
le tematiche della collera e della gelosia. La sequenza è
prevalentemente mimetica, poiché troviamo un lungo discorso
diretto di Giunone con gli dei del mare, cosa che ci fa capire
quanto fosse adirata. In alcuni punti si ha addirittura la
sensazione che Ovidio prenda in giro Giunone dato che la
umanizza. Riscontriamo infine il campo semantico dell’offesa.
Ricci Riccardo, IV D
26
12.
Confronto mito ovidiano e greco di Callisto
Interessante potrebbe essere confrontare
i due miti da noi
analizzati in classe che trattano entrambi della nascita dell’Orsa
Maggiore. Il primo, piuttosto sommario, è scritto da un autore
greco pseudo-Apollodoro; il secondo invece, più lungo e ricco di
dettagliate descrizioni, è scritto dal celebre autore latino Ovidio.
La trama
principale è la medesima: Zeus/Giove, re degli dei,
scorge casualmente Callistò,una splendida ninfa compagna di
Diana, nella versione latina, Artemide in quella greca, e se ne
innamora perdutamente; nonostante che la giovane sia contraria
decide di unirsi a lei in un bosco, scatenando in questo modo
l’ira di sua moglie Era,regina degli dei. Callistò viene quindi
trasformata in orsa e, nella conclusione di entrambe le versioni,
per evitare una tragedia, viene posta nel cielo, dove per sempre
rimarrà.
Molte sono le analogie fra il testo greco e quello latino,
altrettante le differenze. Sin dall’inizio è possibile constatare
alcune disuguaglianze fra i due brani: quello di Ovidio, ad
esempio, inizia con una lunga descrizione della ninfa Callistò
della quale Giove si innamora con un solo sguardo; il re degli dei
decide in breve tempo che vale la pena commettere un adulterio
con una ragazza di cotanta bellezza, così prende le vesti di
Diana, dea compagna e protettrice di Callistò e così facendo
riesce a ingannare e a violentare la giovane all’interno del bosco,
nel quale ella si stava riposando.
Il testo greco inizia invece con una brevissima presentazione
della fanciulla protagonista del mito, e passa subito a narrare il
tradimento di Zeus; anche qui la fanciulla non è consenziente
27
all’unione, ma in questa versione è il re degli dei che, timoroso
che la moglie possa scoprire la sua infedeltà, decide di
trasformare la giovane, con la quale si è appena unito, in
un’orsa,
ma
invano:
infatti
Era,
sua
moglie,
non
cade
nell’inganno. Era allora si vendica persuadendo Artemide a
colpire un’orsa, senza rivelarle che quella è Callistò trasformata.
Nel mito dell’autore latino i fatti si svolgono diversamente: poco
dopo essere stata violentata da Giove in veste di Diana, Callistò
non viene trasformata in orsa, bensì incontra la “vera” dea della
caccia alla quale, in seguito a qualche esitazione, si riunisce. La
ninfa è rimasta incinta del dio, il tempo trascorre e la cosa è
sempre più evidente, ma Diana non se ne accorge. Solo una
sera, dopo che la ragazza viene
spogliata per immergersi
nell’acqua limpida di un lago, la sua colpa è visibile agli occhi di
tutti e viene quindi cacciata da Diana stessa. E’ questo il
momento che Era, la quale aveva scoperto già da tempo ciò che
era avvenuto, trova perfetto per punire l’adulterio della ninfa,
che aveva da poco partorito un figlio, Arcade, segno evidente del
tradimento. Così Callistò viene trasformata in orsa, viene privata
del suo aspetto e della parola e di umano le rimane solo il
pensiero. Gli anni trascorrono e un giorno, mentre la donna
cammina nel bosco mutata in orsa, incontra suo figlio, ormai
quindicenne, che è andato a cacciare; la madre sembra
riconoscerlo e si avvicina a lui, mentre Arcade, impaurito, sta
per ucciderla; ma Zeus, che assiste a tutta la scena, non vuole
permettere che l’amante muoia in questo modo, quindi colloca
nel cielo sia lei sia il figlio trasformandoli in costellazioni. Segue
dunque un lungo dialogo di Era che si rivolge ad alcuni dei: ella
è infuriata e offesa poiché la sua rivale in amore, invece di essere
28
punita come si meriterebbe,viene posta in cielo, ricevendo un
onore che non si merita.
Anche nel testo greco, poco prima che possa avvenire una
tragedia, interviene Zeus che pone la ragazza in cielo, dandole il
nome di Orsa Maggiore, ed è così che questo mito si conclude.
I testi hanno tematiche in comune, come quella dell’amore,
della metamorfosi, della natura selvaggia e del tradimento, ma
nel testo di Ovidio sono presenti anche tematiche quali la
bestialità, l’inganno, la colpa e il destino che vince tutti, persino
gli dei. Inoltre, il testo latino è maggiormente complesso e ricco
di dettagli, in quanto l’autore desidera principalmente stupire il
lettore; il testo greco, invece, è più semplice poiché si cerca di
dare una spiegazione divina ad un “fatto naturale” e l’autore non
vuole in alcun modo stupire colui che legge.
Alessi Giada, IV D
29
13.
Dipinto: "Giove e Callisto"
"Giove e Callisto" è un quadro di P. Rubens che risale al 1600
circa. Questo dipinto rappresenta una scena del mito di Ovidio
che fa parte dell'opera "Le Metamorfosi" e che narra dell'inganno
del
dio
Giove
per
conquistare
la
giovane
Callisto.
Più
precisamente rappresenta il momento in cui il dio, invaghitosi
della ninfa, cerca di sedurla prendendo momentaneamente le
sembianze della dea Diana.
Innanzitutto nel dipinto possiamo notare in primo piano le due
figure principali del mito, Giove e Callisto.
La giovane fanciulla è stesa senza vesti su un telo rosso a gambe
incrociate e con i capelli raccolti. Viene vista di profilo e si può
notare la mano che si posa sulla faretra mentre con l'altra tiene
un drappo bianco.
Ha uno sguardo intimorito mentre l'altro personaggio le tocca
30
dolcemente il mento.
Giove che per una metamorfosi temporanea ha preso le
sembianze di Diana, viene quindi rappresentato come una
donna che,al contrario della ninfa, indossa una veste grigia.
Si
trova
inginocchiato
davanti
alla
fanciulla,
la
guarda
dolcemente, accarezzandole il mento con una mano mentre con
l'altra la tocca il collo.
In secondo piano notiamo la figura dell'aquila, più distante e a
destra del quadro, che ha tra le zampe una saetta. Questi due
elementi sono simboli che rappresentano Giove, mentre la
faretra con le frecce, alludono al mondo della caccia a cui era
dedita Callisto.
Nel
testo
troviamo
l'aquila,
ma
possiamo
riscontrare
la
descrizione dell'arco e la faretra vicino alla giovane.
Del resto, nell'area visiva il pittore ha bisogno di usare oggetti o
elementi simbolici che siano attribuiti a dei o personaggi per
permettere di identificarli.
Il luogo in cui è ambientato il quadro è lo stesso del brano: un
bosco, uno spazio aperto e segreto, tipico del tradimento.
Possiamo riscontrare delle differenze anche da come viene
ritratto il cielo, infatti nel brano dice che il sole era alto e aveva
passato metà del suo corso, mentre nel dipinto il cielo è scuro e
nuvoloso e si schiarisce all'orizzonte.
I colori sono generalmente scuri e vengono usati colori come il
verde, il nero e il rosso per delineare il territorio, circostante ai
due personaggi principali. Questa scelta potrebbe farci capire la
sventura della fanciulla.
Millepiedi Sofia, IV D
31
Eliadi
14.
La parte finale del mito di Fetonte racconta che Giove, dopo che
dovette “fermare un fuoco con un terribile fuoco”, non avendo a
disposizione né nubi né pioggia, colpì uccidendolo anche
Fetonte, protagonista del mito,cocchiere del carro del Sole, suo
padre.
La voce narrante è esterna e onnisciente e la focalizzazione è
zero con un intervento dell'autore. Lo spazio in cui si svolgono i
fatti è aperto, come in tutti i miti di Ovidio, dato che la maggior
parte delle metamorfosi è collegata alla natura. Il tempo della
storia
non
corrisponde
al
tempo
del
racconto,
infatti
è
accelerato.
Il corpo di Fetonte, ucciso dal fulmine di Giove, viene accolto
dalle ninfe Naiadi e da Eridano.
In questa prima sequenza narrativa è presente il campo
semantico
del
fuoco,
caratterizzato
dalle
parole
“fuoco”,
“incendi”, “ fiamma”, infatti il corpo di Fetonte è straziato e
fumante. L'elemento del fuoco assume un significato simbolico,
in quanto rappresenta il potere e la superiorità di Giove. Si può
inoltre notare l'ambiguità del fuoco: esso illumina e scalda, ma
può anche essere causa di morte.
Accolto dalle Naiadi, il corpo di Fetonte viene sepolto nella loro
terra. Siamo nella seconda sequenza dove entra in gioco la
tematica della sepoltura, rito di grande importanza per gli
antichi. È presente un'apposizione: “Fetonte, auriga del carro
paterno”, che caratterizza il registro poetico ed elevato di Ovidio.
La sepoltura è accompagnata dal campo semantico del lutto e
della disperazione (“seppellirono”,“lapide”, “lutto”, “disgrazia”,
32
“angoscia”, “sepolte”, “lacrime”, “triste lamento” ), disperazione
provata da Climene, madre del protagonista, che vaga in cerca
del sepolcro del figlio, finché, una volta trovato, scoppia in un
triste e lamentoso pianto, seguita dalle Eliadi, ninfe e sorelle di
Fetonte.
Come in tutti i miti greci è presente la tematica della tragedia,
caratterizzata appunto dal triste lamento.
Nella terza sequenza le donne sono ormai da lungo tempo curve
sul sepolcro a piangere Fetonte, quando si trasformano,
improvvisamente, in piante. Ancora una volta vediamo il
linguaggio elevato dell'autore che descrive nei minimi dettagli la
metamorfosi.
La metamorfosi è la tematica principale di questa sequenza
descrittiva. Il campo semantico che prevale è quello dell'albero e
della staticità, caratterizzato dalle parole “irrigidita”, “corteccia”,
“chiuse“, “radici”, infatti le ninfe vengono trasformate in alberi,
mentre la madre cerca inutilmente di staccarle dal tronco che le
sta circondando. In questa sequenza è presente un parallelismo:
“l'una soffre di avere le gambe chiuse in un tronco, l'altra che le
sue braccia diventino lunghi rami”.
La spiegazione della metamorfosi si può dedurre dall’intervento
di Ovidio: “ versano lacrime, inutile dono per i morti”
e “si
batterono il petto per chi non poteva più sentirle” ; infatti, essa
avviene senza l'intervento di un dio o di qualche elemento
sovrannaturale, ma semplicemente, dato che le donne non si
sono fatte una ragione della morte di Fetonte, si sono lasciate
trasportare dalla disperazione e hanno finito col “mettere le
radici”, come ci fa capire il campo semantico della staticità citato
33
in precedenza, ossia si sono trasformate in piante passando da
uno stato di movimento ad uno stato di staticità permanente.
La madre, nel frattempo, è descritta come una figura impotente:
essa non ha subito la metamorfosi, ma non può far niente
perché le figlie non la subiscano, e tenta, inutilmente, di
staccarle dal tronco facendo loro del male.
Climene è invocata dalle Eliadi in un grido straziato, “mamma”,
che accentua ancora di più la situazione tragica,e a cui segue un
nuovo intervento di Ovidio che si immedesima nella madre: “Ma
come può una madre, altro che correre qua e là dove la porta il
suo slancio, e dare baci finché è possibile?”. Qui è presente la
tematica dell'amore della madre per le figlie e, soprattutto, la
tematica della disperazione, della tragedia e dell’impotenza
dell’uomo
contro
un
evento
sovrannaturale,
come
la
metamorfosi, che culmina in questo punto del racconto.
Nella quarta sequenza, narrativa e descrittiva, le ragazze sono
del tutto trasformate in salici, ma soltanto il loro aspetto è
cambiato: dentro al tronco le ninfe sono ancora umane e
sentono il dolore soffrendo e piangendo. Le loro lacrime
scendendo dal tronco si trasformano in ambra asciugate dal
sole.
Il mito è dunque eziologico perché vuole spiegare la nascita del
salice piangente e dell'ambra.
D’Imporzano Federico, IV C
34
15.
Dipinto: “La metamorfosi in pioppi delle
Eliadi” di Santi di Tito (XIV secolo)
Il quadro ritrae sullo sfondo un paesaggio rurale: a sinistra
un’altura che scende rapidamente, andando invece verso destra,
guardando più lontano, si notano a destra delle montagne molto
chiare rispetto alla campagna. All’orizzonte il cielo è più chiaro
in prossimità della campagna e salendo invece è interamente
35
coperto di nubi. In primo piano sono dipinte insieme agli altri
personaggi le quattro sorelle di Fetonte, completamente nude,
fisicamente uguali, di carnagione chiara, con i capelli di color
arancione-rossi. Tutte hanno un’espressione addolorata e le
mani coprono il volto come se volessero nascondere il viso agli
altri o è un’allusione alla disperazione delle donne. Una di esse è
girata di spalle con le braccia alzate, in fase di ramificazione.
Ai loro piedi si trovano tre bambini anch’essi di carnagione
chiara, con delle vesti di color rosso che non coprono
completamente il corpo. Quello più a sinistra è chinato dove
forse è sepolto Fetonte e raccoglie l’ambra e la dà alle donne
latine, come descritto dal mito.
In basso un piccolo cigno osserva la scena; è Cigno, cugino del
defunto Fetonte, che guarda la metamorfosi delle sue sorelle.
Accanto a lui vi è un uomo di corporatura robusta che ha una
folta barba bianca e capelli riccioli, anch’essi bianchi, con lo
sguardo rivolto verso l’alto, con un’espressione seria. Con la
mano destra tiene un’anfora, piena d’acqua di color marrone e
bianco, posta in orizzontale, da cui esce con un discreto flusso il
liquido. L’anfora potrebbe alludere al fatto che quel vecchio sia
Eridano, il fiume. L’anfora è però anche simbolo del mondo
antico e classico e il simbolo del viaggio, quel viaggio intrapreso
dalla madre di Fetonte per trovare il sepolcro del figlio. La madre
non è rappresentata nel quadro. Un’altra differenza del quadro
rispetto alla versione di Ovidio è nella raccolta dell’ambra:
secondo Ovidio l’ambra viene raccolta dopo la metamorfosi delle
ninfe, ferite perché la madre ha cercato di staccarle dal tronco
che le teneva prigioniere, mentre nel quadro l’artista ritrae i
bambini che raccolgono l’ambra mentre le donne sono ancora
36
all’inizio della loro metamorfosi, e le donne non presentano
alcun tipo di ferite.
Tornando alla descrizione, in alto a sinistra notiamo due uomini,
una donna e un altro bambino. I due uomini sono piegati a terra
con le mani che indicano la sabbia; hanno poche vesti addosso e
quello più in alto ha una fascia sulla testa. Per quanto riguarda
la donna, è più vestita degli altri personaggi e probabilmente
appartiene all’epoca del pittore. In mano tiene un lenzuolo e il
suo sguardo è indirizzato verso il basso a guardare un bambino
sotto di lei con le mani protese verso il lenzuolo come se volesse
prenderlo.
A sinistra in alto si possono notare ancora altre persone tra cui
una donna con vesti rinascimentali.
In conclusione, la vicenda ovidiana nel quadro è inserita in una
scena in cui troviamo vari elementi di diverse epoche, forse a
sottolineare la perennità e la trasmissione dei miti classici.
Fregoso Bernardo, IV C
37
16.
Europa
Nella prima sequenza del mito di Europa Giove, il re degli dei,
assume l’aspetto di un toro perché innamorato della fanciulla
Europa e raggiunge il luogo dove la figlia del re era solita giocare
insieme alle vergini di Tiro. Il toro simbolo dell’autorità e del
potere, bellissimo nel suo aspetto è bianco come la neve candida,
ha il collo muscoloso, ha piccole corna che sembrano fatte a
mano e il suo sguardo non è minaccioso.
In questa sequenza si riscontrano numerosi significati simbolici:
la metamorfosi è temporanea ed è un espediente usato da Giove
per conquistare Europa. Si possono riscontrare inoltre diversi
campi semantici come quello relativo alla bellezza (candido,
bellissimo,candido fianco) che cerca di mettere in risalto
l’autorità.
