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Dossier “Permanenze e innovazioni nei miti di metamorfosi tra letteratura e arte visiva” Dossier realizzato dalle classi IV C e IV D del “Liceo Classico L. Costa” con la coordinazione della professoressa Valentina Zocco. Indice 1. Premessa 2. Miti di metamorfosi 3. Metamorfosi: continuità e innovazione 4. Ovidio e “Le Metamorfosi” 5. Io e Giove 6. Dipinto: “Giove e Io” 7. Pan e Siringa 8. “Metamorfosi di Siringa”: testo greco 9. Dipinto: “La ninfa Siringa inseguita da Pan” 10. Callisto 11. Giove e Callisto 12. Confronto mito ovidiano e greco di Callisto 13. Dipinto: “Giove e Callisto” 14. Eliadi 15. Dipinto: “La metamorfosi in pioppi delle Eliadi” 16. Europa 17. Dipinto: “Il ratto di Europa” 18. Narciso 19. Alcune interpretazione del mito di Narciso 20. Dipinto: ”Narciso alla fonte” 21. Eco 22. Dipinto: “Eco e Narciso” 23. Piramo e Tisbe 24. Aracne 25. Aracne da tessitrice a…: versione greca del mito 26. Mito di Aracne: confronto tra il testo di Ovidio e il testo greco 27. Dipinto: “Aracne e Minerva” 28. Tereo, Procne e Filomela 29. Apollo e Dafne 30. Dipinto: “Apollo e Dafne” di Tiepolo 31. Dipinto: “Apollo e Dafne” di A. Del Pollaiolo 32. Apollo e Giacinto 33. Apollo e Giacinto 34. Dipinto: “La morte di Giacinto” di B. West 35. Apollo e Leucotoe 36. Dipinto: “Apollo e Leucotoe” 37. Ciparisso 38. Dipinto: “Ciparisso” 39. Pigmalione 40. Dipinto: “Pigmalione e Galatea” 41. Mirra 42. Mirra 43. Adone: la nascita 44. Dipinto: “La nascita di Adone” 45. Morte di Adone 46. 47. 48. 49. 50. 51. Dipinto: “Venere e Adone” Dipinto: “La morte di Adone” Orfeo e Euridice Orfeo e le Menadi Dipinto: “Orfeo e Euridice” Dipinto: “Orfeo”di Gustave Courtois 1. Premessa Durante l’anno scolastico noi alunni delle classi 4^C e 4^D abbiamo avuto modo di essere introdotti allo studio e all’analisi dei miti di metamorfosi nell’antichità fino alla modernità, spaziando da brani tratti dal testo “Le metamorfosi” di Ovidio, celebre poeta latino, a brani greci, a dipinti rappresentanti appunto scene di mutazioni metamorfiche ispirati al poema di Ovidio e rivisitate da artisti moderni. All’interno del seguente dossier si potranno trovare perciò analisi del testo, confronti tra varianti mitiche greche e latine e descrizioni di dipinti accomunati dalla tematica di sfondo della metamorfosi. Mettendo a confronto i vari elementi (dipinti-brani) sottolineeremo ciò che potranno riscontrare i lettori ovvero la presenza di una delle caratteristiche tipiche del mito: la permanenza e quindi l’atemporalità dei messaggi insiti nel racconto mitico. Saremo poi anche in grado di enfatizzare e confrontare gli elementi che, aggiuntisi nel tempo, hanno determinato le innovazioni ai messaggi degli autori antichi e moderni. Pistelli Tommaso, IV D 1 2. La Miti di metamorfosi parola mito deriva dal greco μύ ο che significa prevalentemente «narrazione, racconto orale». Il mito tratta quindi in particolare gli argomenti relativi agli dei e le loro imprese. Le caratteristiche del mito sono: l'oralità, che era una caratteristica fondamentale perché quando esso è nato non esisteva la scrittura, perciò il mito era tramandato da generazione in generazione; la sacralità, perché il mito era legato a riti, pratiche sacre giustificate dal racconto stesso; la polivalenza, dato che il mito può avere vari significati simbolici; la plasticità, perché esso in virtù dei simboli di cui si sostanzia può essere interpretato e rielaborato in base alle esigenze dell'epoca e dell’autore che lo rivisita; l'aspetto educativo e conoscitivo per il tentativo di spiegare attraverso una narrazione dai tratti fantastici le origini dell'universo, la creazione del mondo, la nascita degli dei e la loro rivelazione; l'atemporalità, perché appunto il mito si conserva ancora oggi nonostante che il carattere sacrale-religioso dell'antichità sia stato sicuramente ridimensionato. I racconti mitici si dividono in varie tipologie: per esempio i miti cosmogonici e antropogonici. I miti cosmogonici cercano di spiegare l'origine del ó μο invece quelli antropogonici cercano di spiegare l'origine dell'uomo. In questo dossier vengono trattati i miti di metamorfosi. La parola metamorfosi deriva dal greco με αμó φω «trasformazione», che a sua volta deriva da με αμο φóω che significa «trasformo». In generale si intende la trasformazione di un essere in un altro di natura diversa. Ci sono vari tipi di 2 metamorfosi: di tipo discendente se viene considerata come una punizione, ascendente se viene considerata come una ricompensa ed eziologica se cerca di spiegare un fenomeno, un rito o l’esistenza di un elemento naturale. Il poeta che ci ha lasciato un repertorio molto ampio di miti di tal genere è Ovidio, poeta latino vissuto al tempo di Augusto che scrisse tante opere tra le quali anche "Le Metamorfosi", un poema in esametri in 15 libri che narra soprattutto miti di tipo eziologico che terminano appunto con la trasformazione dei personaggi in animali, stelle, rocce. Simonelli Davide, IV C 3 3. Metamorfosi: continuità e innovazione La metamorfosi all’interno dell’opera “Le Metamorfosi” di Ovidio è la tematica principale. La parola metamorfosi è una parola composta che deriva dal greco με ά e μο φή con il significato di «cambiamento di forma, trasformazione». Questo è il tema preponderante all’interno dell’opera, in quanto tutti i personaggi, protagonisti dei miti, subiscono trasformazioni che possono renderli esseri migliori, quindi la metamorfosi è vista come un dono, un premio (metamorfosi ascendente), ed è solitamente in elementi naturali come dei fiori o delle stelle, oppure può fungere da punizione e quindi far diventare gli uomini animali o rocce. La metamorfosi è dovuta sempre ad un influsso divino, in quanto sono gli dei a decidere del destino dei mortali. La metamorfosi, nella maggior parte dei casi dell’opera di Ovidio, è legata alla tematica dell’amore, in particolare a quella dell’amore impossibile e dell’amore visto come fuga ed inseguimento e come la fiamma che arde il cuore dei mortali e degli immortali. In Ovidio, infatti, gli dei sono soggiogati dalla forza dell’amore tanto quanto lo sono gli uomini e come questi ultimi non possono sfuggirvi. L’amore è un elemento che mostra la continua validità del mito in quanto è un concetto inalienabile che viene vissuto da tutti gli uomini al giorno d’oggi così come nell’epoca greca e latina o, più in generale, in tutti i periodi passati. L’amore è infatti una forza che si estende e si manifesta perennemente e rende i miti di metamorfosi validi sempre. La metamorfosi inoltre nel miti di Ovidio va a spiegare la formazione di un determinato elemento o fenomeno naturale: questo aspetto porta il concetto a sé stante di metamorfosi ad 4 essere continuo nel tempo in quanto spiega la presenza di fenomeni ed elementi naturali presenti tutt’ora sulla terra proprio come nel passato (valore eziologico della metamorfosi). Infine, i miti di metamorfosi di Ovidio contengono in sé quel valore paideutico tipico piuttosto del mito greco, da cui il poeta latino attinge, valido prevalentemente per la società antica, ma che si può facilmente adattare anche a quella moderna. La metamorfosi può infatti essere punitiva o esaltativa: nel primo caso, tramite la metamorfosi, gli uomini, i lettori dell’opera comprendono quali siano i comportamenti da non seguire onde evitare la punizione divina, nel secondo invece, i lettori capiscono i comportamenti positivi degni della ricompensa degli dei. Questi elementi, nonostante la trasformazione delle epoche da quella greca a quella odierna, possono essere colti come elementi di continuità in quanto mostrano comportamenti sempre negativi (l’arroganza, la tracotanza,…) e modelli comportamentali sempre positivi (l’amore per gli altri, rispetto dei limiti..) che appunto hanno una validità atemporale. In conclusione, la metamorfosi è elemento di continuità e innovazione in quanto si estende nel tempo senza limite e porta con sé aspetti della vita antica e moderna allo stesso modo, mostrando l’aspetto di continuità e innovazione del mito stesso, che ha una dimensione atemporale e quindi una validità imperitura. Arena Benedetta, IV D 5 4. Ovidio e ”Le Metamorfosi” Ovidio è un autore latino vissuto durante l’epoca di Augusto. Scrisse un’opera in versi intitolata “Le Metamorfosi” formata da 15 libri nella quale sono narrati miti che hanno in comune una fine che prevede il protagonista trasformarsi in un oggetto o animale, quindi in qualcosa di natura diversa. Ovidio in questi poemi è il narratore principale ma usa anche altre voci narranti di secondo grado; usa la tecnica alessandrina che prevede l’incastro di racconti mitici e non una narrazione continua. Il poeta, distaccandosi dalla civiltà greca arcaica, con i suoi miti vuole esibire le sue abilità, la bravura nelle descrizioni e non vuole esprimere un giudizio o un’interpretazione del mondo. Vuole quindi intrattenere il lettore. A questo punto si può parlare di virtuosismo poetico e in effetti le sue descrizioni sono eccellenti. Infatti nei suoi miti durante la metamorfosi descrive le trasformazioni puntualmente con ritmo quasi reale. Ovidio nei suoi miti attribuisce inoltre agli dei sentimenti e sensazioni umane e quindi li umanizza. Alcuni critici considerano l’arte di Ovidio un ‘miracolo laico’, perché descrive prodigi non in termini miracolistici e religiosi ma con una certa razionalizzazione tanto da rendere il ‘mirum’ quasi familiare e accettabile anche ad un lettore incredulo. Anche in questo risiede la straordinaria arte dell’autore. Ferraro Matteo IV C 6 5. Io e Giove Il mito, tratto dall’opera “Le Metamorfosi” di Ovidio, narra le vicende di Io, figlia di Inaco. Un giorno Io attira l’attenzione del re degli dei, Giove, che decide di unirsi alla ragazza. Questo desta le ire della moglie di Giove, Giunone; il dio allora trasforma Io in una giovenca, per nascondere alla moglie la vera identità della ragazza. Giunone però vuole in dono la giovenca e Giove decide di donargliela. Per evitare che il marito gliela sottragga, affida la giovenca ad Argo dai cento occhi, con il compito di vegliare su di lei. Un giorno durante la sua prigionia Io si reca sulla riva del fiume Inaco, dove incontra il padre; lì cerca di svelargli la sua identità e il padre si addolora per l’accaduto. Giove poi manda Ermes a liberare Io e ad uccidere Argo. Dopo averlo ucciso, Giunone infuriata fa fuggire Io che si rifugia sulle rive nuovamente del Nilo, e prega l’aiuto le sue fattezze di Giove, riacquista umane e genera Epafo Dal punto di vista dell’analisi, nella prima sequenza troviamo il primo campo semantico del mito, ossia quello della tristezza («il pianto, piangendo, infelicissimo»); è presente un’analessi «ma l’aveva vista». Le parole «bosco profondo, bosco, nascondiglio segreto, nascose, nebbia» fanno parte del campo semantico del segreto, dell’oscurità, e la nebbia in particolare è un espediente che Giove usa per catturare la ragazza. Queste parole inoltre vengono utilizzate da Ovidio per suscitare nel lettore una visualizzazione delle immagini. Troviamo inoltre il campo semantico della fuga («fuggirmi, fuggiva») e vari epiteti riferiti alla figura di Giove «scettro del cielo, fulmini». Nella seconda 7 sequenza troviamo il campo semantico del tradimento («amori furtivi, colto sul fatto, tradisce»); inoltre è presente la tematica della metamorfosi, legata alla prima trasformazione di Io e ad essa è riferito il campo semantico dell’amore («amata, amore»). Nella terza sequenza troviamo il campo semantico del timore «timore, temendo» legato a Giunone per il possibile tradimento del marito. In questa sequenza poi troviamo la tematica della bestialità contrapposta a quella dell’umanità, e della crisi d’identità della ragazza trasformata in giovenca («muggiti, voce»); a lei è legato il campo semantico della tristezza («lacrime, infelice, lutto») riferito a Inaco, triste per la sfortunata sorte della figlia. La quarta sequenza è caratterizzata da un dialogo tra Ermes, mandato da Giove, e Argo, il custode della ragazza. Inoltre è presente il campo semantico del sonno («addormentare, sonno, sopore») riferito ad Argo che si addormenta al suono delle canne suonato da Ermes. Da qui inizia il canto di Ermes che racconta la storia di Pan e Siringa, con la tecnica del racconto ad incastro. Nella quinta sequenza abbiamo un’apostrofe del poeta riguardo ad Argo, ucciso da Ermes; qui è presente una metamorfosi eziologica, perché spiega la forma del pavone, che nel mito di Ovidio non è altro che l’uccello di Giunone ornato degli occhi di Argo ormai morto. Qui abbiamo la tematica della metamorfosi, legata alla seconda trasformazione di Io, che viene riportata alle fattezze originali; quindi possiamo parlare di una metamorfosi temporanea. De Mite Valentina IV C 8 6. Dipinto:“Giove e Io” Giove e Io” Il dipinto “Giove e Io” del 1531 di Antonio Allegri detto il “Correggio”, rappresenta Giove trasformatosi in nube per avere un rapporto con la ninfa Io e sfuggire all’ira di Giunone. Ovidio racconta che la ninfa fugge dal dio e che per non essere scoperto dalla moglie si nasconde nella nebbia. Giunone capisce 9 che lo strano repentino mutare di tempo è ricollegabile ad un espediente del marito e Giove decide di trasformare Io in una giovenca che donerà alla moglie per non insospettirla, la quale a sua volta la affiderà ad Argo mostro dai cento occhi che verrà poi ucciso da Ermes. Liberata la giovenca, Giove decide di ritrasformarla in essere umano e dalla loro unione si narra poi che sia nato Epafo. Osservando il quadro, in primo piano si vede la ninfa che sembra essere consenziente ad avere un rapporto con il dio, infatti viene dipinta con il capo reclinato come se stesse per baciarlo. Spazio più ampio viene lasciato alla nube nella quale si intravede il viso del dio che si confonde con lo sfondo che sembra voler indicare il cambiamento improvviso di tempo voluto proprio dallo stesso Giove per nascondersi con la ragazza. Nello spazio occupato dalla nuvola si intravedono delle foglie per rappresentare il luogo dove si svolge la vicenda, cioè il bosco e la natura. La ragazza invece viene raffigurata di spalle con il viso rivolto verso il dio e nuda con la veste bianca lasciata cadere accanto a lei. Sul lato più basso del quadro si osserva un cervo che si abbevera a un piccolo fiume che scorre proprio vicino alla ragazza e che sembra non accorgersi di ciò che sta succedendo alle sue spalle. Il vaso dipinto vicino al cervo allude forse al fiume, padre della ninfa oppure rimanda all’antichità classica. Infine i colori usati dal pittore sono molto scuri, questo per dare un senso di oscurità dovuto alla grande nube che simboleggia il 10 tradimento del dio e che con i colori scuri comunica l’idea della “fuga” dalla moglie. Questo quadro rappresenta solo una sequenza del mito raccontato da Ovidio e non l’intera vicenda. Tuttavia il quadro non rappresenta il mito come viene raccontato da Ovidio che ci descrive la ragazza impaurita che fugge dal dio nel bosco,infatti si notano alcune differenza: nel quadro, la ragazza viene raffigurata come consenziente ad avere un rapporto con Giove. Possiamo comprendere questa differenza perché l’intento del pittore era quello di rappresentare non la tragedia della metamorfosi ma i tradimenti che Giove spesso si concedeva. Todaro Valentina IV D 11 7. Pan e Siringa Il brano è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, autore latino vissuto ai tempi di Augusto. Ovidio usa spesso la tecnica alessandrina del racconto ad incastro,che gli permette di evitare la successione elencativa delle vicende, incastrandone una o più all’interno di un’altra, come avviene in questo brano, dove Ovidio inserisce il mito di Pan e Siringa all’interno del mito di Io nel momento in cui Ermes cerca di sconfiggere Argo per liberare la fanciulla trasformata in giovenca e decide di addormentarlo raccontando il mito di Pan. Si prova perciò quasi una vertigine perché le voci narranti si alternano e cambiano spesso. Ovidio ha collegato queste due vicende per affinità (l’amore non corrisposto, lo spazio boschivo, la condizione tragica della fanciulla). Il mito racconta che Pan, figlio di Ermes si innamorò di Siringa,ninfa seguace di Diana. La naiade, per sfuggire a Pan scappò nei pressi di una palude dove, vedendosi raggiunta, invocò le Naiadi, che la mutarono in canne palustri. Pan, nel momento in cui pensava di aver raggiunto la ninfa, si trovò davanti a un fascio di canne che mosse dal vento mandavano un suono delicato simile a un lamento. Allora Pan, utilizzò le canne per costruire uno strumento musicale: la siringa. La prima sequenza, di tipo narrativo, racconta come Siringa si era presa gioco della caccia dei satiri e degli dei e vestita come Diana voleva ingannare e passare per la figlia di Latona, tentativo mal riuscito poiché non possedeva l’arco d’oro. Il primo campo semantico è proprio quello relativo alla caccia (caccia, Diana, arco, corno) e assume due connotazioni diverse: 12 una fa riferimento alla caccia amorosa che satiri e dei mettono in atto nei confronti di Siringa e che elude regolarmente; l’altra alla caccia che mette in atto la naiade volendo eguagliare Diana. È vero che rispetto alla dea le mancava l’arco d’oro ma riusciva ugualmente ad ingannare tutti. Il secondo campo semantico è quello della natura (boschi, fertili campi) e si intreccia con il primo nella misura in cui si allude in particolare alle selve e ai boschi in cui si muove la caccia. Il narratore è Ovidio,la focalizzazione è zero, però nel momento in cui Ovidio vuole mettere in evidenza il punto di vista di Pan,la focalizzazione è interna e multipla, lo spazio è aperto e reale e l’epoca come in ogni mito non è specificata. La seconda sequenza, sia mimetica sia diegetica, racconta come Pan si innamori di Siringa e di come lei tenti di fuggire non ricambiando quest’amore. Il primo campo semantico è relativo alla mancanza di colloquio fra Pan e Siringa, nonostante il desiderio di Pan. Ovidio infatti, al posto delle parole che Pan vorrebbe dirle, mette le virgolette e una linea orizzontale e aggiunge poi «restava di dirle». Il secondo campo semantico è quello della fuga (fuggì, fuga) che evidenzia come la dea non voglia assolutamente corrispondere l’amore di Pan in ossequio alla dea della caccia. La terza sequenza, narrativa e descrittiva, racconta di come Siringa, trovandosi davanti ad un fiume che le impediva la fuga, supplicò le sorelle dell’acqua poiché la trasformassero. Pan, credendo di aver raggiunto la ragazza, invece del suo corpo strinse delle canne palustri e notò che il vento, mosso dentro le canne, dava un suono delicato come un lamento. Allora, Pan, incantato da questo lamento, esattamente com’era incantato 13 dalla ninfa, decide di unire insieme le canne, formando cosi un nuovo strumento musicale, la siringa, con il quale solo avrebbe potuto avere quel colloquio che non era riuscito ad instaurare con la fanciulla prima della metamorfosi. L’unico campo semantico riscontrato in questa sequenza è quello della metamorfosi (trasformassero, canne, suono tenue, dolcezza del suono): la siringa diventa così il mezzo del colloquio con il quale Pan sarà legato per sempre alla naiade amata. Per fare ciò Pan mette insieme con la cera canne disuguali e cosi mantiene vivo il nome della ragazza. Questo è un mito eziologico perché cerca di spiegare l’origine del flauto. Laviosa Elena IV D 14 8. Metamorfosi di Siringa: testo greco Traduzione La siringa non era uno strumento musicale ma una bella vergine, che conduceva capre al pascolo