Così parlò Bellavista

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Così parlò Bellavista
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Cosı̀ parlò Bellavista
Luciano De Crescenzo
26/12/2005
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Napoli, amore e libertà...
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c 1977 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
20 Edizioni Biblioteca Umoristica Mondadori
7 Edizioni Oscar Mondadori
I edizione Bestsellers Oscar Mondadori 1986
IV Ristampa Bestsellers Oscar Mondadori 1990
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Due parole di prefazione.
Saggistica e narrativa? Diranno che i capitoli dispari aspirano alla prima qualifica, malgrado
siano stati scritti in forma puramente discorsiva, ed i capitoli pari alla narrativa, non essendo
altro che semplici fattarielli napoletani, alcuni vissuti veramente in prima persona ed altri
raccolti dalla cronaca. Marotta e Platone le guide funzionali del libro: Marotta per i pezzi di
colore e Platone per i dialoghi tra il professore Bellavista, nella parte di Socrate, ed alcuni suoi
allievi filosofi più o meno disoccupati. Che Dio ed il lettore mi perdonino il paragone ma è
chiaro che cosı̀ dicendo io qui voglio alludere al genere e non alla qualità della cosa.
Il libro insomma, pur potendo essere letto soltanto nei suoi capitoli pari o, a secondo dell’impegno messo a disposizione dal lettore, anche in quelli dispari, si presenta in pratica come un
vecchio testo di geometria dove ai teoremi enunciati seguano gli esempi dimostrativi, in modo
che gli aneddoti napoletani riportati nei capitoli pari diventino i come volevasi dimostrare di
certe teorie filosofiche espresse dal professore nei suoi dialoghi sull’amore e sulla libertà.
L’idea di scrivere qualcosa del genere mi venne un giorno, a Milano, allorché un mio collega,
nato e vissuto per tutta la vita nel triangolo industriale, decise di andare per Pasqua a Napoli con
tutta la famiglia. La preoccupazione oggettiva di quelle che sarebbero state le sue impressioni
al primo impatto con la mia città, mi convinse a tenere, durante tutta la settimana santa, una
specie di corso propedeutico a questa spedizione lombarda nell’habitat partenopeo. Mostrai
loro le fotografie della Napoli dei vicoli, raccontai dei mestieri unici al mondo, spiegai che cosa
fosse la non-privacy e diciamo pure che finii con lo scadere nella retorica del penzamm’a salute
o del è pat’e figlie 1 (1 È padre di figli (attenuante per qualsiasi reato contro la proprietà.)). Al
loro ritorno però mi resi conto che alcune delle mie avvertenze erano risultate preziose e che
una certa benevolenza, indotta forse dai miei discorsi, li aveva predisposti ad una maggiore
comprensione verso la realtà napoletana.
Ora io so benissimo che scrivendo queste cose mi espongo subito al tiro a bersaglio della
intellighentia napoletana imperante, che individua giusto nel colore locale e nell’aneddotica del
cielo azzurro il più grande nemico della città di Napoli, ma è proprio per non incorrere in
una accusa del genere che io chiedo al lettore frettoloso di non fermarsi ai primi quattro o
cinque capitoli e di leggere il libro, sempre che gli riesca gradevole, fino alla fine; e alla fine,
come in un qualsiasi giallo che si rispetti, troverà una completa ed esauriente spiegazione della
cosa (proprio nell’ultimo capitolo).
La letteratura napoletana contemporanea si è mossa a periodi alterni: dalla seconda metà
del secolo scorso fino ai nostri anni quaranta ha sfornato una generosa messe di poeti, di
musicisti e di pittori, dando al mondo quella immagine di Napoli che noi tutti ben conosciamo:
Chist’è ‘o paese d’ ‘o sole dice la canzone chist’è ‘o paese d’ ‘o mare, chist’è ‘o paese addò
tutt’ ‘e pparole, sò ddoce o sò amare, sò ssempe parole d’ammore. Unica nota stonata in
questo concerto di mandolini un meraviglioso libretto di Matilde Serao Il ventre di Napoli,
la cui lettura non mi stancherò mai di raccomandare a tutti quelli che vogliono veramente capire
Napoli. Dal dopoguerra in poi invece gli ordini letterari improvvisamente subivano un’inversione
di rotta: guai a parlare di mare, di sole e di cuore napoletano! Cominciando da Malaparte e
finendo a Luigi Compagnone, Anna Maria Ortese, Domenico Rea, Raffaele La Capria, Vittorio
Viviani e compagnia cantando, il desiderio di togliere il trucco con il quale per tanti anni era
stato imbellettato il volto della nostra città ha fatto sı̀ che insieme ai cosmetici è stata tolta
forse anche la pelle del viso di un popolo che, pur senza mandolini e chitarre, continuava in ogni
caso ad avere una propria fisionomia caratteristica. Vero è che proprio in questo dopoguerra il
consumismo ha amplificato il cattivo gusto della massa, per cui, mentre il marinaio scalzo delle
vecchie oleografie napoletane dell’Ottocento si era fatto giustamente amare dai poeti dell’epoca,
il suo postero, con i jeans, gli stivaletti a punta, il borsello e la radio a transistor messa a tutto
volume, non ha ingenerato purtroppo analoghi consensi. Anche in questo periodo comunque,
una sola nota stonata: quella di don Peppino Marotta, il pittore della penna stilografica, che
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poeticamente continuò a descrivere la sua Napoli, la sua Materdei, il suo Pallonetto a Santa
Lucia, con la tenerezza di sempre.
A questo punto però io vorrei tentare di esprimere un concetto: Napoli per me non è la città
di Napoli ma solo una componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone,
siano esse napoletane o no. Ciò che io contesto con tutte le mie forze è la consequenzialità
presunta tra napoletanità ed ignoranza popolare. In parole povere io mi rifiuto di credere
che non sia possibile migliorare le condizioni di vita di un popolo senza dover forzatamente
rinunciare ai contenuti umani della sua maniera di essere. A volte penso addirittura che Napoli
possa essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana.
È ovvio che anche tutti quegli altri signori, da me prima nominati, hanno amato ed amano
Napoli con tutta l’anima: dalla Serao alla Ortese, da Rea a Compagnone. Ma desiderare
che il dialetto possa sparire perché questa specie di esorcismo riesca a favorire un migliore
inserimento dei napoletani nella realtà politica del paese, equivale a mio avviso ad uccidere per
troppo amore. Ragionando in tal senso allora non vedo perché non passare direttamente alla
lingua inglese, dal momento che l’unico contesto politico ed economico oggi ancora valido non
è più quello italiano ma quello europeo. Salvatore Palomba, sensibile poeta napoletano e mio
amico, giorni fa mi leggeva a tale proposito questi meravigliosi versi siciliani di Ignazio Buttitta:
Un populu
mittitulu a catina
spugghiatilu
attuppatici a vucca
è ancora libiru
Livatici u travagghiu
u passaportu
a tavula unni mancia
u lettu unni dormi
è ancora riccu
Un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrobbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempi.