Nella seconda sequenza Europa osserva lo splendido aspetto del
toro, ma, pur essendo in un primo momento impaurita, dopo
abbellisce le sue corna con fiori e ha anche il coraggio di sedersi
sulla sua groppa, così il dio si allontana dalla spiaggia e la porta
in mezzo al mare; la fanciulla si tiene con una mano a un corno
e con l’altra alla groppa, mentre le sue vesti si gonfiano al vento.
38
Europa nella seconda sequenza si lascia rapire da Giove e l’idea
del rapimento indicherebbe il distacco tra il mondo Orientale e
quello Occidentale, ma allude anche al continuo scambio di idee,
conoscenze tra l’Asia e l’Europa. Il mare invece potrebbe essere
simbolo di movimento e dell’aggregazione tra culture; la donna è
una figura ambivalente perché è rapita e ingannata dal toro ma
è colei che domina il seduttore.
Nella seconda sequenza si possono riscontrare oltre al campo
semantico relativo all’amore (innamorato) che è presente in tutto
il
poema
anche
quello
riguardante
la
paura
di
Europa
(timore,tremando, paura) che è spaventata dal rapimento del
toro, ma allo stesso tempo si fa rapire.
Ovidio utilizza inoltre un registro elevato per la presenza di
perifrasi (v.845,858,868) e si può notare il virtuosismo poetico
utilizzato
dall’autore
perché
notevole
è
la
sua
capacità
descrittiva.
La voce narrante è esterna onnisciente e la focalizzazione è zero.
Simonelli Davide, IV C
39
17.
Dipinto: “Il Ratto d’Europa”
Il piatto smaltato “Ratto d’Europa” è dipinto con un soggetto
mitologico raffigurante il rapimento di Europa da parte di Zeus.
La scena raffigurata è in movimento ed ha un andamento da
sinistra versa destra. Sullo sfondo è dipinta una città in cui è
possibile riconoscere Creta. In secondo piano sulla sinistra c’è la
mandria di buoi di Agenore sulla spiaggia. In primo piano
vediamo invece le fanciulle di Tiro agitate dall’episodio a cui
stanno assistendo: una fanciulla è rapita da un toro dal folto
manto bianco.
L’episodio ci riporta, dunque, al mito di Europa, figlia di
Agenore, re dei Fenici. Abitualmente Europa si recava sulla riva
del mare per divertirsi e per raccogliere fiori con le sue ancelle di
Tiro e poco lontano da loro pascolavano gli armenti del re. Ad un
40
tratto si videro accerchiate da un branco di tori. Fra questi si
distinse un toro dal mantello bianco abbagliante, dall’aspetto
docile e mansueto che si poteva riconoscere dalle piccole corna
simili a gemme lucenti: era Zeus stesso, che si era innamorato di
Europa e si era deciso di conquistarla, presentandosi sotto
quell’aspetto. Europa, attratta da quell’animale bellissimo,
timida all’inizio, avvicinò i suoi fiori a quel muso candido: il toro,
gemendo di piacere, si rovesciò sull’erba e offrì le sue piccole
corna alle ghirlande. La principessa Europa ad un certo punto
gli si sedette sulla groppa. Il branco si spostò così dal letto
asciutto del fiume verso la spiaggia. Il toro si avvicinò all’acqua.
La bestia bianca investì così le onde con Europa in groppa.
L’autore del dipinto coglie il momento in cui Europa si volta
indietro: con la mano destra si tiene ad un corno del toro, con
l’altra si appoggia alla bestia, mentre l’aria mossa le fa tremare le
vesti. Per questo motivo la fanciulla rapita è rappresentata nel
piatto con un tono più malinconico che spaventato. Il rapimento
dunque non è rappresentato con una scena drammatica proprio
perché voluto da Europa.
Il piatto smaltato fu dipinto, si presume, nel 1560 circa, ad
Urbino, nella bottega dei Fontana e ha quindi le caratteristiche
artistiche e pittoriche della pittura rinascimentale.
Rossi Michele IV C
41
18.
Narciso
Il mito è tratto da “Le Metamorfosi”, la celebre raccolta di Ovidio.
Narciso è figlio del dio fluviale Cefiso e della ninfa Liriope; alla
sua nascita Tiresia, un indovino, aveva ambiguamente predetto
che il fanciullo non sarebbe vissuto a lungo se avesse visto la
sua immagine. Divenuto giovane Narciso fece innamorare
moltissime ragazze a causa della sua bellezza ma senza
ricambiarne il loro amore. Queste chiesero alla dea della
vendetta Nemesi di punirlo, facendolo soffrire allo stesso modo
per le pene d’amore che aveva provocato. Così, la dea lo punì
facendo in modo che si innamorasse del riflesso della sua
immagine. Narciso però, non riuscendo ad afferrare la sua
immagine, morì per il dolore; anche nelle acque dello Stige negli
Inferi continuò a contemplarsi. Morendo, Narciso si trasformò in
un fiore, che porta il suo nome.
La focalizzazione è di tipo zero in tutto il mito e la voce narrante
è esterna ed onnisciente.
La prima sequenza è di tipo descrittivo perché descrive
l’ambiente in cui si svolge la vicenda. E’ un luogo piacevole
caratterizzato da una fonte di acqua limpida e pura e da un
prato verde. In letteratura è usato il termine “locus amoenus”
per individuare questo tipo di spazio stilizzato e gradevole. Non
abbiamo indicazioni di tempo, a conferma dell’atemporalità del
mito.
La seconda sequenza è mista poiché narrativa e descrittiva allo
stesso tempo. In questa sequenza infatti viene presentato il
protagonista, stanco per la caccia che è intento a colmare la sua
42
sete nell’acqua, ma che sarà colpito da un’altra sete, un
desiderio d’amore: Narciso.
La parola caccia è di un certo rilievo in alcuni miti di Ovidio e
rimanda appunto all’attività in cui sembra abile il ragazzo.
Narciso sporgendosi per bere dunque vede nell’acqua la figura di
un bellissimo fanciullo e se ne innamora.
In realtà l’immagine da cui era rimasto affascinato era il riflesso
di lui che si stava avvicinando alla fonte. Il riflesso è infatti una
parola-chiave del mito che si ricollega all’inganno provocato dalla
sorgente.
La
“sete
d’amore”
riporta
al
campo
semantico
dell’innamoramento come individuato dalla parola «innamora».
Si può parlare infatti di “doppia sete” poiché l’ultima parola di
questa espressione è usata sia con un linguaggio denotativo, sia
connotativo: rispettivamente il bisogno di bere e quello d’amore.
La sequenza termina con una contrapposizione tra realtà ed
illusione riportata dalle parole «corpo crede ciò che è solo
ombra».
Parole come «riflessa» e «immagine» possono far parte di un altro
campo semantico ossia quello della vista. Come abbiamo già
constatato in altri testi essa veicola la passione dell’amore, altra
tematica la quale unisce tutti i miti della raccolta.
L’ultimo campo semantico della seconda sequenza è quello della
bellezza. («capelli degni di Bacco, guance lisce, il collo d’avorio,
bellezza…»)
La similitudine, «come una statua scolpita in marmo di Paro»,
presente al verso 14 è prova del registro elevato e quindi dello
stile poetico del brano.
Anche in questa sequenza lo spazio aperto e il tempo è
imprecisato, come in tutte le successive sequenze.
43
Si prosegue con la terza sequenza che è di genere riflessivodescrittivo perché Narciso parla dell’amore che prova per sé
stesso. Queste ultime due parole rappresentano la chiave di
interpretazione della sequenza ma anche dell’intero testo.
Infatti Narciso suscita il fuoco d’amore e nello stesso tempo ne è
bruciato, essendo contemporaneamente amante e oggetto amato.
L’uso grammaticale dell’attivo e del passivo accenna alla tragicità
del momento.
Si riscontra poi una similitudine, ulteriore dimostrazione del
registro elevato del poeta.
Troviamo la prima anafora («quante volte… quante volte..») ed
una serie di campi semantici che possono essere divide nell’area
correlata dell’amore, quindi la fiamma d’amore e lo sguardo, e
l’area correlata all’illusione dell’immagine riflessa.
Infatti troviamo la tematica dell’inganno di cui vittima è lo stesso
Narciso.
Le parole di quest’ultimo campo semantico sono «finzione,
illusione, inganno, immagine, fantasma, riflessa, illudi».
Si può riscontrare un’apostrofe al verso 30 sotto forma di
interrogativa, con cui la voce narrante si rivolge direttamente a
Narciso chiedendogli il perché del suo illudersi e dicendogli di
non farsi ingannare dall’immagine riflessa. Questa tecnica è
usata per rendere meglio la tragicità del momento.
Si nota alla fine della sequenza al verso 29 e 30, la ripetizione
dei pronomi “te, tu” per sottolineare il ripiegamento su di sé.
La quarta sequenza è dialogata. In essa vi è un lungo soliloquio
dove Narciso parlando tra sé chiama come testimoni gli elementi
della natura. Tramite domande retoriche verso le selve dice che
nessuno ha mai sofferto più di lui, preso da tanto dolore.
44
Si continua a notare il campo semantico dell’amore, ma
lentamente se ne inserisce un altro legato al dolore, sentimento
che aumenta in questi versi, insieme alla tragicità.
Nella quinta sequenza troviamo la seconda parte del soliloquio
dove è utilizzato il “tu impersonale”, altra caratteristica del
linguaggio poetico usato.
Narciso,
elogiando
la
sua
bellezza,
chiede
al
fanciullo
dell’immagine riflessa il motivo per cui si stia prendendo gioco di
lui in questo modo.
Qui si riscontra il picco più alto di questa tragicità: Narciso si
rende conto che l’immagine che vede riflessa nell’acqua non è
altro che lui stesso. Ricordiamo che questo momento culminante
della scena è chiamato Spannung, termine narratologico per
definire il picco massimo di tensione.
Quest’ultimo copia in tutto e per tutto i suoi movimenti. Ecco
che il fanciullo subito comprende il motivo e qui si ritrova ancora
il campo semantico della fiamma d’amore al verso 55 che
costituisce un richiamo al verso 20.
Al verso 60 troviamo una similitudine che ancora una volta ci
rimanda al fuoco e alla passione di Narciso.
Nella sesta sequenza troviamo un richiamo al mito di Eco, la
ninfa innamorata di Narciso che si lasciò morire, rimanendo di
lei sola la voce. E’ anche qui che si riscontra la tecnica ad
incastro usata da Ovidio.
Troviamo al verso 74 un chiasmo, ossia una figura retorica che
consiste nel disporre gli elementi appartenenti a due sintagmi
secondo una struttura incrociata, cioè la “chi” greca.
Questa sequenza è di tipo narrativo. Narciso di lascia morire
sull’erba ed è punito con una sorta di pena per contrappasso
45
anche
negli Inferi: egli
infatti
continuerà
per
sempre
a
contemplarsi nelle acque dello Stige.
Narciso scompare nel rogo delle Ninfe ed al suo posto nasce un
fiore giallo nel mezzo e con tutti gli altri petali bianchi. Ecco
infatti che si trasforma in Narciso e si tratta di una metamorfosi
discendente ed eziologica.
Parole come «ammira, scorgi, vedo, specchiandosi, vista…»,
distribuite in tutto il mito, appartengono alla tematica della vista
di cui oggetto fondamentale è lo specchio.
Lo specchio per gli antichi era lo strumento che veicolava le
passioni e in quanto superficie riflettente era anche pericoloso
dal momento che poteva ammaliare e quindi assoggettare
psicologicamente.
In questo caso Narciso diventa vittima di un amore che mai
potrà essere ricambiato.
Baudinelli Giorgia e Franceschini Davide, IV C
46
19.
Alcune interpretazioni del mito di Narciso
Col mito di Narciso Ovidio sottolinea il suo profondo interesse
per l’aspetto psicologico dell’uomo servendosi di elementi che
danno spazio a diverse interpretazioni e letture.
L’interpretazione medioevale/moralistica risente dell’influenza
del pensiero cristiano poiché tutto ciò che richiama all’esteriorità
e al corpo, destinato a morire, è considerato negativamente,
mentre la cura dell’anima immortale è fonte di salvezza per
l’uomo. Oltre a questo aspetto c’è anche il forte valore simbolico
del paragone tra il fiore in cui viene trasformato Narciso,
bellissimo, profumato, colorato, destinato a morire in poco
tempo e la vita degli uomini belli e ricchi la cui bellezza e
ricchezza può presto svanire.
Nel mondo antico invece il mito di certo sottolineava l’elemento
dello specchio, del riflesso e della visualità che in generale
avevano un grande valore simbolico: l’acqua dello stagno diventa
uno specchio per Narciso, fonte di tutti i suoi guai illuso da un
amore impossibile.
Per gli antichi infatti la superficie dello specchio aveva effetti
negativi sull’uomo perché ritenuto ammaliatore, seduttore e in
grado di trasmettere passioni.
Nel verso 11 del mito di Narciso «corpo crede ciò che solo è
ombra» è racchiusa l’idea del doppio della superficie riflettente
che contrappone la realtà ad una realtà apparente, ingannevole.
Questo mito è stato anche fonte di studio per la psicoanalisi
poiché mette in evidenza il comportamento di un giovane che
non si riconosce ed è alla ricerca della propria identità e nel
47
momento in cui la trova scoppia la tragedia: «Io, sono io! L’ho
capito, l’immagine mia non mi inganna più».
L’aspetto dell’amore impossibile, il tema della morte, del doppio e
la complessità della psiche umana hanno caratterizzato la
cultura occidentale per la quale Narciso paga a caro prezzo il
rifiuto dell’amore delle ninfe, innamorandosi della propria
immagine che lo rende egocentrico e isolato dal mondo,
confondendo apparenza e realtà e lo rende consapevole di non
aver
rispettato
la
legge
della
reciprocità.
È
dunque
un
adolescente che ricerca la propria identità mettendola in
relazione con l’alterità e anche dopo la morte nell’Ade non smette
di specchiarsi, continuando nell’errore.
Ancora
oggi
il
termine
“narcisista”
viene
utilizzato
per
identificare una persona vanesia e innamorata di sé che talora
può arrivare a presentare aspetti patologici per un eccessivo
ripiegamento su di sé.
Marchi Carolina, IV C
48
20.
Dipinto: “Narciso alla fonte” (Caravaggio)
In questo quadro del Caravaggio ispirato dal mito di Narciso
risalta subito agli occhi il ginocchio proteso in avanti di Narciso
che, messo in evidenza anche dalla luce proveniente da sinistra,
sembra dare un senso di lento movimento verso lo specchio
d’acqua.
Caravaggio in questo dipinto vuole far risaltare Narciso in
quanto sembra uscire dalle tenebre, rappresentate dallo sfondo
buio, e andava verso il fascio di luce. Il giovane, appoggiato
vicino allo specchio d’acqua guarda, meravigliato, il suo riflesso.
Osservando meglio proprio il riflesso di Narciso possiamo
49
percepire un senso di contrapposizione: l’immagine è scura
mentre Narciso, come già detto in precedenza, è colpito da un
fascio di luce; il bianco candido dei vestiti contro l’azzurro nel
riflesso; la contrapposizione tra animato e inanimato. Queste
due realtà sono divise da una strettissima striscia di terra che
rappresenta un ostacolo insormontabile.
Dall’abbigliamento
di
Narciso
possiamo
capire
un’altra
caratteristica molto importante del mito: l’atemporalità. Infatti
gli abiti sono tipicamente secenteschi, del periodo in cui visse
Caravaggio, anziché essere relativi agli antichi greci proprio per
dimostrare che il mito è senza tempo.
Un altro particolare non va tralasciato: la mano destra di Narciso
è appoggiata sulla terra, ma la mano sinistra sta per essere
completamente immersa nell’acqua e, anche dalla posizione
dinamica di Narciso, possiamo capire che vorrebbe “afferrare” il
giovane che vede nell’acqua e quindi, anche osservando
l’espressione sorpresa sul suo volto, possiamo intuire che il
giovane sta per capire che quel fanciullo che vede nell’acqua non
è nient’altro che il suo riflesso.
Alberto Sibilla, IV^C
50
21.
Eco
Il mito raccontato da Ovidio si apre con la descrizione di Eco,
che è resa con due figure retoriche, la prima è una perifrasi “la
ninfa della parola” e un parallelismo “che non può tacere se le
parlano e non può parlare per prima”.