nelle foreste, danzava con le ninfe, cantava come adesso. Pan poi si invaghiva di questa, ma la vergine derideva il suo amore. Pan dunque la inseguiva; la fanciulla poi, chiamata Siringa, sfuggendogli si nasconde tra canne, ma sparisce nella palude. Poi Pan percuotendo le canne per l'ira, poiché non trovava la fanciulla, ideava lo strumento, avendo legato con la cera canne diseguali, come anche loro avevano amore diseguale. Così Siringa si trasformava in strumento musicale. Tematiche All'interno della versione si riscontrano il campo semantico della natura («capre, pascolo, foreste, canne, palude») che potrebbe rimandare alla natura agreste e in parte animale di Pan; in particolare il bosco era il luogo tipico in cui il dio era solito consumare le sue violenze. Si riscontra poi il campo semantico 15 dell'amore di Pan («invaghiva, amore»), non corrisposto da Siringa; è possibile individuare inoltre anche il campo semantico della verginità («bella vergine, Ninfe, vergine») che rispecchia la natura e gli ideali della ninfa Siringa. Si riscontra poi il campo semantico della musica («strumento musicale, cantava, strumento») legato a ciò in cui la fanciulla si trasformerà. Infine individuiamo il campo semantico della fuga («inseguiva, sfuggendogli, nascondeva, spariva»), la causa della trasformazione di Siringa. Piarulli Emanuele, IV D 16 9. Dipinto:“La ninfa Siringa inseguita da Pan” di Brueghel dei Velluti e Pieter Paul Rubens Il dipinto intitolato “La ninfa Siringa inseguita da Pan”, realizzato nel 1620 da Brueghel dei Velluti e Pieter Paul Rubens, è conservato nella pinacoteca di Brera. Dal titolo si può evincere che l’opera raffigura una scena famoso di Pan del mito e Siringa, tratto dall’opera “Le Metamorfosi” del celebre poeta latino Ovidio. Nella parte destra del quadro notiamo la presenza di due individui e uno all’inseguimento dell’altro: dall’aspetto bestiale dell’inseguitore, per metà umano e per metà caprino, realizziamo che si tratta di Pan, quindi possiamo dedurre che la fanciulla inseguita sia la ninfa Siringa. Più volte nei racconti mitologici si narra del dio agreste intento in inseguimenti di fanciulle: a causa del suo aspetto infatti la volontà di appagare il proprio 17 desiderio amoroso veniva spesso respinta, cosa che lo induceva a ricorrere ad atti violenti e selvaggi. Nell’espressione di Pan si legge tutta la volgare attrazione per la sfortunata ninfa, la quale invece, rassegnata, rallenta la corsa e con sguardo supplichevole e mani rivolte verso il cielo, prega le sorelle affinché la trasformino per poter sfuggire alla violenza carnale del satiro. I corpi dei due sono seminudi e nel caso di Siringa hanno tratti delicati e morbidi, nel caso di Pan tratti grezzi e bestiali; i pochi panni che li coprono sono scomposti, gonfiati dal vento e danno l’idea della dinamicità della fuga che, come ho già detto, nel caso della ninfa sta per arrestarsi. Per quanto riguarda il paesaggio, ci troviamo presso un fiume, il «placido e sabbioso Ladone» [cit. Ovidio] padre della fanciulla, che impedisce il proseguimento della fuga di Siringa, costringendola così a invocare l’aiuto delle sorelle che poi la trasformeranno in una canna. Qui notiamo la presenza di volatili tipici dei corsi fluviali (probabilmente anatre, papere) che fuggono spaventati dalla violenta corsa dei due: essi non sono menzionati da Ovidio nella sua opera. Nel dipinto inoltre c’è molta vegetazione e questo, unito alla presenza di animali, potrebbe essere un riferimento alla natura agreste, boschiva e in parte bestiale di Pan. Sullo sfondo, oltre la vegetazione, si scorge un angolo di cielo rossastro e arancione, probabilmente all’alba o al tramonto. I colori principali sono caldi (rosso, giallo, arancione, marrone.. ), elemento che potrebbe essere un riferimento al calore della passione di Pan per Siringa. Dal momento che l’esigenza del pittore è quella di isolare una scena di tutto il mito, non è, a mio parere, la metamorfosi il 18 tema sul quale dei Velluti e Rubens vogliono far soffermare maggiormente l’attenzione, in quanto la ninfa ha ancora le sembianze umane e solitamente, nei dipinti che raffigurano le metamorfosi, i soggetti delle trasformazioni non sono totalmente umani, ma hanno alcune parti, se non tutto il corpo, trasformati. Ritengo piuttosto che lo scopo dei pittori fosse quello di rappresentare o uno dei tanti tentativi d’approccio amoroso di Pan o la tematica della passione e dell’amore violento nei miti. Come ho già detto, l’opera è stata realizzata nel 1620, periodo in cui si sviluppò la corrente artistica del Barocco, che è irregolare antitesi con l’arte classica, disarmonica e esagerata e di cui proprio Pieter Paul Rubens è uno dei massimi esponenti per quanto riguarda la pittura. Può sorprendere che gli autori abbiano scelto da rappresentare proprio un mito: i miti infatti sono tipici della civiltà classica, caratterizzata invece da un’arte quasi perfetta, pura, geometrica, con dei canoni da rispettare (es. canone di Policleto) che quindi non si addice allo stile Barocco. Piarulli Emanuele, IV D 19 10. Callisto Il mito proposto è tratto da "Le metamorfosi", raccolta scritta dal poeta latino Ovidio, vissuto durante l'epoca dell'imperatore Augusto. Nella prima sequenza del brano troviamo il dio Giove che mentre fa scorrere fiumi, crescere erba, alberi e boschi si accorge di una fanciulla che stava cacciando con un arco. Questa stanca si dirige verso un bosco e si sdraia al suolo per riposare. Si possono riscontrare in questa sequenza il campo semantico della natura ("fiumi", "terra", "erba", "fronde", "alberi", "sole", "selva", "suolo erboso") che è tipico di questi miti e ci è utile per capire che lo spazio in cui si svolge la vicenda è aperto. Un altro campo semantico è quello della caccia testimoniato dalle parole "arco", "asta levigata" e "faretra" che può rimandare alla natura selvaggia e ancora agli spazi aperti. Il tempo della vicenda è indeterminato in quanto non vi sono elementi che ci possono far capire l'epoca in cui sono svolti i fatti. Nella seconda sequenza che va dal verso 422 al verso 433 troviamo Giove che si traveste in modo da avere l'aspetto di Diana per potersi avvicinare alla fanciulla di nome Callisto la quale loda la dea Diana ritenendola al di sopra di Giove. In questa sequenza Giove violenta la fanciulla che non riesce a fuggire perché troppo debole. La sequenza si apre con un soliloquio da parte di Giove. Si possono ancora riscontrare le parole "erba" e "boschi" che vanno a comporre il campo semantico della natura riscontrabile per tutto il mito. 20 Al verso 431 si può trovare una litote ("baci non casti"). In questa sequenza troviamo il tema dell'offesa e dell'inganno: offesa in quanto Callisto, non sapendo che chi aveva di fronte era in realtà Giove, lo offende, e inganno poiché Giove inganna la fanciulla travestendosi da Diana per poterla avvicinare. Nella terza sequenza si riscontra la presenza di una ribellione, ormai inutile, da parte di Callisto, la quale non vuole essere violentata dal dio che ormai si è rivelato. Si riscontra il campo semantico della ribellione testimoniata dalla parole "fuggire", "ribellare", e "andarsene" che rimandano ad un amore visto come una disperata fuga perché non ricambiato, come nel mito di "Apollo e Dafne" e in quello di "Io". Ancora una volta si può individuare il campo semantico della natura ("cielo", "selva", "alberi", "ramo") e quello della caccia ("faretra" e "frecce"). La quarta sequenza si apre con l'arrivo di Diana, questa volta la dea vera, presentata tramite una perifrasi ("Dictinna"). La fanciulla diffidente fugge e ancora una volta ritroviamo il campo semantico della fuga ricollegato al tema della sequenza. Inoltre "inganno", "colpa", "pudore" vanno a costituire il campo semantico della colpa. La colpa è attribuita alla fanciulla Callisto in quanto non si è mantenuta vergine. In parte non è una vera e propria colpa visto che lei non sapeva che egli fosse il dio Giove. Nella quinta sequenza si narra del momento in cui Diana, le ninfe e Callisto si immergono nude nell'acqua di un fiume. In questa sequenza Diana e le ninfe si accorgono della colpa commessa dalla fanciulla, cioè aver perso la verginità e di conseguenza essere rimasta incinta. 21 Il campo semantico della natura ricorre ancora in questa sequenza facendoci intuire che lo spazio in cui si svolge la vicenda è aperto ("bosco", "sabbie", "fiume", "onde"; acqua"). Inoltre è presente un epiteto, "Parassia", che indica la fanciulla Callisto. In questa sequenza sono messi in evidenza il disagio e la vergogna provati dalla fanciulla, che infatti esita ad entrare in acqua per non essere sorpresa dalla dea che la caccia via. La sesta sequenza ci introduce la figura di Giunone tramite una perifrasi ("la sposa del dio tonante") la quale, infuriata, ha intenzione di punire Callisto, non tanto per essersi unita a Giove quanto per aver dato alla luce Arcade, figlio suo e di Giove. La sequenza è narrativa, ma vi è la presenza di un soliloquio in cui Giunone insulta Callisto e la incolpa d'adulterio. A questo punto avviene la metamorfosi della fanciulla in un'orsa dall'aspetto selvaggio e bestiale: in questo caso essa è discendente perché punizione e perché trasformazione in animale. Le parole usate per descrivere la trasformazione ci fanno capire il registro alto dell'autore, infatti qui, e in tutto il brano, fa uso di figure retoriche e aggettivi di uso non comune. Nella settima sequenza viene descritta e narrata la vita di Callisto una volta trasformata in orsa. Vengono evidenziati il duo smarrimento per il vivere nel bosco e la paura dell'essere catturata dai cacciatori, di cui lei un tempo faceva parte perché amava cacciare. La narrazione viene accelerata dall'autore, infatti capiamo che vi è stato un salto temporale nella narrazione dalla frase "Aveva quindici anni", riferito al figlio della fanciulla, ora orsa. Nell'ottava sequenza viene narrato l'incontro tra Arcade ("nipote di Licaone") con l'orsa sua madre. Callisto, che sembra 22 riconoscere il figlio, vi si avvicina, ma egli, terrorizzato sta per trafiggerla. Giove la salva e sentendosi in colpa di averla fatta diventare un essere tanto bestiale la trasforma in stella insieme al figlio Arcade e insieme vanno a comporre la costellazione dell'Orsa Maggiore in cielo. Questo mito è di tipo eziologico e si riscontra sia una metamorfosi discendente (da uomo ad animale) sia ascendente (da animale a stella). Lo scopo del mito è quindi quello di spiegare l'esistenza della costellazione dell'Orsa Maggiore tramite una spiegazione erudita. Il tema è, come in tutti i miti appartenenti alla raccolta di "Le metamorfosi", appunto quello della trasformazione. Un altro tema riscontrato anche in altri miti analizzati è quello dell'amore visto come un inseguimento. Si può individuare il tema del tradimento di Giove nei confronti della moglie Giunone e infine quello del destino avverso a cui i mortali sono spesso sottoposti, in quanto Callisto non era consapevole del fatto che si stava unendo al dio e che quindi non voleva commettere volontariamente tale adulterio. Bertani Elena, IV D 23 11. Giove e Callisto Il mito è tratto dall’opera “Le metamorfosi” di Ovidio, grande autore latino vissuto nell’età augustea. Questo mito è eziologico poiché spiega la formazione dell’astro dell’Orsa Maggiore. La storia racconta di come Giove, dopo aver visto la ninfa Callisto distesa in un prato, se ne innamora e, travestendosi da Diana, le si avvicina e consuma un tradimento. Segue poi l’ira di Giunone che trasforma la ragazza in un’orsa. Giove, allora, sentendosi in colpa compie una seconda metamorfosi sulla ragazza facendola diventare una stella, l’Orsa Maggiore appunto. Nella narrazione riscontriamo alcune caratteristiche che accomunano tutte le sequenze. La focalizzazione è zero, ma in alcune parti diventa interna poiché la vicenda prende il punto di vista del personaggio. Il narratore è onnisciente e dal campo semantico della natura possiamo dedurre che gli spazi siano aperti, mentre come da caratteristica del mito, il tempo è indefinito. Il racconto è una fabula poiché è rispettato l’ordine cronologico degli avvenimenti. La prima sequenza narra di come, dopo aver notato la fanciulla e dopo essersi travestito da Diana, Giove consumi l’adulterio contro il volere della povera ed impotente ninfa. Questa è una sequenza narrativa poiché contribuisce all’evolversi della vicenda, la narrazione è diegetica poiché non sono presenti discorsi diretti. Riscontriamo diversi campi semantici, quello della natura che, come detto in precedenza, ci fa capire che i luoghi sono aperti, quello della caccia che ci aiuta a capire il travestimento di Giove. 24 κ presente inoltre la tematica dell’amore, insieme a quella del travestimento, dell’inganno e del tradimento. Con l’espressione “fuoco d’amore” abbiamo un linguaggio connotativo e metaforico. Abbiamo anche una litote nell’espressione “baci non casti” che è una figura retorica che attenua un concetto negandolo. Abbiamo anche un soliloquio di Giove il quale pensa che la moglie non verrà a sapere del tradimento e che, anche se lo verrà a sapere, se la caverà con una lite. Tutti questi accorgimenti stilistici rientrano nella funzione di lingua poetica. La seconda sequenza, anch’essa narrativa, narra della vergogna che prova la fanciulla per non essere più vergine, tanto che dalla dea Diana viene considerata addirittura “contaminata”. Il momento in cui la fanciulla andandosene si sta per dimenticare arco, frecce e faretra, ci fa capire quanto fosse sconvolta dall’accaduto. Anche qui la narrazione è diegetica e possiamo riscontrare la tematica della paura, nel momento in cui la ragazza vede tornare Diana verso di lei, pensando che fosse ancora Giove sotto travestimento. In questa sequenza, oltre al campo semantico della natura già riscontrato in precedenza, troviamo anche quella della colpa e dell’inganno. Nella terza sequenza si narra di come Giunone, denominata con la perifrasi “sposa del dio tonante”, accecata dalla rabbia, trasformi la ninfa in un’orsa: questa è una metamorfosi discendente, poiché la fanciulla viene trasformata da un essere superiore ad uno inferiore, e viene quindi vista come una punizione. Si riscontra quindi la tematica della colpa a cui segue punizione. Dopo la metamorfosi troviamo il climax, quando la fanciulla trasformata in orsa, risulta incapace di comunicare con 25 la parola. Troviamo anche diverse esclamazioni del narratore, che interviene con l’intento di coinvolgere i lettori. La narrazione è prevalentemente diegetica, ma troviamo anche una parte in cui diventa mimetica e anche qui riscontriamo il campo semantico della colpa. Nella quarta sequenza abbiamo la seconda metamorfosi di Callisto, questa volta ascendente, poiché viene trasformata da orsa a stella per l’eternità. La narrazione è diegetica e con il riferimento a Licaone Ovidio allude ad altri miti greci. Nella quinta ed ultima sequenza si narra della collera di Giunone quando vede la sua rivale splendere in cielo. Quindi riscontriamo le tematiche della collera e della gelosia. La sequenza è prevalentemente mimetica, poiché troviamo un lungo discorso diretto di Giunone con gli dei del mare, cosa che ci fa capire quanto fosse adirata. In alcuni punti si ha addirittura la sensazione che Ovidio prenda in giro Giunone dato che la umanizza. Riscontriamo infine il campo semantico dell’offesa. Ricci Riccardo, IV D 26 12. Confronto mito ovidiano e greco di Callisto Interessante potrebbe essere confrontare i due miti da noi analizzati in classe che trattano entrambi della nascita dell’Orsa Maggiore. Il primo, piuttosto sommario, è scritto da un autore greco pseudo-Apollodoro; il secondo invece, più lungo e ricco di dettagliate descrizioni, è scritto dal celebre autore latino Ovidio. La trama principale è la medesima: Zeus/Giove, re degli dei, scorge casualmente Callistò,una splendida ninfa compagna di Diana, nella versione latina, Artemide in quella greca, e se ne innamora perdutamente; nonostante che la giovane sia contraria decide di unirsi a lei in un bosco, scatenando in questo modo l’ira di sua moglie Era,regina degli dei. Callistò viene quindi trasformata in orsa e, nella conclusione di entrambe le versioni, per evitare una tragedia, viene posta nel cielo, dove per sempre rimarrà. Molte sono le analogie fra il testo greco e quello latino, altrettante le differenze. Sin dall’inizio è possibile constatare alcune disuguaglianze fra i due brani: quello di Ovidio, ad esempio, inizia con una lunga descrizione della ninfa Callistò della quale Giove si innamora con un solo sguardo; il re degli dei decide in breve tempo che vale la pena commettere un adulterio con una ragazza di cotanta bellezza, così prende le vesti di Diana, dea compagna e protettrice di Callistò e così facendo riesce a ingannare e a violentare la giovane all’interno del bosco, nel quale ella si stava riposando. Il testo greco inizia invece con una brevissima presentazione della fanciulla protagonista del mito, e passa subito a narrare il tradimento di Zeus; anche qui la fanciulla non è consenziente 27 all’unione, ma in questa versione è il re degli dei che, timoroso che la moglie possa scoprire la sua infedeltà, decide di trasformare la giovane, con la quale si è appena unito, in un’orsa, ma invano: infatti Era, sua moglie, non cade nell’inganno. Era allora si vendica persuadendo Artemide a colpire un’orsa, senza rivelarle che quella è Callistò trasformata. Nel mito dell’autore latino i fatti si svolgono diversamente: poco dopo essere stata violentata da Giove in veste di Diana, Callistò non viene trasformata in orsa, bensì incontra la “vera” dea della caccia alla quale, in seguito a qualche esitazione, si riunisce. La ninfa è rimasta incinta del dio, il tempo trascorre e la cosa è sempre più evidente, ma Diana non se ne accorge. Solo una sera, dopo che la ragazza viene spogliata per immergersi nell’acqua limpida di un lago, la sua colpa è visibile agli occhi di tutti e viene quindi cacciata da Diana stessa. E’ questo il momento che Era, la quale aveva scoperto già da tempo ciò che era avvenuto, trova perfetto per punire l’adulterio della ninfa, che aveva da poco partorito un figlio, Arcade, segno evidente del tradimento. Così Callistò viene trasformata in orsa, viene privata del suo aspetto e della parola e di umano le rimane solo il pensiero. Gli anni trascorrono e un giorno, mentre la donna cammina nel bosco mutata in orsa, incontra suo figlio, ormai quindicenne, che è andato a cacciare; la madre sembra riconoscerlo e si avvicina a lui, mentre Arcade, impaurito, sta per ucciderla; ma Zeus, che assiste a tutta la scena, non vuole permettere che l’amante muoia in questo modo, quindi colloca nel cielo sia lei sia il figlio trasformandoli in costellazioni. Segue dunque un lungo dialogo di Era che si rivolge ad alcuni dei: ella è infuriata e offesa poiché la sua rivale in amore, invece di essere 28 punita come si meriterebbe,viene posta in cielo, ricevendo un onore che non si merita. Anche nel testo greco, poco prima che possa avvenire una tragedia, interviene Zeus che pone la ragazza in cielo, dandole il nome di Orsa Maggiore, ed è così che questo mito si conclude. I testi hanno tematiche in comune, come quella dell’amore, della metamorfosi, della natura selvaggia e del tradimento, ma nel testo di Ovidio sono presenti anche tematiche quali la bestialità, l’inganno, la colpa e il destino che vince tutti, persino gli dei. Inoltre, il testo latino è maggiormente complesso e ricco di dettagli, in quanto l’autore desidera principalmente