La voglia di scrivere questa mia cosa direttamente in dialetto e nel contempo il desiderio
di essere capito soprattutto dai miei amici non napoletani, mi ha portato quindi ad usare un
particolare metodo di lavoro: ho recitato in dialetto tutti i testi davanti ad un registratore e
successivamente ho tradotto pazientemente, parola per parola, i vocaboli napoletani nei propri
corrispettivi in lingua in modo che tutti i dialoghi conservassero una loro sintassi dialettale.
Il lettore che vorrà entrare maggiormente nell’atmosfera locale dovrebbe cortesemente cercare di leggere il testo imitando nel suo pensiero l’accento napoletano.
Bene, a questo punto lascio la parola al professore Bellavista, al vicesostituto portiere Salvatore ed a Saverio che nella vita vera si chiama Gennarino Auriemma, non ha un lavoro fisso
ed è, come dice lui, sempre a disposizione.
Roma ottobre 1976.
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Capitolo 1
Salvatore
A Napoli ognuno vive in una inebriata dimenticanza di sè.
Accade lo stesso anche per me. Mi riconosco appena
e mi sembra di essere del tutto un altro uomo.
Ieri pensavo: “O eri folle prima, o lo sei adesso”.
wolfgang goethe, Viaggio in Italia.
Portineria di Via Petrarca 58. Seduti intorno ad un tavolo siamo io, il vicesostituto portiere
Salvatore Coppola, il dottor Passalacqua (III piano prima porta a sinistra) ed un signore sconosciuto che essendo venuto poco prima a chiedere informazioni su di un appartamento libero,
ha deciso di trattenersi.
Insomma ma allora voi di politica non ne capite proprio niente! dice Salvatore Coppola,
vicesostituto portiere. E che avete studiato a fare?
Ma che c’entra lo studio ribatto io ognuno ha le sue idee politiche, ed è giusto che le
abbia, però deve anche rispettare le idee degli altri.
Ma carissimo ingegnere, qua non si tratta di idee politiche, qua bisogna inquadrare il
problema dal punto di vista internazionale! continua Salvatore. Voi dovete farvi capace che
tutti noi napoletani dobbiamo forzosamente votare compatti per il Partito Comunista Italiano
e che, immediatamente dopo, dobbiamo uscire dalla NATO e stringere un patto d’alleanza con
la Russia.
Ma perché Salvatò dice Passalacqua tu sei convinto che la Russia sia più forte dell’America?
Ma a me che me ne importa se è più forte l’America o la Russia, dottò, questo a me non
interessa. Andiamo al sodo. Andiamo alla sostanza e vediamo invece che fine facciamo noi se
scoppia una terza guerra mondiale e ci fanno prigionieri e cosi dicendo Salvatore alza tutte
e due le braccia in segno di resa. Dunque, scoppia la terza guerra mondiale, ora, se noi ci
siamo alleati con l’America, da chi veniamo fatti prigionieri? Dalla Russia, no? Correggetemi
se sbaglio. Ebbene io vi dico che noi napoletani i prigionieri in Russia non li possiamo fare.
Ma che stiamo scherzando: in “primis” non siamo abituati al clima rigido della Siberia che
è freddo, ma freddo veramente, in “secundis” non ci abbiamo l’equipaggiamento necessario.
Insomma, dottò, in parole povere, Ci puzzeremmo (sta per moriremmo.) dal santissimo freddo.
Ora, diversa è la situazione se invece ci mettiamo con la Russia. E sı̀ perché in questo caso
veniamo fatti prigionieri automaticamente dagli americani e mandati subito in America. E là,
con l’aiuto di Dio e con un poco di commercio, uno si potrebbe pure imparare la lingua, che
poi, siccome da cosa nasce cosa, vuoi vedere che facendo facendo la guerra ci troviamo pure un
buon posto?
E se siamo fatti prigionieri dai cinesi? chiede il signore venuto per l’appartamento.
Peggio che andare di notte, dottore mio! Quelli i cinesi mangiano una schifezza. Immaginate che cosa passerebbero a noi poveri prigionieri: sı̀ e no una palla di riso al giorno. Aè!
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CAPITOLO 1. SALVATORE
E come volete che io, Coppola Salvatore, con la fame che mi ritrovo, posso campare con una
palla di riso al giorno?
Salvatore Coppola è vicesostituto portiere nel senso che il condominio di Via Petrarca 58
già possiede un portiere titolare, don Armando, ed un suo sostituto portiere nella persona
di Ferdinando Amodio, figura mitologica avente la parte superiore umana e la parte inferiore
costituita da una sedia. A scanso di equivoci Ferdinando è sanissimo, pur tuttavia non ricordo
di averlo visto mai in piedi. Non si alza nemmeno a Natale per chiedere la mancia. Vi chiama
lui.
Don Armando invece è semplicemente un signore, come ama definirsi, domiciliato gratuitamente in Via Petrarca 58, piano terra, interno 1. E ad ogni nuovo inquilino, fin dal primo
giorno, don Armando spiega la sua particolare situazione:
Vedete dottore, io sono e non sono il portiere di questo palazzo: e adesso ve lo spiego. Nella
vita purtroppo non ho mai avuto fortuna: nato da una famiglia di signori (mio nonno modestamente non lavorava e papà era ragioniere all’acquedotto) campavamo tutti dignitosamente,
anche perché tenevamo tre case di proprietà al Borgo Loreto. Sennonché un brutto giorno mio
nonno fece amicizia con un avvocato causaiuolo e da quel momento cominciarono ad entrare
e a uscire da casa nostra citazioni e carte bollate, insomma per farvela breve in pochissimo
tempo io detti addio al nonno, a papà e a tutte le case di proprietà. Ora veniamo a noi, nella
vita il sottoscritto ha avuto sempre un solo desiderio: venire a vivere in Via Petrarca ed in
posizione panoramica. Ma ditemi voi: come poteva un povero dio come me, senza la croce di
un centesimo, esaudire questo suo desiderio? E mi ero già rassegnato a chiudere questa vita
di miserie in due camere a Via Nuova Bagnoli 17, dove giorno e notte mi zucavo (sorbivo) il
fumo dell’Ilva, quando improvvisamente capita la grande occasione: posto di portiere in Via
Petrarca 58, stipendio e casa gratuita, finestra lato mare! Dice ma tu poi devi fare il portiere.
E va bene, vuol dire che faremo il portiere. Dice ma tu poi devi scendere la scala sociale. E
scendiamola questa scala sociale! Dottò ma che me ne fotte a me di scendere la scala sociale, se
io qua, quando mi siedo vicino alla finestra e mi guardo Capri ed il Vesuvio, mi sento Cavaliere
del Lavoro, ma che dico Cavaliere del Lavoro, Presidente della Repubblica mi sento! Ora per
quanto riguarda poi il servizio di portierato ho volontariamente rinunziato a parte dello stipendio in favore di Amodio Ferdinando che mi sostituisce nell’incombenza. Professionalmente
parlando, Ferdinando è il meglio portiere che ci abbiamo a Napoli: lui il posto sotto il portone
non l’abbandona mai, state sicuro che qualsiasi cosa succede, Ferdinando la sta, immobile a
sorvegliare.
