LE BUGIE DEL PENTITO, ROSARIO CATTAFI. LE SUE

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LE BUGIE DEL PENTITO, ROSARIO CATTAFI. LE SUE
LE BUGIE DEL PENTITO, ROSARIO CATTAFI. LE SUE DICHIARAZIONI CONTESTATE DA TESTIMONI E
DALLE MAPPE DEL CARCERE DI SOLLICCIANO
Panorama, 31-10-201220:50
di Anna Germoni
Al processo Mori-Obinu, imputati di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra
per la mancata cattura del boss Provenzano nell'ottobre del '95, verrà ascoltato
il dieci novembre l’avvocato barcellonese Rosario Cattafi, legato al boss Nitto
Santapaola.
Arrestato per la terza volta, l’estate scorsa e in regime di 41 bis, decide di
collaborare con la magistratura. Ascoltato dalle procure di Messina e Palermo,
la sua deposizione finisce anche, insieme al milione di carte dell'udienza
preliminare del processo sulla presunta trattativa Stato-mafia che si è
celebrato a Palermo, davanti al gup Morosini, a porte chiuse il 29 ottobre.
Cattafi dichiara di aver svolto il ruolo di "ambasciatore" per conto dell’allora
numero due del Dap, Francesco di Maggio (morto nel 1996), con cui si
incontrava spesso, per avviare contatti con Cosa nostra, in particolare con il
boss Nitto Santapaola. E lo fa anche quando era in isolamento carcerario, nelle
stanze dei direttori penitenziari, sia a Sollicciano sia a Milano. Il suo ruolo, di
intermediatore dal carcere con le Istituzioni e con la mafia, potendo
"promettere qualunque cosa a Nitto Santapaola".
Questi contatti fra il Cattafi e il Di Maggio come avvenivano? Nel verbale del 28
settembre scorso lo spiega davanti agli inquirenti della procura di Messina,
“mentre ero detenuto presso il carcere di Sollicciano, reparto isolamento,
avevo mantenuto rapporti con il dottore di Maggio, con il quale, all’interno di
quello stesso carcere, intrattenevo rapporti telefonici. Infatti, mi recavo nella
stanza del direttore, ovviamente con il suo consenso, e parlavo con Di Maggio
al telefono”.
Specificando meglio dichiara: “Mentre tornavo al carcere di Sollicciano, ho
ricevuto delle telefonate provenienti dal Ministero ed in particolare dal dottore
Di Maggio. Venivo portato nella stanza del direttore Quattrone, costui
chiamava al telefono il Ministero e mi passava il dottore Di Maggio. Non so se
Quattrone sia ancora vivo, si trattava di persona molto alta con i capelli neri e
di bell’aspetto. Il suo ufficio era al primo piano, di fronte all’ingresso avvocati.
Di Maggio anche in questo caso mi esortò ad avere contatti con Cuscunà
(Salvatore Cuscunà, boss e uomo di Nitto Santapaola n.d.r. )”.
Il dottor Paolo Maria Quattrone, non può testimoniare. E’ morto suicida a luglio
del 2010 per non aver retto l’onta di un rinvio a giudizio dalla Procura di
Cosenza, per abuso d’ufficio, in un’inchiesta su contrasti che il funzionario
aveva avuto con il direttore del carcere di Cosenza sui lavori di
ammodernamento della struttura. Provato da quel rinvio a giudizio, si sparò
una pistola alla tempia, mentre era provveditore dell’amministrazione
penitenziaria della Calabria. La famiglia Quattrone, attraverso il suo portavoce,
Mario Nasone, appena sapute le “rivelazioni” di Cattafi, ha inviato una lunga
nota in esclusiva a Panorama annunciando una querela per calunnia.
“Le parole del “neo pentito” -si legge nella missiva- sono ridicole, oltraggiose e
vergognose. Il dottor Quattrone è sempre stato un leale e integerrimo uomo di
Stato, di Giustizia e di Cultura. Ha combattuto la mafia in ogni sua forma e non
ha mai trattato con essa. Era schivo e incorruttibile. Dalla ‘ndrangheta ha
ricevuto numerose intimidazioni e attentati. Il più grave, una bomba esplosa
nella sua camera da letto, quando dirigeva il carcere di Reggio Calabria.
L’allora capo del Dap, Nicolò Amato, per salvargli la vita lo trasferì a
Sollicciano”. La nota continua, “la signora Guglielma Quattrone, ha lavorato in
quella struttura carceraria. La conosce bene. Mai permesso ad alcun recluso di
varcare la sua stanza. Impossibile anche tecnicamente, che si potesse arrivare
alla Direzione, in una palazzina lontana oltre un chilometro dalle celle
giudiziarie e penali. Un carcere tra l’altro, come quello di Sollicciano che per
architettura e per misure di sicurezza dal 1992 in poi era sotto stretta
sorveglianza, con tutte le annotazioni di servizio, come da regolamento.
Queste calunnie ignobili sono destituite di ogni fondamento. Non permettiamo
che venga infangato il suo nome, la sua integrità morale, il suo vigore delle sue
azioni istituzionali”.
Dalla planimetria della casa circondariale, a forma di giglio, simbolo di Firenze,
si può vedere che i numeri 1 e 2, sono le sezioni detentive, penali e giudiziarie,
mentre al numero 20 c’è la Direzione. Un tragitto che Cattafi, avrebbe dovuto
percorrere dalla cella di isolamento, con la compiacenza sia del dottor
Quattrone sia degli agenti penitenziari di turno.