stupire il lettore; il testo greco, invece, è più semplice poiché si cerca di dare una spiegazione divina ad un “fatto naturale” e l’autore non vuole in alcun modo stupire colui che legge. Alessi Giada, IV D 29 13. Dipinto: "Giove e Callisto" "Giove e Callisto" è un quadro di P. Rubens che risale al 1600 circa. Questo dipinto rappresenta una scena del mito di Ovidio che fa parte dell'opera "Le Metamorfosi" e che narra dell'inganno del dio Giove per conquistare la giovane Callisto. Più precisamente rappresenta il momento in cui il dio, invaghitosi della ninfa, cerca di sedurla prendendo momentaneamente le sembianze della dea Diana. Innanzitutto nel dipinto possiamo notare in primo piano le due figure principali del mito, Giove e Callisto. La giovane fanciulla è stesa senza vesti su un telo rosso a gambe incrociate e con i capelli raccolti. Viene vista di profilo e si può notare la mano che si posa sulla faretra mentre con l'altra tiene un drappo bianco. Ha uno sguardo intimorito mentre l'altro personaggio le tocca 30 dolcemente il mento. Giove che per una metamorfosi temporanea ha preso le sembianze di Diana, viene quindi rappresentato come una donna che,al contrario della ninfa, indossa una veste grigia. Si trova inginocchiato davanti alla fanciulla, la guarda dolcemente, accarezzandole il mento con una mano mentre con l'altra la tocca il collo. In secondo piano notiamo la figura dell'aquila, più distante e a destra del quadro, che ha tra le zampe una saetta. Questi due elementi sono simboli che rappresentano Giove, mentre la faretra con le frecce, alludono al mondo della caccia a cui era dedita Callisto. Nel testo troviamo l'aquila, ma possiamo riscontrare la descrizione dell'arco e la faretra vicino alla giovane. Del resto, nell'area visiva il pittore ha bisogno di usare oggetti o elementi simbolici che siano attribuiti a dei o personaggi per permettere di identificarli. Il luogo in cui è ambientato il quadro è lo stesso del brano: un bosco, uno spazio aperto e segreto, tipico del tradimento. Possiamo riscontrare delle differenze anche da come viene ritratto il cielo, infatti nel brano dice che il sole era alto e aveva passato metà del suo corso, mentre nel dipinto il cielo è scuro e nuvoloso e si schiarisce all'orizzonte. I colori sono generalmente scuri e vengono usati colori come il verde, il nero e il rosso per delineare il territorio, circostante ai due personaggi principali. Questa scelta potrebbe farci capire la sventura della fanciulla. Millepiedi Sofia, IV D 31 Eliadi 14. La parte finale del mito di Fetonte racconta che Giove, dopo che dovette “fermare un fuoco con un terribile fuoco”, non avendo a disposizione né nubi né pioggia, colpì uccidendolo anche Fetonte, protagonista del mito,cocchiere del carro del Sole, suo padre. La voce narrante è esterna e onnisciente e la focalizzazione è zero con un intervento dell'autore. Lo spazio in cui si svolgono i fatti è aperto, come in tutti i miti di Ovidio, dato che la maggior parte delle metamorfosi è collegata alla natura. Il tempo della storia non corrisponde al tempo del racconto, infatti è accelerato. Il corpo di Fetonte, ucciso dal fulmine di Giove, viene accolto dalle ninfe Naiadi e da Eridano. In questa prima sequenza narrativa è presente il campo semantico del fuoco, caratterizzato dalle parole “fuoco”, “incendi”, “ fiamma”, infatti il corpo di Fetonte è straziato e fumante. L'elemento del fuoco assume un significato simbolico, in quanto rappresenta il potere e la superiorità di Giove. Si può inoltre notare l'ambiguità del fuoco: esso illumina e scalda, ma può anche essere causa di morte. Accolto dalle Naiadi, il corpo di Fetonte viene sepolto nella loro terra. Siamo nella seconda sequenza dove entra in gioco la tematica della sepoltura, rito di grande importanza per gli antichi. È presente un'apposizione: “Fetonte, auriga del carro paterno”, che caratterizza il registro poetico ed elevato di Ovidio. La sepoltura è accompagnata dal campo semantico del lutto e della disperazione (“seppellirono”,“lapide”, “lutto”, “disgrazia”, 32 “angoscia”, “sepolte”, “lacrime”, “triste lamento” ), disperazione provata da Climene, madre del protagonista, che vaga in cerca del sepolcro del figlio, finché, una volta trovato, scoppia in un triste e lamentoso pianto, seguita dalle Eliadi, ninfe e sorelle di Fetonte. Come in tutti i miti greci è presente la tematica della tragedia, caratterizzata appunto dal triste lamento. Nella terza sequenza le donne sono ormai da lungo tempo curve sul sepolcro a piangere Fetonte, quando si trasformano, improvvisamente, in piante. Ancora una volta vediamo il linguaggio elevato dell'autore che descrive nei minimi dettagli la metamorfosi. La metamorfosi è la tematica principale di questa sequenza descrittiva. Il campo semantico che prevale è quello dell'albero e della staticità, caratterizzato dalle parole “irrigidita”, “corteccia”, “chiuse“, “radici”, infatti le ninfe vengono trasformate in alberi, mentre la madre cerca inutilmente di staccarle dal tronco che le sta circondando. In questa sequenza è presente un parallelismo: “l'una soffre di avere le gambe chiuse in un tronco, l'altra che le sue braccia diventino lunghi rami”. La spiegazione della metamorfosi si può dedurre dall’intervento di Ovidio: “ versano lacrime, inutile dono per i morti” e “si batterono il petto per chi non poteva più sentirle” ; infatti, essa avviene senza l'intervento di un dio o di qualche elemento sovrannaturale, ma semplicemente, dato che le donne non si sono fatte una ragione della morte di Fetonte, si sono lasciate trasportare dalla disperazione e hanno finito col “mettere le radici”, come ci fa capire il campo semantico della staticità citato 33 in precedenza, ossia si sono trasformate in piante passando da uno stato di movimento ad uno stato di staticità permanente. La madre, nel frattempo, è descritta come una figura impotente: essa non ha subito la metamorfosi, ma non può far niente perché le figlie non la subiscano, e tenta, inutilmente, di staccarle dal tronco facendo loro del male. Climene è invocata dalle Eliadi in un grido straziato, “mamma”, che accentua ancora di più la situazione tragica,e a cui segue un nuovo intervento di Ovidio che si immedesima nella madre: “Ma come può una madre, altro che correre qua e là dove la porta il suo slancio, e dare baci finché è possibile?”. Qui è presente la tematica dell'amore della madre per le figlie e, soprattutto, la tematica della disperazione, della tragedia e dell’impotenza dell’uomo contro un evento sovrannaturale, come la metamorfosi, che culmina in questo punto del racconto. Nella quarta sequenza, narrativa e descrittiva, le ragazze sono del tutto trasformate in salici, ma soltanto il loro aspetto è cambiato: dentro al tronco le ninfe sono ancora umane e sentono il dolore soffrendo e piangendo. Le loro lacrime scendendo dal tronco si trasformano in ambra asciugate dal sole. Il mito è dunque eziologico perché vuole spiegare la nascita del salice piangente e dell'ambra. D’Imporzano Federico, IV C 34 15. Dipinto: “La metamorfosi in pioppi delle Eliadi” di Santi di Tito (XIV secolo) Il quadro ritrae sullo sfondo un paesaggio rurale: a sinistra un’altura che scende rapidamente, andando invece verso destra, guardando più lontano, si notano a destra delle montagne molto chiare rispetto alla campagna. All’orizzonte il cielo è più chiaro in prossimità della campagna e salendo invece è interamente 35 coperto di nubi. In primo piano sono dipinte insieme agli altri personaggi le quattro sorelle di Fetonte, completamente nude, fisicamente uguali, di carnagione chiara, con i capelli di color arancione-rossi. Tutte hanno un’espressione addolorata e le mani coprono il volto come se volessero nascondere il viso agli altri o è un’allusione alla disperazione delle donne. Una di esse è girata di spalle con le braccia alzate, in fase di ramificazione. Ai loro piedi si trovano tre bambini anch’essi di carnagione chiara, con delle vesti di color rosso che non coprono completamente il corpo. Quello più a sinistra è chinato dove forse è sepolto Fetonte e raccoglie l’ambra e la dà alle donne latine, come descritto dal mito. In basso un piccolo cigno osserva la scena; è Cigno, cugino del defunto Fetonte, che guarda la metamorfosi delle sue sorelle. Accanto a lui vi è un uomo di corporatura robusta che ha una folta barba bianca e capelli riccioli, anch’essi bianchi, con lo sguardo rivolto verso l’alto, con un’espressione seria. Con la mano destra tiene un’anfora, piena d’acqua di color marrone e bianco, posta in orizzontale, da cui esce con un discreto flusso il liquido. L’anfora potrebbe alludere al fatto che quel vecchio sia Eridano, il fiume. L’anfora è però anche simbolo del mondo antico e classico e il simbolo del viaggio, quel viaggio intrapreso dalla madre di Fetonte per trovare il sepolcro del figlio. La madre non è rappresentata nel quadro. Un’altra differenza del quadro rispetto alla versione di Ovidio è nella raccolta dell’ambra: secondo Ovidio l’ambra viene raccolta dopo la metamorfosi delle ninfe, ferite perché la madre ha cercato di staccarle dal tronco che le teneva prigioniere, mentre nel quadro l’artista ritrae i bambini che raccolgono l’ambra mentre le donne sono ancora 36 all’inizio della loro metamorfosi, e le donne non presentano alcun tipo di ferite. Tornando alla descrizione, in alto a sinistra notiamo due uomini, una donna e un altro bambino. I due uomini sono piegati a terra con le mani che indicano la sabbia; hanno poche vesti addosso e quello più in alto ha una fascia sulla testa. Per quanto riguarda la donna, è più vestita degli altri personaggi e probabilmente appartiene all’epoca del pittore. In mano tiene un lenzuolo e il suo sguardo è indirizzato verso il basso a guardare un bambino sotto di lei con le mani protese verso il lenzuolo come se volesse prenderlo. A sinistra in alto si possono notare ancora altre persone tra cui una donna con vesti rinascimentali. In conclusione, la vicenda ovidiana nel quadro è inserita in una scena in cui troviamo vari elementi di diverse epoche, forse a sottolineare la perennità e la trasmissione dei miti classici. Fregoso Bernardo, IV C 37 16. Europa Nella prima sequenza del mito di Europa Giove, il re degli dei, assume l’aspetto di un toro perché innamorato della fanciulla Europa e raggiunge il luogo dove la figlia del re era solita giocare insieme alle vergini di Tiro. Il toro simbolo dell’autorità e del potere, bellissimo nel suo aspetto è bianco come la neve candida, ha il collo muscoloso, ha piccole corna che sembrano fatte a mano e il suo sguardo non è minaccioso. In questa sequenza si riscontrano numerosi significati simbolici: la metamorfosi è temporanea ed è un espediente usato da Giove per conquistare Europa. Si possono riscontrare inoltre diversi campi semantici come quello relativo alla bellezza (candido, bellissimo,candido fianco) che cerca di mettere in risalto l’autorità. Nella seconda sequenza Europa osserva lo splendido aspetto del toro, ma, pur essendo in un primo momento impaurita, dopo abbellisce le sue corna con fiori e ha anche il coraggio di sedersi sulla sua groppa, così il dio si allontana dalla spiaggia e la porta in mezzo al mare; la fanciulla si tiene con una mano a un corno e con l’altra alla groppa, mentre le sue vesti si gonfiano al vento. 38 Europa nella seconda sequenza si lascia rapire da Giove e l’idea del rapimento indicherebbe il distacco tra il mondo Orientale e quello Occidentale, ma allude anche al continuo scambio di idee, conoscenze tra l’Asia e l’Europa. Il mare invece potrebbe essere simbolo di movimento e dell’aggregazione tra culture; la donna è una figura ambivalente perché è rapita e ingannata dal toro ma è colei che domina il seduttore. Nella seconda sequenza si possono riscontrare oltre al campo semantico relativo all’amore (innamorato) che è presente in tutto il poema anche quello riguardante la paura di Europa (timore,tremando, paura) che è spaventata dal rapimento del toro, ma allo stesso tempo si fa rapire. Ovidio utilizza inoltre un registro elevato per la presenza di perifrasi (v.845,858,868) e si può notare il virtuosismo poetico utilizzato dall’autore perché notevole è la sua capacità descrittiva. La voce narrante è esterna onnisciente e la focalizzazione è zero. Simonelli Davide, IV C 39 17. Dipinto: “Il Ratto d’Europa” Il piatto smaltato “Ratto d’Europa” è dipinto con un soggetto mitologico raffigurante il rapimento di Europa da parte di Zeus. La scena raffigurata è in movimento ed ha un andamento da sinistra versa destra. Sullo sfondo è dipinta una città in cui è possibile riconoscere Creta. In secondo piano sulla sinistra c’è la mandria di buoi di Agenore sulla spiaggia. In primo piano vediamo invece le fanciulle di Tiro agitate dall’episodio a cui stanno assistendo: una fanciulla è rapita da un toro dal folto manto bianco. L’episodio ci riporta, dunque, al mito di Europa, figlia di Agenore, re dei Fenici. Abitualmente Europa si recava sulla riva del mare per divertirsi e per raccogliere fiori con le sue ancelle di Tiro e poco lontano da loro pascolavano gli armenti del re. Ad un 40 tratto si videro accerchiate da un branco di tori. Fra questi si distinse un toro dal mantello bianco abbagliante, dall’aspetto docile e mansueto che si poteva riconoscere dalle piccole corna simili a gemme lucenti: era Zeus stesso, che si era innamorato di Europa e si era deciso di conquistarla, presentandosi sotto quell’aspetto. Europa, attratta da quell’animale bellissimo, timida all’inizio, avvicinò i suoi fiori a quel muso candido: il toro, gemendo di piacere, si rovesciò sull’erba e offrì le sue piccole corna alle ghirlande. La principessa Europa ad un certo punto gli si sedette sulla groppa. Il branco si spostò così dal letto asciutto del fiume verso la spiaggia. Il toro si avvicinò all’acqua. La bestia bianca investì così le onde con Europa in groppa. L’autore del dipinto coglie il momento in cui Europa si volta indietro: con la mano destra si tiene ad un corno del toro, con l’altra si appoggia alla bestia, mentre l’aria mossa le fa tremare le vesti. Per questo motivo la fanciulla rapita è rappresentata nel piatto con un tono più malinconico che spaventato. Il rapimento dunque non è rappresentato con una scena drammatica proprio perché voluto da Europa. Il piatto smaltato fu dipinto, si presume, nel 1560 circa, ad Urbino, nella bottega dei Fontana e ha quindi le caratteristiche artistiche e pittoriche della pittura rinascimentale. Rossi Michele IV C 41 18. Narciso Il mito è tratto da “Le Metamorfosi”, la celebre raccolta di Ovidio. Narciso è figlio del dio fluviale Cefiso e della ninfa Liriope; alla sua nascita Tiresia, un indovino, aveva ambiguamente predetto che il fanciullo non sarebbe vissuto a lungo se avesse visto la sua immagine. Divenuto giovane Narciso fece innamorare moltissime ragazze a causa della sua bellezza ma senza ricambiarne il loro amore. Queste chiesero alla dea della vendetta Nemesi di punirlo, facendolo soffrire allo stesso modo per le pene d’amore che aveva provocato. Così, la dea lo punì facendo in modo che si innamorasse del riflesso della sua immagine. Narciso però, non riuscendo ad afferrare la sua immagine, morì per il dolore; anche nelle acque dello Stige negli Inferi continuò a contemplarsi. Morendo, Narciso si trasformò in un fiore, che porta il suo nome. La focalizzazione è di tipo zero in tutto il mito e la voce narrante è esterna ed onnisciente. La prima sequenza è di tipo descrittivo perché descrive l’ambiente in cui si svolge la vicenda. E’ un luogo piacevole caratterizzato da una fonte di acqua limpida e pura e da un prato verde. In letteratura è usato il termine “locus amoenus” per individuare questo tipo di spazio stilizzato e gradevole. Non abbiamo indicazioni di tempo, a conferma dell’atemporalità del mito. La seconda sequenza è mista poiché narrativa e descrittiva allo stesso tempo. In questa sequenza infatti viene presentato il protagonista, stanco per la caccia che è intento a colmare la sua 42 sete nell’acqua, ma che sarà colpito da un’altra sete, un desiderio d’amore: Narciso. La parola caccia è di un certo rilievo in alcuni miti di Ovidio e rimanda appunto all’attività in cui sembra abile il ragazzo. Narciso sporgendosi per bere dunque vede nell’acqua la figura di un bellissimo fanciullo e se ne innamora. In realtà l’immagine da cui era rimasto affascinato era il riflesso di lui che si stava avvicinando alla fonte. Il riflesso è infatti una parola-chiave del mito che si ricollega all’inganno provocato dalla sorgente. La “sete d’amore” riporta al campo semantico dell’innamoramento come individuato dalla parola «innamora». Si può parlare infatti di “doppia sete” poiché l’ultima parola di questa espressione è usata sia con un linguaggio denotativo, sia connotativo: rispettivamente il bisogno di bere e quello d’amore. La sequenza termina con una contrapposizione tra realtà ed illusione riportata dalle parole «corpo crede ciò che è solo ombra». Parole come «riflessa» e «immagine» possono far parte di un altro campo semantico ossia quello della vista. Come abbiamo già constatato in altri testi essa veicola la passione dell’amore, altra tematica la quale unisce tutti i miti della raccolta. L’ultimo campo semantico della seconda sequenza è quello della bellezza. («capelli degni di Bacco, guance lisce, il collo d’avorio, bellezza…») La similitudine, «come una statua scolpita in marmo di Paro», presente al verso 14 è prova del registro elevato e quindi dello stile poetico del brano. Anche in questa sequenza lo spazio aperto e il tempo è imprecisato, come in tutte le successive sequenze. 43 Si prosegue con la terza sequenza che è di genere riflessivodescrittivo perché Narciso parla dell’amore che prova per sé stesso. Queste ultime due parole rappresentano la chiave di interpretazione della sequenza ma anche dell’intero testo. Infatti Narciso suscita il fuoco d’amore e nello stesso tempo ne è bruciato, essendo contemporaneamente amante e oggetto amato. L’uso grammaticale dell’attivo e del passivo accenna alla tragicità del momento. Si riscontra poi una similitudine, ulteriore dimostrazione del registro elevato del poeta. Troviamo la prima anafora («quante volte… quante volte..») ed una serie di campi semantici che possono essere divide nell’area correlata dell’amore, quindi la fiamma d’amore e lo sguardo, e l’area correlata all’illusione dell’immagine riflessa. Infatti troviamo la tematica dell’inganno di cui vittima è lo stesso Narciso. Le parole di quest’ultimo campo semantico sono «finzione, illusione, inganno, immagine, fantasma, riflessa, illudi». Si può riscontrare un’apostrofe al verso 30 sotto forma di interrogativa, con cui la voce narrante si rivolge direttamente a Narciso chiedendogli il perché del suo illudersi e dicendogli di non farsi ingannare dall’immagine riflessa. Questa tecnica è usata per rendere meglio la tragicità del momento. Si nota alla fine della sequenza al verso 29 e 30, la ripetizione dei pronomi “te, tu” per sottolineare il ripiegamento su di sé. La quarta sequenza è dialogata. In essa vi è un lungo soliloquio dove Narciso parlando tra sé chiama come testimoni gli elementi della natura. Tramite domande retoriche verso le selve dice che nessuno ha mai sofferto più di lui, preso da tanto dolore. 