Data la staticità costituzionale di Ferdinando, le mansioni dinamiche della funzione sono
state quindi affidate al vice sostituto portiere Coppola Salvatore che per questo percepisce parte
della parte dello stipendio di don Armando.
È lo stesso Ferdinando che quasi a scagionarsi me ne spiega il motivo:
Voi capite ingegnè, datosi che sono scapolo e non ho moglie a me le scale chi me le lavava?
A questo punto non commettiamo l’errore di domandarci come riescono a mantenersi in
vita con un solo stipendio di portiere tre individui adulti di cui due con famiglia. È un secolo
che più di un milione di napoletani sopravvive con poche migliaia di stipendi e con compensi
variabili aggiuntivi raggiungibili attraverso una produzione quotidiana di servizi di fantasia.
I nostri sullodati portieri ad esempio godono di una specie di diritto fiscale su qualsiasi evento
venga a cadere nell’area condominiale di loro competenza. Quindi: sostituzioni di cameriere,
lavori artigianali eseguiti nel palazzo da terzi, compravendite di immobili, auto usate, mogli
e motoscafi, informazioni intime e commerciali, tutto contribuisce al sostentamento dei tre
capifamiglia, che peraltro giustificano ampiamente le tangenti ricevute dimostrando in ciascun
settore una eccezionale competenza.
Tanto per dare un’idea, Ferdinando percepisce una competenza mensile fissa per fingere di
dormire quando passa l’amante timida dell’architetto Scalese.
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E va bene dice il dottor Passalacqua e allora adesso per fare contento Salvatore andiamo
tutti a votare Partito Comunista Italiano, cosi Salvatore in caso di guerra può andare a fare il
prigioniero a Miami Beach.
Ma che c’entra, io prima ho voluto fare solo una battuta, il fatto vero è che voi, carissimo dottore, siete un poco allergico alla parola comunista e come sentite comunista subito vi
appicciate. Ecco questa è la verità dottò: come sentite comunista subito vi appicciate.
Salvatò io già un’altra volta te l’ho detto che con te di politica mi rifiuto di parlare risponde Passalacqua.
E per forza, voi siete un aristocratico liberale e siccome io rappresento il popolo, voi con
il popolo non ci volete parlare.
Invece tu il popolo lo ami. Non è vero Salvatò?
Diciamo che non ne sono propriamente innamorato, però sicuramente lo rispetto più di
voi liberali.
Salvatore bello, la verità è che voi comunisti dite di amare il popolo ed invece secondo me
altro non sapete fare che odiare i ricchi.
E no dottore mio, scusate se vi contraddico, adesso figuratevi se con tutto il da fare che
tengo dalla mattina alla sera per guadagnarmi un poco di pane, mo’ mi metto pure ad odiare.
Ecco la demagogia, ecco la demagogia!
Dove sta? chiede Salvatore guardandosi intorno. Salvatore sa benissimo cos’è la demagogia, sennonché si diverte a recitare la parte di quello che non lo sa.
Dove sta che cosa? chiede Passalacqua.
La cosa che avete detto voi.
Salvatò, ho detto la demagogia perché voi comunisti questo sapete dire: un poco di pane,
un tozzo di pane, pane e lavoro e via discorrendo.
E allora che dovrei dire? Che io mò mi lavo ogni giorno cinque piani di scale per un poco
di aragosta!
Salvatò, a prescindere che tu le scale non le lavi mai, nemmeno una volta al mese, e che
il V piano non sai neanche come è fatto, io volevo dire che i comunisti sono sempre pronti a
cantare il solito ritornello: quello del popolo che si muore di fame. Oggi Salvatò, guardiamoci
bene in faccia, qua in Italia non si muore più di fame nessuno.
A voi liberali invece piacerebbe incontrare per strada ogni tanto qualche morto.
Salvatò, siamo seri. Io sono un tecnico e credo nei numeri, credo nella statistica. Tu sai
che cosa è la statistica?
Approssimativamente, datosi che non ho mai esagerato nello studio. Dunque dottò se ho
ben capito, correggetemi se sbaglio, supponendo che mi mettessero con il didietro in un forno
e con la testa in un frigorifero, io dovrei dire di stare statisticamente bene.
Risata generale di tutti i presenti. Ormai la platea è aumentata di numero. A Napoli
si forma per germinazione spontanea, senza bisogno di inviti particolari. La partecipazione è
imparziale ed i consensi vanno elargiti più per l’abilita degli oratori che non per le loro idee.
Salvatore è comunista e sostiene di aver partecipato alle quattro giornate di Napoli, malgrado
che in quell’epoca avesse solo otto anni. Passalacqua invece si qualifica liberale, pur essendo
inconsciamente monarchico-fascista, però in senso buono
Salvatò, ti voglio bene ma tu mi devi seguire si spazientisce il dottor Passalacqua qua
stiamo cercando di fare un discorso costruttivo e tu m’interrompi per fare dello spirito.
Ma che dice la statistica dottò? chiede il signore dell’appartamento.
Dunque la statistica, la statistica dice che l’Italia ha un reddito procapite, che poi sarebbe
come dire a testa, di 1.100.000 lire all’anno per abitante, e che quindi l’Italia è una delle nazioni
più ricche del mondo.
Dottore illustrissimo, dice Salvatore alzandosi sull’attenti ed inchinandosi a ringraziare
vi ringrazio per avermi fatto sapere che io, in qualità di cittadino italiano, sono uno degli
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CAPITOLO 1. SALVATORE
uomini più ricchi del mondo e vi giuro quanto è certo Iddio che non me ne ero proprio accorto,
anche perché momentaneamente, nelle vesti di vicesostituto portiere, guadagno solo 30.000 lire
al mese, gentilmente concesse dal mio datore di lavoro Ferdinando Amodio, che sta seduto qua
fuori e che mi sente. Però giustamente voi mi ricordate che in compenso ci sta don Giovannino
Agnelli che si alza un miliardo al mese e che quindi statisticamente stiamo tutti a posto: io,
Agnelli e Ferdinando.
Ecco qua e io qua ti volevo! grida esultante il dottor Passalacqua. Lo sapevo che avresti
tirato in ballo la sperequazione del reddito, ma se hai un poco di pazienza, carissimo Salvatore,
alla fine dovrai darmi ragione. Dunque la statistica, la statistica dice pure che in Italia si
consumano per mangiare ogni giorno 3200 calorie per abitante, mentre per vivere, e vivere
bene, ne bastano anche 2700. E qua non mi puoi più venire a raccontare che don Giovannino
Agnelli si siede a tavola a mezzogiorno e si scende 800 o 900 mila calorie: sı̀ siamo d’accordo
che mangerà caviale, aragoste, quello che cacchio vuoi tu, ma sempre uno stomaco come il tuo
dovrà riempire. E allora dovrai convenire che, se la statistica dice che in Italia si consumano
3200 calorie a testa al giorno, qualcuno queste calorie se le deve pure mangiare e che quindi in
Italia non si muore più di fame nessuno.