In questa prima sequenza, che secondo me è mista, narrativa e
descrittiva, si può individuare un campo semantico dominante,
quello della voce e della comunicazione; le parole che rientrano
in questo campo semantico sono: “parola, tacere, parlare,
parlano, risonante,voce, parole, discorsi, lingua”. In questa parte
si parla di Eco e si spiega la ragione per cui si trova nella
situazione di non poter comunicare in modo normale, dato che
aveva ingannato Giunone intrattenendola con discorsi futili,
mentre le altre ninfe, sue amiche, scappavano dal giaciglio dove
si erano appena unite con Giove.
Nella seconda sequenza inizia la descrizione dell’amore di Eco
per Narciso: la possiamo notare molto chiaramente anche dal
campo
semantico
dell’amore
e
della
passione
(innamorò,
desiderio, dolci parole, amore). Questo campo semantico, come
di consueto in alcuni testi di Ovidio, è collegato a quello della
fuga, in questo caso di Narciso via da Eco, e le parole sono “
fuggivano, segui, fugge e fuggendo”.
L’immagine dell’amore è resa con l’associazione al fuoco, che
brucia come l’amore di Eco. Al verso 373 si inserisce fra il campo
semantico del fuoco una similitudine, “come lo zolfo spalmato in
cima alle fiaccole”; le figure retoriche presenti fanno parte di un
registro elevato che utilizza Ovidio per rendere al meglio il suo
stile erudito e poetico.
51
Eco è innamorata follemente di Narciso, ma il suo amore non è
corrisposto e la tragicità del mito sta nella mancanza di
comunicazione e nell’impossibilità di interazione da parte di Eco,
che così facendo non può esprimere i suoi sentimenti a Narciso.
Lui infatti sente la sua voce e le chiede di unirsi a lui, ma la
ninfa non può far altro che ripetere le sue ultime parole senza
riuscire a stabilire una conversazione con lui.
Narciso, da parte sua, non capendo la stranezza della situazione,
si spaventa e, quando Eco esce dal suo nascondiglio per
raggiungerlo, la respinge.
Subentra a questo punto la tematica e il campo semantico
relativo alla tristezza/infelicità (“pena, angosce, infelice”) che è
dovuto alla disperazione di Eco per la sua delusione amorosa
causata dall’amore non corrisposto per Narciso.
La pena e la sofferenza subite da Eco danno luogo alla
metamorfosi: la sua pelle sfiorisce e la sua linfa vitale si disperde
nell’aria, di lei rimangono solo le ossa e la voce, ma si dice che
anche le ossa scompaiano e diventino pietra, mentre la voce
persiste e sui monti tutti la sentono.
La sua metamorfosi è discendente perchè assume uno stato
inferiore quello precedente, infatti la sua voce si trasforma da
normale a eco, inoltre è eziologia perché vuole spiegare l’origine
di questo fenomeno naturale.
In questo mito possiamo constatare una forte associazione tra
l’eco, che è il simbolo e il segno caratteristico di Eco, e lo
specchio, elemento fondamentale che troviamo nel mito di
Narciso e quindi collegato al personaggio stesso. I due elementi
sono ricollegabili tramite la riflessività visiva e quella vocale:
52
infatti uno specchio ci riporta la nostra immagine e l’eco la
nostra voce.
E’ per questo motivo che il poeta unisce, tramite la tecnica ad
incastro, i due miti.
La tecnica alessandrina dell’incastro usata da Ovidio insieme
alle figure retoriche riscontrate nel brano fanno parte di un
linguaggio poetico ricercato e di cui il poeta si serve per mostrare
al lettore il proprio virtuosismo poetico e la propria abilità
nell’usare la lingua.
Lo spazio della narrazione è aperto, infatti abbiamo l’elemento
della selva che può alludere alla segretezza di incontri amorosi
ed è inoltre un nascondiglio per Eco quando viene rifiutata da
Narciso.
Il tempo è imprecisato, dato che non sono presenti indizi
temporali che segnano il passare del tempo. La focalizzazione è
zero e la voce narrante è esterna e onnisciente.
Guerra Francesca, IV C
53
22.
Dipinto: “Eco e Narciso” di John William
Waterhouse
“Eco e Narciso” è un dipinto eseguito da John Waterhouse nel
1903, ispirato al mito di Narciso del poeta latino Ovidio.
Il pittore raffigura la scena in cui Narciso cerca invano di toccare
la sua immagine riflessa nell'acqua. Il fanciullo è sdraiato sulla
sponda del ruscello e osserva il suo riflesso.
La sua mano destra è alzata e sembra che stia per immergerla,
sempre con lo scopo di accarezzare il giovane attraente che vede.
L'aspetto di Narciso è simile a quello descritto dal poeta latino: i
capelli neri sono fluidi e cinti da una corona d'alloro, la
carnagione è pallida e le gote sono rosse.
Accanto a lui si trovano una faretra nella quale sono riposte
alcune frecce e un cappello che non sembra appartenere
all'epoca antica.
Sulla sinistra si trova la ninfa Eco, che osserva la scena
sconsolata. La giovane donna è ritratta con forme non molto
54
prosperose, i suoi capelli rossi sono fermati con un fiore rosso e
con le mani si appoggia ad un tronco.
L'abbigliamento dei due personaggi è antico: le vesti che coprono
solo in parte il corpo sono tipiche delle opere che rappresentano
il periodo classico e che rispecchiano la tradizione greca. La
nudità parziale sottolinea che i personaggi appartengono ad un
mito classico. La veste di Narciso è di un rosso acceso che risalta
molto dallo sfondo forse perché il pittore ha voluto alludere
all'amore passionale del fanciullo.
Il paesaggio circostante è florido e rigoglioso. L'artista ha
utilizzato numerose tonalità di verde per creare uno spazio che
riproduce
in
modo
stilizzato
il
locus
amoenus
di
cui
individuiamo: il boschetto, il torrente, il prato e la fonte d'acqua.
Tutto è così perfetto e tranquillo da sembrare irreale.
È nell'acqua che si riflette il giovane: la sua immagine riflessa
appare ai piedi delle rocce sulle quali è appoggiato Narciso e da
questa possiamo vedere meglio l'espressione del volto del ragazzo
incuriosito e quasi triste. Tra le fronde degli alberi appare ogni
tanto il cielo e le radure sullo sfondo sono illuminate dal sole.
Un dettaglio in particolare differenzia il quadro dall'opera
classica: Eco è rappresentata con sembianze umane poiché il
pittore ha intrecciato a suo modo i due miti e sarebbe stato
difficile per qualsiasi artista rappresentare Eco trasformata in
pura voce.
Tosi Gian Maria, IV C
55
23.
Piramo e Tisbe
Nel mito che stiamo per analizzare Ovidio narra la storia di un
amore di due giovani, Piramo e Tisbe, ostacolato però dai loro
padri. I due innamorati vivevano in due case contigue, separate
da un muro nel quale era presente una fessura dalla quale i
giovani potevano sussurrarsi parole senza essere colti dai
genitori. Un giorno si diedero appuntamento per la notte stessa
al sepolcro di Nino; Tisbe uscita di casa per prima fu sorpresa da
una leonessa con la bocca insanguinata e la fanciulla,
spaventata, fuggendo perse il velo insanguinato dalla belva.
Piramo, uscito più tardi, trovò il velo insanguinato dell’amata e
credendola morta si recò al luogo stabilito e per la disperazione
si uccise. Ormai sul punto di morte Piramo fu trovato da Tisbe
che, invocando preghiere ai genitori, si uccise con lo stesso
pugnale usato dall’amato.
La prima sequenza (53-64) è mista poiché Ovidio, oltre a
descrivere i due protagonisti, narra del loro amore ostacolato.
Già
dalla
prima
sequenza
compare
il
campo
semantico
dell’amore (amore, matrimonio, innamorati), presente in tutto il
mito. Alla riga 64 Ovidio con le parole <<fuoco ribolle>> vuole
ricollegarsi al modo in cui nell’antichità il fuoco ardente
simboleggiava la passione dell’amore.
Nella seconda sequenza che è mimetica, Ovidio fa parlare i due
innamorati attraverso il muro caratterizzato da una fessura.
Nelle righe 69 e 71 c’è una contrapposizione fra “di qua” e “di là”
che simboleggia le parti del muro. Inoltre, la parola muro è
ambigua poiché da una parte separa i due innamorati dall’altra
attraverso la fessura li tiene uniti attraverso la voce. I due campi
56
semantici contenuti nella sequenza sono quelli della voce e
dell’amore. In quello dell’amore le parole sono:<<amanti, amore,
dolcezza, baciarci, amate, baci>>, in quella della voce sono:
<<voce, sussurrata, soffio, dicevano, parole, orecchie>>. Infine al
verso 68 troviamo un intervento diretto dell’autore.
La terza sequenza è mista, descrittivo-narrativa, infatti Ovidio
narra che i due giovani si danno appuntamento in un luogo
descritto con la tecnica del locus amoenus caratterizzato da un
albero ricco di frutti conditi e una fonte fresca. Quando Tisbe
però uscì di casa è sorpresa da una leonessa. I campi semantici
che compaiono sono quello dell’uscita (uscire, usciti, lasciare,
esce) attraverso il quale Ovidio fa incontrare i due amati, un
altro campo semantico è quello dell’albero (albero, frutti candidi,
gelso, bosco) che poi sarà l’elemento che nel testo ricollegherà
alla metamorfosi. Il successivo campo semantico è quello
dell’acqua (acque, acque emerse, sete, fonte) che va a ricollegarsi
con il secondo elemento descrittivo nel locus amoenus. L’ultimo
campo semantico è quello della belva (bocca, muso, leonessa
feroce, leonessa) riferito al leone che fa fuggire Tisbe. Possiamo
cogliere alcuni riferimenti nelle parole <<impaurita, fuggi, fuga
>> che potrebbero suggerirci un campo semantico della fuga
tipico dei miti di Ovidio. Anche da <<sangue, insanguinata>>
possiamo avere un riferimento alla belva che insanguina il velo
della fanciulla.
La quarta sequenza è mimetica poiché Piramo si lamenta di aver
ucciso la sua amata facendola uscire di notte in luoghi oscuri.
Infatti Piramo uscito di casa, dopo aver trovato il velo
insanguinato di Tisbe, credendola morta, si reca nel luogo
stabilito dove si suicida. Alla riga 122-124 troviamo una
57
similitudine, nella quale Ovidio paragona il sangue che fuoriesce
dal corpo di Piramo come lo spruzzo dell’acqua di un tubo forato.
Il velo ha un ruolo importante poiché fa credere a Piramo la falsa
morte dell’amata. Il campo semantico prevalente è quello della
morte (<<ho ucciso, straziate, sbranate o morsi, morte, pugnale,
morendo, ferita ardente>>) che si riferisce all’uccisione di
Piramo. Accostato ad esso troviamo il campo semantico del
sangue nel quale viene ripetuta frequentemente la parola
<<sangue>>. Infine ritroviamo quello dell’albero (albero, frutti,
radice). Riscontriamo un riferimento alla morte nella parola
<<pianse>> che introduce il campo semantico dell’infelicità.
La quinta sequenza (128-154) è mista descrittivo-mimetica e la
voce narrante racconta che la fanciulla trova l’amato morente e
disperata, gli parla ed infine i uccide con lo stesso pugnale
dell’amato. Al verso 132 le parole <<incerta sul colore dei
frutti>> ci introduce la metamorfosi che sta colpendo l’albero .Al
verso 135-136 abbiamo una piccola similitudine che paragona i
brividi
della
fanciulla,
provocati
dalla
visione
del
velo
insanguinato, alle onde del mare, mosse da una lieve brezza. I
campi semantici prevalenti sono quelli della morte (ferite,
sciagura, morte, ucciso, ferirmi, morte) che si intreccia con
quello dell’amore (amore, capo amato, baci, carissima, tuo
amore) per accentuare l’amore provato dalla fanciulla che
seguirà l’amato anche dopo la morte. Rincontriamo poi alcuni
accenni ai vari campi semantici dell’albero (frutti, albero), del
pericolo (pericolo, scampato), dell’infelicità (lacrime, pianto,
infelice,
infelicissimo),
con
il
quale
Ovidio
descrive
la
grandissimo tristezza della fanciulla per la morte dell’amato.
58
La seta sequenza (154-167) è mimetica ed è centrata sulla
preghiera della fanciulla verso i padri per non essere sepolti in
tombe separate e quindi di non ostacolare il loro amore anche
dopo la morte. Inoltre chiede all’albero di mantenere un segno di
questa strage e infatti alla fine di questa vicenda si ha una
metamorfosi di tipo eziologico, poiché essa spiega che i frutti del
gelso, quando diventano maturi si scuriscono, poiché vengono
“macchiati” dal sangue dei due innamorati. Il campo semantico
prevalente è quello della morte (sepolti, stessa tomba, strage,
lutto, pugnale) che si intreccia con quello dell’albero (albero,
rami, frutti scuri, frutto) poiché l’albero è il luogo del suicidio.
Una delle tematiche principali è quella dell’amore e della morte. I
campi semantici sono quello dell’amore, quello della voce, unico
mezzo con cui i due amanti potevano comunicare, quello
dell’uscita per il desiderio di vedersi dei due amanti, quello
dell’infelicità
causato
dall’amore
impossibile.
Quest’ultimo
campo semantico si collega alla tematica della morte, legata al
campo semantico del sangue della belva e della fuga. L’ultima
tematica
è
quella
metamorfosi
con
il
campo
semantico
dell’albero.
Hummel Mervin, Pellegri Alessia, IV C
59
24.
Aracne
Il mito di Aracne è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, raccolta
di
miti
aventi
come
tema
principale
la
metamorfosi
prevalentemente eziologica e composta da quindici libri. Ovidio
per raccogliere i miti si avvale della tecnica della narrazione ad
incastro che permette di combinare tra loro miti di varie
tradizioni.
Questo mito si trova all’inizio del VI libro e racconta la storia di
Aracne, una fanciulla abile nel tessere che sfidò Minerva e da
questa fu punita. Il brano può essere diviso in cinque sequenze:
nella prima sequenza è spiegato il motivo per il quale la dea
Minerva decise di colpire Aracne, dopo aver sentito che non
voleva esserle inferiore nell’arte della lavorazione della lana. La
sequenza presenta il punto di vista di Atena tramite il soliloquio
ed è perciò mimetica. Inoltre è presente l’epiteto “dea tritonia”
riferito a Minerva che dimostra l’uso di un registro poetico e
colto ricorrente anche nelle successive sequenze. Nella sequenza
si riscontra il campo semantico della lode e della fama «lodare,
lodata» e quello dell’arte tessile «arte, lavorare la lana».
La seconda sequenza è descrittiva e presenta il personaggio di
Aracne, conosciuta per la sua grande abilità nel tessere. Ritorna
il campo semantico dell’arte tessile «arte, lana, gomitoli,
lavorazione, ricamasse, fuso, etc.…» e quello della lode e della
fama «famosa, gran nome». Sono presenti due figure retoriche:
una similitudine «…i bioccoli morbidi come nuvole…» riferita alla
lana, e un parallelismo dal verso 19 fino al verso 23 (sia che…);
sono presenti anche alcuni nomi di località i quali sottolineano
l’erudita cultura di Ovidio. Tutti questi elementi rimandano al
60
registro elevato. Inoltre, poiché i nomi delle località rimandano
alla Grecia, lo spazio è reale e aperto. Per quanto riguarda il
tempo invece non si hanno precise indicazioni e quindi è
indeterminato
anche
perché
la
dimensione
del
mito
è
atemporale.
La terza sequenza è mista e prevalentemente mimetica poiché
Minerva
travestendosi
da
anziana
si
rivolge
ad
Aracne
chiedendole di scusarsi e ammettere la sua inferiorità rispetto ad
essa. La dea Minerva è presentata con l’epiteto di Pallade che
rimanda al registro colto dell’autore e compare un nuovo campo
semantico: quello
della vecchiaia «vecchia, bastone, membra
inferme, età avanzata, esperienza, etc.», inoltre ricompaiono i
campi semantici della lode e della fama «fama, ambisci, etc..» e
quello dell’arte tessile «lana, fili, arte, etc..» collegati alla tematica
del testo, cioè quella di eccellere nell’arte tessile, infatti Aracne si
ritiene superiore alla dea e la sfida per dimostrarlo.