44 Si continua a notare il campo semantico dell’amore, ma lentamente se ne inserisce un altro legato al dolore, sentimento che aumenta in questi versi, insieme alla tragicità. Nella quinta sequenza troviamo la seconda parte del soliloquio dove è utilizzato il “tu impersonale”, altra caratteristica del linguaggio poetico usato. Narciso, elogiando la sua bellezza, chiede al fanciullo dell’immagine riflessa il motivo per cui si stia prendendo gioco di lui in questo modo. Qui si riscontra il picco più alto di questa tragicità: Narciso si rende conto che l’immagine che vede riflessa nell’acqua non è altro che lui stesso. Ricordiamo che questo momento culminante della scena è chiamato Spannung, termine narratologico per definire il picco massimo di tensione. Quest’ultimo copia in tutto e per tutto i suoi movimenti. Ecco che il fanciullo subito comprende il motivo e qui si ritrova ancora il campo semantico della fiamma d’amore al verso 55 che costituisce un richiamo al verso 20. Al verso 60 troviamo una similitudine che ancora una volta ci rimanda al fuoco e alla passione di Narciso. Nella sesta sequenza troviamo un richiamo al mito di Eco, la ninfa innamorata di Narciso che si lasciò morire, rimanendo di lei sola la voce. E’ anche qui che si riscontra la tecnica ad incastro usata da Ovidio. Troviamo al verso 74 un chiasmo, ossia una figura retorica che consiste nel disporre gli elementi appartenenti a due sintagmi secondo una struttura incrociata, cioè la “chi” greca. Questa sequenza è di tipo narrativo. Narciso di lascia morire sull’erba ed è punito con una sorta di pena per contrappasso 45 anche negli Inferi: egli infatti continuerà per sempre a contemplarsi nelle acque dello Stige. Narciso scompare nel rogo delle Ninfe ed al suo posto nasce un fiore giallo nel mezzo e con tutti gli altri petali bianchi. Ecco infatti che si trasforma in Narciso e si tratta di una metamorfosi discendente ed eziologica. Parole come «ammira, scorgi, vedo, specchiandosi, vista…», distribuite in tutto il mito, appartengono alla tematica della vista di cui oggetto fondamentale è lo specchio. Lo specchio per gli antichi era lo strumento che veicolava le passioni e in quanto superficie riflettente era anche pericoloso dal momento che poteva ammaliare e quindi assoggettare psicologicamente. In questo caso Narciso diventa vittima di un amore che mai potrà essere ricambiato. Baudinelli Giorgia e Franceschini Davide, IV C 46 19. Alcune interpretazioni del mito di Narciso Col mito di Narciso Ovidio sottolinea il suo profondo interesse per l’aspetto psicologico dell’uomo servendosi di elementi che danno spazio a diverse interpretazioni e letture. L’interpretazione medioevale/moralistica risente dell’influenza del pensiero cristiano poiché tutto ciò che richiama all’esteriorità e al corpo, destinato a morire, è considerato negativamente, mentre la cura dell’anima immortale è fonte di salvezza per l’uomo. Oltre a questo aspetto c’è anche il forte valore simbolico del paragone tra il fiore in cui viene trasformato Narciso, bellissimo, profumato, colorato, destinato a morire in poco tempo e la vita degli uomini belli e ricchi la cui bellezza e ricchezza può presto svanire. Nel mondo antico invece il mito di certo sottolineava l’elemento dello specchio, del riflesso e della visualità che in generale avevano un grande valore simbolico: l’acqua dello stagno diventa uno specchio per Narciso, fonte di tutti i suoi guai illuso da un amore impossibile. Per gli antichi infatti la superficie dello specchio aveva effetti negativi sull’uomo perché ritenuto ammaliatore, seduttore e in grado di trasmettere passioni. Nel verso 11 del mito di Narciso «corpo crede ciò che solo è ombra» è racchiusa l’idea del doppio della superficie riflettente che contrappone la realtà ad una realtà apparente, ingannevole. Questo mito è stato anche fonte di studio per la psicoanalisi poiché mette in evidenza il comportamento di un giovane che non si riconosce ed è alla ricerca della propria identità e nel 47 momento in cui la trova scoppia la tragedia: «Io, sono io! L’ho capito, l’immagine mia non mi inganna più». L’aspetto dell’amore impossibile, il tema della morte, del doppio e la complessità della psiche umana hanno caratterizzato la cultura occidentale per la quale Narciso paga a caro prezzo il rifiuto dell’amore delle ninfe, innamorandosi della propria immagine che lo rende egocentrico e isolato dal mondo, confondendo apparenza e realtà e lo rende consapevole di non aver rispettato la legge della reciprocità. È dunque un adolescente che ricerca la propria identità mettendola in relazione con l’alterità e anche dopo la morte nell’Ade non smette di specchiarsi, continuando nell’errore. Ancora oggi il termine “narcisista” viene utilizzato per identificare una persona vanesia e innamorata di sé che talora può arrivare a presentare aspetti patologici per un eccessivo ripiegamento su di sé. Marchi Carolina, IV C 48 20. Dipinto: “Narciso alla fonte” (Caravaggio) In questo quadro del Caravaggio ispirato dal mito di Narciso risalta subito agli occhi il ginocchio proteso in avanti di Narciso che, messo in evidenza anche dalla luce proveniente da sinistra, sembra dare un senso di lento movimento verso lo specchio d’acqua. Caravaggio in questo dipinto vuole far risaltare Narciso in quanto sembra uscire dalle tenebre, rappresentate dallo sfondo buio, e andava verso il fascio di luce. Il giovane, appoggiato vicino allo specchio d’acqua guarda, meravigliato, il suo riflesso. Osservando meglio proprio il riflesso di Narciso possiamo 49 percepire un senso di contrapposizione: l’immagine è scura mentre Narciso, come già detto in precedenza, è colpito da un fascio di luce; il bianco candido dei vestiti contro l’azzurro nel riflesso; la contrapposizione tra animato e inanimato. Queste due realtà sono divise da una strettissima striscia di terra che rappresenta un ostacolo insormontabile. Dall’abbigliamento di Narciso possiamo capire un’altra caratteristica molto importante del mito: l’atemporalità. Infatti gli abiti sono tipicamente secenteschi, del periodo in cui visse Caravaggio, anziché essere relativi agli antichi greci proprio per dimostrare che il mito è senza tempo. Un altro particolare non va tralasciato: la mano destra di Narciso è appoggiata sulla terra, ma la mano sinistra sta per essere completamente immersa nell’acqua e, anche dalla posizione dinamica di Narciso, possiamo capire che vorrebbe “afferrare” il giovane che vede nell’acqua e quindi, anche osservando l’espressione sorpresa sul suo volto, possiamo intuire che il giovane sta per capire che quel fanciullo che vede nell’acqua non è nient’altro che il suo riflesso. Alberto Sibilla, IV^C 50 21. Eco Il mito raccontato da Ovidio si apre con la descrizione di Eco, che è resa con due figure retoriche, la prima è una perifrasi “la ninfa della parola” e un parallelismo “che non può tacere se le parlano e non può parlare per prima”. In questa prima sequenza, che secondo me è mista, narrativa e descrittiva, si può individuare un campo semantico dominante, quello della voce e della comunicazione; le parole che rientrano in questo campo semantico sono: “parola, tacere, parlare, parlano, risonante,voce, parole, discorsi, lingua”. In questa parte si parla di Eco e si spiega la ragione per cui si trova nella situazione di non poter comunicare in modo normale, dato che aveva ingannato Giunone intrattenendola con discorsi futili, mentre le altre ninfe, sue amiche, scappavano dal giaciglio dove si erano appena unite con Giove. Nella seconda sequenza inizia la descrizione dell’amore di Eco per Narciso: la possiamo notare molto chiaramente anche dal campo semantico dell’amore e della passione (innamorò, desiderio, dolci parole, amore). Questo campo semantico, come di consueto in alcuni testi di Ovidio, è collegato a quello della fuga, in questo caso di Narciso via da Eco, e le parole sono “ fuggivano, segui, fugge e fuggendo”. L’immagine dell’amore è resa con l’associazione al fuoco, che brucia come l’amore di Eco. Al verso 373 si inserisce fra il campo semantico del fuoco una similitudine, “come lo zolfo spalmato in cima alle fiaccole”; le figure retoriche presenti fanno parte di un registro elevato che utilizza Ovidio per rendere al meglio il suo stile erudito e poetico. 51 Eco è innamorata follemente di Narciso, ma il suo amore non è corrisposto e la tragicità del mito sta nella mancanza di comunicazione e nell’impossibilità di interazione da parte di Eco, che così facendo non può esprimere i suoi sentimenti a Narciso. Lui infatti sente la sua voce e le chiede di unirsi a lui, ma la ninfa non può far altro che ripetere le sue ultime parole senza riuscire a stabilire una conversazione con lui. Narciso, da parte sua, non capendo la stranezza della situazione, si spaventa e, quando Eco esce dal suo nascondiglio per raggiungerlo, la respinge. Subentra a questo punto la tematica e il campo semantico relativo alla tristezza/infelicità (“pena, angosce, infelice”) che è dovuto alla disperazione di Eco per la sua delusione amorosa causata dall’amore non corrisposto per Narciso. La pena e la sofferenza subite da Eco danno luogo alla metamorfosi: la sua pelle sfiorisce e la sua linfa vitale si disperde nell’aria, di lei rimangono solo le ossa e la voce, ma si dice che anche le ossa scompaiano e diventino pietra, mentre la voce persiste e sui monti tutti la sentono. La sua metamorfosi è discendente perchè assume uno stato inferiore quello precedente, infatti la sua voce si trasforma da normale a eco, inoltre è eziologia perché vuole spiegare l’origine di questo fenomeno naturale. In questo mito possiamo constatare una forte associazione tra l’eco, che è il simbolo e il segno caratteristico di Eco, e lo specchio, elemento fondamentale che troviamo nel mito di Narciso e quindi collegato al personaggio stesso. I due elementi sono ricollegabili tramite la riflessività visiva e quella vocale: 52 infatti uno specchio ci riporta la nostra immagine e l’eco la nostra voce. E’ per questo motivo che il poeta unisce, tramite la tecnica ad incastro, i due miti. La tecnica alessandrina dell’incastro usata da Ovidio insieme alle figure retoriche riscontrate nel brano fanno parte di un linguaggio poetico ricercato e di cui il poeta si serve per mostrare al lettore il proprio virtuosismo poetico e la propria abilità nell’usare la lingua. Lo spazio della narrazione è aperto, infatti abbiamo l’elemento della selva che può alludere alla segretezza di incontri amorosi ed è inoltre un nascondiglio per Eco quando viene rifiutata da Narciso. Il tempo è imprecisato, dato che non sono presenti indizi temporali che segnano il passare del tempo. La focalizzazione è zero e la voce narrante è esterna e onnisciente. Guerra Francesca, IV C 53 22. Dipinto: “Eco e Narciso” di John William Waterhouse “Eco e Narciso” è un dipinto eseguito da John Waterhouse nel 1903, ispirato al mito di Narciso del poeta latino Ovidio. Il pittore raffigura la scena in cui Narciso cerca invano di toccare la sua immagine riflessa nell'acqua. Il fanciullo è sdraiato sulla sponda del ruscello e osserva il suo riflesso. La sua mano destra è alzata e sembra che stia per immergerla, sempre con lo scopo di accarezzare il giovane attraente che vede. L'aspetto di Narciso è simile a quello descritto dal poeta latino: i capelli neri sono fluidi e cinti da una corona d'alloro, la carnagione è pallida e le gote sono rosse. Accanto a lui si trovano una faretra nella quale sono riposte alcune frecce e un cappello che non sembra appartenere all'epoca antica. Sulla sinistra si trova la ninfa Eco, che osserva la scena sconsolata. La giovane donna è ritratta con forme non molto 54 prosperose, i suoi capelli rossi sono fermati con un fiore rosso e con le mani si appoggia ad un tronco. L'abbigliamento dei due personaggi è antico: le vesti che coprono solo in parte il corpo sono tipiche delle opere che rappresentano il periodo classico e che rispecchiano la tradizione greca. La nudità parziale sottolinea che i personaggi appartengono ad un mito classico. La veste di Narciso è di un rosso acceso che risalta molto dallo sfondo forse perché il pittore ha voluto alludere all'amore passionale del fanciullo. Il paesaggio circostante è florido e rigoglioso. L'artista ha utilizzato numerose tonalità di verde per creare uno spazio che riproduce in modo stilizzato il locus amoenus di cui individuiamo: il boschetto, il torrente, il prato e la fonte d'acqua. Tutto è così perfetto e tranquillo da sembrare irreale. È nell'acqua che si riflette il giovane: la sua immagine riflessa appare ai piedi delle rocce sulle quali è appoggiato Narciso e da questa possiamo vedere meglio l'espressione del volto del ragazzo incuriosito e quasi triste. Tra le fronde degli alberi appare ogni tanto il cielo e le radure sullo sfondo sono illuminate dal sole. Un dettaglio in particolare differenzia il quadro dall'opera classica: Eco è rappresentata con sembianze umane poiché il pittore ha intrecciato a suo modo i due miti e sarebbe stato difficile per qualsiasi artista rappresentare Eco trasformata in pura voce. Tosi Gian Maria, IV C 55 23. Piramo e Tisbe Nel mito che stiamo per analizzare Ovidio narra la storia di un amore di due giovani, Piramo e Tisbe, ostacolato però dai loro padri. I due innamorati vivevano in due case contigue, separate da un muro nel quale era presente una fessura dalla quale i giovani potevano sussurrarsi parole senza essere colti dai genitori. Un giorno si diedero appuntamento per la notte stessa al sepolcro di Nino; Tisbe uscita di casa per prima fu sorpresa da una leonessa con la bocca insanguinata e la fanciulla, spaventata, fuggendo perse il velo insanguinato dalla belva. Piramo, uscito più tardi, trovò il velo insanguinato dell’amata e credendola morta si recò al luogo stabilito e per la disperazione si uccise. Ormai sul punto di morte Piramo fu trovato da Tisbe che, invocando preghiere ai genitori, si uccise con lo stesso pugnale usato dall’amato. La prima sequenza (53-64) è mista poiché Ovidio, oltre a descrivere i due protagonisti, narra del loro amore ostacolato. Già dalla prima sequenza compare il campo semantico dell’amore (amore, matrimonio, innamorati), presente in tutto il mito. Alla riga 64 Ovidio con le parole <<fuoco ribolle>> vuole ricollegarsi al modo in cui nell’antichità il fuoco ardente simboleggiava la passione dell’amore. Nella seconda sequenza che è mimetica, Ovidio fa parlare i due innamorati attraverso il muro caratterizzato da una fessura. Nelle righe 69 e 71 c’è una contrapposizione fra “di qua” e “di là” che simboleggia le parti del muro. Inoltre, la parola muro è ambigua poiché da una parte separa i due innamorati dall’altra attraverso la fessura li tiene uniti attraverso la voce. I due campi 56 semantici contenuti nella sequenza sono quelli della voce e dell’amore. In quello dell’amore le parole sono:<<amanti, amore, dolcezza, baciarci, amate, baci>>, in quella della voce sono: <<voce, sussurrata, soffio, dicevano, parole, orecchie>>. Infine al verso 68 troviamo un intervento diretto dell’autore. La terza sequenza è mista, descrittivo-narrativa, infatti Ovidio narra che i due giovani si danno appuntamento in un luogo descritto con la tecnica del locus amoenus caratterizzato da un albero ricco di frutti conditi e una fonte fresca. Quando Tisbe però uscì di casa è sorpresa da una leonessa. I campi semantici che compaiono sono quello dell’uscita (uscire, usciti, lasciare, esce) attraverso il quale Ovidio fa incontrare i due amati, un altro campo semantico è quello dell’albero (albero, frutti candidi, gelso, bosco) che poi sarà l’elemento che nel testo ricollegherà alla metamorfosi. Il successivo campo semantico è quello dell’acqua (acque, acque emerse, sete, fonte) che va a ricollegarsi con il secondo elemento descrittivo nel locus amoenus. L’ultimo campo semantico è quello della belva (bocca, muso, leonessa feroce, leonessa) riferito al leone che fa fuggire Tisbe. Possiamo cogliere alcuni riferimenti nelle parole <<impaurita, fuggi, fuga >> che potrebbero suggerirci un campo semantico della fuga tipico dei miti di Ovidio. Anche da <<sangue, insanguinata>> possiamo avere un riferimento alla belva che insanguina il velo della fanciulla. La quarta sequenza è mimetica poiché Piramo si lamenta di aver ucciso la sua amata facendola uscire di notte in luoghi oscuri. Infatti Piramo uscito di casa, dopo aver trovato il velo insanguinato di Tisbe, credendola morta, si reca nel luogo stabilito dove si suicida. Alla riga 122-124 troviamo una 57 similitudine, nella quale Ovidio paragona il sangue che fuoriesce dal corpo di Piramo come lo spruzzo dell’acqua di un tubo forato. Il velo ha un ruolo importante poiché fa credere a Piramo la falsa morte dell’amata. Il campo semantico prevalente è quello della morte (<<ho ucciso, straziate, sbranate o morsi, morte, pugnale, morendo, ferita ardente>>) che si riferisce all’uccisione di Piramo. Accostato ad esso troviamo il campo semantico del sangue nel quale viene ripetuta frequentemente la parola <<sangue>>. Infine ritroviamo quello dell’albero (albero, frutti, radice). Riscontriamo un riferimento alla morte nella parola <<pianse>> che introduce il campo semantico dell’infelicità. La quinta sequenza (128-154) è mista descrittivo-mimetica e la voce narrante racconta che la fanciulla trova l’amato morente e disperata, gli parla ed infine i uccide con lo stesso pugnale dell’amato. Al verso 132 le parole <<incerta sul colore dei frutti>> ci introduce la metamorfosi che sta colpendo l’albero .Al verso 135-136 abbiamo una piccola similitudine che paragona i brividi della fanciulla, provocati dalla visione del velo insanguinato, alle onde del mare, mosse da una lieve brezza. I campi semantici prevalenti sono quelli della morte (ferite, sciagura, morte, ucciso, ferirmi, morte) che si intreccia con quello dell’amore (amore, capo amato, baci, carissima, tuo amore) per accentuare l’amore provato dalla fanciulla che seguirà l’amato anche dopo la morte. Rincontriamo poi alcuni accenni ai vari campi semantici dell’albero (frutti, albero), del pericolo (pericolo, scampato), dell’infelicità (lacrime, pianto, infelice, infelicissimo), con il quale Ovidio descrive la grandissimo tristezza della fanciulla per la morte dell’amato. 58 La seta sequenza (154-167) è mimetica ed è centrata sulla preghiera della fanciulla verso i padri per non essere sepolti in tombe separate e quindi di non ostacolare il loro amore anche dopo la morte. Inoltre chiede all’albero di mantenere un segno di questa strage e infatti alla fine di questa vicenda si ha una metamorfosi di tipo eziologico, poiché essa spiega che i frutti del gelso, quando diventano maturi si scuriscono, poiché vengono “macchiati” dal sangue dei due innamorati. Il campo semantico prevalente è quello della morte (sepolti, stessa tomba, strage, lutto, pugnale) che si intreccia con quello dell’albero (albero, rami, frutti scuri, frutto) poiché l’albero è il luogo del suicidio. Una delle tematiche principali è quella dell’amore e della morte. I campi semantici sono quello dell’amore, quello della voce, unico mezzo con cui i due amanti potevano comunicare, quello dell’uscita per il desiderio di vedersi dei due amanti, quello dell’infelicità causato dall’amore impossibile. Quest’ultimo campo semantico si collega alla tematica della morte, legata al campo semantico del sangue della belva e della fuga. L’ultima tematica è quella metamorfosi con il campo semantico dell’albero. Hummel Mervin, Pellegri Alessia, IV C 59 24. Aracne Il mito di Aracne è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, raccolta di miti aventi come tema principale la metamorfosi prevalentemente eziologica e composta da quindici libri. Ovidio per raccogliere i miti si avvale della tecnica della narrazione ad incastro che permette di combinare tra loro miti di varie tradizioni. Questo mito si trova all’inizio del VI libro e racconta la storia di Aracne, una fanciulla abile nel tessere che sfidò Minerva e da questa fu punita. Il brano può essere diviso in cinque sequenze: nella prima sequenza è spiegato il motivo per il quale la dea Minerva decise di colpire Aracne, dopo aver sentito che non voleva esserle inferiore nell’arte della lavorazione della lana. La sequenza presenta il punto di vista di Atena tramite il soliloquio ed è perciò mimetica. Inoltre è presente l’epiteto “dea tritonia” riferito a Minerva che dimostra l’uso di un registro poetico e colto ricorrente anche nelle successive sequenze. Nella sequenza si riscontra il campo semantico della lode e della fama «lodare, lodata» e quello dell’arte tessile «arte, lavorare la lana». La seconda sequenza è descrittiva e presenta il personaggio di Aracne, conosciuta per la sua grande abilità nel tessere. Ritorna il campo semantico dell’arte tessile «arte, lana, gomitoli, lavorazione, ricamasse, fuso, etc.