Vedete dottò, voi avete la laurea e siete informato meglio di me su tutti questi numeri. Io
non mi permetterei mai di dire che ve li state inventando in questo momento, però che vi debbo
rispondere? se le cose stanno come avete detto voi e allora vuol dire che quelle 3200 calorie
mie sono la schifezza della schifezza delle calorie consumate in Italia. E sı̀, perché altrimenti
non si spiegherebbe come io ogni sera quando mi vado a coricare resto sempre con un poco di
appetito.
La statistica, la statistica dice ancora continua imperterrito il dottor Passalacqua che siccome in Italia circolano quasi quindici milioni di autoveicoli, ogni famiglia italiana mediamente
tiene la macchina.
Ed io mediamente non la tengo risponde Salvatore.
Anche in questo caso non mi puoi venire a raccontare che don Giovannino Agnelli, quando
esce per fare la spesa e va a comperarsi quelle novecentomila calorie di cui ha bisogno per farsi
uno spuntino a mezzogiorno, se ne esce con diecimila automobili una dietro l’altra
Il guaio è, dottore stimatissimo, che voi misurate tutto ad automobili e panzarotti (crocchette di patate).
Il guaio è, Salvatore egregio, che a te piace piangere come le gatte sui tetti, che come ben
sai piangono e fanno all’amore contemporaneamente
E va bene, allora vuol dire che da questo momento non piangerò più. Farò il vicesostituto
portiere senza diritto al lamento.
Ebbè mannaggia la morte! Io quando parlo con i comunisti mi attacco sempre i nervi dice
il dottor Passalacqua rivolgendosi ai presenti per avere comprensione. Vi giuro che vorrei essere
il padrone del mondo per cinque minuti solamente! Direi: tu Coppola Salvatore che dici? Che
il comunismo è una bella cosa? Ti piace la Russia? Ti piace la Cina? Ed io ti voglio fare
contento. Piglio e ti faccio vivere in Cina, vuol dire che prendo un cinese che si è scocciato della
Cina e lo mando a Napoli al posto tuo.
E qua ci manca solo il vicesostituto portiere cinese e poi siamo a posto.
Insomma io voglio dire questo, che prima di dire: “viva Mao! Viva il comunismo!” uno lo
dovrebbe provare questo comunismo dice Passalacqua.
Ed io sono d’accordo con voi risponde Salvatore. Finora abbiamo provato il fascismo e
la democrazia cristiana, proviamo un poco anche il comunismo e poi dopo ne parliamo.
Il guaio è che se poi non ci piace questo comunismo non è che possiamo dire: “Scusate
tanto ma abbiamo scherzato, vogliamo tornare alla democrazia” dice Passalacqua. Ma dico
io, immaginatevi per un momento che io non fossi ancora nato: ecco qua, sono un nascituro
al nono mese di gestazione e mi trovo ancora nella pancia di mamma mia in attesa di nascere,
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quando improvvisamente viene un angelo e mi dice: “Dottor Passalacqua, siete atteso dal
Padreterno che vi vuole parlare un momento.
Ma come? Voi eravate già dottore prima di nascere?
Il Padreterno mi guarda e dice: “Passalacqua adesso tu devi nascere e siccome mi sei
simpatico dimmi in quale paese del mondo vorresti vivere ed io là ti faccio nascere”, io allora,
tutto contento, penso: ma tu guarda che bella cosa, adesso veramente mi scelgo un paese con
tutte le comodità. Dunque vediamo un poco: scartiamo subito l’Asia, quelli in Asia stanno
sempre a fare una guerra, Medio Oriente, Estremo Oriente, Corea, Vietnam, non trovano mai
pace, ogni tanto qualcuno li invade e quello che è peggio è che ogni tanto qualcuno li vuole pure
liberare.
Effettivamente dice Salvatore dobbiamo ammettere che l’Asia è un poco scalognata.
E allora nasciamo in Africa, il continente misterioso e affascinante che però pensandoci
bene ha un grosso difetto.
E quale sarebbe questo difetto? Che fa caldo?
No, ha l’indipendenza. E già perché prima gli stati africani erano tutte colonie, poi giustamente i democratici di tutto il mondo hanno detto: ma che schifezza queste colonie! A morte
i colonialisti! L’indipendenza ai popoli negri! E ce l’hanno data l’indipendenza. E adesso, da
quando sono diventati indipendenti, i poveri africani si stanno scannando l’uno con l’altro in
mille guerre civili e con mille colpi di stato. È come se io dicessi a mio figlio Lucariello che tiene
quattro anni: “Lucariè, sei un uomo libero, fai quello che vuoi tu”. E poi dopo mi meraviglio
che è andato a finire sotto a una automobile.
E va bene dice uno dei presenti. Scartiamo pure l’Africa.
Ma c’è l’America continua Passalacqua. Gli Stati Uniti d’America! Il paese più ricco
del mondo, tanto ricco che aiuta tutti i paesi poveri, e non solo li aiuta economicamente, ma se
vengono attaccati dai comunisti subito si mette a fare una bella guerra a casa loro per poterli
liberare. Sono diventati i difensori ufficiali del pianeta Terra. Ora, se siete tutti d’accordo, io
direi di scartare pure l’America.
E qua vi do ragione interviene Salvatore. Quelli gli Americani si dovrebbero fare un
poco di più i fatti loro.
Quindi alla fine, scartando scartando, siamo arrivati all’Europa, ed esaminiamo per prima
l’Europa comunista: come si vive in Russia effettivamente nessuno lo sa, chi dice una cosa e
chi ne dice un’altra, la mia modesta opinione è che tanto bene non si deve stare.
E perché?
E sı̀, perché adesso vi spiego: in primo luogo ogni tanto debbono alzarsi molto presto
la mattina e mettersi tutti in fila per partecipare a delle colossali parate popolari, e allora voi
vedete tutti questi poveretti sfilare per la Piazza Rossa portando certi cartelli enormi, che chissà
quanto debbono pesare, con le fotografie di Lenin e Carlo Marx. Poi i loro capi, ogni qualvolta
che s’incontrano, si debbono sempre baciare sulla bocca, uomini ed uomini, e questo è un fatto
che a me impedirebbe di fare qualsiasi carriera politica.
Che schifezza! il commento è di Ferdinando, che pur non essendo seduto fra noi, non
perde una battuta della conversazione.
Non ci resta quindi che l’Europa Occidentale: Inghilterra, Svezia, Germania, Francia. A
questo punto, anche per una ragione di clima, io preferirei l’Italia e per paura di finire a Milano
specificherei: Italia del Sud. Infine, proprio per essere sicuro e sempre se non fosse di molto
disturbo, chiederei di nascere a Napoli. E dopo che Nostro Signore mi ha fatto contento e mi ha
fatto il piacere di farmi nascere proprio a Napoli io che faccio? Piglio e mi metto a contestare?
Applausi della platea. Il signore dell’appartamento si alza e va a stringere la mano al dottor
Passalacqua.