Anche la quarta sequenza è mista, in quanto narrativa e
descrittiva e si apre con la rivelazione del travestimento della dea
che mostrandosi ad Aracne accetta la sfida. Nella sequenza è
presente un’ampia similitudine «..e un rossore improvviso le
marca suo malgrado il volto, e svanisce poi, come l’aria diventa
purpurea quando compare l’aurora, e dopo poco dal sorgere del
sole brilla.» riferita al rossore sul volto di Aracne causato dal suo
imbarazzo provato nel vedere la dea, qui chiamata con la
perifrasi «la figlia di Giove». In questa sequenza ricompaiono i
campi semantici della vecchiaia «aspetto senile…» e quello
dell’arte tessile «tela, fili, trama, etc.». Si può anche trovare la
parola chiave «stolta bramosia di vittoria» che rimanda alla
tematica della tracotanza degli uomini nei confronti degli dei che
61
si riscontra anche nella terza sequenza con l’espressione
«giudizio in me stessa» che mostra l’arroganza di Aracne verso
Minerva.
Nella quinta e ultima sequenza la vicenda si conclude con la
metamorfosi di Aracne punita dalla dea. Questa sequenza è
mista perché compare il discorso diretto e la descrizione della
metamorfosi. Anche qui torna il campo semantico dell’arte
tessile «tela, intessuta, fili, etc..» e quello del corpo «capelli,
orecchie, naso, corpo, etc..» che rimanda alla tematica della
metamorfosi. Questa è discendente poiché è dovuta alla
punizione di Minerva nei confronti di Aracne ed è eziologica
perché spiega il motivo per cui i ragni tessono la ragnatela. La
metamorfosi viene messa in analogia con quanto Aracne stava
facendo prima di essa: Aracne infatti stava tentando di
impiccarsi ed è proprio dalla sua posizione, con il cappio legato
al collo, che si ricava l’analogia con la figura del ragno infatti
questo diventerà il filo da cui lei penzolerà nella sua nuova
forma e che lei tesserà continuamente, come era solita fare nella
sua condizione umana.
Arena, Morelli e Taddei, IV D
62
25.
Aracne da tessitrice a…: versione greca
del mito
Commento
La versione “Aracne, da tessitrice a…” narra di una giovane di
nome Aracne molto abile nell’arte della tessitura. Aracne, però,
per la sua eccessiva sicurezza, si mostra arrogante nei confronti
della dea Atena, affermando di esserle superiore nell’arte del
tessere. Quindi Atena, sentendo le sue parole, si trasforma in
un’anziana signora e cerca di convincerla a ritirare ciò che ha
detto, dandole così la possibilità di essere perdonata. Aracne,
però, rimane delle sue idee, perciò Atena si mostra e le due si
sfidano. Atena prevale nel duello e quindi punisce Aracne per la
sua arroganza trasformandola in un ragno.
63
Traduzione
Aracne, ragazza di Colofone, era abile nella tessitura. Con la sua
mirabile abilità, ricamava con l’ago splendide tele. Perciò
l’orgoglio raggiungeva l’animo della fanciulla e la portava a dire:
«Persino Atena, dea delle arti, è inferiore alla mia arte». La dea,
adirata, si trasformava in una vecchia e diceva: «O ragazza, sei
straordinaria ed illustre, ma troppo arrogante, temi dunque l’ira
degli dei». Poi Aracne rispondeva: «O stolta, ti privavi della
saggezza a causa dell’età». Allora Atena si manifestava di nuovo
nella forma di dea e invitava la fanciulla ad una gara. La dea
ricamava
sulla veste
delle
immagini di
uomini
che
per
l’arroganza erano stati puniti, invece Aracne, volendo oltraggiare
la dea, ricamava fanciulle amate dagli dei: allora Atena si
adirava terribilmente e diceva: «Se però sei così contenta di
tessere, tessi dunque per sempre». E trasformava la fanciulla in
ragno.
Arena Benedetta, Morelli Beatrice, IV D
64
26.
Mito di Aracne: confronto tra il testo di
Ovidio e il testo greco
Testo di Ovidio
Il testo ovidiano, che tratta il mito di Aracne, narra di una
fanciulla, Aracne, abile tessitrice, che non voleva cedere la sua
arte alla dea Atena. La dea si adira nel venire a sapere di tale
ingratitudine della ragazza. Per convincere Aracne di fare ciò che
detta la legge divina, Pallade si traveste da vecchia consigliando
alla giovane di non sfidare l’ira degli dei. Invece l’insolente
ragazza rifiuta il consiglio insultando la dea, travestita da
anziana signora, e sfida Atena in una gara di tessitura, l’arte
comune a tutti e due i personaggi del mito. Alla fine della sfida la
dea rompe la tela di Aracne e Atena colpisce la giovane sulla
fronte più volte, inducendo quest’ultima ad arrendersi e ad
arrivare al punto di suicidarsi. La dea glielo impedisce, ma la
trasforma in un ragno per punire la tracotanza della ragazza.
Così Aracne è costretta a tessere per tutta la sua vita.
Testo greco
Il testo greco riguarda lo stesso mito di Aracne, ragazza molto
abile nella tessitura. La sua insolenza però la spinge a
pronunciare parole irrispettose nei confronti della dea. Atena
perciò si trasforma in una vecchia e le consiglia di non
oltraggiare la legge divina, sfidando così l’ira degli dei. La giovane
però non vuole ascoltarla, dicendole che non sapeva quello che
lei stava dicendo, dando la colpa all’età che era troppo avanzata.
65
Subito dopo Atena riprende il proprio aspetto e chiama la
fanciulla ad una gara di tessitura. La dea rappresenta nella sua
tela immagini di uomini puniti per la loro insolenza nei confronti
degli dei, invece Aracne rappresenta immagini di donne amate
dagli dei. La dea si adira vedendo tutto ciò, così trasforma la
ragazza in un ragno.
Il confronto
Tra i due testi si possono riscontrare molte analogie. Il testo
ovidiano però sottolinea di più il discorso diretto tra Atena e
Aracne,
contrapponendo
due
concetti
principali,
ossia
la
sottomissione degli uomini agli dei e la tracotanza verso
quest’ultimi. In questa versione del mito si possono trovare tre
parole chiave che determinano le tematiche principali: ‘’arte’’;
‘’disprezzino’’; ‘’fama’’. Conseguentemente si possono individuare
tre principali campi semantici che sono riconducibili alle
tematiche primarie del brano. I tre campi semantici sono: il
campo
semantico
dell’arte
della
tessitura
(‘’lana’’;
‘’tela’’;
‘’ricamasse’’; ‘’filo’’; ecc.), della sfida (‘’gareggi’’; ‘’vinta’’; ‘’sfida’’;
ecc.) e della fama (‘’lodare’’; ‘’lodata’’; ‘’famosa’’).
Nel testo greco, invece, viene sottolineata maggiormente la
descrizione delle immagini sulle tele durante la sfida, che
rimanda ad un concetto di netta divisione tra uomini e dei. In
questo brano si possono riscontrare le seguenti parole chiave:
‘’tessitura’’; ‘’si trasformava’’; ‘’arroganza’’; ‘’si adirava’’. Tali
parole rimandano ai rispettivi campi semantici.
Ariodante Serena, IV D
66
27.
Dipinto: “Aracne e Minerva”
Il quadro è stato dipinto dal pittore Luca Giordano e raffigura la
scena della metamorfosi di Aracne, legata al mito di Aracne e
Atena tratto da “Le metamorfosi” del poeta latino Ovidio.
In primo piano si vedono due figure femminili che si possono
identificare rispettivamente con Atena e Aracne, in quanto
alcune caratteristiche ne evidenziano l’identità. Si può intuire
che, al centro del dipinto, è raffigurata Atena con il capo
circondato da una luce splendente che allude al divino. Un
simbolo riferito alla dea è la civetta, posta nella parte inferiore a
sinistra del dipinto, poiché animale sacro alla dea. Dalla
posizione del corpo di Atena si osserva la superiorità della dea
67
rispetto alla fanciulla, poiché ella è dipinta elevata da una nube
e con un dito puntato verso la ragazza in segno di ammonimento
e punizione.
Alla destra della divinità è raffigurata Aracne: lo si può capire
dalle dita delle mani da cui partono i filamenti di una ragnatela,
simboleggianti la metamorfosi in ragno della fanciulla. Aracne è
dipinta dietro un telaio che, insieme al cesto contenente la lana
in basso a sinistra, rappresenta l’abilità tessile in cui la dea e la
fanciulla si sono sfidate.
In secondo piano si trova raffigurato un uomo, presumibilmente
uno spettatore della gara avvenuta precedentemente. Lo fondo
del quadro è oscurato da una nuvola che impedisce di vedere il
paesaggio.
A confronto con il mito corrispondente si notano nel quadro
disuguaglianze: per esempio una è la presenza della civetta, che
nel mito non è stato necessario introdurre essendo un testo
scritto che si avvale piuttosto di epiteti, ma che nel quadro
risulta significativo attributo della divinità; un’altra è la colonna
sotto la nube, che potrebbe alludere alla classicità del mito, e
infine la figura dello spettatore.
In conclusione si può dunque affermare che il messaggio
trasmesso da entrambi gli artisti è quello della punizione della
superbia e della consapevolezza dei propri limiti umani.
Brozzo Tommaso e Taddei Virginia IV D
68
28.
Tereo, Procne e Filomela
Il mito ‘’Tereo, Procne e Filomela’’ è un mito di metamorfosi
tratto dalla raccolta di Ovidio ‘’Le Metamorfosi’’. La tematica
centrale del mito è la vendetta che viene attuata da Procne e
Filomela nei confronti di Tereo che, mentre aveva preso in moglie
Procne, la tradiva con Filomela che non contraccambiava. Infatti
Filomela viene rapita da Tereo e viene portata in una stalla dove
viene paragonata con una similitudine ad un agnello sfuggito ad
un
lupo
e
a
una
colomba
palpitante.
Filomela
dunque
preannuncia la sua vendetta e Tereo, irato le taglia la lingua.
Filomela però non si arrende e manda un messaggio alla regina
che la libera. Dunque torna da Procne e qui entra in gioco la
tematica del perdono, infatti Procne perdona la sorella e vuole
vendicarsi. Da questo momento i personaggi sono posseduti da
un desiderio di vendetta che li spinge a commettere atti
imperdonabili allo scopo di riconquistare l’ onore e il pudore che
le sorelle avevano perso. Le due sorelle dunque uccidono il figlio
di Procne e Tereo e, spinte dalla collera, lo ‘’cucinano’’ e lo fanno
mangiare al padre. Qui si vede subito che la vendetta è di tipo
psicologico e che Iti, il figlio, non viene preso in considerazione.
Anche Tereo viene posseduto dalla rabbia, infatti la metamorfosi
avviene su di lui che si trasforma in un uccello attraverso una
metamorfosi discendente.
Saione Andrea, IV C
69
29.
Apollo e Dafne
Il mito di “Apollo e Dafne” si apre con una sequenza mista,
narrativa e prevalentemente dialogata, che introduce la storia
presentando due personaggi, Apollo e Cupido. L'autore narra
della lite che nasce tra i due a proposito della capacità dell'uso
dell'arco e delle frecce, che ognuno pensa di avere in maggior
grado.
Le parole crudele, trionfo, ferire, nemici rimandano ad uno dei
campi semantici prevalenti nel mito, quello del combattimento e
della lotta; i termini come “amore” e “Cupido” si collegano invece
al campo semantico dell'amore.
In questa sequenza si può notare anche come Ovidio voglia
marcare ancora di più l'opposizione, il contrasto che c'è fra
Apollo e Cupido con l'uso di forme pronominali o aggettivi e
pronomi possessivi («me...tuo...te...tua...mia»).
Passando alla seconda sequenza, che si sviluppa in parte
secondo
la
struttura
narrativa,
in
parte
secondo
quella
descrittiva e dove è presente a tratti anche il dialogo, appare un
terzo personaggio: la ninfa Dafne. Nella descrizione di questa
protagonista Ovidio introduce un altro campo semantico, ossia
quello della caccia e della natura selvaggia, che definisce la ninfa
come la cacciatrice gli animali come prede («cacciare...chioma
spettinata...monti selvaggi»). Sempre presenti sono i campi
dell'amore, del combattimento e della lotta e quello della fuga
che si svilupperà, soprattutto, nella parte centrale del testo. In
questa sequenza, infine, per descrivere gli effetti opposti delle
frecce che Cupido scaglia contro Apollo e Dafne, lo scrittore usa
un parallelismo («l'una metteva in fuga l'amore, l'altra lo
70
provocava. La seconda...mentre la prima...»), una delle tante
prove del registro linguistico elevato e dello stile poetico che il
poeta usa nel mito.
La terza sequenza, descrittiva e dialogata, si apre con una
apostrofe che Ovidio fa rivolgendosi alla ninfa. Qui il campo
semantico della vista-ammirazione («vedere...guarda...ammira»)
stimolato da quello della bellezza («occhi scintillanti...piccola
bocca...dita...mani...braccia...belle») fa scaturire quello del fuoco
e della passione, reso dalla similitudine che paragona il fuoco
ardente alla passione e all'amore che Febo prova per Dafne. In
questa sequenza, però, il campo semantico prevalente è quello
della fuga (che si contrappone a quello dell'inseguimento);
numerosi
sono
i
termini
con
questo
significato:
«fugge...inseguo...seguirti...corsa...fuga...inseguimento».
Si può infine notare un uso frequente del pronome personale “Io”
usato da Apollo con cui lo scrittore Ovidio vuole sottolineare il
notevole contributo che il dio ha dato allo sviluppo delle
conoscenze umane (autopresentazione).
La quarta sequenza, descrittiva, narrativa e con una piccola
parte dialogata, pur trattando lo stesso campo semantico,
presenta tuttavia un ribaltamento rispetto all'immagine della
seconda sequenza: infatti Dafne, precedentemente descritta
come cacciatrice, ora si trova ad essere preda di Apollo. Questo
concetto viene rimarcato da una similitudine in forma di
digressione [«Come un cane Gallico, non può appena vede...una
lepre...(ecco, il cane sembra già esserle sopra...)»]: dominante,
quindi, è il campo della fuga-inseguimento. Si può capire quindi
la ragione dell'ampio spazio dato da Ovidio a questa immagine: il
71
messaggio che ne ricaviamo è la precarietà del destino umano,
che in poco tempo e senza colpe può essere del tutto ribaltato.
L'ultima
sequenza,
descrittiva
e
narrativa,
presenta
la
metamorfosi di Dafne, descritta dettagliatamente, tanto da
sembrare quasi reale grazie all’abilità dell'autore nel rendere i
particolari della trasformazione. In questa parte del testo occupa
grande spazio il campo semantico della pianta-albero, funzionale
alla tradizione mitologica: l'alloro, infatti, diventerà uno dei
simboli di Apollo. Ovidio accentua l'amore e la passione che il
dio prova nei confronti di Dafne, anche se già trasformata, con
pronomi
e
appartenenza
aggettivi
(«la
possessivi,
mia
creando
consorte...il
mio
un
senso
albero...la
di
mia
chioma...tu»).
Si può concludere l'analisi rilevando che la voce narrante è
esterna come, prevalentemente, la focalizzazione (eccettuata la
prima descrizione di Apollo interna a lui stesso).
Lo spazio che fa da sfondo alla vicenda è aperto legato alla
natura selvaggia, spazio proprio della libertà e della dea Diana; i
tre personaggi principali possono essere definiti “tipi” in quanto,
pur nelle loro trasformazioni, mantengono le loro caratteristiche.
Piva Giuditta, IV C
72
30.
Dipinto: “Apollo e Dafne” di Tiepolo
Il dipinto di Tiepolo ritrae un paesaggio rurale dove sullo sfondo
il cielo è interamente ricoperto di nuvole; in basso a sinistra si
possono notare alcune case. Ancora sullo sfondo sono presenti
degli alberi color verde scuro che andando verso destra salgono
su un’altura; sull’altura uno degli alberi si innalza sugli altri con
un tronco molto sottile e lungo che poi va a ramificarsi fino alle
fronde dello stesso colore degli altri alberi. In primo piano, al
centro del quadro, c’è Dafne, più in alto degli altri personaggi, di
carnagione molto chiara; le sue braccia sono protese verso l’alto,
ma quello alla destra dell’osservatore è piegato in prossimità del
gomito; invece la mano dell’altro è in fase di trasformazione,
73
infatti si possono notare le prime foglie che ricoprono quasi
interamente le dita. Il suo sguardo è quasi triste ed è rivolto
verso la mano in ramificazione. I suoi capelli sono di color oro e
arrivano quasi fino alla fine del collo della fanciulla. Il torace,
come le gambe, è completamente nudo. Subito sotto il seno c’è
un laccio che tiene legata alla fanciulla una veste che le ricopre
la schiena e sul davanti la parte che va dallo stomaco all’inizio
delle gambe. La veste ha varie sfumature: infatti dietro la
schiena è arancione e in prossimità delle gambe di color rosso.