…» e quello della lode e della fama «famosa, gran nome». Sono presenti due figure retoriche: una similitudine «…i bioccoli morbidi come nuvole…» riferita alla lana, e un parallelismo dal verso 19 fino al verso 23 (sia che…); sono presenti anche alcuni nomi di località i quali sottolineano l’erudita cultura di Ovidio. Tutti questi elementi rimandano al 60 registro elevato. Inoltre, poiché i nomi delle località rimandano alla Grecia, lo spazio è reale e aperto. Per quanto riguarda il tempo invece non si hanno precise indicazioni e quindi è indeterminato anche perché la dimensione del mito è atemporale. La terza sequenza è mista e prevalentemente mimetica poiché Minerva travestendosi da anziana si rivolge ad Aracne chiedendole di scusarsi e ammettere la sua inferiorità rispetto ad essa. La dea Minerva è presentata con l’epiteto di Pallade che rimanda al registro colto dell’autore e compare un nuovo campo semantico: quello della vecchiaia «vecchia, bastone, membra inferme, età avanzata, esperienza, etc.», inoltre ricompaiono i campi semantici della lode e della fama «fama, ambisci, etc..» e quello dell’arte tessile «lana, fili, arte, etc..» collegati alla tematica del testo, cioè quella di eccellere nell’arte tessile, infatti Aracne si ritiene superiore alla dea e la sfida per dimostrarlo. Anche la quarta sequenza è mista, in quanto narrativa e descrittiva e si apre con la rivelazione del travestimento della dea che mostrandosi ad Aracne accetta la sfida. Nella sequenza è presente un’ampia similitudine «..e un rossore improvviso le marca suo malgrado il volto, e svanisce poi, come l’aria diventa purpurea quando compare l’aurora, e dopo poco dal sorgere del sole brilla.» riferita al rossore sul volto di Aracne causato dal suo imbarazzo provato nel vedere la dea, qui chiamata con la perifrasi «la figlia di Giove». In questa sequenza ricompaiono i campi semantici della vecchiaia «aspetto senile…» e quello dell’arte tessile «tela, fili, trama, etc.». Si può anche trovare la parola chiave «stolta bramosia di vittoria» che rimanda alla tematica della tracotanza degli uomini nei confronti degli dei che 61 si riscontra anche nella terza sequenza con l’espressione «giudizio in me stessa» che mostra l’arroganza di Aracne verso Minerva. Nella quinta e ultima sequenza la vicenda si conclude con la metamorfosi di Aracne punita dalla dea. Questa sequenza è mista perché compare il discorso diretto e la descrizione della metamorfosi. Anche qui torna il campo semantico dell’arte tessile «tela, intessuta, fili, etc..» e quello del corpo «capelli, orecchie, naso, corpo, etc..» che rimanda alla tematica della metamorfosi. Questa è discendente poiché è dovuta alla punizione di Minerva nei confronti di Aracne ed è eziologica perché spiega il motivo per cui i ragni tessono la ragnatela. La metamorfosi viene messa in analogia con quanto Aracne stava facendo prima di essa: Aracne infatti stava tentando di impiccarsi ed è proprio dalla sua posizione, con il cappio legato al collo, che si ricava l’analogia con la figura del ragno infatti questo diventerà il filo da cui lei penzolerà nella sua nuova forma e che lei tesserà continuamente, come era solita fare nella sua condizione umana. Arena, Morelli e Taddei, IV D 62 25. Aracne da tessitrice a…: versione greca del mito Commento La versione “Aracne, da tessitrice a…” narra di una giovane di nome Aracne molto abile nell’arte della tessitura. Aracne, però, per la sua eccessiva sicurezza, si mostra arrogante nei confronti della dea Atena, affermando di esserle superiore nell’arte del tessere. Quindi Atena, sentendo le sue parole, si trasforma in un’anziana signora e cerca di convincerla a ritirare ciò che ha detto, dandole così la possibilità di essere perdonata. Aracne, però, rimane delle sue idee, perciò Atena si mostra e le due si sfidano. Atena prevale nel duello e quindi punisce Aracne per la sua arroganza trasformandola in un ragno. 63 Traduzione Aracne, ragazza di Colofone, era abile nella tessitura. Con la sua mirabile abilità, ricamava con l’ago splendide tele. Perciò l’orgoglio raggiungeva l’animo della fanciulla e la portava a dire: «Persino Atena, dea delle arti, è inferiore alla mia arte». La dea, adirata, si trasformava in una vecchia e diceva: «O ragazza, sei straordinaria ed illustre, ma troppo arrogante, temi dunque l’ira degli dei». Poi Aracne rispondeva: «O stolta, ti privavi della saggezza a causa dell’età». Allora Atena si manifestava di nuovo nella forma di dea e invitava la fanciulla ad una gara. La dea ricamava sulla veste delle immagini di uomini che per l’arroganza erano stati puniti, invece Aracne, volendo oltraggiare la dea, ricamava fanciulle amate dagli dei: allora Atena si adirava terribilmente e diceva: «Se però sei così contenta di tessere, tessi dunque per sempre». E trasformava la fanciulla in ragno. Arena Benedetta, Morelli Beatrice, IV D 64 26. Mito di Aracne: confronto tra il testo di Ovidio e il testo greco Testo di Ovidio Il testo ovidiano, che tratta il mito di Aracne, narra di una fanciulla, Aracne, abile tessitrice, che non voleva cedere la sua arte alla dea Atena. La dea si adira nel venire a sapere di tale ingratitudine della ragazza. Per convincere Aracne di fare ciò che detta la legge divina, Pallade si traveste da vecchia consigliando alla giovane di non sfidare l’ira degli dei. Invece l’insolente ragazza rifiuta il consiglio insultando la dea, travestita da anziana signora, e sfida Atena in una gara di tessitura, l’arte comune a tutti e due i personaggi del mito. Alla fine della sfida la dea rompe la tela di Aracne e Atena colpisce la giovane sulla fronte più volte, inducendo quest’ultima ad arrendersi e ad arrivare al punto di suicidarsi. La dea glielo impedisce, ma la trasforma in un ragno per punire la tracotanza della ragazza. Così Aracne è costretta a tessere per tutta la sua vita. Testo greco Il testo greco riguarda lo stesso mito di Aracne, ragazza molto abile nella tessitura. La sua insolenza però la spinge a pronunciare parole irrispettose nei confronti della dea. Atena perciò si trasforma in una vecchia e le consiglia di non oltraggiare la legge divina, sfidando così l’ira degli dei. La giovane però non vuole ascoltarla, dicendole che non sapeva quello che lei stava dicendo, dando la colpa all’età che era troppo avanzata. 65 Subito dopo Atena riprende il proprio aspetto e chiama la fanciulla ad una gara di tessitura. La dea rappresenta nella sua tela immagini di uomini puniti per la loro insolenza nei confronti degli dei, invece Aracne rappresenta immagini di donne amate dagli dei. La dea si adira vedendo tutto ciò, così trasforma la ragazza in un ragno. Il confronto Tra i due testi si possono riscontrare molte analogie. Il testo ovidiano però sottolinea di più il discorso diretto tra Atena e Aracne, contrapponendo due concetti principali, ossia la sottomissione degli uomini agli dei e la tracotanza verso quest’ultimi. In questa versione del mito si possono trovare tre parole chiave che determinano le tematiche principali: ‘’arte’’; ‘’disprezzino’’; ‘’fama’’. Conseguentemente si possono individuare tre principali campi semantici che sono riconducibili alle tematiche primarie del brano. I tre campi semantici sono: il campo semantico dell’arte della tessitura (‘’lana’’; ‘’tela’’; ‘’ricamasse’’; ‘’filo’’; ecc.), della sfida (‘’gareggi’’; ‘’vinta’’; ‘’sfida’’; ecc.) e della fama (‘’lodare’’; ‘’lodata’’; ‘’famosa’’). Nel testo greco, invece, viene sottolineata maggiormente la descrizione delle immagini sulle tele durante la sfida, che rimanda ad un concetto di netta divisione tra uomini e dei. In questo brano si possono riscontrare le seguenti parole chiave: ‘’tessitura’’; ‘’si trasformava’’; ‘’arroganza’’; ‘’si adirava’’. Tali parole rimandano ai rispettivi campi semantici. Ariodante Serena, IV D 66 27. Dipinto: “Aracne e Minerva” Il quadro è stato dipinto dal pittore Luca Giordano e raffigura la scena della metamorfosi di Aracne, legata al mito di Aracne e Atena tratto da “Le metamorfosi” del poeta latino Ovidio. In primo piano si vedono due figure femminili che si possono identificare rispettivamente con Atena e Aracne, in quanto alcune caratteristiche ne evidenziano l’identità. Si può intuire che, al centro del dipinto, è raffigurata Atena con il capo circondato da una luce splendente che allude al divino. Un simbolo riferito alla dea è la civetta, posta nella parte inferiore a sinistra del dipinto, poiché animale sacro alla dea. Dalla posizione del corpo di Atena si osserva la superiorità della dea 67 rispetto alla fanciulla, poiché ella è dipinta elevata da una nube e con un dito puntato verso la ragazza in segno di ammonimento e punizione. Alla destra della divinità è raffigurata Aracne: lo si può capire dalle dita delle mani da cui partono i filamenti di una ragnatela, simboleggianti la metamorfosi in ragno della fanciulla. Aracne è dipinta dietro un telaio che, insieme al cesto contenente la lana in basso a sinistra, rappresenta l’abilità tessile in cui la dea e la fanciulla si sono sfidate. In secondo piano si trova raffigurato un uomo, presumibilmente uno spettatore della gara avvenuta precedentemente. Lo fondo del quadro è oscurato da una nuvola che impedisce di vedere il paesaggio. A confronto con il mito corrispondente si notano nel quadro disuguaglianze: per esempio una è la presenza della civetta, che nel mito non è stato necessario introdurre essendo un testo scritto che si avvale piuttosto di epiteti, ma che nel quadro risulta significativo attributo della divinità; un’altra è la colonna sotto la nube, che potrebbe alludere alla classicità del mito, e infine la figura dello spettatore. In conclusione si può dunque affermare che il messaggio trasmesso da entrambi gli artisti è quello della punizione della superbia e della consapevolezza dei propri limiti umani. Brozzo Tommaso e Taddei Virginia IV D 68 28. Tereo, Procne e Filomela Il mito ‘’Tereo, Procne e Filomela’’ è un mito di metamorfosi tratto dalla raccolta di Ovidio ‘’Le Metamorfosi’’. La tematica centrale del mito è la vendetta che viene attuata da Procne e Filomela nei confronti di Tereo che, mentre aveva preso in moglie Procne, la tradiva con Filomela che non contraccambiava. Infatti Filomela viene rapita da Tereo e viene portata in una stalla dove viene paragonata con una similitudine ad un agnello sfuggito ad un lupo e a una colomba palpitante. Filomela dunque preannuncia la sua vendetta e Tereo, irato le taglia la lingua. Filomela però non si arrende e manda un messaggio alla regina che la libera. Dunque torna da Procne e qui entra in gioco la tematica del perdono, infatti Procne perdona la sorella e vuole vendicarsi. Da questo momento i personaggi sono posseduti da un desiderio di vendetta che li spinge a commettere atti imperdonabili allo scopo di riconquistare l’ onore e il pudore che le sorelle avevano perso. Le due sorelle dunque uccidono il figlio di Procne e Tereo e, spinte dalla collera, lo ‘’cucinano’’ e lo fanno mangiare al padre. Qui si vede subito che la vendetta è di tipo psicologico e che Iti, il figlio, non viene preso in considerazione. Anche Tereo viene posseduto dalla rabbia, infatti la metamorfosi avviene su di lui che si trasforma in un uccello attraverso una metamorfosi discendente. Saione Andrea, IV C 69 29. Apollo e Dafne Il mito di “Apollo e Dafne” si apre con una sequenza mista, narrativa e prevalentemente dialogata, che introduce la storia presentando due personaggi, Apollo e Cupido. L'autore narra della lite che nasce tra i due a proposito della capacità dell'uso dell'arco e delle frecce, che ognuno pensa di avere in maggior grado. Le parole crudele, trionfo, ferire, nemici rimandano ad uno dei campi semantici prevalenti nel mito, quello del combattimento e della lotta; i termini come “amore” e “Cupido” si collegano invece al campo semantico dell'amore. In questa sequenza si può notare anche come Ovidio voglia marcare ancora di più l'opposizione, il contrasto che c'è fra Apollo e Cupido con l'uso di forme pronominali o aggettivi e pronomi possessivi («me...tuo...te...tua...mia»). Passando alla seconda sequenza, che si sviluppa in parte secondo la struttura narrativa, in parte secondo quella descrittiva e dove è presente a tratti anche il dialogo, appare un terzo personaggio: la ninfa Dafne. Nella descrizione di questa protagonista Ovidio introduce un altro campo semantico, ossia quello della caccia e della natura selvaggia, che definisce la ninfa come la cacciatrice gli animali come prede («cacciare...chioma spettinata...monti selvaggi»). Sempre presenti sono i campi dell'amore, del combattimento e della lotta e quello della fuga che si svilupperà, soprattutto, nella parte centrale del testo. In questa sequenza, infine, per descrivere gli effetti opposti delle frecce che Cupido scaglia contro Apollo e Dafne, lo scrittore usa un parallelismo («l'una metteva in fuga l'amore, l'altra lo 70 provocava. La seconda...mentre la prima...»), una delle tante prove del registro linguistico elevato e dello stile poetico che il poeta usa nel mito. La terza sequenza, descrittiva e dialogata, si apre con una apostrofe che Ovidio fa rivolgendosi alla ninfa. Qui il campo semantico della vista-ammirazione («vedere...guarda...ammira») stimolato da quello della bellezza («occhi scintillanti...piccola bocca...dita...mani...braccia...belle») fa scaturire quello del fuoco e della passione, reso dalla similitudine che paragona il fuoco ardente alla passione e all'amore che Febo prova per Dafne. In questa sequenza, però, il campo semantico prevalente è quello della fuga (che si contrappone a quello dell'inseguimento); numerosi sono i termini con questo significato: «fugge...inseguo...seguirti...corsa...fuga...inseguimento». Si può infine notare un uso frequente del pronome personale “Io” usato da Apollo con cui lo scrittore Ovidio vuole sottolineare il notevole contributo che il dio ha dato allo sviluppo delle conoscenze umane (autopresentazione). La quarta sequenza, descrittiva, narrativa e con una piccola parte dialogata, pur trattando lo stesso campo semantico, presenta tuttavia un ribaltamento rispetto all'immagine della seconda sequenza: infatti Dafne, precedentemente descritta come cacciatrice, ora si trova ad essere preda di Apollo. Questo concetto viene rimarcato da una similitudine in forma di digressione [«Come un cane Gallico, non può appena vede...una lepre...(ecco, il cane sembra già esserle sopra...)»]: dominante, quindi, è il campo della fuga-inseguimento. Si può capire quindi la ragione dell'ampio spazio dato da Ovidio a questa immagine: il 71 messaggio che ne ricaviamo è la precarietà del destino umano, che in poco tempo e senza colpe può essere del tutto ribaltato. L'ultima sequenza, descrittiva e narrativa, presenta la metamorfosi di Dafne, descritta dettagliatamente, tanto da sembrare quasi reale grazie all’abilità dell'autore nel rendere i particolari della trasformazione. In questa parte del testo occupa grande spazio il campo semantico della pianta-albero, funzionale alla tradizione mitologica: l'alloro, infatti, diventerà uno dei simboli di Apollo. Ovidio accentua l'amore e la passione che il dio prova nei confronti di Dafne, anche se già trasformata, con pronomi e appartenenza aggettivi («la possessivi, mia creando consorte...il mio un senso albero...la di mia chioma...tu»). Si può concludere l'analisi rilevando che la voce narrante è esterna come, prevalentemente, la focalizzazione (eccettuata la prima descrizione di Apollo interna a lui stesso). Lo spazio che fa da sfondo alla vicenda è aperto legato alla natura selvaggia, spazio proprio della libertà e della dea Diana; i tre personaggi principali possono essere definiti “tipi” in quanto, pur nelle loro trasformazioni, mantengono le loro caratteristiche. Piva Giuditta, IV C 72 30. Dipinto: “Apollo e Dafne” di Tiepolo Il dipinto di Tiepolo ritrae un paesaggio rurale dove sullo sfondo il cielo è interamente ricoperto di nuvole; in basso a sinistra si possono notare alcune case. Ancora sullo sfondo sono presenti degli alberi color verde scuro che andando verso destra salgono su un’altura; sull’altura uno degli alberi si innalza sugli altri con un tronco molto sottile e lungo che poi va a ramificarsi fino alle fronde dello stesso colore degli altri alberi. In primo piano, al centro del quadro, c’è Dafne, più in alto degli altri personaggi, di carnagione molto chiara; le sue braccia sono protese verso l’alto, ma quello alla destra dell’osservatore è piegato in prossimità del gomito; invece la mano dell’altro è in fase di trasformazione, 73 infatti si possono notare le prime foglie che ricoprono quasi interamente le dita. Il suo sguardo è quasi triste ed è rivolto verso la mano in ramificazione. I suoi capelli sono di color oro e arrivano quasi fino alla fine del collo della fanciulla. Il torace, come le gambe, è completamente nudo. Subito sotto il seno c’è un laccio che tiene legata alla fanciulla una veste che le ricopre la schiena e sul davanti la parte che va dallo stomaco all’inizio delle gambe. La veste ha varie sfumature: infatti dietro la schiena è arancione e in prossimità delle gambe di color rosso. Alla sinistra della ninfa si trova Apollo: si può capire che è lui dalla corona di alloro sulla testa e la faretra che ha in prossimità del bacino. Il dio è appoggiato su una gamba sola, come se stesse correndo, infatti nel mito di Ovidio Apollo insegue la ninfa, che non ricambia il suo amore. Tornando alla descrizione, Apollo ha una carnagione colorita, anche lui è quasi nudo, ha una veste di color rosso che vola nell’aria. Il suo sguardo è rivolto verso Dafne, forse verso la mano in trasformazione. Ai piedi sono allacciati dei calzari color ocra. La mano destra, sempre verso la parte dell’osservatore, è protesa in avanti, sembrerebbe per tenere la veste di Dafne, mentre l’altra mano tiene l’arco. Alla destra di Dafne, all’altezza delle gambe, c’è un fanciullo completamente nudo, che con la mano sinistra tiene la veste della ninfa. I suoi capelli sono castano scuro e il suo sguardo è rivolto verso il basso. In basso al centro, sdraiato a terra, c’è un uomo anziano, con la schiena nuda e i capelli e la barba bianchi. E’ appoggiato sulla sinistra a un’anfora di colore verde e con l’altra tiene un remo lungo, di cui non si vede la fine, di color marrone chiaro, che si 74 va appiattendo a destra. Si può dedurre che l’uomo sia il fiume Peneo, padre di Dafne. Egli è raffigurato nel quadro ed è presente durante lo svolgimento della vicenda perché, secondo il mito, Dafne cercando di fuggire da Apollo invoca l’aiuto della madre Terra e del padre Peneo: saranno loro infatti a trasformarla in alloro. A differenza della narrazione mitica nel quadro è presente il fanciullo, alla sinistra di Dafne, figura, peraltro, non identificata. Facendo sempre riferimento al mito ovidiano possiamo rimanere sorpresi dalla presenza della corona di alloro sul cranio di Apollo, infatti, la narrazione riporta che Apollo si cinge il capo di una corona di alloro solo dopo la trasformazione di Dafne, mentre nel quadro è già presente anche se la trasformazione della ninfa è solo all’inizio. Fregoso Bernardo, IV C 75 31. Dipinto: “Apollo e Dafne” di A. Del Pollaiolo Il dipinto “Apollo e Dafne” di Antonio Del Pollaiolo è conservato alla National Gallery di Londra ed è databile intorno al 14701480. In primo piano è presente uno dei due protagonisti : Dafne, le cui braccia sono l’elemento che più colpisce ad una prima visione del quadro, poiché esse sono formate da due corti rami dalle cui sommità si sviluppano due grandi fronde, che, rappresentate con un colore verde talmente scuro da tendere al nero, occupano la parte centrale dell’opera. All’interno, le fronde 76 sembrano un’uniforme macchia scura, mentre a mano a mano che si va verso l’esterno i contorni delle foglie compaiono nitidi e ben delineati. Le foglie sono sottili e allungate e solo due ramoscelli completamente ricoperti da esse ed appartenenti alle due differenti fronde si uniscono nella parte centrale della sommità dell’opera. Dafne, posta al centro del quadro, è rappresentata come una donna dai lunghi e selvaggi capelli biondi, che sembrano ricordare delle piante mosse probabilmente dal vento, simbolo della metamorfosi in atto; il suo volto è rivolto verso la sinistra del quadro e il suo sguardo è invece verso il basso, verso quello che presumibilmente è il dio Apollo. Le vesti della fanciulla sono di un verde intenso e molto scuro, quasi ad alludere alla pianta; esse sono inoltre rigonfiate, elemento che conferisce una certa dinamicità alla sua figura, in opposizione alla staticità conferitale dalle braccia, ormai rami di una pianta. A conferirle ulteriore dinamicità contribuisce la posizione della gamba destra, uscente dal vestito, che è piegata in avanti, quasi come se ella stesse compiendo un movimento. Il secondo piano è formato esclusivamente da una figura maschile riconducibile alla figura del dio Apollo non solo per il titolo stesso del dipinto, ma anche per gli abiti che indossa (essi sono infatti tipicamente riconducibili a vesti da guerra) e per l’azione che sta compiendo: egli cinge il corpo di Dafne osservandola con estremo dolore. Quindi, nonostante che manchino degli elementi riconoscitivi come quelli presenti nel dipinto “Apollo e Dafne” di G. Tiepolo (la corona d’alloro, l’arco e le frecce e la luce, simbolo di divinità), si riesce ad intuire che la figura maschile è proprio il dio Apollo. 