E va bene dice Salvatore. Ammetto che mi avete convinto e che in Italia si sta benissimo
e che Napoli è il migliore paese del mondo. Sono stato contento anche di sapere che in Italia
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CAPITOLO 1. SALVATORE
tutti mangiamo in abbondanza, però, con il vostro permesso, mi permetto di farvi osservare
solo una cosa: che sı̀, sissignore, noi napoletani mangiamo ogni sera, ma il guaio è che, fino
all’ultimo non ne siamo sicuri ed è questa incertezza che ci preoccupa.
Capitolo 2
Il bello addormentato
Il cavaliere Sgueglia è una persona precisa; ha quarantasei anni, è scapolo ed unitamente alla
sorella, signora Rosa Sgueglia sposata Gallucci, tiene un negozio di colori e ferramenta in via
Torretta 282 a pochi passi dalla stazione di Mergellina. Come vi dicevo prima, il cavaliere
Sgueglia è una persona precisa: da circa venti anni, ovvero dalla morte del padre buonanima,
esce tutte le mattine alle otto e venti da casa, prende un caffè e una brioche da Fontana e alle
nove in punto alza la saracinesca del negozio alla Torretta. Donna Rosa arriva con comodo per
via del fatto che la mattina prima di uscire deve avviare un marito al Comune e tre figli, tre
scatenati, alla scuola professionale.
Arriva e si siede alla cassa, un occhio ai clienti ed un altro ai guagliuni per evitare che si
fottano tutto il negozio. Mio fratello è troppo buono, dice, e non ha capito che oggi, con i prezzi
che sono saliti alle stelle, perdere una chiave inglese significa dare un saluto a cinquemila lire.
All’una il cavaliere non esce, abbassa solo la saracinesca quasi fino a terra, poi donna Rosa gli
prepara un primo sul fornellino nel retrobottega e subito scappa a casa per sfamare i suoi
quattro morti di fame, e cioè i figli ed il marito, mentre invece il cavaliere, puveriello, si fa una
mezzoretta di sonno su di una brandina in mezzo a buatte (barattoli) di vernici, rubinetterie
rotoli di rete metallica.
La sera alle otto precise il cavaliere chiude il negozio e si avvia nel traffico di via Posillipo
dove, dopo una ventina di minuti, appena passata piazza San Luigi, si ferma in una traversa
scura, un vicolo cieco, parcheggia la macchina, una millecento Fiat bicolore con i sedili ribaltabili
che da quattro anni che la tiene si e no ci ha fatto diecimila chilometri, e si ritira a casa. Una
cena semplicissima, quasi sempre la stessa e che ovviamente si prepara da solo, un poco di
televisione e poi a letto: Madonna mia grazie per oggi e per domani pensaci tu e poi Padre
Figliuolo e Spirito Santo e cosı̀ sia.
Ora voi a questo punto direte ma che storia è questa! E a noi che ce ne importa del cavaliere
Sgueglia che è preciso? Eh no vi dico io! La precisione del cavaliere è determinante per il fatto
che vi sto per raccontare. E già perché dovete sapere che questa giornata tipo del cavaliere
Sgueglia è sempre stata cosı̀, senza alcuna variazione da quasi venti anni: mai una sera al
cinema, che so io, da un amico, da un parente. Non visita e non riceve. Solo la domenica, tutte
le domeniche all’una, va a pranzo dalla sorella: la Messa, le paste da Fontana, due babà una
zuppetta inglese uno sciù e due sfogliatelle, Il Mattino, tre scope mano a mano (velocemente a
tu per tu) col cognato mentre donna Rosa prepara in cucina e poi di nuovo a casa: novantesimo
minuto, il secondo tempo della partita, Carosello e la domenica sportiva.
Ma veniamo a noi: giovedı̀ scorso verso l’una e mezza di notte, quando stava ancora al primo
sonno, il cavaliere viene svegliato dallo squillo continuo del telefono. Ma chi sarà a quest’ora?
Si alza e va a rispondere con la certezza della brutta notizia ed infatti apprende dal cognato
che la sorella, cioè donna Rosa, si era sentita male: aveva avuto terribili dolori di pancia ed
il marito l’aveva portata all’ospedale Loreto da dove telefonava e dove con ogni probabilità,
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CAPITOLO 2. IL BELLO ADDORMENTATO
appena fosse venuto il Professore, sarebbe stata operata di appendicite.
Il cavaliere dice solo quando mi vesto e vengo e sempre mezzo stonato (rintronato) dal
sonno si veste alla meglio, esce di casa, scende nel vialetto dove ha lasciato la millecento, e
non la trova. Anzi per essere precisi proprio al posto dove ha lasciato la sua macchina trova
un’altra macchina, coperta da un telone scuro. Il cavaliere, che non ha ancora ripreso tutte
le sue facoltà logiche, ci gira prima intorno e poi, cautamente, alza un lembo del telone e lı̀,
con massimo stupore, si accorge che, Gesù ma stessi sognando, sotto al telone c’era proprio la
macchina sua e che nella macchina dormiva tranquillamente un uomo. Erano quasi tre anni che
Gennaro Esposito, disoccupato, tutte le sere alle undici e mezza si ritirava nella millecento del
cavaliere Sgueglia. Ed approfittando della regolarità delle abitudini del cavaliere, Gennaro non
si limitava a ribaltare i sedili e a riposarsi, ma, aperta una grande valigia che poi custodiva nel
bagagliaio, tirava fuori tutto il necessario per prepararsi il letto: cuscino, coperte, lenzuola e
sveglia sul cruscotto. La sveglia veniva messa alle sei e mezza perché a Gennaro piaceva essere
mattiniero, si alzava ed iniziava la messa a punto degli interni della vettura. Aveva con sè
persino uno scopettino per spazzolare eventuali tracce della sua presenza. Bè diciamo la verità:
qualcosa la lasciava nella macchina ed era il proprio odore personale, ma ormai dopo tanti anni
il cavaliere a quell’odore di Gennaro Esposito ci si era abituato e fin dall’inizio lo aveva preso
per un odore FIAT.
Ma torniamo alla nostra famosa notte: avevamo lasciato il cavaliere ammutolito dalla sorpresa in contemplazione di Gennaro Esposito, disoccupato e senza fissa dimora. O Dio, senza
fissa dimora, si fa per dire, perché in effetti Gennaro una fissa dimora ce l’aveva ed era la millecento Fiat del cavaliere Sgueglia targata NA294082. Realizzato il fatto, il cavaliere, al massimo
dello stupore, sveglia con un urlo Gennaro che ancora più stupito di lui giustamente gli chiede:
Cavaliè, e voi che fate a quest’ora in mezzo alla strada?
Quella mia sorella si è sentita male e l’hanno portata all’ospedale Loreto
Ma chi? Donna Rosa? E che si è sentita?
Ma voi chi siete? Che fate nella macchina mia? Chi vi ha...
Cavaliè, e mò adesso non state a pensare a chi sono io, piuttosto ditemi che sto in pensiero:
donna Rosa come sta? Che si sente?