Alla sinistra della ninfa si trova Apollo: si può capire che è lui
dalla corona di alloro sulla testa
e la faretra che ha in
prossimità del bacino. Il dio è appoggiato su una gamba sola,
come se stesse correndo, infatti nel mito di Ovidio Apollo insegue
la ninfa, che non ricambia il suo amore. Tornando alla
descrizione, Apollo ha una carnagione colorita, anche lui è quasi
nudo, ha una veste di color rosso che vola nell’aria. Il suo
sguardo è
rivolto
verso
Dafne, forse
verso
la
mano
in
trasformazione. Ai piedi sono allacciati dei calzari color ocra. La
mano destra, sempre verso la parte dell’osservatore, è protesa in
avanti, sembrerebbe per tenere la veste di Dafne, mentre l’altra
mano tiene l’arco.
Alla destra di Dafne, all’altezza delle gambe, c’è un fanciullo
completamente nudo, che con la mano sinistra tiene la veste
della ninfa. I suoi capelli sono castano scuro e il suo sguardo è
rivolto verso il basso.
In basso al centro, sdraiato a terra, c’è un uomo anziano, con la
schiena nuda e i capelli e la barba bianchi. E’ appoggiato sulla
sinistra a un’anfora di colore verde e con l’altra tiene un remo
lungo, di cui non si vede la fine, di color marrone chiaro, che si
74
va appiattendo a destra. Si può dedurre che l’uomo sia il fiume
Peneo, padre di Dafne. Egli è raffigurato nel quadro ed è
presente durante lo svolgimento della vicenda perché, secondo il
mito, Dafne cercando di fuggire da Apollo invoca l’aiuto della
madre Terra e del padre Peneo: saranno loro infatti a
trasformarla in alloro.
A differenza della narrazione mitica nel quadro è presente il
fanciullo, alla sinistra di Dafne, figura, peraltro, non identificata.
Facendo sempre riferimento al mito ovidiano possiamo rimanere
sorpresi dalla presenza della corona di alloro sul cranio di
Apollo, infatti, la narrazione riporta che Apollo si cinge il capo di
una corona di alloro solo dopo la trasformazione di Dafne,
mentre nel quadro è già presente anche se la trasformazione
della ninfa è solo all’inizio.
Fregoso Bernardo, IV C
75
31.
Dipinto:
“Apollo
e
Dafne”
di
A.
Del
Pollaiolo
Il dipinto “Apollo e Dafne” di Antonio Del Pollaiolo è conservato
alla National Gallery di Londra ed è databile intorno al 14701480.
In primo piano è presente uno dei due protagonisti : Dafne, le
cui braccia sono l’elemento che più colpisce ad una prima
visione del quadro, poiché esse sono formate da due corti rami
dalle cui sommità si sviluppano due grandi fronde, che,
rappresentate con un colore verde talmente scuro da tendere al
nero, occupano la parte centrale dell’opera. All’interno, le fronde
76
sembrano un’uniforme macchia scura, mentre a mano a mano
che si va verso l’esterno i contorni delle foglie compaiono nitidi e
ben delineati. Le foglie sono sottili e allungate e solo due
ramoscelli completamente ricoperti da esse ed appartenenti alle
due differenti fronde si uniscono nella parte centrale della
sommità dell’opera.
Dafne, posta al centro del quadro, è rappresentata come una
donna dai lunghi e selvaggi capelli biondi, che sembrano
ricordare delle piante mosse probabilmente dal vento, simbolo
della metamorfosi in atto; il suo volto è rivolto verso la sinistra
del quadro e il suo sguardo è invece verso il basso, verso quello
che presumibilmente è il dio Apollo.
Le vesti della fanciulla sono di un verde intenso e molto scuro,
quasi ad alludere alla pianta; esse sono inoltre rigonfiate,
elemento che conferisce una certa dinamicità alla sua figura, in
opposizione alla staticità conferitale dalle braccia, ormai rami di
una pianta. A conferirle ulteriore dinamicità contribuisce la
posizione della gamba destra, uscente dal vestito, che è piegata
in avanti, quasi come se ella stesse compiendo un movimento.
Il secondo piano è formato esclusivamente da una figura
maschile riconducibile alla figura del dio Apollo non solo per il
titolo stesso del dipinto, ma anche per gli abiti che indossa (essi
sono infatti tipicamente riconducibili a vesti da guerra) e per
l’azione che sta compiendo: egli cinge il corpo di Dafne
osservandola con estremo dolore. Quindi, nonostante che
manchino degli elementi riconoscitivi come quelli presenti nel
dipinto “Apollo e Dafne” di G. Tiepolo (la corona d’alloro, l’arco e
le frecce e la luce, simbolo di divinità), si riesce ad intuire che la
figura maschile è proprio il dio Apollo.
77
Egli appare come una figura dinamica, la cui dinamicità è data
dalla posizione corporea: piega, infatti le gambe esattamente
come Dafne, quasi fosse il movimento di una corsa, e cinge con
le braccia Dafne. Il suo sguardo, come chiaramente anche il suo
volto, è rivolto verso la fanciulla e la sua espressione lascia
intravedere l’amore che egli prova per lei.
Apollo è rappresentato con vestiti che mostrano la sua natura
guerriera, infatti indossa un vestigio marrone, simile ad
un’armatura e un velo dorato che gli cinge la spalla e i cui capi
sono rivolti verso la parte sinistra del dipinto.
Le braccia sono caratterizzate dalla presenza di un colore rosso
acceso, quasi rosso fuoco che va a scemare e a confondersi con
le braccia stesse. Egli infine indossa delle calzature simili ai
sandali usati dai soldati nelle battaglie, il cui colore riprende
quello dei capelli di Dafne, sia dei suoi stessi capelli, sia del velo
che gli cinge il braccio.
Sullo sfondo infine è presente un paesaggio talmente scuro da
non essere facilmente riconoscibile, ma che con un’accurata
osservazione si scopre essere un bosco, simbolo di rifugio,
riconoscibile dai contorni di foglie e cespugli. Dietro a questo
primo paesaggio si notano chiaramente un lungo fiume di un
azzurro così debole da dare una reale idea di trasparenza e
diversi alberi presenti sulle sue rive.
Il cielo è di un azzurro pallido, fatta eccezione per alcuni tratti in
cui questo colore si mescola dolcemente con i colori caldi
dell’azzurro e dell’ocra.
Il dipinto
è realizzato tramite la tecnica del chiaro-scuro,
particolarmente indicata per dare l’idea della dinamicità e con
78
colori ad olio che risultano ottimali per la perfetta e semplice
coesione di colori caldi e freddi.
Il dipinto rappresenta il mito di Apollo e Dafne, in particolare
coglie con estrema precisione il momento della metamorfosi di
Dafne, e mostra con eccezionale cura del dettaglio non solo la
scena in sé, ma anche le espressioni dei personaggi che sono
spinti da amore e disperazione, nel caso di Apollo, e da forte
distacco, nel caso di Dafne.
Il messaggio del dipinto, infatti, analogo a quello del mito stesso,
è quello di trasmettere un tema sempre attuale: quello
dell’amore, forza alla quale neppure gli dei possono sfuggire,
proprio come succede ad Apollo, ed in particolare quello
dell’amore non corrisposto. L’amore, inoltre, tanto nel mito
quanto
nel
dipinto,
viene
visto
come
una
fuga
ed
un
inseguimento: le vesti di Apollo e Dafne e le loro stesse posizioni
corporee, infatti, mostrano che entrambi sono reduci da una
corsa, in cui secondo il mito Apollo, mosso da un ardente amore,
stava inseguendo Dafne, che, mossa solamente dal desiderio di
salvezza, fuggiva.
Il tema dell’amore visto come una fuga ed un inseguimento e
dell’amore
non
corrisposto,
percepibile
anche
attraverso
l’espressione di distacco emotivo di Dafne, non solo fanno sì che
il dipinto sia una fedele rappresentazione di ciò che viene
descritto nel mito, ma fanno sì che il mito stesso riesca a
mantenere una continua validità e sia perciò sempre attuale e
plastico, due dimensioni indispensabili dello stesso.
Arena Benedetta, IV D
79
32.
Apollo e Giacinto
Il mito è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, poeta latino
vissuto
nell’età
di
Augusto,
che
ha
scritto
l’opera
“Le
Metamorfosi” raccogliendo miti greci e latini ed unendoli tramite
la narrazione alessandrina, che prevede non la successione
logica dei miti, bensì l’incastro di essi l’uno dentro l’altro. Lo
scopo per cui Ovidio scrive questi miti non è educativo o
religioso, bensì è quello di stupire, meravigliare i lettori tramite il
virtuosismo poetico, ossia la straordinaria capacità immaginifica
dello scrittore che riesce a far sì che davanti agli occhi del lettore
prendano vita le metamorfosi da lui descritte. Il tema principale
di ciascun mito è infatti la metamorfosi, ossia il cambiamento di
forma a cui i lettori sono sottoposti o perché colpevoli di essersi
spinti oltre i confini umani (metamorfosi discendente), o per una
ricompensa datagli dagli dei per le loro azioni (metamorfosi
ascendente) oppure per spiegare l’origine di un fenomeno
naturale (metamorfosi eziologica). In questo stesso mito la
metamorfosi è di tipo ascendente, poiché viene vista come una
ricompensa data dal dio al fanciullo e attuata come gesto
d’amore, ed eziologico, perché spiega la nascita di un elemento
naturale.
Il mito narra, infatti, di un giovane di nome Giacinto, chiamato
anche con la perifrasi «figlio di Amicla», che un giorno partecipa
alla gara del lancio del disco con il dio Apollo. Apollo, nominato
anche Febo, dà inizio alla gara e lancia il disco molto lontano,
dando non solo dimostrazione di grande bravura, ma anche di
grande forza. In seguito al lancio, il giovane Giacinto si avvicina
al luogo dov’è caduto il disco, a causa della sua imprudenza, e
80
quest’ultimo rimbalza colpendolo in volto e portandolo alla
morte. Apollo cerca invano di aiutarlo, ma, accortosi della sua
morte, non può fare altro che accertarla, così decide di rendere
onore al giovane, consacrandolo come elemento prediletto che
avrà scritto sui suoi petali il suo lamento: lo trasforma così in un
fiore e quello stesso fiore sarà quello celebrato durante le feste in
onore di Giacinto.
Il mito può essere diviso in tre sequenze: la prima sequenza (v.
162 – v. 173) spiega, secondo il punto di vista del narratore, che
cosa sarebbe accaduto se la morte di Giacinto non fosse
avvenuta e come si è comportato il dio Apollo senza di lui. La
sequenza è quindi di tipo descrittivo-riflessivo. In questa prima
sequenza è la presenza di un narratore che non è solamente
esterno ed onnisciente, ma che rilascia anche commenti che
dimostrano sia la totale conoscenza della storia, sia la sua
straordinaria capacità poetica e il suo registro colto, dato dalla
perifrasi (v. 167) «mio padre» riferito a Giove, il padre degli
uomini, «il dio» (v. 169), dall’uso di alcuni elementi simbolici
«cetra e frecce» (v. 170), in quanto questi sono tutti elementi che
mostrano la figura di Apollo, dio della guerra e della musica, e
dall’uso di alcune inversioni di parole, come (v. 167) «te più di
tutti amò mio padre». Inoltre il registro colto in questa prima
sequenza è testimoniato anche dalla presenza di metafore come
«la fiamma d’amore».
In questa prima sequenza si può riscontrare il campo semantico
dell’amore, che si troverà anche nelle successive e che è
testimoniato anche dalle parole «amò» e «amore».
La seconda sequenza ha inizio con un’indicazione temporale,
ovvero un’indicazione relativa al momento della giornata in cui si
81
svolge l’episodio: a mezzogiorno; in realtà però, l’indicazione non
esprime a pieno il periodo in cui si sviluppa l’episodio, poiché il
mito ha dimensione atemporale, ed è quindi impossibile dare
una precisa indicazione sull’epoca in cui è avvenuto. La
sequenza è di tipo narrativo perché racconta la vicenda
riguardante la gara del lancio del disco fino alla morte di
Giacinto, e si può trovare inoltre alla fine dell’episodio una
descrizione che può fare intuire che la sequenza è anche
descrittiva. Nella sequenza sono presenti anche alcune figure
retoriche, che testimoniano il registro colto usato dall’autore: si
possono trovare infatti l’appellativo di «Febo» usato per indicare
Apollo, un parallelismo (v.186-187-188) «e ora», «ora», che indica
successione temporale, e un paragone (v.190 – 195). Infatti in
questi versi viene descritta la morte di Giacinto, che viene
paragonata alla morte dei fiori che reclinano il capo, non si
sostengono più e cadono a terra. In questa sequenza inoltre sono
presenti il campo semantico della pianta «erbe, giardino, viole,
papaveri, gigli, appassiscono, corolle, terra», e alcune parole
chiave che ritorneranno nelle successive sequenze, ovvero «arte»
e «gioco».
La terza sequenza, infine, narra del comportamento di Apollo in
seguito
alla
morte
di
Giacinto
e
della
metamorfosi
di
quest’ultimo. La sequenza inizia con il discorso diretto e perciò è
da considerarsi mista in quanto sia narrativa sia descrittiva sia
mimetica. Nel discorso di Febo compaiono inoltre alcune parole
che potrebbero formare il campo semantico del dolore e della
colpa, testimoniato dalle parole «dolore, morte, colpa, causa,
ferita».
Inoltre
ricompare
il
campo
semantico
dell’amore,
testimoniato dalla parola «amore» e compare anche il campo
82
semantico dell’onore, con le parole «onore», «orgogliosa». In
questa sequenza la metamorfosi viene descritta tramite la
straordinaria capacità immaginifica dell’autore che descrive la
mutazione di Giacinto da uomo steso a terra nel suo sangue, a
fiore splendente, che, come il suo sangue, è di colore purpureo.
Segnati sui suoi petali sono i lamenti di Apollo, tremendamente
addolorato per la sua morte. Un altro campo semantico che
ricompare è quello della pianta, testimoniato dalle parole «erba,
fiore, petali». Ricompare anche la parola chiave «giocare», riferita
alla tematica del gioco. Infine, in quest’ultima sequenza compare
l’indicazione spaziale su dove si è svolto l’episodio: Sparta.
La voce narrante è esterna e la focalizzazione è zero, anche se
nella descrizione di Giacinto si può cogliere tutto il dolore di
Apollo. Le tematiche sono quelle del gioco, dell’arte e dell’amore.
La metamorfosi è eziologica e ascendente, perché spiega la
nascita del Giacinto dovuta alla volontà di Apollo di rendergli
omaggio, anche perché lo stesso si sente causa della sua morte.
Arena Benedetta, IV D
83
33.
Apollo e Giacinto
Il mito è tratto dal decimo dei quindici libri di cui è composta
l’opera “Le Metamorfosi”. E’ possibile dividerlo in quattro
sequenze: nella prima, mista, diegetica, il narratore si riferisce a
Giacinto, affermando che è eterno, in quanto risorge ogni
primavera e che Apollo non amò mai altri come lui. Come si può
evincere, il tema centrale di questa prima sequenza che
costituisce una breve introduzione del brano è l’amore, come
d’altronde il campo semantico principale (« amore, fiamma
d’amore »); questo perché, nonostante che il tema unificante sia
la metamorfosi, l’argomento principale è l’amore, una forza
potente alla quale, come possiamo vedere, soggiacciono anche gli
dei. Il narratore è onnisciente e la focalizzazione zero. Il registro
utilizzato da Ovidio è elevato e proprio all’inizio del mito troviamo
una perifrasi («figlio di Amicla») che fa riferimento a Giacinto. La
funzione della lingua è poetica, come d’altra parte in tutto il
brano. La dimensione è atemporale per quanto riguarda il
periodo storico, caratteristica tipica del mito, e lo spazio è
aperto, caratteristiche che si mantengono costanti in tutto il
brano.