77 Egli appare come una figura dinamica, la cui dinamicità è data dalla posizione corporea: piega, infatti le gambe esattamente come Dafne, quasi fosse il movimento di una corsa, e cinge con le braccia Dafne. Il suo sguardo, come chiaramente anche il suo volto, è rivolto verso la fanciulla e la sua espressione lascia intravedere l’amore che egli prova per lei. Apollo è rappresentato con vestiti che mostrano la sua natura guerriera, infatti indossa un vestigio marrone, simile ad un’armatura e un velo dorato che gli cinge la spalla e i cui capi sono rivolti verso la parte sinistra del dipinto. Le braccia sono caratterizzate dalla presenza di un colore rosso acceso, quasi rosso fuoco che va a scemare e a confondersi con le braccia stesse. Egli infine indossa delle calzature simili ai sandali usati dai soldati nelle battaglie, il cui colore riprende quello dei capelli di Dafne, sia dei suoi stessi capelli, sia del velo che gli cinge il braccio. Sullo sfondo infine è presente un paesaggio talmente scuro da non essere facilmente riconoscibile, ma che con un’accurata osservazione si scopre essere un bosco, simbolo di rifugio, riconoscibile dai contorni di foglie e cespugli. Dietro a questo primo paesaggio si notano chiaramente un lungo fiume di un azzurro così debole da dare una reale idea di trasparenza e diversi alberi presenti sulle sue rive. Il cielo è di un azzurro pallido, fatta eccezione per alcuni tratti in cui questo colore si mescola dolcemente con i colori caldi dell’azzurro e dell’ocra. Il dipinto è realizzato tramite la tecnica del chiaro-scuro, particolarmente indicata per dare l’idea della dinamicità e con 78 colori ad olio che risultano ottimali per la perfetta e semplice coesione di colori caldi e freddi. Il dipinto rappresenta il mito di Apollo e Dafne, in particolare coglie con estrema precisione il momento della metamorfosi di Dafne, e mostra con eccezionale cura del dettaglio non solo la scena in sé, ma anche le espressioni dei personaggi che sono spinti da amore e disperazione, nel caso di Apollo, e da forte distacco, nel caso di Dafne. Il messaggio del dipinto, infatti, analogo a quello del mito stesso, è quello di trasmettere un tema sempre attuale: quello dell’amore, forza alla quale neppure gli dei possono sfuggire, proprio come succede ad Apollo, ed in particolare quello dell’amore non corrisposto. L’amore, inoltre, tanto nel mito quanto nel dipinto, viene visto come una fuga ed un inseguimento: le vesti di Apollo e Dafne e le loro stesse posizioni corporee, infatti, mostrano che entrambi sono reduci da una corsa, in cui secondo il mito Apollo, mosso da un ardente amore, stava inseguendo Dafne, che, mossa solamente dal desiderio di salvezza, fuggiva. Il tema dell’amore visto come una fuga ed un inseguimento e dell’amore non corrisposto, percepibile anche attraverso l’espressione di distacco emotivo di Dafne, non solo fanno sì che il dipinto sia una fedele rappresentazione di ciò che viene descritto nel mito, ma fanno sì che il mito stesso riesca a mantenere una continua validità e sia perciò sempre attuale e plastico, due dimensioni indispensabili dello stesso. Arena Benedetta, IV D 79 32. Apollo e Giacinto Il mito è tratto da “Le Metamorfosi” di Ovidio, poeta latino vissuto nell’età di Augusto, che ha scritto l’opera “Le Metamorfosi” raccogliendo miti greci e latini ed unendoli tramite la narrazione alessandrina, che prevede non la successione logica dei miti, bensì l’incastro di essi l’uno dentro l’altro. Lo scopo per cui Ovidio scrive questi miti non è educativo o religioso, bensì è quello di stupire, meravigliare i lettori tramite il virtuosismo poetico, ossia la straordinaria capacità immaginifica dello scrittore che riesce a far sì che davanti agli occhi del lettore prendano vita le metamorfosi da lui descritte. Il tema principale di ciascun mito è infatti la metamorfosi, ossia il cambiamento di forma a cui i lettori sono sottoposti o perché colpevoli di essersi spinti oltre i confini umani (metamorfosi discendente), o per una ricompensa datagli dagli dei per le loro azioni (metamorfosi ascendente) oppure per spiegare l’origine di un fenomeno naturale (metamorfosi eziologica). In questo stesso mito la metamorfosi è di tipo ascendente, poiché viene vista come una ricompensa data dal dio al fanciullo e attuata come gesto d’amore, ed eziologico, perché spiega la nascita di un elemento naturale. Il mito narra, infatti, di un giovane di nome Giacinto, chiamato anche con la perifrasi «figlio di Amicla», che un giorno partecipa alla gara del lancio del disco con il dio Apollo. Apollo, nominato anche Febo, dà inizio alla gara e lancia il disco molto lontano, dando non solo dimostrazione di grande bravura, ma anche di grande forza. In seguito al lancio, il giovane Giacinto si avvicina al luogo dov’è caduto il disco, a causa della sua imprudenza, e 80 quest’ultimo rimbalza colpendolo in volto e portandolo alla morte. Apollo cerca invano di aiutarlo, ma, accortosi della sua morte, non può fare altro che accertarla, così decide di rendere onore al giovane, consacrandolo come elemento prediletto che avrà scritto sui suoi petali il suo lamento: lo trasforma così in un fiore e quello stesso fiore sarà quello celebrato durante le feste in onore di Giacinto. Il mito può essere diviso in tre sequenze: la prima sequenza (v. 162 – v. 173) spiega, secondo il punto di vista del narratore, che cosa sarebbe accaduto se la morte di Giacinto non fosse avvenuta e come si è comportato il dio Apollo senza di lui. La sequenza è quindi di tipo descrittivo-riflessivo. In questa prima sequenza è la presenza di un narratore che non è solamente esterno ed onnisciente, ma che rilascia anche commenti che dimostrano sia la totale conoscenza della storia, sia la sua straordinaria capacità poetica e il suo registro colto, dato dalla perifrasi (v. 167) «mio padre» riferito a Giove, il padre degli uomini, «il dio» (v. 169), dall’uso di alcuni elementi simbolici «cetra e frecce» (v. 170), in quanto questi sono tutti elementi che mostrano la figura di Apollo, dio della guerra e della musica, e dall’uso di alcune inversioni di parole, come (v. 167) «te più di tutti amò mio padre». Inoltre il registro colto in questa prima sequenza è testimoniato anche dalla presenza di metafore come «la fiamma d’amore». In questa prima sequenza si può riscontrare il campo semantico dell’amore, che si troverà anche nelle successive e che è testimoniato anche dalle parole «amò» e «amore». La seconda sequenza ha inizio con un’indicazione temporale, ovvero un’indicazione relativa al momento della giornata in cui si 81 svolge l’episodio: a mezzogiorno; in realtà però, l’indicazione non esprime a pieno il periodo in cui si sviluppa l’episodio, poiché il mito ha dimensione atemporale, ed è quindi impossibile dare una precisa indicazione sull’epoca in cui è avvenuto. La sequenza è di tipo narrativo perché racconta la vicenda riguardante la gara del lancio del disco fino alla morte di Giacinto, e si può trovare inoltre alla fine dell’episodio una descrizione che può fare intuire che la sequenza è anche descrittiva. Nella sequenza sono presenti anche alcune figure retoriche, che testimoniano il registro colto usato dall’autore: si possono trovare infatti l’appellativo di «Febo» usato per indicare Apollo, un parallelismo (v.186-187-188) «e ora», «ora», che indica successione temporale, e un paragone (v.190 – 195). Infatti in questi versi viene descritta la morte di Giacinto, che viene paragonata alla morte dei fiori che reclinano il capo, non si sostengono più e cadono a terra. In questa sequenza inoltre sono presenti il campo semantico della pianta «erbe, giardino, viole, papaveri, gigli, appassiscono, corolle, terra», e alcune parole chiave che ritorneranno nelle successive sequenze, ovvero «arte» e «gioco». La terza sequenza, infine, narra del comportamento di Apollo in seguito alla morte di Giacinto e della metamorfosi di quest’ultimo. La sequenza inizia con il discorso diretto e perciò è da considerarsi mista in quanto sia narrativa sia descrittiva sia mimetica. Nel discorso di Febo compaiono inoltre alcune parole che potrebbero formare il campo semantico del dolore e della colpa, testimoniato dalle parole «dolore, morte, colpa, causa, ferita». Inoltre ricompare il campo semantico dell’amore, testimoniato dalla parola «amore» e compare anche il campo 82 semantico dell’onore, con le parole «onore», «orgogliosa». In questa sequenza la metamorfosi viene descritta tramite la straordinaria capacità immaginifica dell’autore che descrive la mutazione di Giacinto da uomo steso a terra nel suo sangue, a fiore splendente, che, come il suo sangue, è di colore purpureo. Segnati sui suoi petali sono i lamenti di Apollo, tremendamente addolorato per la sua morte. Un altro campo semantico che ricompare è quello della pianta, testimoniato dalle parole «erba, fiore, petali». Ricompare anche la parola chiave «giocare», riferita alla tematica del gioco. Infine, in quest’ultima sequenza compare l’indicazione spaziale su dove si è svolto l’episodio: Sparta. La voce narrante è esterna e la focalizzazione è zero, anche se nella descrizione di Giacinto si può cogliere tutto il dolore di Apollo. Le tematiche sono quelle del gioco, dell’arte e dell’amore. La metamorfosi è eziologica e ascendente, perché spiega la nascita del Giacinto dovuta alla volontà di Apollo di rendergli omaggio, anche perché lo stesso si sente causa della sua morte. Arena Benedetta, IV D 83 33. Apollo e Giacinto Il mito è tratto dal decimo dei quindici libri di cui è composta l’opera “Le Metamorfosi”. E’ possibile dividerlo in quattro sequenze: nella prima, mista, diegetica, il narratore si riferisce a Giacinto, affermando che è eterno, in quanto risorge ogni primavera e che Apollo non amò mai altri come lui. Come si può evincere, il tema centrale di questa prima sequenza che costituisce una breve introduzione del brano è l’amore, come d’altronde il campo semantico principale (« amore, fiamma d’amore »); questo perché, nonostante che il tema unificante sia la metamorfosi, l’argomento principale è l’amore, una forza potente alla quale, come possiamo vedere, soggiacciono anche gli dei. Il narratore è onnisciente e la focalizzazione zero. Il registro utilizzato da Ovidio è elevato e proprio all’inizio del mito troviamo una perifrasi («figlio di Amicla») che fa riferimento a Giacinto. La funzione della lingua è poetica, come d’altra parte in tutto il brano. La dimensione è atemporale per quanto riguarda il periodo storico, caratteristica tipica del mito, e lo spazio è aperto, caratteristiche che si mantengono costanti in tutto il brano. La seconda sequenza, diegetica, si apre con un’indicazione temporale (vv. 174–175) che ci fa capire in che parte della giornata siamo, cioè mezzogiorno, mantenendo il periodo storico sempre ignoto. E’ prettamente narrativa e racconta di Apollo e Giacinto che gareggiano con il disco finché Giacinto non viene colpito violentemente in volto dal disco stesso rimbalzato dal terreno duro. Il campo semantico principale è quello del gioco/gara («librò, scagliò, gioco, disco, arte»), lo stesso elemento 84 che sarà poi il motivo della metamorfosi di Giacinto ad opera di Apollo. Focalizzazione e voce narrante rimangono invariate. Troviamo poi un epiteto («Febo») e un’apostrofe a fine sequenza («Il tuo volto, Giacinto») coerenti con il registro elevato di Ovidio. In questa sequenza si ha un’analessi con la quale si fa uno scarto temporale per raccontare dall’inizio la vicenda di Apollo e Giacinto. La terza sequenza, perlopiù mimetica e mista, racconta della reazione del dio Febo nel momento in cui il bel ragazzo viene colpito in viso dal disco; Apollo si sente colpevole di averlo ucciso e proprio la colpevolezza è il campo semantico («accusa, responsabile, causa, colpa») e la tematica principale della sequenza. Riscontriamo poi di nuovo la tematica dell’amore. Inoltre c’è il campo semantico della metamorfosi («mutato, trasformato») che continua nella sequenza seguente. Per spiegare lo stato del corpo senza vita di Giacinto, si nota la presenza di un’ampia similitudine (vv. 190 –195), che paragona il fanciullo a un fiore spezzato, la stessa cosa in cui poi verrà trasformato. Si riscontra inoltre un ampio soliloquio di Apollo. La quarta ed ultima sequenza, narrativa, diegetica, inizia con la metamorfosi di Giacinto in fiore. La metamorfosi in questo caso è eziologia poiché spiega l’origine del fiore, il Giacinto e come mai vengano celebrate a Sparta le feste Giacinzie. La metamorfosi avviene per analogia: il colore purpureo deriva infatti dal sangue. Il campo semantico principale è quello della tristezza («AHI, tristi, lamento»), quella di Apollo per aver perduto l’amato. Narratore e focalizzazione rimangono le stesse. Piarulli Emanuele, IV D 85 34. Dipinto: “La morte di Giacinto” di B. West “La morte di Giacinto” è un quadro di Benjamin West, datato 1771, ispirato al mito raccolto nell'opera “ Le Metamorfosi” di Ovidio. Nel quadro sono ben evidenti i due personaggi principali: Apollo e Giacinto. Apollo è dipinto mentre sorregge Giacinto morente e gli accarezza la testa; il dio è riconoscibile anche se non porta i suoi tipici attributi (cetra e faretra), perché ha il capo circondato da una luce, come un'aureola, simbolo del divino. Questo indossa una stola di un rosso molto intenso che gli copre a malapena il corpo; queste vesti non sono simbolo di un'epoca specifica e stanno ad indicare l'atemporalità di questa storia. 86 Giacinto è dipinto con la testa riversa sulla spalla di Apollo che lo sorregge, ha gli occhi chiusi e le braccia abbandonate lungo i fianchi.Anche lui non indossa quasi niente, se non una veste bianca, sorretta da un nastro, che ricade sulla parte inferiore del corpo. Le vesti non sono mosse dal vento come quelle di Apollo, perché le une stanno a sottolineare la staticità della morte e, al contrario, le altre il movimento di un corpo vivo. Una differenza con quanto descritto da Ovidio ne “Le Metamorfosi” è l'assenza del sangue su Giacinto e sulla terra, elemento che nel mito prende parte alla metamorfosi, dando il colore rosso al fiore. Sul terreno appunto sono presenti il disco, che, lanciato da Apollo, ha colpito il fanciullo uccidendolo, e dei fiori, che rappresentano l'imminente trasformazione che qui però non viene rappresentata, ma che vi alludono. Nell'angolo in alto a sinistra sono presenti due amorini, che assistono alla scena e sono compartecipi del dolore di Apollo rattristandosi davanti a questa tragica scena. Morelli Beatrice, IV D 87 35. Apollo e Leucotoe Il mito è tratto dal libro IV de “Le Metamorfosi” di Ovidio, poeta latino vissuto al tempo di Augusto, che per questa opera usa la tecnica alessandrina dell’incastro, evitando la successione monotona dei miti da raccontare; facendo scaturire miti da altri e usando voci narranti diverse crea un effetto di vertigine nel lettore. Lo scopo di Ovidio, quindi, non è tanto religioso, storico o educativo, ma è quello di pura erudizione, creando nel lettore il “mirum”, ossia la meraviglia. Il mito di Leucotoe può essere diviso in tre macrosequenze: la prima narra di Apollo che, innamorato perdutamente di Leucotoe, si scorda di tutte le altre donne che vorrebbero il suo amore, come Clizia. Per quanto riguarda i campi semantici, sono due quelli che possiamo individuare: quello dell’amore, riconoscibile dalla continua ripetizione della parola stessa, che rimanda quindi alla tematica dell’amore, presente in tutta l’opera, un amore inteso come forza a cui gli dei non possono sfuggire; quello della bellezza, riconducibile alle parole “bellezza”, “bella”, un campo semantico che giustifica l’amore di Apollo verso Leucotoe. Per quanto riguarda lo stile dell’autore, abbiamo una perifrasi “figlio di Iperione”, che fa intuire il registro alto e formale usato da Ovidio, che in questa sequenza interviene parlando direttamente ad Apollo con una apostrofe nella frase: “Tu che scaldi tutte le terre…”. La voce narrante è esterna onnisciente, come del resto in tutto il brano; i personaggi qui incontrati sono Apollo, Leucotoe e Clizia, 88 introdotti dall’autore, e le dimensioni spaziale e temporale non sono specificate. La seconda macrosequenza narra di Apollo che, dopo aver preso le sembianze della madre di Leucotoe, entra nell’abitazione di questa e, eludendo le altre serve, possiede Leucotoe; Clizia, però, guidata dall’ira, dalla collera e dall’invidia, denuncia al padre di Leucotoe l’atto della figlia: così Orcamo decide di seppellire la figlia in una fossa profonda. In questa sequenza si possono riscontrare altri campi semantici, oltre a quelli analizzati prima: quello della paura e del timore, sottolineato dalle parole “paura”, “indugio”, “timore”, che rappresenta lo stato