Ma non ho capito bene, pare che si tratta di appendicite, ma voi chi siete e chi vi ha dato
il permesso di...
Cavaliere bello, e adesso non vi mettete a perdere tempo per sapere chi sono e chi non
sono! Voi non vi dovete preoccupare per me, ho solo approfittato qualche volta della vostra
cortesia; piuttosto pensiamo a donna Rosa che non si sente bene, dove avete detto che l’hanno
portata?
All’ospedale Loreto.
Benissimo, mò vi accompagno.
Ma come mi accompagnate, io non capisco.
Cavaliè, voi adesso vi sentite un poco confuso ed io vi capisco: lo sbattimento, vi hanno
svegliato in mezzo al sonno e poi giustamente state in pensiero. Ma mò non vi preoccupate,
che qua ci sta Gennaro vostro che non vi lascia. Io consentitemi, mi sento di famiglia.
Come di famiglia?
E sı̀, cavaliere mio, io vi DEBBO accompagnare!
Il cavaliere e Gennaro passarono la notte insieme all’ospedale Loreto. Gennaro fu di grande
conforto e il cavaliere lo presentò come un coinquilino di via Posillipo. Insieme scelsero il
chirurgo a cui affidare l’appendice di donna Rosa ed insieme attesero trepidanti la felice conclusione dell’intervento. Salutandosi il cavaliere si fece promettere sui fantomatici figli dichiarati
da Gennaro che mai più avrebbe utilizzato la sua macchina come camera da letto. Comunque,
ad ogni buon conto e malgrado i solenni giuramenti, il cavaliere adesso si è venduto la millecento
e si è comprato un coupè.
Capitolo 3
Saverio
Una città, una campagna, da lontano,
sono una città o una campagna;
ma quanto più ci avviciniamo
sono case, alberi, tegole, foglie, erba,
formiche, zampe di formiche, all’infinito.
Tutto questo viene compreso
sotto il nome di campagna.
blaise pascal, Pensieri , n. 60.
Ma voi il professore Bellavista lo conoscete?
Veramente non ho il piacere.
Gesù Gesù, ma come: un appassionato di Napoli come VOI che non conosce il professore
Bellavista! E quello il professore conosce Napoli dentro e fuori! Ve la pitta! Ve la ricama!
Ingegnè, senza voler fare mancamento (senza volervi sminuire) a voi, il professor Bellavista
quando non ha bevuto è capace di rispondere a qualsiasi domanda storica e geografica sulla
città. Una volta lo volevamo mandare a Lascia o Raddoppia, ma lui poi non ci è voluto andare
perché gli stava antipatica la televisione.
Ma di che cosa è professore?
È professore di filosofia ma adesso sta in pensione, e poi tiene pure tre quartini (appartamentini) alla Riviera di Chiaia oltre alla casa di proprietà sulla scesa di Sant’Antonio dove abita
insieme alla moglie signora Maria e alla figlia signorina Patrizia che poi invece si chiamerebbe
Aspasia, ma che cosı̀ la chiama solo il professore anche perché la signorina Patrizia non vuole.
Ah, è sposato?
Per modo di dire ingegnè, perché veramente il professore non frequenta molto la famiglia.
Diciamo che vivono nella stessa casa ma non si parlano datosi che lui è uomo e loro sono
femmine. Il professore dice che non sa parlare la lingua femminile.
Deve essere proprio un tipo interessante.
Altroché e se non è interessante, qua ci sta pure Saverio che ve lo può confermare. Savè,
dici all’ingegnere, è interessante o no il professore Bella- vista?
Santopezzullo Saverio a servirvi risponde il nuovo venuto.
Voi dicendo interessante
volete alludere al professor Bellavista? E allora non avete reso l’idea. Il professore è un autentico
pozzo di scienza e quando dice una cosa è Cassazione. Senza mancare di rispetto all’ingegnere
qua presente, il professore parla come un libro stampato ed è un vero piacere starlo a sentire.
Io vi dico la verità non mi stancherei mai di sentirlo parlare, anche se veramente non capisco
quasi mai niente di quello che dice, ma questo non significa perché là il difetto è mio che non
ho studiato quando ero guaglione, che papà me lo diceva sempre e adesso che volete non sono
all’altezza della conversazione.
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CAPITOLO 3. SAVERIO
La verità precisa Salvatore è che a don Saverio nostro piace o’ bicchieriello e vino e’
Lettere (il bicchiere di vino di Lettere, vino rosso locale della zona di Gragnano) ed il professore
non ce lo fa mai mancare.
E se è per questo quando entra la stagione mi piace pure prendermi il poco di fresco fuori
alla loggetella, con il mare davanti e col profumo dei ciclamini.
E già perché noi quando è d’estate e andiamo dal professore, ci mettiamo a parlare fuori
al terrazzino, lui parla e noi beviamo, e ci facciamo pure il percuoco (la pesca gialla) a fette nel
vino.
Ha detto il professore che cosı̀ faceva pure Socrate nel secolo scorso.
Statte zitto Savè.
E quando possiamo andare da questo professore?
Quando vogliamo noi, ma è meglio evitare oggi perché è giovedı̀: la signora il giovedı̀ fa la
canasta ed il professore si chiude nella stanza da bagno tutta la giornata.
E sta tutta la giornata nella stanza da bagno?
Ma quella ingegnè non è una stanza da bagno come ve la immaginate voi.
Un bagno
cosı̀ non lo teneva nemmeno la buonanima di Sua Maestà Vittorio Emanuele III! La casa del
professore è una di quelle vecchie case napoletane, con le camere grandi grandi come si facevano
una volta. Allora il professore, datosi che ci piace di stare molto tempo nel cesso con decenza
parlando, ha pensato bene di prendere una di queste camere e ci ha fatto mettere i tubi ed
il cesso, con decenza parlando, la vasca da bagno e il bidè. Insomma, per usare la parola del
professore, ha creato una stanza da bagno e da pensiero, e poi ci ha messo pure la musica
stereofonica, che lui se la sente sempre anche quando sta seduto sul cesso, sempre con decenza
parlando.
E i quadri, ingegnè! aggiunge Saverio. Quadri di autore con la targhetta dove si legge il
nome e il cognome del pittore! E lui li ha appesi nel gabinetto. È venuta una stanza da bagno,
ingegnere mio, cosı̀ bella che io ce lo dico sempre: “Ma perché invece di stare nel salotto, uno
di questi giorni non facciamo una bella festa e mangiamo tutti qua dentro?”
Dice il professore che l’umanità si divide in quelli che si fanno la doccia e in quelli che si
fanno il bagno.
Veramente interrompe Saverio ci sono pure quelli che non si fanno né la doccia né il
bagno.
Statte zitto Savè, dunque vi dicevo che secondo il professore l’uomo produttivo, il milanese,
preferisce la doccia: consuma meno acqua, meno tempo e si lava meglio. Il napoletano invece,
se si decide, preferisce il bagno: s’intallea come si dice a Napoli, cioè si attarda e tiene tutto il
tempo che vuole per pensare, e già perché se ci riflettete un momento, per poter pensare, voi
dovete stare contemporaneamente comodo e solo, ora in casa c’è sempre qualcuno che vi dà
fastidio e che vi chiama o per una cosa o per un’altra. Nella stanza da bagno invece no: uno si
chiude dentro, si sdraia nella vasca e aspetta che l’acqua diventa fredda.