La seconda sequenza, diegetica, si apre con un’indicazione
temporale (vv. 174–175) che ci fa capire in che parte della
giornata siamo, cioè mezzogiorno, mantenendo il periodo storico
sempre ignoto. E’ prettamente narrativa e racconta di Apollo e
Giacinto che gareggiano con il disco finché Giacinto non viene
colpito violentemente in volto dal disco stesso rimbalzato dal
terreno duro. Il campo semantico principale è quello del
gioco/gara («librò, scagliò, gioco, disco, arte»), lo stesso elemento
84
che sarà poi il motivo della metamorfosi di Giacinto ad opera di
Apollo. Focalizzazione e voce narrante rimangono invariate.
Troviamo poi un epiteto («Febo») e un’apostrofe a fine sequenza
(«Il tuo volto, Giacinto») coerenti con il registro elevato di Ovidio.
In questa sequenza si ha un’analessi con la quale si fa uno
scarto temporale per raccontare dall’inizio la vicenda di Apollo e
Giacinto.
La terza sequenza, perlopiù mimetica e mista, racconta della
reazione del dio Febo nel momento in cui il bel ragazzo viene
colpito in viso dal disco; Apollo si sente colpevole di averlo ucciso
e proprio la colpevolezza è il campo semantico («accusa,
responsabile, causa, colpa») e la tematica principale della
sequenza. Riscontriamo poi di nuovo la tematica dell’amore.
Inoltre c’è il campo semantico della metamorfosi («mutato,
trasformato») che continua nella sequenza seguente. Per spiegare
lo stato del corpo senza vita di Giacinto, si nota la presenza di
un’ampia similitudine (vv. 190 –195), che paragona il fanciullo a
un fiore spezzato, la stessa cosa in cui poi verrà trasformato. Si
riscontra inoltre un ampio soliloquio di Apollo.
La quarta ed ultima sequenza, narrativa, diegetica, inizia con la
metamorfosi di Giacinto in fiore. La metamorfosi in questo caso è
eziologia poiché spiega l’origine del fiore, il Giacinto e come mai
vengano celebrate a Sparta le feste Giacinzie. La metamorfosi
avviene per analogia: il colore purpureo deriva infatti dal sangue.
Il campo semantico principale è quello della tristezza («AHI,
tristi, lamento»), quella di Apollo per aver perduto l’amato.
Narratore e focalizzazione rimangono le stesse.
Piarulli Emanuele, IV D
85
34.
Dipinto: “La morte di Giacinto” di B. West
“La morte di Giacinto” è un quadro di Benjamin West, datato
1771, ispirato al mito raccolto nell'opera “ Le Metamorfosi” di
Ovidio.
Nel quadro sono ben evidenti i due personaggi principali: Apollo
e Giacinto.
Apollo è dipinto mentre sorregge Giacinto morente e gli
accarezza la testa; il dio è riconoscibile anche se non porta i suoi
tipici attributi (cetra e faretra), perché ha il capo circondato da
una luce, come un'aureola, simbolo del divino. Questo indossa
una stola di un rosso molto intenso che gli copre a malapena il
corpo; queste vesti non sono simbolo di un'epoca specifica e
stanno ad indicare l'atemporalità di questa storia.
86
Giacinto è dipinto con la testa riversa sulla spalla di Apollo che
lo sorregge, ha gli occhi chiusi e le braccia abbandonate lungo i
fianchi.Anche lui non indossa quasi niente, se non una veste
bianca, sorretta da un nastro, che ricade sulla parte inferiore del
corpo. Le vesti non sono mosse dal vento come quelle di Apollo,
perché le une stanno a sottolineare la staticità della morte e, al
contrario, le altre il movimento di un corpo vivo.
Una
differenza
con
quanto
descritto
da
Ovidio
ne
“Le
Metamorfosi” è l'assenza del sangue su Giacinto e sulla terra,
elemento che nel mito prende parte alla metamorfosi, dando il
colore rosso al fiore. Sul terreno appunto sono presenti il disco,
che, lanciato da Apollo, ha colpito il fanciullo uccidendolo, e dei
fiori, che rappresentano l'imminente trasformazione che qui però
non viene rappresentata, ma che vi alludono.
Nell'angolo in alto a sinistra sono presenti due amorini, che
assistono alla scena e sono compartecipi del dolore di Apollo
rattristandosi davanti a questa tragica scena.
Morelli Beatrice, IV D
87
35.
Apollo e Leucotoe
Il mito è tratto dal libro IV de “Le Metamorfosi” di Ovidio, poeta
latino vissuto al tempo di Augusto, che per questa opera usa la
tecnica alessandrina dell’incastro, evitando la successione
monotona dei miti da raccontare; facendo scaturire miti da altri
e usando voci narranti diverse crea un effetto di vertigine nel
lettore. Lo scopo di Ovidio, quindi, non è tanto religioso, storico o
educativo, ma è quello di pura erudizione, creando nel lettore il
“mirum”, ossia la meraviglia.
Il mito di Leucotoe può essere diviso in tre macrosequenze:
la prima narra di Apollo che, innamorato perdutamente di
Leucotoe, si scorda di tutte le altre donne che vorrebbero il suo
amore, come Clizia. Per quanto riguarda i campi semantici, sono
due
quelli
che
possiamo
individuare:
quello
dell’amore,
riconoscibile dalla continua ripetizione della parola stessa, che
rimanda quindi alla tematica dell’amore, presente in tutta
l’opera, un amore inteso come forza a cui gli dei non possono
sfuggire; quello della bellezza, riconducibile alle parole “bellezza”,
“bella”, un campo semantico che giustifica l’amore di Apollo
verso Leucotoe.
Per quanto riguarda lo stile dell’autore, abbiamo una perifrasi
“figlio di Iperione”, che fa intuire il registro alto e formale usato
da
Ovidio,
che
in
questa
sequenza
interviene
parlando
direttamente ad Apollo con una apostrofe nella frase: “Tu che
scaldi tutte le terre…”.
La voce narrante è esterna onnisciente, come del resto in tutto il
brano; i personaggi qui incontrati sono Apollo, Leucotoe e Clizia,
88
introdotti dall’autore, e le dimensioni spaziale e temporale non
sono specificate.
La seconda macrosequenza narra di Apollo che, dopo aver preso
le sembianze della madre di Leucotoe, entra nell’abitazione di
questa e, eludendo le altre serve, possiede Leucotoe; Clizia, però,
guidata dall’ira, dalla collera e dall’invidia, denuncia al padre di
Leucotoe l’atto della figlia: così Orcamo decide di seppellire la
figlia in una fossa profonda.
In questa sequenza si possono riscontrare altri campi semantici,
oltre a quelli analizzati prima: quello della paura e del timore,
sottolineato
dalle
parole
“paura”,
“indugio”, “timore”, che
rappresenta lo stato d’animo di Leucotoe, comunque timorosa
nei confronti della natura reale del dio; quello della divinità,
sottolineato dalle parole “dio”, “sole”, che giustificano la natura
di Apollo.
In questa macrosequenza avviene un travestimento temporaneo,
che consiste in Apollo travestito nella madre di Leucotoe,
Eurinome, un travestimento usato come espediente per attuare
le intenzioni del dio. Nella sequenza, alla frase: “Io sono quello
che misura il lungo anno”, il dio Apollo si presenta da sé a
Leucotoe, e così la focalizzazione è interna ad Apollo e la
sequenza è mista, perché mimetica e diegetica. Si possono
riscontrare epiteti e perifrasi (“Sole, “Io sono quello che misura il
lungo anno”).
Nella terza ed ultima macrosequenza, Febo cerca in tutte le
maniere di salvare Leucotoe dalla morte, ma senza successo.
Decide allora di farla “rinascere” come pianta di incenso, e
soprattutto di non rivolgere più lo sguardo e la parola a Clizia,
89
che, disperata per l’amore non ricambiato dal dio, smette di
mangiare e bere, trasformandosi in un fiore che segue tutti gli
spostamenti del Sole: il girasole.
Quest’ultima macrosequenza è il momento culminante del mito,
con ben due metamorfosi eziologiche, che ci spiegano l’origine
della pianta d’incenso e del girasole.
La metamorfosi di Clizia è descritta in modo molto abile
dall’autore, che ci “proietta” delle immagini colorate e reali di
questa trasformazione, e da qui si deduce l’elemento erudito.
Il campo semantico nuovo che viene introdotto è quello della
morte,
visibile
nel
testo
dalle
parole
“giacevi”,
“ucciso”,
“esangue”, che aggiunge tragicità al mito per una morte
innocente, più che altro provocata dalle azioni di Apollo. E’
presente la parola-chiave “trasformata”, che è una parola
ricorrente nell’opera. Anche in questa ultima sequenza sono
presenti perifrasi come “guidatore dei cavalli alati”, che fanno
notare come Ovidio non lasci mai il suo registro alto in tutto il
mito: infatti per Ovidio si può parlare di “virtuosismo poetico”,
proprio per questa continua ricerca della parola giusta ma
soprattutto dotta, per descrivere il mondo de “Le metamorfosi” in
modo unico.
Per finire, anche in questa sequenza la voce narrante torna per
rivolgersi non ad un personaggio, ma al lettore, per far finire gli
eventi narrati che, senza il suo intervento, rimarrebbero in
sospeso.
Tommaseo Giordano, IV D
90
36.
Dipinto: “Apollo e Leucotoe”
Antoine Boizot Apollo and Leucothea , 1737
Il quadro è di Antoine Boirot; è stato dipinto nel 1771 e si
intitola “Apollo e Leucotoe”.
Nel quadro vengono rappresentate tre figure: due principali,
poste in primo piano, raffiguranti un uomo ed una donna, e una
terza figura ,quella di un amorino, posto a lato per indicare la
sua minore importanza.
Prendendo spunto dal titolo si può intuire che le due figure
principali rappresentano il dio Apollo e la ninfa Leucotoe. La
figura maschile è dipinta quasi nuda, coperta solo da un drappo,
e dietro il suo volto si espande una luce dorata; questi due
91
elementi sottolineano l’appartenenza della figura alla sfera delle
divinità, in particolar modo i raggi posti dietro il suo volto
alludono all’immagine del sole, di cui Apollo è divinità secondo
una certa interpretazione. Anche lo scettro e la corona posti ai
piedi del dio ne possono enfatizzare la superiorità nei confronti
della donna e degli uomini, oppure essi potrebbero simboleggiare
le origini regali di Leucotoe,figlia del re degli Achemenidi.
La figura femminile invece è ritratta quasi svestita ma, in questo
caso, per sottolineare la futura unione e non per enfatizzare la
sua divinità. Il volto della donna mostra un’espressione che fa
trasparire la sua accondiscendenza; Leucotoe ha ancora nelle
mani gli strumenti per la tessitura: questo particolare ci può
aiutare a stabilire in che periodo avverrebbe la scena ritratta da
Boirot,ovvero i momenti tra la presentazione di Apollo a Leucotoe
e la successiva violenza nei confronti della ninfa.
La presenza dell’amorino, suonatore di lira, può simboleggiare
un’altra caratteristica di Apollo,anche divinità della musica.
Inoltre il suo viso sorridente ci può aiutare a capire che nella
scena ritratta non vi è violenza.
Una differenza che si può notare tra il dipinto e il testo è che, se
Ovidio nella propria opera enfatizza i fatti successivi all’unione
tra Apollo e Leucotoe, nel quadro viene ripresa invece la scena
precedente alla violenza.
Pistelli Tommaso, IV D
92
37.
Ciparisso
Il mito di Ciparisso, tratto dal X libro de “Le Metamorfosi” di
Ovidio, racconta che un giovane cacciatore di nome Ciparisso,
amato da Febo Apollo un giorno durante la caccia senza rendersi
conto trafisse con la sua lancia un cervo sacro alle ninfe della
campagna di Cartea.
Il giovane accorgendosi del suo errore decise allora di morire.
Allora Apollo lo trasformò in un cipresso, albero che simboleggia
la tristezza, il dolore e il lutto eterno poiché il giovane Ciparisso
come ultima cosa desiderò piangere in eterno.
La prima sequenza (vv.106-125) è mista perché è sia descrittiva
sia narrativa dato che presenta la descrizione del cervo e delle
attività abituali del giovane Ciparisso vissute assieme al cervo
sacro alle ninfe della campagna di Cartea.
Ciparisso era un giovane cacciatore dell’isola di Ceo, il più bello
dei giovani dell’ isola, amato dal figlio di Latona, il quale si
affezionò ad un cervo particolarmente mansueto poiché era
sacro alle ninfe dei campi Cartei.
Il cervo era solito non solo passare molto tempo con Ciparisso
pascolando ma anche essere cavalcato dal giovane.
In questa sequenza è presente il campo semantico dell’amore
(gradito) da parte di Ciparisso e quello della sicurezza (senza
timore, senza la naturale paura) da parte del cervo che non teme
di essere accarezzato anche da gente ignota.
Sono presenti molte tecniche narrative e espedienti stilistici che
sono prova dello stile elevato di Ovidio, quali: l’apostrofe:” Ma
più che ad altri era gradito a te, Ciparisso, il più bello della gente
di Ceo. Tu guidavi il cervo a pascoli inusitati, alle acque delle
93
fonti limpide; tu gli intrecciavi fiori variopinti alle corna, o,
standogli in groppa, lo cavalcavi con gioia qua e là mettendo alla
morbida bocca freni purpurei”; il locus amoenus, quadretto
topico nel quale sono stilizzati elementi della natura, infatti nel
testo si può trovare al verso 122 la descrizione di un bosco e di
fonti limpide; e vari epiteti ossia aggettivi
esornativi per
facilitare il riconoscimento del personaggio a cui si rivolge: “
grande cervo, il più bello della gente di Ceo”.
La seconda sequenza (vv.126-132) è narrativa perché presenta la
narrazione della vicenda.
Un giorno, durante una battuta di caccia, Ciparisso credendo il
cervo selvaggio lo trafisse per sbaglio con il suo giavellotto e lo
uccise.
Nella seguente sequenza sono presenti: il campo semantico della
caccia (giavellotto), che ci fornisce un’abitudine del protagonista,
quello della vista (vedendolo), che è intrecciato assieme a quello
della morte (morire) e quello della sofferenza (crudele ferita,
soffrire) perché Ciparisso tramite la vista vede il suo cervo che
muore per colpa sua, tanto che si lascia morire.
La terza ed ultima sequenza (vv.133-142) è mista perché si
riscontra sia la sequenza narrativa sia quella descrittiva.
Resosi conto dell’errore Ciparisso, afflitto ed inconsolabile
nonostante i ripetuti tentativi di Apollo, chiese agli dei di poter
essere a lutto eternamente e venne così trasformato in un
albero, chiamato appunto cipresso dal suo nome, che Apollo
decretò fosse da allora in poi di conforto ai defunti.
Nella sequenza sono presenti il campo semantico della sofferenza
(piangere per tutto il tempo, pianto immenso) e quello della
metamorfosi (cominciarono a colorarsi, divennero).
94
In questo mito la metamorfosi è ascendente, perché Apollo salva
il suo amato Ciparisso dalla morte, e eziologica, perché spiega
che il cipresso è simbolo di dolore e tristezza tanto che è legato al
lutto.
Le tematiche presenti nel mito di Ciparisso sono l’amore in varie
sfumature: di Apollo per il giovane, di questo ultimo per il cervo;
la
tematica
della
colpa
a
cui
segue
in
questo
caso
l’autopunizione e la tematica del destino a cui né l’uomo né gli
dei non possono sottrarsi.
Come in tutti i miti di Ovidio è presente la tematica della
metamorfosi, tematica unificante della sua opera.
Mouhsen Ghizlane, IV C
95
Dipinto: “Ciparisso” (J. Vignali)
38.
Il quadro “Ciparisso” del pittore Jacopo Vignali (1623-1625)
rappresenta il giovane Ciparisso disperato per avere ucciso
accidentalmente il cervo sacro alle ninfe.
Al centro del dipinto è posto il giovane che, con gli occhi gonfi e
rossi di lacrime, abbraccia e tiene con tenerezza la zampa del
cervo esamine, colpito nel collo dalla freccia.
Le corna dell’animale spuntano dietro il capo del cacciatore
quasi
ne
facessero
parte;
questo
elemento
sottolinea
il
coinvolgimento del ragazzo con l’animale.