d’animo di Leucotoe, comunque timorosa nei confronti della natura reale del dio; quello della divinità, sottolineato dalle parole “dio”, “sole”, che giustificano la natura di Apollo. In questa macrosequenza avviene un travestimento temporaneo, che consiste in Apollo travestito nella madre di Leucotoe, Eurinome, un travestimento usato come espediente per attuare le intenzioni del dio. Nella sequenza, alla frase: “Io sono quello che misura il lungo anno”, il dio Apollo si presenta da sé a Leucotoe, e così la focalizzazione è interna ad Apollo e la sequenza è mista, perché mimetica e diegetica. Si possono riscontrare epiteti e perifrasi (“Sole, “Io sono quello che misura il lungo anno”). Nella terza ed ultima macrosequenza, Febo cerca in tutte le maniere di salvare Leucotoe dalla morte, ma senza successo. Decide allora di farla “rinascere” come pianta di incenso, e soprattutto di non rivolgere più lo sguardo e la parola a Clizia, 89 che, disperata per l’amore non ricambiato dal dio, smette di mangiare e bere, trasformandosi in un fiore che segue tutti gli spostamenti del Sole: il girasole. Quest’ultima macrosequenza è il momento culminante del mito, con ben due metamorfosi eziologiche, che ci spiegano l’origine della pianta d’incenso e del girasole. La metamorfosi di Clizia è descritta in modo molto abile dall’autore, che ci “proietta” delle immagini colorate e reali di questa trasformazione, e da qui si deduce l’elemento erudito. Il campo semantico nuovo che viene introdotto è quello della morte, visibile nel testo dalle parole “giacevi”, “ucciso”, “esangue”, che aggiunge tragicità al mito per una morte innocente, più che altro provocata dalle azioni di Apollo. E’ presente la parola-chiave “trasformata”, che è una parola ricorrente nell’opera. Anche in questa ultima sequenza sono presenti perifrasi come “guidatore dei cavalli alati”, che fanno notare come Ovidio non lasci mai il suo registro alto in tutto il mito: infatti per Ovidio si può parlare di “virtuosismo poetico”, proprio per questa continua ricerca della parola giusta ma soprattutto dotta, per descrivere il mondo de “Le metamorfosi” in modo unico. Per finire, anche in questa sequenza la voce narrante torna per rivolgersi non ad un personaggio, ma al lettore, per far finire gli eventi narrati che, senza il suo intervento, rimarrebbero in sospeso. Tommaseo Giordano, IV D 90 36. Dipinto: “Apollo e Leucotoe” Antoine Boizot Apollo and Leucothea , 1737 Il quadro è di Antoine Boirot; è stato dipinto nel 1771 e si intitola “Apollo e Leucotoe”. Nel quadro vengono rappresentate tre figure: due principali, poste in primo piano, raffiguranti un uomo ed una donna, e una terza figura ,quella di un amorino, posto a lato per indicare la sua minore importanza. Prendendo spunto dal titolo si può intuire che le due figure principali rappresentano il dio Apollo e la ninfa Leucotoe. La figura maschile è dipinta quasi nuda, coperta solo da un drappo, e dietro il suo volto si espande una luce dorata; questi due 91 elementi sottolineano l’appartenenza della figura alla sfera delle divinità, in particolar modo i raggi posti dietro il suo volto alludono all’immagine del sole, di cui Apollo è divinità secondo una certa interpretazione. Anche lo scettro e la corona posti ai piedi del dio ne possono enfatizzare la superiorità nei confronti della donna e degli uomini, oppure essi potrebbero simboleggiare le origini regali di Leucotoe,figlia del re degli Achemenidi. La figura femminile invece è ritratta quasi svestita ma, in questo caso, per sottolineare la futura unione e non per enfatizzare la sua divinità. Il volto della donna mostra un’espressione che fa trasparire la sua accondiscendenza; Leucotoe ha ancora nelle mani gli strumenti per la tessitura: questo particolare ci può aiutare a stabilire in che periodo avverrebbe la scena ritratta da Boirot,ovvero i momenti tra la presentazione di Apollo a Leucotoe e la successiva violenza nei confronti della ninfa. La presenza dell’amorino, suonatore di lira, può simboleggiare un’altra caratteristica di Apollo,anche divinità della musica. Inoltre il suo viso sorridente ci può aiutare a capire che nella scena ritratta non vi è violenza. Una differenza che si può notare tra il dipinto e il testo è che, se Ovidio nella propria opera enfatizza i fatti successivi all’unione tra Apollo e Leucotoe, nel quadro viene ripresa invece la scena precedente alla violenza. Pistelli Tommaso, IV D 92 37. Ciparisso Il mito di Ciparisso, tratto dal X libro de “Le Metamorfosi” di Ovidio, racconta che un giovane cacciatore di nome Ciparisso, amato da Febo Apollo un giorno durante la caccia senza rendersi conto trafisse con la sua lancia un cervo sacro alle ninfe della campagna di Cartea. Il giovane accorgendosi del suo errore decise allora di morire. Allora Apollo lo trasformò in un cipresso, albero che simboleggia la tristezza, il dolore e il lutto eterno poiché il giovane Ciparisso come ultima cosa desiderò piangere in eterno. La prima sequenza (vv.106-125) è mista perché è sia descrittiva sia narrativa dato che presenta la descrizione del cervo e delle attività abituali del giovane Ciparisso vissute assieme al cervo sacro alle ninfe della campagna di Cartea. Ciparisso era un giovane cacciatore dell’isola di Ceo, il più bello dei giovani dell’ isola, amato dal figlio di Latona, il quale si affezionò ad un cervo particolarmente mansueto poiché era sacro alle ninfe dei campi Cartei. Il cervo era solito non solo passare molto tempo con Ciparisso pascolando ma anche essere cavalcato dal giovane. In questa sequenza è presente il campo semantico dell’amore (gradito) da parte di Ciparisso e quello della sicurezza (senza timore, senza la naturale paura) da parte del cervo che non teme di essere accarezzato anche da gente ignota. Sono presenti molte tecniche narrative e espedienti stilistici che sono prova dello stile elevato di Ovidio, quali: l’apostrofe:” Ma più che ad altri era gradito a te, Ciparisso, il più bello della gente di Ceo. Tu guidavi il cervo a pascoli inusitati, alle acque delle 93 fonti limpide; tu gli intrecciavi fiori variopinti alle corna, o, standogli in groppa, lo cavalcavi con gioia qua e là mettendo alla morbida bocca freni purpurei”; il locus amoenus, quadretto topico nel quale sono stilizzati elementi della natura, infatti nel testo si può trovare al verso 122 la descrizione di un bosco e di fonti limpide; e vari epiteti ossia aggettivi esornativi per facilitare il riconoscimento del personaggio a cui si rivolge: “ grande cervo, il più bello della gente di Ceo”. La seconda sequenza (vv.126-132) è narrativa perché presenta la narrazione della vicenda. Un giorno, durante una battuta di caccia, Ciparisso credendo il cervo selvaggio lo trafisse per sbaglio con il suo giavellotto e lo uccise. Nella seguente sequenza sono presenti: il campo semantico della caccia (giavellotto), che ci fornisce un’abitudine del protagonista, quello della vista (vedendolo), che è intrecciato assieme a quello della morte (morire) e quello della sofferenza (crudele ferita, soffrire) perché Ciparisso tramite la vista vede il suo cervo che muore per colpa sua, tanto che si lascia morire. La terza ed ultima sequenza (vv.133-142) è mista perché si riscontra sia la sequenza narrativa sia quella descrittiva. Resosi conto dell’errore Ciparisso, afflitto ed inconsolabile nonostante i ripetuti tentativi di Apollo, chiese agli dei di poter essere a lutto eternamente e venne così trasformato in un albero, chiamato appunto cipresso dal suo nome, che Apollo decretò fosse da allora in poi di conforto ai defunti. Nella sequenza sono presenti il campo semantico della sofferenza (piangere per tutto il tempo, pianto immenso) e quello della metamorfosi (cominciarono a colorarsi, divennero). 94 In questo mito la metamorfosi è ascendente, perché Apollo salva il suo amato Ciparisso dalla morte, e eziologica, perché spiega che il cipresso è simbolo di dolore e tristezza tanto che è legato al lutto. Le tematiche presenti nel mito di Ciparisso sono l’amore in varie sfumature: di Apollo per il giovane, di questo ultimo per il cervo; la tematica della colpa a cui segue in questo caso l’autopunizione e la tematica del destino a cui né l’uomo né gli dei non possono sottrarsi. Come in tutti i miti di Ovidio è presente la tematica della metamorfosi, tematica unificante della sua opera. Mouhsen Ghizlane, IV C 95 Dipinto: “Ciparisso” (J. Vignali) 38. Il quadro “Ciparisso” del pittore Jacopo Vignali (1623-1625) rappresenta il giovane Ciparisso disperato per avere ucciso accidentalmente il cervo sacro alle ninfe. Al centro del dipinto è posto il giovane che, con gli occhi gonfi e rossi di lacrime, abbraccia e tiene con tenerezza la zampa del cervo esamine, colpito nel collo dalla freccia. Le corna dell’animale spuntano dietro il capo del cacciatore quasi ne facessero parte; questo elemento sottolinea il coinvolgimento del ragazzo con l’animale. 96 La sua disperazione è sottolineata anche dalle vesti strappate e dall’abbandono della faretra. La vegetazione sullo sfondo e il cervo sono volutamente dipinti con tonalità molto scure, per mettere in evidenza Ciparisso illuminato da una luce innaturale che riflette solo lui: è solo nella sua disperazione. In basso sulla destra si può notare la faretra, che indica cha Ciparisso è una cacciatore. Al collo dell’animale è legato un collare riccamente decorato e sul suo capo è posto un diadema: questi sono i simboli, riscontrabili anche in Ovidio, che sottolineano l’appartenenza del cervo alle ninfe. La differenza più rilevante con il testo di Ovidio è la mancanza del dio Apollo nella scena, il quale asseconda la richiesta di Ciparisso di piangere per tutta la vita la morte del cervo, trasformandolo in un cipresso. Le vesti strappate potrebbero rappresentare lo “strappo” all’interno della vita del giovane cacciatore per sempre segnata da questo evento drammatico; tutto ciò è accentuato dal forte contrasto della veste rossa ancora intatta con quella bianca ormai a brandelli che potrebbe rappresentare la sua anima. Marchi Carolina, IV C 97 39. Pigmalione Il mito narra l’amore di Pigmalione che non avendo compagna si innamora della propria opera, ovvero la statua di una ragazza bellissima scolpita in avorio. Il mito si conclude con la metamorfosi ascendente della statua che ogni volta che Pigmalione la sfiorava e la baciava si scaldava fino a trasformarsi in una ragazza viva. La metamorfosi inoltre è voluta dalla dea Venere che, venuto il giorno della sua festa, comprese l’amore e le preghiere di Pigmalione e fece sì che anche la statua potesse diventare vera. La prima sequenza (vv. 243-269) è narrativa perché narra di come Pigmalione si innamora della sua bellissima opera e ne riporta le caratteristiche principali. In questa sequenza si può riconoscere la tematica principale di questo mito ma anche di tutta l’opera, ovvero la tematica dell’amore. L’amore e l’innamoramento costituiscono anche uno dei campi semantici con le parole “innamoro”, “si consuma d’amore”, “la bacia”. Un altro importante campo semantico è quello della bellezza. Le parole “arte mirabile”, “candido” e la frase “tutto le sta bene , ma nuda non è meno bella” (v. 266) ne fanno parte. A proposito della bellezza abbiamo studiato che spesso fa parte dei campi semantici di questi miti perché attraverso il bell’aspetto e la bellezza nasce l’innamoramento. Ancora un altro campo semantico che vale la pena citare, perché forse è uno dei più importanti, è quello dell’illusione. Pigmalione infatti si illude che la statua possa ricambiare il suo amore. 98 Nel brano sono riportate le parole e le frasi “crederesti che sia viva”, “ragazza vera”, “carne o avorio”, “neanche allora si persuade” e “crede” ripetuto più volte. L’ultimo campo semantico che si può individuare è quello della donna e della figura femminile. “Donna” , “indole femminile” , “moglie”, “compagna”, “ragazza vera” sono infatti le parole che si ripetono nel testo. Al verso 256 notiamo un particolare uso della grammatica dove il soggetto compie e subisce l’azione (bacia ed è baciato). In questa prima sequenza la focalizzazione è zero e la voce narrante esterna. La seconda sequenza comincia con il verso 270 e si conclude con la fine di questo breve mito al verso 298. Questa sequenza inizia con la preghiera da parte di Pigmalione rivolta a Venere il giorno della sua festa, prosegue con il narrare della comprensione di Venere che decide di esaudire le preghiere ricevute dal pover’uomo e concede la metamorfosi ascendente della statua in ragazza. Si conclude con lo stupore di Pigmalione e le nozze dei due che finalmente possono ricambiare a vicenda il proprio amore. La tematica più importante è la medesima di tutto il mito e anche le parole “baciarla”, “l’innamorato”, “baci”, “oggetto del suo desiderio”, “amante” vanno a riconfermare il campo semantico dell’amore e la tematica. In questa seconda sequenza non riscontriamo più il campo semantico dell’illusione che viene sostituito da quello dello stupore e quello della stessa metamorfosi: “mentre stupisce e gode” e “temendo l’inganno” risaltano lo stupore mentre “era davvero un corpo”, “finalmente vera” e “l’avorio si ammorbidisce” confermano la metamorfosi. 99 La voce narrante e la focalizzazione rimangono rispettivamente esterna e zero ad eccezione di alcuni punti in cui è interna a Pigmalione. In questa sequenza è specificato il luogo che è aperto e il tempo, ci troviamo infatti nell’isola di Cipro il giorno della festa di Venere. Il personaggio principale è indubbiamente Pigmalione che in questo mito ha caratteristica di essere piuttosto un tipo che un individuo. Pigmalione infatti mantiene i suoi pensieri e le proprie caratteristiche all’interno di tutto l’episodio. Meneghini Beatrice, IV C 100 40. Dipinto: “Pigmalione e Galatea” Il quadro “Pigmalione e Galatea”, dipinto da Laurent Pecheux, ha come personaggi in primo piano un uomo inginocchiato e la statua di una donna senza vestiti, posizionata su un piedistallo. Il luogo dove viene rappresentata la vicenda è uno spazio piccolo e buio. L’uomo è Pigmalione, che dopo aver odiato per molto tempo le donne, e essendo rimasto scapolo per propria volontà, realizza una statua, raffigurante una donna perfetta che non può nascere in natura dalla natura, Galatea, di cui si innamora. Infatti dietro un busto, posto a lato desto della statua, si intravede l’amorino Eros, figlio di Venere, la quale darà vita alla 101 fanciulla come ringraziamento di un sacrificio fattole da Pigmalione in onore della sua festa. Il piccolo amorino dietro la statua è simbolo dell’amore che Pigmalione prova nei confronti di Galatea, dal quale nascerà poi il loro figlio Pafo. Distinguiamo la figura di Eros grazie all’arco e alle frecce che ha in mano, oggetti che lo caratterizzano. A sinistra del quadro c’è una persona, vestita di verde, che appartiene ad un’epoca moderna e che spunta da dietro una tenda e indica con un dito la statua. Nello sfondo troviamo: la statua di un uomo sdraiata a terra, il busto di una donna rappresentante probabilmente una divinità femminile, alcune tende, bianche e verdi, che fanno da divisori, e vari oggetti dell’artigianato dello scultore ai piedi della statua. Pigmalione è posto a sinistra del quadro, di fronte alla statua di Galatea, è vestito di una tunica rossa sovrastante una tunica bianca, ha un paio di sandali ai piedi e un martello in mano, oggetto che ci fa capire che Pigmalione è uno scultore. Galatea, invece, è nuda ed ha i capelli raccolti; la posizione delle braccia fa capire il tentativo della ragazza di nascondere le parti intime del corpo. La nudità della ragazza è legata allo stile scultorio dei Greci per evidenziare la bellezza esteriore e fisica di uomini e divinità. Il momento raffigurato è quello nel quale Pigmalione ha appena finito di scolpire la statua di Galatea. Modernità e classicità convivono nell’opera. Perndrecaj Mara, IV D 102 41. Mirra Il brano proposto è tratto da " Le Metamorfosi di Ovidio" . E' narrata la storia di Mirra e dell'amore che nutre nei confronti di suo padre Cinira, figlio di Pafo. Essa vieni infatti colpita dall’amore che Cupido nega di aver provocato. Mirra è confusa e pregando gli dei è prossima ad uccidersi: non è in grado di trovare un altro uomo che sia suo padre, di cui è fortemente innamorata. Quando infatti Cinira le domanda chi desiderasse per marito Mirra risponde di volere un uomo simile a lui. Perdendo totalmente il senno, Mirra durante la notte si lega ad un laccio per uccidersi, ma la nutrice sopraggiunge e la ferma, pregandola di confidarle la causa del suo dolore. La nutrice non comprende ancora, pur avendo il sospetto che si tratti di un amore. Nella prima sequenza la voce narrante si rivolge al pubblico parlando dell'origine di Mirra: il mito è intrecciato a quello di Orfeo, che diventa qui voce narrante di secondo grado come vuole la tecnica ovidiana dell’uso di varie voci quasi per disorientare il lettore e avvolgerlo. E' presente una prolessi, in quanto la voce narrante si rivolge agli ascoltatori dicendo loro di essere in procinto di raccontare fatti terribili. La seconda sequenza è prevalentemente riflessiva, le riflessioni sono introdotte con un monologo. Si riscontra un'apostrofe, poiché la voce narrante si rivolge alla fanciulla dicendole che confonde i legami di parentela. 103 La sequenza successiva è mista: narrativa e dialogata. Si riscontra il campo semantico del pianto (gli occhi si velano di gocce tiepide, piangere,le asciuga le guance). Nella quarta sequenza, narrativa, si riscontra la tematica dell’amore legato al fuoco della passione che per i Greci passava attraverso la vista facendo innamorare. Il campo semantico è quello della morte (morte,laccio,addio,cappio). La quinta sequenza è descrittiva, il campo semantico è ancora una volta quello della morte (morte, laccio) e quello della disperazione (grida, batte il petto, strappa la veste, fa a pezzi, piangere, spiaciuta) La sesta sequenza è mista, presenta infatti una parte narrativa e una dialogata. In questa sequenza sono riportate le parole della vecchia ed è presente un soliloquio. Infine, il campo semantico è quello della confidenza (confidarle, promette, segreto). Ricci Margherita, IV C 104 42. Mirra Mirra è disperata per il suo infelice amore e tenta di uccidersi; la nutrice prova a consolarla e viene a sapere dell’attrazione provata dalla ragazza verso il padre, nonostante questo la nutrice promette di aiutarla. Infatti riesce a farli unire permettendo al padre di togliere la verginità alla propria figlia durante una notte buia, dopo la quale si incontrano ancora innumerevoli volte finché il padre, una sera, deciso a conoscere l’identità della sua amante fa luce per guardarle il viso. La figlia scoperta fugge e prega gli dei di essere bandita sia dal mondo dei vivi che dei morti e viene trasformata in un albero che al posto delle lacrime della fanciulla versa Mirra. Ella era incinta e dalla dura corteccia partorisce uno splendido figlio. Il mito di Mirra si conclude con una metamorfosi eziologica discendente poiché spiega da dove proviene la mirra ed è una punizione per il delitto da lei commesso. Nel testo sono presenti le tematiche dell’amore infelice, della metamorfosi e del divieto (dato che l’unione di una figlia con il padre era considerata delittuosa). L’amore è infelice perché impossibile da realizzare a meno che il padre non sia a conoscenza dei fatti come accade durante le notti quando si incontrano con le luci spente. Mirra soffre rovinosamente per amore e sa di compiere un delitto entrando nel letto del padre, ma il suo sentimento è talmente forte da infrangere il “divieto”. Dopo una lunga fuga chiede di essere mutata per non contaminare né il mondo dei vivi né quello dei morti. 