A questo punto dico io mi avete fatto venire proprio la curiosità di conoscere il professore.
Che facciamo gli telefoniamo?
È inutile, tanto lui il professore al telefono non risponde e la moglie a noi non ci può tanto
vedere.
Invece sapete che vi dico ingegnè? dice Saverio. Noi ci andiamo e zitto. Ci andiamo
dopodomani che è sabato e cosı̀ vi facciamo conoscere pure a Luigino che è il nostro poeta di
casa come dice il professore.
E chi è Luigino?
Luigino risponde Salvatore è il bibliotecario del barone di Sanmarzano dove abita pure.
Veramente oggi il barone la biblioteca non ce l’ha più perché se l’è dovuta vendere per bisogno
a certi torinesi che tenevano i soldi, però siccome intanto si era affezionato a Luigino, se l’è
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tenuto in casa e Luigino gli tiene compagnia tutta la settimana tranne la domenica quando il
barone va a trovare la baronessa madre.
Il barone dice Saverio non tiene figli e noi speriamo tutti nell’eredità.
Ma perché lo chiamate il poeta?
Perché dice Salvatore quando Luigino parla voi vi scordate tutti i guai che tenete.
A me dice Saverio le parlate di Luigino mi fanno pensare sempre al mio primo amore: a
Del Vecchio Assuntina quando teneva diciott’anni, causa prima ed unica del mio attuale stato
di sottodisoccupato, e già perché io lavoro alle dipendenze di don Alfonso o’ barrese (di Barra),
carpentiere edilizio, attualmente disoccupato. Su gli occhi dei figli miei che non li dovessi vedere
questa sera, io se non fosse stato per Del Vecchio Assuntina a diciotto anni a quest’ora avrei una
posizione che mi fidavo di dire. Voi carissimo ingegnere dovete sapere che mio zio Ferdinando,
fratello di mammà, mi voleva portare con lui a Londra in Inghilterra a fare l’aiuto pizzaiuolo,
che dice che non ci vuole niente a imparare a fare le pizze, ma siccome, mannaggia alla capa
mia, al cuore come si dice non si comanda, io mi infessii di Del Vecchio Assuntina a diciott’anni
e zio Ferdinando le pizze se le dovette fare tutte da solo.
E di Del Vecchio Assuntina, che accadde?
E che doveva accadere? È diventata la mia signora, ma non ha più nessuna rassomiglianza
con quella Del Vecchio Assuntina a diciott’anni che quando camminava per Via Caracciolo mi
costringeva a prendere a paccheri (a schiaffi) borghesi e militari in divisa che si voltavano a
guardare.
Dice il professore aggiunge Salvatore che nel caso di Saverio ci sono gli estremi per fare
causa alla moglie per raggiro e chiedere pure il risarcimento dei danni.
E la vincerei ingegnè, mi basterebbe portare la fotografia di Del Vecchio Assuntina a
diciott’anni.
Non lo date retta ingegnè, che quello Saverio è ancora innamorato della moglie e lei lo tiene
sotto al pacchero (lo tiene in stato di soggezione), lui dice di no per far piacere al professore
ma la verità è che tengono tre figli e che se non fosse per la signora Assuntina che fa la sarta a
domicilio non so proprio come farebbero ad andare avanti.
E sı̀: la sarta ed i tre figli. Vita comune e senza sale, ingegnere mio! dice sospirando
Saverio. Ma che ne potete sapere voi di quello che mi sarebbe successo a me a Londra in
Inghilterra insieme a zio Ferdinando? Io là avrei imparato l’inglese e di me si sarebbero innamorate tutte le ragazze inglesi, che io modestamente senza voler fare mancamento ai presenti
nell’arte amatoria ho sempre detto la mia, e quindi facilmente sarebbe accaduto che una ricca
miss inglese si sarebbe accorta di me e sarebbe venuta ogni giorno a farsi una pizza da zio
Ferdinando. E fatti una pizza oggi e fatti una pizza domani, la miss si sarebbe innamorata
del sottoscritto. Saverio mio, Saverio qua, Saverio là, e mi avrebbe sposato. Una volta in
possesso della pezza (denaro) mi sarei dato al cinema e da cosa nasce cosa sarei finito ad Olliud
e qui a Napoli mi avrebbero rivisto solo sui cartelloni dei cinema: “Ultimo tango a Parigi” con
Santopezzullo Saverio e Maria Scenaidèr.
Savè lo interrompe Salvatore e quanta fesserie che ti sei fidato di dire! A te nell”’Ultimo
Tango” il massimo che ti facevano fare era la controfigura di Maria Scenaidèr nella scena
principale.
Ma voi l’avete visto “Ultimo tango”?
No, ma ne abbiamo sentito parlare.
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CAPITOLO 3. SAVERIO
Capitolo 4
Storia di una contravvenzione
Dottò abbiamo preso la multa! mi dice con tono rassegnato il tassista.
Che volete dire con “abbiamo preso la multa”? Che l’ho presa pure io?
Ebbè mi pare evidente.
Veramente non capisco. Allora secondo voi, vi sembra normale che chi guida commette
l’infrazione e chi sta seduto dietro deve pagare la multa?
E no dottò, perdonatemi, ma adesso state sbagliando siamo giusti! Voi prima dite “Andate
di fretta” e poi non ne volete pagare le conseguenze.
Ma quale fretta?! E che c’entra la fretta?!
E come che c’entra? Voi come mi avete detto quando siete, salito alla stazione? “Andate
di fretta agli aliscafi per Capri”. Avete detto cosı̀, sı̀ o no?
Sentite, a prescindere che io ho detto solo “Agli aliscafi per Capri, ma quando anche avessi
aggiunto “di fretta”, fino a prova contraria il responsabile dell’automezzo siete solo voi
E già ma a me che me ne importava di passare con il rosso? Se l’ho fatto è per farvi un
piacere e per farvi arrivare prima agli aliscafi. Vuoi vedere adesso che invece di guadagnare,
quando lavoro, ci debbo pure rimettere?
Un’altra volta non passavate con il rosso.
Io veramente sono passato con il giallo, io! Voi non lo so. Comunque adesso sta venendo
la guardia e cosı̀ vediamo che dice.
Ma che deve dire, scusate? Che se il conducente passa con il rosso, viene ritirata la patente
al passeggero?
Non lo so, adesso vediamo.
Il vigile si avvicina con lentezza, saluta militarmente dice:
Patente e libretto di circolazione.
Scusate signora guardia, dice il mio tassista mentre tira fuori i documenti richiesti adesso
voi siete una persona che lavora, no? Tutto il giorno qua in mezzo, piove o non piove. Io pure
lavoro, il signore invece va a Capri. Ora secondo voi, chi deve pagare la multa?