96
La sua disperazione è sottolineata anche dalle vesti strappate e
dall’abbandono della faretra.
La vegetazione sullo sfondo e il cervo sono volutamente dipinti
con tonalità molto scure, per mettere in evidenza Ciparisso
illuminato da una luce innaturale che riflette solo lui: è solo
nella sua disperazione.
In basso sulla destra si può notare la faretra, che indica cha
Ciparisso è una cacciatore.
Al collo dell’animale è legato un collare riccamente decorato e sul
suo capo è posto un diadema: questi sono i simboli, riscontrabili
anche in Ovidio, che sottolineano l’appartenenza del cervo alle
ninfe.
La differenza più rilevante con il testo di Ovidio è la mancanza
del dio Apollo nella scena, il quale asseconda la richiesta di
Ciparisso di piangere per tutta la vita la morte del cervo,
trasformandolo in un cipresso.
Le
vesti
strappate
potrebbero
rappresentare
lo
“strappo”
all’interno della vita del giovane cacciatore per sempre segnata
da questo evento drammatico; tutto ciò è accentuato dal forte
contrasto della veste rossa ancora intatta con quella bianca
ormai a brandelli che potrebbe rappresentare la sua anima.
Marchi Carolina, IV C
97
39.
Pigmalione
Il mito narra l’amore di Pigmalione che non avendo compagna si
innamora della propria opera, ovvero la statua di una ragazza
bellissima scolpita in avorio. Il mito si conclude con la
metamorfosi
ascendente
della
statua
che
ogni
volta
che
Pigmalione la sfiorava e la baciava si scaldava fino a trasformarsi
in una ragazza viva.
La metamorfosi inoltre è voluta dalla dea Venere che, venuto il
giorno della sua festa, comprese l’amore e le preghiere di
Pigmalione e fece sì che anche la statua potesse diventare vera.
La prima sequenza (vv. 243-269) è narrativa perché narra di
come Pigmalione si innamora della sua bellissima opera e ne
riporta le caratteristiche principali.
In questa sequenza si può riconoscere la tematica principale di
questo mito ma anche di tutta l’opera, ovvero la tematica
dell’amore. L’amore e l’innamoramento costituiscono anche uno
dei campi semantici con le parole “innamoro”, “si consuma
d’amore”, “la bacia”. Un altro importante campo semantico è
quello della bellezza. Le parole “arte mirabile”, “candido” e la
frase “tutto le sta bene , ma nuda non è meno bella” (v. 266) ne
fanno parte.
A proposito della bellezza abbiamo studiato che spesso fa parte
dei
campi
semantici
di
questi miti
perché
attraverso
il
bell’aspetto e la bellezza nasce l’innamoramento. Ancora un altro
campo semantico che vale la pena citare, perché forse è uno dei
più importanti, è quello dell’illusione.
Pigmalione infatti si illude che la statua possa ricambiare il suo
amore.
98
Nel brano sono riportate le parole e le frasi “crederesti che sia
viva”, “ragazza vera”, “carne o avorio”, “neanche allora si
persuade” e “crede” ripetuto più volte. L’ultimo campo semantico
che si può individuare è quello della donna e della figura
femminile. “Donna” , “indole femminile” , “moglie”, “compagna”,
“ragazza vera” sono infatti le parole che si ripetono nel testo.
Al verso 256 notiamo un particolare uso della grammatica dove
il soggetto compie e subisce l’azione (bacia ed è baciato).
In questa prima sequenza la focalizzazione è zero e la voce
narrante esterna.
La seconda sequenza comincia con il verso 270 e si conclude con
la
fine
di
questo
breve
mito
al
verso
298.
Questa sequenza inizia con la preghiera da parte di Pigmalione
rivolta a Venere il giorno della sua festa, prosegue con il narrare
della comprensione di Venere che decide di esaudire le preghiere
ricevute dal pover’uomo e concede la metamorfosi ascendente
della statua in ragazza. Si conclude con lo stupore di Pigmalione
e le nozze dei due che finalmente possono ricambiare a vicenda il
proprio amore. La tematica più importante è la medesima di
tutto il mito e anche le parole “baciarla”, “l’innamorato”, “baci”,
“oggetto del suo desiderio”, “amante” vanno a riconfermare il
campo
semantico
dell’amore
e
la
tematica.
In questa seconda sequenza non riscontriamo più il campo
semantico dell’illusione che viene sostituito da quello dello
stupore e quello della stessa metamorfosi: “mentre stupisce e
gode” e “temendo l’inganno” risaltano lo stupore mentre “era
davvero un corpo”, “finalmente vera” e “l’avorio si ammorbidisce”
confermano la metamorfosi.
99
La voce narrante e la focalizzazione rimangono rispettivamente
esterna e zero ad eccezione di alcuni punti in cui è interna a
Pigmalione. In questa sequenza è specificato il luogo che è
aperto e il tempo, ci troviamo infatti nell’isola di Cipro il giorno
della festa di Venere.
Il personaggio principale è indubbiamente Pigmalione che in
questo mito ha caratteristica di essere piuttosto un tipo che un
individuo. Pigmalione infatti mantiene i suoi pensieri e le proprie
caratteristiche all’interno di tutto l’episodio.
Meneghini Beatrice, IV C
100
40.
Dipinto: “Pigmalione e Galatea”
Il quadro “Pigmalione e Galatea”, dipinto da Laurent Pecheux, ha
come personaggi in primo piano un uomo inginocchiato e la
statua di una donna senza vestiti, posizionata su un piedistallo.
Il luogo dove viene rappresentata la vicenda è uno spazio piccolo
e buio. L’uomo è Pigmalione, che dopo aver odiato per molto
tempo le donne, e essendo rimasto scapolo per propria volontà,
realizza una statua, raffigurante una donna perfetta che non
può nascere in natura dalla natura, Galatea, di cui si innamora.
Infatti dietro un busto, posto a lato desto della statua, si
intravede l’amorino Eros, figlio di Venere, la quale darà vita alla
101
fanciulla come ringraziamento di un sacrificio fattole da
Pigmalione in onore della sua festa. Il piccolo amorino dietro la
statua è simbolo dell’amore che Pigmalione prova nei confronti
di Galatea, dal quale nascerà poi il loro figlio Pafo.
Distinguiamo la figura di Eros grazie all’arco e alle frecce che ha
in mano, oggetti che lo caratterizzano.
A sinistra del quadro c’è una persona, vestita di verde, che
appartiene ad un’epoca moderna e che spunta da dietro una
tenda e indica con un dito la statua.
Nello sfondo troviamo: la statua di un uomo sdraiata a terra, il
busto di una donna rappresentante probabilmente una divinità
femminile, alcune tende, bianche e verdi, che fanno da divisori, e
vari oggetti dell’artigianato dello scultore ai piedi della statua.
Pigmalione è posto a sinistra del quadro, di fronte alla statua di
Galatea, è vestito di una tunica rossa sovrastante una tunica
bianca, ha un paio di sandali ai piedi e un martello in mano,
oggetto che ci fa capire che Pigmalione è uno scultore.
Galatea, invece, è nuda ed ha i capelli raccolti; la posizione delle
braccia fa capire il tentativo della ragazza di nascondere le parti
intime del corpo.
La nudità della ragazza è legata allo stile scultorio dei Greci per
evidenziare la bellezza esteriore e fisica di uomini e divinità.
Il momento raffigurato è quello nel quale Pigmalione ha appena
finito di scolpire la statua di Galatea.
Modernità e classicità convivono nell’opera.
Perndrecaj Mara, IV D
102
41.
Mirra
Il brano proposto è tratto da " Le Metamorfosi di Ovidio" .
E' narrata la storia di Mirra e dell'amore che nutre nei confronti
di suo padre Cinira, figlio di Pafo. Essa vieni infatti colpita
dall’amore che Cupido nega di aver provocato.
Mirra è confusa e pregando gli dei è prossima ad uccidersi: non
è in grado di trovare un altro uomo che sia suo padre, di cui è
fortemente innamorata. Quando infatti Cinira le domanda chi
desiderasse per marito Mirra risponde di volere un uomo simile
a lui. Perdendo totalmente il senno, Mirra durante la notte si
lega ad un laccio per uccidersi, ma la nutrice sopraggiunge e la
ferma, pregandola di confidarle la causa del suo dolore. La
nutrice non comprende ancora, pur avendo il sospetto che si
tratti di un amore.
Nella prima sequenza la voce narrante si rivolge al pubblico
parlando dell'origine di Mirra: il mito è intrecciato a quello di
Orfeo, che diventa qui voce narrante di secondo grado come
vuole la tecnica ovidiana dell’uso di varie voci quasi per
disorientare il lettore e avvolgerlo.
E' presente una prolessi, in quanto la voce narrante si rivolge
agli ascoltatori dicendo loro di essere in procinto di raccontare
fatti terribili.
La seconda sequenza è prevalentemente riflessiva, le riflessioni
sono introdotte con un monologo.
Si riscontra un'apostrofe, poiché la voce narrante si rivolge alla
fanciulla dicendole che confonde i legami di parentela.
103
La sequenza successiva è mista: narrativa e dialogata. Si
riscontra il campo semantico del pianto (gli occhi si velano di
gocce tiepide, piangere,le asciuga le guance).
Nella quarta sequenza, narrativa, si riscontra la tematica
dell’amore legato al fuoco della passione che per i Greci passava
attraverso la vista facendo innamorare. Il campo semantico è
quello della morte (morte,laccio,addio,cappio).
La quinta sequenza è descrittiva, il campo semantico è ancora
una volta quello della morte (morte, laccio) e quello della
disperazione (grida, batte il petto, strappa la veste, fa a pezzi,
piangere, spiaciuta)
La sesta sequenza è mista, presenta infatti una parte narrativa e
una dialogata. In questa sequenza sono riportate le parole della
vecchia ed è presente un soliloquio. Infine, il campo semantico è
quello della confidenza (confidarle, promette, segreto).
Ricci Margherita, IV C
104
42.
Mirra
Mirra è disperata per il suo infelice amore e tenta di uccidersi; la
nutrice prova a consolarla e viene a sapere dell’attrazione
provata dalla ragazza verso il padre, nonostante questo la
nutrice
promette
di aiutarla. Infatti riesce
a farli unire
permettendo al padre di togliere la verginità alla propria figlia
durante una notte buia, dopo la quale si incontrano ancora
innumerevoli volte finché il padre, una sera, deciso a conoscere
l’identità della sua amante fa luce per guardarle il viso. La figlia
scoperta fugge e prega gli dei di essere bandita sia dal mondo dei
vivi che dei morti e viene trasformata in un albero che al posto
delle lacrime della fanciulla versa Mirra. Ella era incinta e dalla
dura corteccia partorisce uno splendido figlio.
Il mito di Mirra si conclude con una metamorfosi eziologica
discendente poiché spiega da dove proviene la mirra ed è una
punizione per il delitto da lei commesso.
Nel testo sono presenti le tematiche dell’amore infelice, della
metamorfosi e del divieto (dato che l’unione di una figlia con il
padre era considerata delittuosa). L’amore è infelice perché
impossibile da realizzare a meno che il padre non sia a
conoscenza dei fatti come accade durante le notti quando si
incontrano con le luci spente. Mirra soffre rovinosamente per
amore e sa di compiere un delitto entrando nel letto del padre,
ma il suo sentimento è talmente forte da infrangere il “divieto”.
Dopo una lunga fuga chiede di essere mutata per non
contaminare né il mondo dei vivi né quello dei morti.
105
Tutti i campi semantici presenti nel testo come quello del pianto,
dell’amore, dell’infelicità, della fuga riguardano Mirra e servono
ad enfatizzare la principale tematica dell’amore infelice.
Inglese Dario, IV C
106
43.
Adone: la nascita
Da Mirra nasce Adone che è un ragazzo bellissimo, apprezzato
perfino da Venere. Un giorno il ragazzo colpisce, senza volere con
una freccia che sporgeva dalla faretra la dea, che è conquistata
dalla sua bellezza. Venere passa molto tempo con Adone e lo
invita a cacciare animali docili e indifesi e non quelli che si
possono difendere, per non rischiare di essere ucciso.
Poi Cinira narra a Adone il prodigio che colpì Ippomene.
Questo testo può essere diviso in due sequenze.
Nella prima c’è una descrizione del protagonista, del quale viene
da subito sottolineata la bellezza, e del ferimento accidentale di
questo verso la dea Venere. Il registro è elevato e si riscontrano
alcuni epiteti come: «Cnido pescosa; Amatunte gravida di
metalli». Si possono individuare anche due tematiche principali
come quella della bellezza, che è formata da parole come
“bellissimo; bello; bellezza”, e quello della caccia (freccia; ferita).
Nella seconda sequenza il narratore elabora una sequenza
mimetica dove Cinira dà moniti sulla caccia ad Adone,
mettendolo in guardia contro gli animali più pericolosi.
In questa sequenza si riscontrano epiteti come: «Cespugli
spinosi; cervo dalle altre corde; forti cinghiali; lupi predoni; orsi
armati di artigli; setolosi cinghiali». Inoltre si riscontrano le due
tematiche principali cioè quella della bellezza,
individuata da
parole come bellezza commosso e quella della fuga, individuata
da parole come «vaga; inseguendo; scappano; fuggono».
Bondi Lorenzo, IV C
107
44.
Il
Dipinto: “La nascita di Adone”
quadro
di
Marcantonio
Franceschini
rappresenta
la
trasformazione di Mirra in un albero, perciò è una metamorfosi
discendente ed eziologica poiché spiega la nascita della mirra.
In basso a sinistra sono presenti due Amorini intenti a
raccogliere le lacrime di Mirra.
Al centro del quadro si trovano due Naiadi che tengono in
braccio Adone.
Dietro di loro a sinistra sono presenti altre due Naiadi che
osservano stupite la rottura della corteccia di Mirra che ha
potuto così partorire il bambino.
Mirra, pur essendo la protagonista, non si trova in posizione
centrale; è trasformata in albero, ma presenta ancora tratti
umani come gli occhi da cui piange, il naso, la bocca e il seno.
108
Nel quadro si riscontrano alcune differenze con il mito di Ovidio:
sono presenti due uomini estranei alla vicenda; nascosti dai
cespugli i loro sguardi non sono rivolti né a Mirra né al bambino;
le due donne sulla destra invece sembrano spettatrici della
vicenda.
Nel quadro, che ricrea l'atmosfera del mito, ambientato in uno
spazio boschivo, tutti i personaggi sono vicini, a coppie, ad
eccezione di Mirra e Adone inesorabilmente divisi dall'immobilità
della madre.
Bandini Filippo, IV C
109
45.
Morte di Adone
Ovidio nel mito narra dell’ira di Cinira nei confronti di
Ippomene, che non le era stato riconoscente, e della morte
di Adone in uno scontro con un cinghiale.
La prima sequenza racconta della furia di Cinira a causa di
Ippomene tanto che lo trasforma insieme ad Atalanta in
leone. Vi sono appunto due campi semantici: dell’ira («ira,
offesa, desiderio, colpevoli, affogare»)e della metamorfosi
(«criniere, artigli, zampe, petto, coda, ruggiti, zanne»). Vi
sono inoltre molti aggettivi eruditi «nobile Echione, acqua
stigia, zanne domate, madre turrita». C’è anche una
focalizzazione interna a Cinira (689-696). Venere fa questa
digressione per convincere Adone ad evitare di cacciare
fiere selvagge.
La seconda sequenza (vv. 705-716) narra dello scontro di
Adone con un cinghiale e della morte dell’uomo. Di
conseguenza il campo semantico è quello dello scontro
(«battaglia, fuga, tracce, trafisse, colpo, lancia, sangue,
abbatté»). Vi sono nuovamente degli epiteti come «truce
cinghiale, sabbia fulva, luogo sicuro». Inoltre, si può notare
il
«ma»
(congiunzione
avversativa)
che
indica
il
cambiamento dello svolgimento della narrazione e mette in
contrapposizione il colpo di Adone con la lancia al cinghiale
e il colpo del cinghiale con le zanne ad Adone.
Nella terza sequenza è descritta la metamorfosi di Adone in
anemone dopo la sua morte mediante i poteri di Citerea.