Anche dalla mappa satellitare, si può osservare il percorso che l’avvocato
barcellonese avrebbe dovuto attraversare, dal settore detentivo in cui era
recluso in isolamento, per approdare alla stanza del dottor Quattrone.
Come mai, si è scelto un luogo così audace e super controllato come la stanza
di un direttore carcerario per tali incontri segreti? Così agevole uscire da una
cella di isolamento nell’ottobre del 1993? Il direttore se fosse stato complice di
tali episodi, raccontati dal Cattafi, avrebbe dovuto garantirsi anche la
corresponsabilità degli agenti penitenziari di turno, quali? E in che maniera il
funzionario, ottenne la “correità” al silenzio degli agenti?
Parole ferme a favore del provveditore, sono espresse anche dal
SAPPE, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria che attraverso il
segretario generale, Donato Capece, annuncia a Panorama una querela
per calunnia nei confronti di Cattafi.
“Il Sappe – afferma Capece - testimonia tutta la sua indignazione per
chi calpesta e viola il rispetto della morte, la solidità dell’onestà umana
e professionale del dottor Quattrone e dei suoi agenti penitenziari. La
serietà di un uomo di Stato non può né deve essere messa in
discussione in questa maniera così vergognosa. Questo vale anche per
i miei agenti. Quereleremo questo signore per calunnia”.
Ma Cattafi che ha riempito centinaia di pagine verbali, ha anche affermato che
“nel ’94 o ’95, mentre ero detenuto a Milano Opera, fui convocato nella stanza
del direttore, dottore Fabozzi. Una volta che venni portato lì trovai il dottore di
Maggio. Costui mi comunicò che presso il carcere di Milano Opera era o forse
sarebbe arrivato il palermitano Ugo Martello, che io non conoscevo. Di Maggio
mi disse che si trattava di un personaggio importante appartenente alla mafia
palermitana e che proveniva dal 41 bis, che era stato collocato nel mio stesso
carcere e nella mia sezione. Di Maggio mi chiese in quella occasione di recare
un messaggio preciso al Martello. Mi disse di fare amicizia”.
Il dichiarante spiega: “Martello in sostanza, doveva riferire ai palermitani che si
doveva portare avanti il discorso della dissociazione e che in cambio costoro
avrebbero ricevuto dei vantaggi da parte delle Istituzioni…Di Maggio mi disse
che ci saremmo risentiti e che se avevo bisogno di qualcosa lo dovevo
comunicare semplicemente al dott. Fabozzi”.
Il provveditore dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, Aldo
Fabozzi replica: “All’epoca non c’era il regime del 41 bis ad Opera. Di che
parliamo? Nella mia lunga esperienza professionale, mai ho permesso che un
detenuto oltrepassasse la porta carraia. Figuriamoci il resto! Inoltre il mio
ufficio era fuori dalle sezioni detentive. All’esterno. Ho conosciuto molto bene
Di Maggio. Oltre al fatto che non mi sono mai occupato come direttore di
strutture carcerarie, poi come provveditore di vicende che non mi competono,
come quelle giudiziarie, posso garantire che Di Maggio, magistrato serio, fra i
migliori, con valori istituzionali ferrei e inossidabili, mai avrebbe trattato con la
mafia, mai sceso a compressi o a semplici contatti con malavitosi. Mai avrebbe
messo in difficoltà il direttore di un istituto carcerario. Queste dichiarazioni
sono fuori da ogni logica. Un affronto alla memoria di un magistrato per bene e
alla sua intelligenza”.
Rosario Cattafi, è considerato il tesoriere della mafia. Arrestato nel 1984 in
Svizzera per associazione mafiosa e per il sequestro dell’imprenditore Giuseppe
Agrati viene prosciolto per insufficienza di prove. Furono gli stessi pm Davigo e
Di Maggio a chiedere il proscioglimento. Nell'ottobre 1993 viene di nuovo
arrestato per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti,
proprio nell'ambito dell'inchiesta sull'autoparco di via Salomone a Milano,
ritenuto il centro direzionale di Cosa nostra nel nord d’Italia, da parte della
procura di Firenze e messo in isolamento nel carcere di Sollicciano, a Firenze.
“Questo personaggio ha origini ordinoviste”, spiegò nel 1995 l’allora
procuratore della Repubblica di Firenze Pier Luigi Vigna all’Antimafia. E i militari
del Gico, “prima di far parte di Cosa Nostra, al tempo in cui frequentava
l’Università di Messina, Cattafi era un terrorista”, scrissero il 3 aprile 1996 in
un’informativa su un presunto traffico di armi a livello internazionale. Dopo una
condanna in primo grado a 11 anni e 8 mesi, di cui 4 anni scontati in carcere,
la sentenza fu annullata per un vizio procedurale. Rifatto il processo, viene
assolto perché dichiarate inutilizzabili le intercettazioni ambientali che avevano
documentato le sue frequentazioni mafiose. Anche le procure di Messina e di
La Spezia si sono occupate di lui, per un presunto traffico di armamenti
pesanti, con paesi sottoposti ad embargo. Si archiviò per mancanza di prove.
Nel 1998 sottoposto ad indagini, anche queste archiviate, da parte delle
Procure di Caltanissetta e Palermo sui cosiddetti “mandanti occulti” delle stragi
del ‘92-‘93. Il suo nome viene accostato a Totò Riina, Nitto Santapaola, a Licio
Gelli, all’ordinovista Stefano delle Chiaie e a Filippo Battaglia. Il 24 luglio
scorso, di nuovo in manette dagli inquirenti di Messina sugli affari più recenti
del clan mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto e su una serie di omicidi rimasti
insoluti.