105 Tutti i campi semantici presenti nel testo come quello del pianto, dell’amore, dell’infelicità, della fuga riguardano Mirra e servono ad enfatizzare la principale tematica dell’amore infelice. Inglese Dario, IV C 106 43. Adone: la nascita Da Mirra nasce Adone che è un ragazzo bellissimo, apprezzato perfino da Venere. Un giorno il ragazzo colpisce, senza volere con una freccia che sporgeva dalla faretra la dea, che è conquistata dalla sua bellezza. Venere passa molto tempo con Adone e lo invita a cacciare animali docili e indifesi e non quelli che si possono difendere, per non rischiare di essere ucciso. Poi Cinira narra a Adone il prodigio che colpì Ippomene. Questo testo può essere diviso in due sequenze. Nella prima c’è una descrizione del protagonista, del quale viene da subito sottolineata la bellezza, e del ferimento accidentale di questo verso la dea Venere. Il registro è elevato e si riscontrano alcuni epiteti come: «Cnido pescosa; Amatunte gravida di metalli». Si possono individuare anche due tematiche principali come quella della bellezza, che è formata da parole come “bellissimo; bello; bellezza”, e quello della caccia (freccia; ferita). Nella seconda sequenza il narratore elabora una sequenza mimetica dove Cinira dà moniti sulla caccia ad Adone, mettendolo in guardia contro gli animali più pericolosi. In questa sequenza si riscontrano epiteti come: «Cespugli spinosi; cervo dalle altre corde; forti cinghiali; lupi predoni; orsi armati di artigli; setolosi cinghiali». Inoltre si riscontrano le due tematiche principali cioè quella della bellezza, individuata da parole come bellezza commosso e quella della fuga, individuata da parole come «vaga; inseguendo; scappano; fuggono». Bondi Lorenzo, IV C 107 44. Il Dipinto: “La nascita di Adone” quadro di Marcantonio Franceschini rappresenta la trasformazione di Mirra in un albero, perciò è una metamorfosi discendente ed eziologica poiché spiega la nascita della mirra. In basso a sinistra sono presenti due Amorini intenti a raccogliere le lacrime di Mirra. Al centro del quadro si trovano due Naiadi che tengono in braccio Adone. Dietro di loro a sinistra sono presenti altre due Naiadi che osservano stupite la rottura della corteccia di Mirra che ha potuto così partorire il bambino. Mirra, pur essendo la protagonista, non si trova in posizione centrale; è trasformata in albero, ma presenta ancora tratti umani come gli occhi da cui piange, il naso, la bocca e il seno. 108 Nel quadro si riscontrano alcune differenze con il mito di Ovidio: sono presenti due uomini estranei alla vicenda; nascosti dai cespugli i loro sguardi non sono rivolti né a Mirra né al bambino; le due donne sulla destra invece sembrano spettatrici della vicenda. Nel quadro, che ricrea l'atmosfera del mito, ambientato in uno spazio boschivo, tutti i personaggi sono vicini, a coppie, ad eccezione di Mirra e Adone inesorabilmente divisi dall'immobilità della madre. Bandini Filippo, IV C 109 45. Morte di Adone Ovidio nel mito narra dell’ira di Cinira nei confronti di Ippomene, che non le era stato riconoscente, e della morte di Adone in uno scontro con un cinghiale. La prima sequenza racconta della furia di Cinira a causa di Ippomene tanto che lo trasforma insieme ad Atalanta in leone. Vi sono appunto due campi semantici: dell’ira («ira, offesa, desiderio, colpevoli, affogare»)e della metamorfosi («criniere, artigli, zampe, petto, coda, ruggiti, zanne»). Vi sono inoltre molti aggettivi eruditi «nobile Echione, acqua stigia, zanne domate, madre turrita». C’è anche una focalizzazione interna a Cinira (689-696). Venere fa questa digressione per convincere Adone ad evitare di cacciare fiere selvagge. La seconda sequenza (vv. 705-716) narra dello scontro di Adone con un cinghiale e della morte dell’uomo. Di conseguenza il campo semantico è quello dello scontro («battaglia, fuga, tracce, trafisse, colpo, lancia, sangue, abbatté»). Vi sono nuovamente degli epiteti come «truce cinghiale, sabbia fulva, luogo sicuro». Inoltre, si può notare il «ma» (congiunzione avversativa) che indica il cambiamento dello svolgimento della narrazione e mette in contrapposizione il colpo di Adone con la lancia al cinghiale e il colpo del cinghiale con le zanne ad Adone. Nella terza sequenza è descritta la metamorfosi di Adone in anemone dopo la sua morte mediante i poteri di Citerea. Infatti il principale campo semantico è della metamorfosi («immagine, muterà, trasformo, mutare, nettare profumato, 110 fiore»). Vi sono due similitudini «come nel fango fulvo si formano le bolle lucenti; come il melograno che cela sotto la sua buccia duttile dei suoi grani». Queste scelte stilistiche testimoniano un registro elevato poetico. Si riscontrano di nuovo svariati aggettivi eruditi come «uccelli bianchi, fango fulvo, corpo esanime, menta fragrante, nettare profumato, bolle lucenti». La focalizzazione del brano è quasi sempre zero ad eccezione della focalizzazione interna a Venere e la voce narrante è onnisciente. Le parole chiave sono «ira, leoni, battaglia, trasformare, fiore». L’«ira» è presente in molte parti del testo ed è la causa della prima metamorfosi. I «leoni» rappresentano proprio la prima metamorfosi. La «battaglia» è simbolo di onore e di vittoria di Adone, però finisce con la sua morte. «Trasformare» è la parola che indica la metamorfosi (dal greco “metamorfów” “trasformo”). Il «fiore» rappresenta la seconda metamorfosi. La prima metamorfosi del mito è ascendente a d differenza della seconda che è discendente. Il tempo è indeterminato come sempre nel mito, lo spazio è chiuso nella prima parte del brano poiché si svolge in una grotta, in seguito è aperto perché si svolge nel bosco ed il testo si conclude con un tragico finale. Spano Davide, IV C 111 Dipinto: “Venere e Adone” 46. Il quadro ‘’Venere e Adone’’ è dipinto da Tiziano. In primo piano vediamo Adone che tiene con una mano i cani da caccia e con l’altra la faretra mentre Venere ,vestita con solo un velo bianco che gli copre il braccio sinistro e la gamba destra, abbraccia e stringe Adone per attirarlo a sé. Appoggiato ad un albero vicino alla figura di Adone si trova un arco con le frecce,oggetto con il quale accidentalmente Adone aveva colpito Venere che poi si innamora di lui. In ultimo piano si trova la figura dell’amorino che dorme con arco e frecce sotto ad un albero ed è simbolo dell’amore. Il paesaggio in cui è ambientato il quadro è un bosco con alberi e vegetazione, luogo in cui Adone va a cacciare e anche luogo della sua nascita. Il cielo è nuvoloso e si vede sbucare da una nuvola una luce che illumina un albero in ultimo piano; il cielo è il luogo di Venere, la 112 quale per l’amore nei confronti di Adone trascura il suo ruolo in esso. I colori sono cupi, prevale il colore rosso e il marrone, le figure di Venere e di Adone invece sono illuminate e si vedono chiaramente essendo i protagonisti. Inchincoli Rachele, IV D 113 47. Dipinto: “La morte di Adone” Il dipinto proposto è di Sebastiano del Piombo il quale presenta una reinterpretazione del mito “La morte di Adone” che fa parte de “Le Metamorfosi” di Ovidio. Osservando il quadro si nota in primo piano la presenza di sei figure umane prive di vesti. Esse si trovano in un bosco e accanto a quest’ultime è rappresentato un uomo sdraiato a terra. In lontananza si vede una città che si affaccia su un fiume, appartenente all’epoca del pittore. Una delle figure in primo piano è Venere che si tiene il piede destro mentre Cupido, una delle altre figure rappresentate, le indica Adone, il ragazzo in secondo piano morto a causa dell’attacco di un cinghiale. Cupido potrebbe alludere simbolicamente all’amore di Venere nei confronti di Adone. A destra di Venere si vedono tre figure femminili seminude e una figura maschile. Una delle donne rivolta verso Venere 114 le indica il personaggio maschile al margine del quadro, un’altra invece rivolta verso il personaggio maschile gli indica la dea. La scena forse allude alla diffusione della notizia. Osservando il paesaggio si nota la presenza di fiori che possono rimandare alla primavera, inoltre la presenza di colori scuri potrebbe rappresentare la tristezza per la morte di Adone. La dea infatti ha lo sguardo triste e rivolto verso il basso addolorata per la morte del ragazzo, il quale verrà poi trasformato in un fiore da lei stessa. Vezzoni Sara, IV D 115 48. Orfeo e Euridice I protagonisti del mito sono Orfeo ed Euridice che si amano ma la loro storia d’amore presto è interrotta perché la bella fanciulla muore morsa da una vipera. Orfeo dunque, disperato, giunge nell’ Ade per cercare di convincere Persefone, la moglie del dio dell’Oltretomba, a restituirgli la sua amata. Grazie anche al triste suono della lira, Persefone è mossa a compassione e decide di acconsentire alla richiesta di Orfeo dicendogli però di non voltarsi mai verso l’amata durante il tragitto. Orfeo non segue l’ordine della divinità e, dopo aver fatto una parte del percorso, si gira verso Euridice. La bella però, allo sguardo dell’amato, torna indietro verso l’Ade come aria fluttuante. Per sette giorni Orfeo piange pregando Caronte di traghettarlo dall’altra parte, ma la sua occasione era terminata. Nella prima sequenza Euridice muore morsa da un serpente ed Orfeo decide di scendere verso l’Ade per riaverla indietro. Solitamente l’autore utilizza quasi sempre gli stessi elementi narratologici: la focalizzazione per lo più è zero, la dimensione è atemporale e, a livello di spazio, tutto si svolge in Grecia. Nella prima parte della sequenza lo spazio è, come di solito nei miti, aperto, costituito da boschi e radure ma, quando Orfeo decide di intraprendere il viaggio, gli ambienti diventano a mano a mano più chiusi e lugubri. 116 Troviamo il campo semantico più importante in Ovidio, cioè quello dell’amore che introduce la tematica omonima. Troviamo poi il campo semantico della morte evidenziato dalla parola “morì”. I due concetti infatti sono intrecciati, come spesso avviene in letteratura. Nella seconda sequenza (vv. 16-39) troviamo il toccante discorso di Orfeo che cerca di convincere Persefone a rimandargli Euridice nel mondo terreno. In questo discorso si notano due importanti contrapposizioni: la prima tra la luce e l’ombra, luce che rappresenta il mondo esterno con i suoi ruscelli e i prati verdeggianti, e l’ombra, l’oscurità rappresentata dall’Ade con le sue pene e i suoi mostri. L’oscurità, oltre che dall’Ade, può essere anche identificata semplicemente con la morte e questo riconduce alla seconda contrapposizione, quella tra la vita e la morte. Orfeo, cercando Euridice, varca i confini dell’Oltretomba pur vivendo, per chiedere vita per ciò che già è morto. Un’altra tematica è quella del destino spesso ingiusto: Orfeo, infatti, asserisce, parlando con i due signori dell’Ade, che la morte della sua sposa è ingiusta poiché non viene da un giusto numero di anni di vita. Nella terza sequenza troviamo la tematica della commozione, poiché tutti coloro che ascoltano il triste canto rimangono commossi, a partire da Sisifo fino alle Eumenidi e, a seguire, Euridice viene condotta fuori. Questa tematica è riscontrata anche dal campo semantico della commozione, individuato dalle parole “piangevano, s’inumidirono, lacrime”. 117 Rilevante è in questo contesto la tematica dell’arte della musica che si riscontra nell’abilità di Orfeo a suonare la lira, abilità che gli permette di salvare la sua sposa. Abbiamo al verso 44 la figura retorica dell’apostrofe, figura retorica in cui l’autore del testo si rivolge direttamente ad un personaggio (“e tu sedesti sul sasso, Sisifo”). Nella quarta e ultima sequenza (vv. 48-83) abbiamo la triste conclusione del racconto. Dopo la raccomandazione, non rispettata, di Persefone fatta ad Orfeo di non voltarsi mai verso la sposa per guardarla durante il tragitto, Euridice risprofonda nell’Ade. Di nuovo si notano parole quali “amore e amata” appartenenti al campo semantico dell’amore e la tematica della colpa, la colpa che prova Orfeo nei confronti dell’amata per averla inviata di nuovo involontariamente nell’Oltretomba. Troviamo due similitudini (vv. 64-71) che testimoniano il linguaggio elevato che utilizzava il poeta, ricco di figure retoriche. Tutto ciò è testimoniato anche da una seconda apostrofe “e te infelice Letea” (v. 69). Abbiamo poi una parola chiave cioè “pietà”, una pietà che non è concessa due volte ad Orfeo. Anche nel mondo di oggi bisogna sapersi giocare bene le proprie possibilità perché potremmo non averne due. Si chiude il brano in contrapposizione a come si era aperto. Tutto si era aperto con il folle amore di Orfeo verso Euridice e tutto si chiude con Orfeo che, disperato, rifiuta ogni tipo di amore. Arvati Marco, IV D 118 49. Orfeo e Le Menadi Il mito tratto da “Le Metamorfosi“ di Ovidio racconta la storia di Orfeo che durante una sua esibizione viene aggredito e ucciso da alcune donne, le Menadi, perché non rispetta i riti di Dioniso non essendosi più voluto sposare dopo la morte di Euridice. La prima sequenza, di tipo narrativo, incomincia con le Menadi che si adirano con Orfeo perché con il canto della cetra trascina a sé tutte le fiere e le belve. In un primo momento se la prendono con Orfeo scagliandogli un’asta in bocca in modo che non possa più cantare, cosa che non raggiunge l’obiettivo; allora come detto al v. 22 gli tolgono «la gloria del pubblico» e si accaniscono sulle fiere che lo stavano seguendo, e poi nuovamente su Orfeo scagliandogli zolle e rami. I campi semantici sono quelli della natura selvaggia e della musica. Il tempo della sequenza è indeterminato come di solito nel mito. La seconda sequenza narrativa racconta dell’uccisone di Orfeo da parte delle Menadi (a cui si riferisce l’aggettivo sacrileghe) e del rimpianto delle fiere e della natura per lui. Il corpo di Orfeo è dilaniato: le sue membra sono sparse qua e là. Ritroviamo i campi semantici dell’abilità (attrezzi, sarchielli, rastrelli), la tematica del destino (fato) e altri campi semantici quali quello della natura selvaggia, della violenza e della musica. La cetra però prodigiosamente suona da sola e la lingua mormora. La terza ed ultima sequenza racconta la discesa dell’ombra di Orfeo nell’Ade, dove incontra ed abbraccia Euridice. In questa sequenza ritroviamo la tematica dell’amore fra Orfeo ed Euridice, con cui si era aperta tutta la vicenda. 119 Nel frattempo Bacco decide di punire le Menadi, che vengono trasformate in alberi, probabilmente viti. I campi semantici sono quello della metamorfosi e della natura (radici, rami). La metamorfosi è discendente poiché è una punizione. Barbanente Guglielmo, IV D 120 50. Dipinto: “Orfeo e Euridice” “Orfeo” di Gustave Moreau Nel quadro “Orfeo” di Gustave Moreau, in primo piano troviamo una donna che tiene una testa appoggiata su una cetra tra le mani. Probabilmente la donna è la bella Euridice, novella sposa di Orfeo, mentre la testa appartiene appunto ad Orfeo. Euridice ha una veste dai diversi colori oltre ai capelli raccolti e la sua espressione è ricca di pietà, compassione e dolore nei confronti del suo sposo. Di Orfeo invece possiamo notare solo la testa, perché in precedenza era stato massacrato dalle Menadi. 121 Egli ha i capelli gettati all’indietro e la sua espressione non lascia trapelare alcuna emozione, esattamente come una persona esanime. Questa scena si potrebbe svolgere in uno scenario infernale dato che entrambi i personaggi nel mito risultano morti e nell’Ade. Sul terreno sono presenti alcuni cespugli e dell’erba bassa; inoltre sullo sfondo si può scorgere una rupe e dietro a questa si possono intravedere alcune colline e montagne. Sulla cima della rupe si vede un uomo che suona. Prima delle colline e delle montagne si può notare anche un bosco. Per ciò che riguarda il cielo, esso ha un colore che si avvicina al giallo vicino al suolo e che diventa più scuro a mano a mano che l’altezza aumenta, proprio perché l’atmosfera non risulta reale. In primissimo piano infine si scorgono due piccole tartarughe che si incontrano: ciò potrebbe rappresentare un parallelismo con Orfeo ed Euridice che si incontrano negli Inferi dopo essere rimasti separati per lungo tempo. Forse la raffigurazione di questo incontro allude all’idea che l’amore, rappresentato da Euridice, e la poesia, rappresentata da Orfeo, si riuniscono. Del Pistoia Stefano, IV C 122 51. Il Dipinto: “Orfeo” di Gustave Courtois quadro intitolato “Orfeo” di Courtois (1875) è la rappresentazione dell’omonimo mito raccolto nell’undicesimo libro delle “Metamorfosi” di Ovidio; il mito racconta la storia di Orfeo, un poeta che, straziato dalla morte della moglie, era sceso nell’Ade per chiedere al dio dei morti e a Persefone di poter riportare la moglie nel mondo umano. Quelli, toccati dalla richiesta accompagnata dalle note della lira di Orfeo, riconsegnano la moglie al poeta a patto che quello non la guardi durante tutto il tragitto di ritorno, ma quello si volta e la donna sprofonda nuovamente nel mondo dei morti. Orfeo allora addolorato dalle due morti della moglie decide di non accettare più l’amore di nessuno, per questo una folla di donne innamorate di lui che erano state rifiutate, gli si avventa contro uccidendolo. Nel quadro abbiamo la rappresentazione di Orfeo morto, il viso dell’uomo è appoggiato sulla spiaggia bianchissima e punteggiata da conchiglie arancioni e foglie secche, sullo sfondo c’è il mare, che dà sulle sfumature più chiare del verde acqua e 123 che si perde all’orizzonte confondendosi con il cielo nuvoloso e chiaro anch’esso. Sulla spiaggia troviamo adagiata a fianco della testa di Orfeo la lira, il simbolo del poeta, bianca anche quella e che quasi confonde i suoi contorni con la sabbia. Nel dipinto il colore dominante è il bianco, che ci dà un’idea di pace e luce, nonostante che ci sia in primo piano la testa di Orfeo morto: quindi il colore bianco può essere un simbolo della pace della morte o della felicità ritrovata da Orfeo nella morte in quanto unico mezzo per poter ricongiungersi all’amata moglie. I colori chiari del disegno mettono in risalto la barba e i capelli neri dell’uomo. Il viso di Orfeo è ben caratterizzato, in testa ha una corona di foglie, con la quale erano ornati i capi dei poeti antichi, però le foglie sono secche, raffigurando così l’immagine di una gloria perduta. I capelli e la barba sono come già detto prima, neri, riferimento alle origini mediterranee di Orfeo. L’espressione sul viso non è né triste, né spaventata, né felice: l’artista ha dipinto sul volto del poeta un’espressione tranquilla e impassibile; gli occhi e le labbra sono chiusi, come se stesse dormendo e sono quindi un altro indizio per la pace di Orfeo. Il capo di Orfeo sembra sprofondare nella sabbia, simbolo anch’essa del cambiamento e del continuo mutamento del mondo, metamorfismo che si ricollega al tema centrale dell’opera di Ovidio. In conclusione, dato che Orfeo è simbolo della poesia, forse nel quadro il pittore allude all’attività poetica e dell’arte che dopo un naufragio lascia relitti e tracce per una rinascita (le conchiglie). Borraccino Sara , IV C 124 Gli elaborati sono stati prodotti dagli alunni delle classi IV C e Iv D Lavoro di Redazione: Ideazione, progettazione, correzione: prof.ssa Valentina Zocco Hanno collaborato alla raccolta e all’organizzazione del materiale dei compagni: Marchi, Baudinelli, Piarulli, Guerra, d’imporzano, pistelli, arena, morelli, Bandini, Bertani, Brozzo. Impaginazione: prof.ssa Valentina zocco