Infatti il principale campo semantico è della metamorfosi
(«immagine, muterà, trasformo, mutare, nettare profumato,
110
fiore»). Vi sono due similitudini «come nel fango fulvo si
formano le bolle lucenti; come il melograno che cela sotto la
sua buccia duttile dei suoi grani». Queste scelte stilistiche
testimoniano un registro elevato poetico. Si riscontrano di
nuovo svariati aggettivi eruditi come «uccelli bianchi, fango
fulvo, corpo esanime, menta fragrante, nettare profumato,
bolle lucenti».
La focalizzazione del brano è quasi sempre zero ad
eccezione della focalizzazione interna a Venere e la voce
narrante è onnisciente. Le parole chiave sono «ira, leoni,
battaglia, trasformare, fiore». L’«ira» è presente in molte
parti del testo ed è la causa della prima metamorfosi. I
«leoni» rappresentano proprio la prima metamorfosi. La
«battaglia» è simbolo di onore e di vittoria di Adone, però
finisce con la sua morte. «Trasformare» è la parola che
indica
la
metamorfosi
(dal
greco
“metamorfów”
“trasformo”). Il «fiore» rappresenta la seconda metamorfosi.
La prima metamorfosi del mito è ascendente a d differenza
della seconda che è discendente.
Il tempo è indeterminato come sempre nel mito, lo spazio è
chiuso nella prima parte del brano poiché si svolge in una
grotta, in seguito è aperto perché si svolge nel bosco ed il
testo si conclude con un tragico finale.
Spano Davide, IV C
111
Dipinto: “Venere e Adone”
46.
Il
quadro
‘’Venere
e
Adone’’
è
dipinto
da
Tiziano.
In primo piano vediamo Adone che tiene con una mano i cani da
caccia e con l’altra la faretra mentre Venere ,vestita con solo un
velo bianco che gli copre il braccio sinistro e la gamba destra,
abbraccia
e
stringe
Adone
per
attirarlo
a
sé.
Appoggiato ad un albero vicino alla figura di Adone si trova un
arco con le frecce,oggetto con il quale accidentalmente Adone
aveva
colpito
Venere
che
poi
si
innamora
di
lui.
In ultimo piano si trova la figura dell’amorino che dorme con
arco e frecce sotto ad un albero ed è simbolo dell’amore.
Il paesaggio in cui è ambientato il quadro è un bosco con alberi e
vegetazione, luogo in cui Adone va a cacciare e anche luogo della
sua nascita.
Il cielo è nuvoloso e si vede sbucare da una nuvola una luce che
illumina un albero in ultimo piano; il cielo è il luogo di Venere, la
112
quale per l’amore nei confronti di Adone trascura il suo ruolo in
esso.
I colori sono cupi, prevale il colore rosso e il marrone, le figure di
Venere e di Adone invece sono illuminate e si vedono
chiaramente essendo i protagonisti.
Inchincoli Rachele, IV D
113
47.
Dipinto: “La morte di Adone”
Il dipinto proposto è di Sebastiano del Piombo il quale
presenta una reinterpretazione del mito “La morte di
Adone” che fa parte de “Le Metamorfosi” di Ovidio.
Osservando il quadro si nota in primo piano la presenza di
sei figure umane prive di vesti. Esse si trovano in un bosco
e accanto a quest’ultime è rappresentato un uomo sdraiato
a terra. In lontananza si vede una città che si affaccia su
un fiume, appartenente all’epoca del pittore. Una delle
figure in primo piano è Venere che si tiene il piede destro
mentre Cupido, una delle altre figure rappresentate, le
indica Adone, il ragazzo in secondo piano morto a causa
dell’attacco di un cinghiale. Cupido potrebbe alludere
simbolicamente all’amore di Venere nei confronti di Adone.
A destra di Venere si vedono tre figure femminili seminude
e una figura maschile. Una delle donne rivolta verso Venere
114
le indica il personaggio maschile al margine del quadro,
un’altra invece rivolta verso il personaggio maschile gli
indica la dea. La scena forse allude alla diffusione della
notizia.
Osservando il paesaggio si nota la presenza di fiori che
possono rimandare alla primavera, inoltre la presenza di
colori scuri potrebbe rappresentare la tristezza per la morte
di Adone. La dea infatti ha lo sguardo triste e rivolto verso il
basso addolorata per la morte del ragazzo, il quale verrà poi
trasformato in un fiore da lei stessa.
Vezzoni Sara, IV D
115
48.
Orfeo e Euridice
I protagonisti del mito sono Orfeo ed Euridice che si amano
ma la loro storia d’amore presto è interrotta perché la bella
fanciulla muore morsa da una vipera. Orfeo dunque,
disperato, giunge nell’ Ade per cercare di convincere
Persefone, la moglie del dio dell’Oltretomba, a restituirgli la
sua amata.
Grazie anche al triste suono della lira, Persefone è mossa a
compassione e decide di acconsentire alla richiesta di Orfeo
dicendogli però di non voltarsi mai verso l’amata durante il
tragitto.
Orfeo non segue l’ordine della divinità e, dopo aver fatto
una parte del percorso, si gira verso Euridice. La bella però,
allo sguardo dell’amato, torna indietro verso l’Ade come
aria fluttuante. Per sette giorni Orfeo piange pregando
Caronte di traghettarlo dall’altra parte, ma la sua occasione
era terminata.
Nella prima sequenza Euridice muore morsa da un
serpente ed Orfeo decide di scendere verso l’Ade per
riaverla indietro.
Solitamente
l’autore
utilizza
quasi
sempre
gli
stessi
elementi narratologici: la focalizzazione per lo più è zero, la
dimensione è atemporale e, a livello di spazio, tutto si
svolge in Grecia.
Nella prima parte della sequenza lo spazio è, come di solito
nei miti, aperto, costituito da boschi e radure ma, quando
Orfeo decide di intraprendere il viaggio, gli ambienti
diventano a mano a mano più chiusi e lugubri.
116
Troviamo il campo semantico più importante in Ovidio, cioè
quello dell’amore che introduce la tematica omonima.
Troviamo poi il campo semantico della morte evidenziato
dalla parola “morì”. I due concetti infatti sono intrecciati,
come spesso avviene in letteratura.
Nella seconda sequenza (vv. 16-39) troviamo il toccante
discorso di Orfeo che cerca di convincere Persefone a
rimandargli Euridice nel mondo terreno.
In
questo
discorso
si
notano
due
importanti
contrapposizioni: la prima tra la luce e l’ombra, luce che
rappresenta il mondo esterno con i suoi ruscelli e i prati
verdeggianti, e l’ombra, l’oscurità rappresentata dall’Ade
con le sue pene e i suoi mostri. L’oscurità, oltre che
dall’Ade, può essere anche identificata semplicemente con
la morte e questo riconduce alla seconda contrapposizione,
quella tra la vita e la morte. Orfeo, cercando Euridice, varca
i confini dell’Oltretomba pur vivendo, per chiedere vita per
ciò che già è morto.
Un’altra tematica è quella del destino spesso ingiusto:
Orfeo, infatti, asserisce, parlando con i due signori dell’Ade,
che la morte della sua sposa è ingiusta poiché non viene da
un giusto numero di anni di vita.
Nella
terza
sequenza
troviamo
la
tematica
della
commozione, poiché tutti coloro che ascoltano il triste
canto rimangono commossi, a partire da Sisifo fino alle
Eumenidi e, a seguire, Euridice viene condotta fuori.
Questa tematica è riscontrata anche dal campo semantico
della commozione, individuato dalle parole “piangevano,
s’inumidirono, lacrime”.
117
Rilevante è in questo contesto la tematica dell’arte della
musica che si riscontra nell’abilità di Orfeo a suonare la
lira, abilità che gli permette di salvare la sua sposa.
Abbiamo al verso 44 la figura retorica dell’apostrofe, figura
retorica in cui l’autore del testo si rivolge direttamente ad
un personaggio (“e tu sedesti sul sasso, Sisifo”).
Nella quarta e ultima sequenza (vv. 48-83) abbiamo la triste
conclusione del racconto. Dopo la raccomandazione, non
rispettata, di Persefone fatta ad Orfeo di non voltarsi mai
verso la sposa per guardarla durante il tragitto, Euridice
risprofonda nell’Ade. Di nuovo si notano parole quali
“amore
e
amata”
appartenenti
al
campo
semantico
dell’amore e la tematica della colpa, la colpa che prova
Orfeo nei confronti dell’amata per averla inviata di nuovo
involontariamente nell’Oltretomba.
Troviamo due similitudini (vv. 64-71) che testimoniano il
linguaggio elevato che utilizzava il poeta, ricco di figure
retoriche. Tutto ciò è testimoniato anche da una seconda
apostrofe “e te infelice Letea” (v. 69).
Abbiamo poi una parola chiave cioè “pietà”, una pietà che
non è concessa due volte ad Orfeo. Anche nel mondo di
oggi bisogna sapersi giocare bene le proprie possibilità
perché potremmo non averne due.
Si chiude il brano in contrapposizione a come si era aperto.
Tutto si era aperto con il folle amore di Orfeo verso Euridice
e tutto si chiude con Orfeo che, disperato, rifiuta ogni tipo
di amore.
Arvati Marco, IV D
118
49.
Orfeo e Le Menadi
Il mito tratto da “Le Metamorfosi“ di Ovidio racconta la storia di
Orfeo che durante una sua esibizione viene aggredito e ucciso da
alcune donne, le Menadi, perché non rispetta i riti di Dioniso
non essendosi più voluto sposare dopo la morte di Euridice.
La prima sequenza, di tipo narrativo, incomincia con le Menadi
che si adirano con Orfeo perché con il canto della cetra trascina
a sé tutte le fiere e le belve. In un primo momento se la prendono
con Orfeo scagliandogli un’asta in bocca in modo che non possa
più cantare, cosa che non raggiunge l’obiettivo; allora come detto
al v. 22 gli tolgono «la gloria del pubblico» e si accaniscono sulle
fiere che lo stavano seguendo, e poi nuovamente su Orfeo
scagliandogli zolle e rami.
I campi semantici sono quelli della natura selvaggia e della
musica. Il tempo della sequenza è indeterminato come di solito
nel mito.
La seconda sequenza narrativa racconta dell’uccisone di Orfeo
da parte delle Menadi (a cui si riferisce l’aggettivo sacrileghe) e
del rimpianto delle fiere e della natura per lui. Il corpo di Orfeo è
dilaniato: le sue membra sono sparse qua e là. Ritroviamo i
campi semantici dell’abilità (attrezzi, sarchielli, rastrelli), la
tematica del destino (fato) e altri campi semantici quali quello
della natura selvaggia, della violenza e della musica. La cetra
però prodigiosamente suona da sola e la lingua mormora.
La terza ed ultima sequenza racconta la discesa dell’ombra di
Orfeo nell’Ade, dove incontra ed abbraccia Euridice. In questa
sequenza ritroviamo la tematica dell’amore fra Orfeo ed Euridice,
con cui si era aperta tutta la vicenda.
119
Nel frattempo Bacco decide di punire le Menadi, che vengono
trasformate in alberi, probabilmente viti. I campi semantici sono
quello della metamorfosi e della natura (radici, rami).
La metamorfosi è discendente poiché è una punizione.
Barbanente Guglielmo, IV D
120
50.
Dipinto: “Orfeo e Euridice”
“Orfeo” di Gustave Moreau
Nel quadro “Orfeo” di Gustave Moreau, in primo piano troviamo
una donna che tiene una testa appoggiata su una cetra tra le
mani.
Probabilmente la donna è la bella Euridice, novella sposa di
Orfeo, mentre la testa appartiene appunto ad Orfeo.
Euridice ha una veste dai diversi colori oltre ai capelli raccolti e
la sua espressione è ricca di pietà, compassione e dolore nei
confronti del suo sposo.
Di Orfeo invece possiamo notare solo la testa, perché in
precedenza era stato massacrato dalle Menadi.
121
Egli ha i capelli gettati all’indietro e la sua espressione non
lascia
trapelare
alcuna emozione, esattamente
come
una
persona esanime.
Questa scena si potrebbe svolgere in uno scenario infernale dato
che entrambi i personaggi nel mito risultano morti e nell’Ade.
Sul terreno sono presenti alcuni cespugli e dell’erba bassa;
inoltre sullo sfondo si può scorgere una rupe e dietro a questa si
possono intravedere alcune colline e montagne.
Sulla cima della rupe si vede un uomo che suona.
Prima delle colline e delle montagne si può notare anche un
bosco.
Per ciò che riguarda il cielo, esso ha un colore che si avvicina al
giallo vicino al suolo e che diventa più scuro a mano a mano che
l’altezza aumenta, proprio perché l’atmosfera non risulta reale.
In primissimo piano infine si scorgono due piccole tartarughe
che si incontrano: ciò potrebbe rappresentare un parallelismo
con Orfeo ed Euridice che si incontrano negli Inferi dopo essere
rimasti separati per lungo tempo.
Forse la raffigurazione di questo incontro allude all’idea che
l’amore, rappresentato da Euridice, e la poesia, rappresentata da
Orfeo, si riuniscono.
Del Pistoia Stefano, IV C
122
51.
Il
Dipinto: “Orfeo” di Gustave Courtois
quadro
intitolato
“Orfeo”
di
Courtois
(1875)
è
la
rappresentazione dell’omonimo mito raccolto nell’undicesimo
libro delle “Metamorfosi” di Ovidio; il mito racconta la storia di
Orfeo, un poeta che, straziato dalla morte della moglie, era sceso
nell’Ade per chiedere al dio dei morti e a Persefone di poter
riportare la moglie nel mondo umano.
Quelli, toccati dalla richiesta accompagnata dalle note della lira
di Orfeo, riconsegnano la moglie al poeta a patto che quello non
la guardi durante tutto il tragitto di ritorno, ma quello si volta e
la donna sprofonda nuovamente nel mondo dei morti.
Orfeo allora addolorato dalle due morti della moglie decide di
non accettare più l’amore di nessuno, per questo una folla di
donne innamorate di lui che erano state rifiutate, gli si avventa
contro uccidendolo.
Nel quadro abbiamo la rappresentazione di Orfeo morto, il viso
dell’uomo
è
appoggiato
sulla
spiaggia
bianchissima
e
punteggiata da conchiglie arancioni e foglie secche, sullo sfondo
c’è il mare, che dà sulle sfumature più chiare del verde acqua e
123
che si perde all’orizzonte confondendosi con il cielo nuvoloso e
chiaro anch’esso.
Sulla spiaggia troviamo adagiata a fianco della testa di Orfeo la
lira, il simbolo del poeta, bianca anche quella e che quasi
confonde i suoi contorni con la sabbia.
Nel dipinto il colore dominante è il bianco, che ci dà un’idea di
pace e luce, nonostante che ci sia in primo piano la testa di
Orfeo morto: quindi il colore bianco può essere un simbolo della
pace della morte o della felicità ritrovata da Orfeo nella morte in
quanto unico mezzo per poter ricongiungersi all’amata moglie.
I colori chiari del disegno mettono in risalto la barba e i capelli
neri dell’uomo. Il viso di Orfeo è ben caratterizzato, in testa ha
una corona di foglie, con la quale erano ornati i capi dei poeti
antichi, però le foglie sono secche, raffigurando così l’immagine
di una gloria perduta. I capelli e la barba sono come già detto
prima, neri, riferimento alle origini mediterranee di Orfeo.
L’espressione sul viso non è né triste, né spaventata, né felice:
l’artista ha dipinto sul volto del poeta un’espressione tranquilla e
impassibile; gli occhi e le labbra sono chiusi, come se stesse
dormendo e sono quindi un altro indizio per la pace di Orfeo.
Il capo di Orfeo sembra sprofondare nella sabbia, simbolo
anch’essa del cambiamento e del continuo mutamento del
mondo, metamorfismo che si ricollega al tema centrale dell’opera
di Ovidio.
In conclusione, dato che Orfeo è simbolo della poesia, forse nel
quadro il pittore allude all’attività poetica e dell’arte che dopo un
naufragio lascia relitti e tracce per una rinascita (le conchiglie).
Borraccino Sara , IV C
124
Gli elaborati sono stati prodotti
dagli alunni delle classi IV C e Iv D
Lavoro di Redazione:
Ideazione, progettazione, correzione: prof.ssa
Valentina Zocco
Hanno collaborato alla raccolta e
all’organizzazione del materiale dei
compagni: Marchi, Baudinelli, Piarulli, Guerra,
d’imporzano, pistelli, arena, morelli, Bandini,
Bertani, Brozzo.
Impaginazione: prof.ssa Valentina zocco