Mah! dice ridendo la guardia. Se il signore vuole contribuire spontaneamente, io non
ci trovo niente da dire.
Ma che contribuire e contribuire! Io non tiro fuori una lira.
Veramente dice uno dei tanti spettatori che attorniano il nostro taxi il signore ha ragione.
La multa la paga il conducente però il signore deve anche capire che dopo gli deve dare una
mancia adeguata per risarcirlo del danno subito.
Quello è padre di figli! aggiunge una vecchietta infilando la testa nel finestrino del taxi.
è uscito per vedere come si può abbuscare (guadagnare) una mille lire e adesso non se la può
spendere tutta insieme per pagare la multa al signore che deve andare a Capri.
Signora guardia, dice il mio tassista uscendo dal taxi per parlare meglio con il vigile
pensate che prima di affittare ho fatto tre ore di fila a piazza Garibaldi e che quando ho visto
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CAPITOLO 4. STORIA DI UNA CONTRAVVENZIONE
il signore io mi credevo che era straniero, che se sapevo che era napoletano e pure un poco
tirato di mano, io non lo facevo nemmeno salire...
Sentite, dico io guardando l’orologio o mi accompagnate o me ne vado. Io qua perdo
l’aliscafo.
Lo vedete che andate di fretta! dice trionfante il tassista.
E va bene dice il vigile. Per questa volta andate pure. Però ricordatevi che la prossima
volta mi pagate questo e quello. Quando uno si va a divertire non deve andare mai di fretta,
se no che divertimento è.
Fu cosı̀ che il mio taxi si avviò in mezzo ad una folla sorridente e soddisfatta.
Meno male dottò che è finito tutto bene mi dice il tassista all’arrivo. Vi giuro però su
quella cara immagine, che se la guardia vi faceva pagare la contravvenzione, a me mi sarebbe
veramente dispiaciuto.
Quant’è? chiedo laconicamente mentre scendo dal taxi
Fate voi. . . Capitolo 5
Il professore
Viene suonno da lo cielo
viene e adduorme sto Nennillo
pe pietà ca è piccerillo
viene suonno e non tardà.
Gioia bella de sto core
vorria suonno addeventare
doce doce pe te fare
st’uocchie belle addormentà.
s. alfonso de liguori, Pastorale.
Eccoci qua professò, come state? dice Salvatore entrando in casa Bellavista. Vi abbiamo
portato l’ingegner De Crescenzo che è un grande scienziato napoletano: pare che sia quello che
ha inventato i cervelli elettronici americani.
Ma quando mai? dico io cercando d’interrompere la presentazione di Salvatore. Non
sono uno scienziato e non ho inventato proprio niente.
Non lo state a sentire professò dice imperterrito Saverio.
Che quello l’ingegnere è
modesto: pare che quando si è preso la laurea è arrivato un ordine categorico dall’America di
assumerlo a qualsiasi prezzo prima che se lo potesse pigliare qualche nazione nemica.
Ma santo Iddio! protesto. Ma come fate ad inventarvi tutte queste fesserie e tutte in
una volta?
Ma lasciateli dire ingegnè mi dice sorridendo il professor Bellavista stringendomi la mano. Lasciateli dire. Le vogliono bene ed hanno bisogno di dimostrarglielo. Lei poi tutto
sommato ha anche la sua parte di colpa. E già, perché se si fosse limitato a diventare solo
geometra, l’avrebbero chiamata ingegnere e sarebbero stati tutti contenti, ma, dal momento
che lei ingegnere lo è veramente, un poveretto che vuole dimostrarle stima e simpatia come la
deve chiamare? Almeno scienziato.
Professò, mentre voi vi accomodate posso andare a prendere il vino?
Bravo Saverio tu sai dove sta. Vallo a prendere e fatti dare pure i bicchieri dalla signora.
Ma aspetta un momento perché forse l’ingegnere qua preferisce un caffè.
No grazie, veramente prenderei anch’io il vino di Lettere di cui mi ha parlato tanto bene
Saverio.
E fa bene, perché a dire la verità il caffè della signora non è mai stato una cosa importante.
Bè si sa, il caffè fatto in casa non è mai come quello che si prende al bar.
No, questo non è sempre vero ribatte il professore Se viene fatto con amore il caffè può
diventare buonissimo Veda: quello il caffè da dentro alla caffettiera lo sente se c’è simpatia tra
chi lo sta facendo e chi se lo deve bere.
Assuntina mia lo fa una schifezza! dice Saverio entrando con le bottiglie di vino e con i
bicchieri.
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CAPITOLO 5. IL PROFESSORE
Lei deve sapere, carissimo ingegnere, che il caffè non è propriamente un liquido, ma è come
dire una cosa di mezzo tra un liquido ed un aeriforme, insomma una cosa che non appena entra
a contatto con il palato sublima, ed invece di scendere sale, sale, vi entra nel cervello e là resta
quasi a tenervi compagnia, e cosı̀ succede che uno per ore ed ore lavora e pensa: ma che bellu’
cafè ca me so pigliato stamattina.
Noi invece, dico io nei nostri uffici non andiamo quasi più al bar, abbiamo su ogni piano
dell’ufficio delle macchine distributrici automatiche dove mettendo cento lire e premendo un
bottone si può avere a piacere il caffè oppure il cappuccino, con o senza zucchero.
Macchine americane, è vero ingegnè? chiede Salvatore.
No, rispondo io ridendo al massimo milanesi
Milanesi o americane, ribatte il professore appartengono alla stessa razza, alla razza cioè
di quelli che credono che il caffè sia una bevanda che si beve. Gesù, ma vi rendete conto che
questa faccenda della macchinetta automatica del caffè è una cosa molto grave!? È un’offesa ai
sentimenti dell’individuo, robba da fare appello alla commissione per i diritti dell’uomo.
Va bene ma adesso non esageriamo.
E chi esagera. Egregio ingegnere lei ha il dovere di protestare e di spiegare ai suoi superiori
che quando un cristiano sente il desiderio di prendere un caffè, non è perché vuole bere un caffè,
ma perché ha avvertito il bisogno di entrare di nuovo in contatto con l’umanità, e quindi deve
interrompere il lavoro che sta facendo, invitare uno o più colleghi ad andare a prendersi il
caffè insieme, camminare al sole fino al bar preferito, vincere una piccola gara con annessa
colluttazione per chi offre i suddetti caffè, fare un complimento alla cassiera, due chiacchiere
sportive con il barista ed il tutto senza dare alcuna istruzione sul tipo di caffè preferito, dal
momento che un vero barista deve già conoscere il gusto del suo cliente. Tutto ciò è rito, è
religione, e lei non me lo può sostituire con una macchinetta che da una parte si ingoia le
cento lire e dall’altra mi versa un liquido anonimo e inodore! Ma s’immagina lei se adesso per
farsi la comunione, invece di andare in chiesa, il Vaticano avesse messo in tutti gli uffici una
macchinetta automatica? Il fedele si avvicina, s’inginocchia, mette cento lire e si confessa con
un registratore, poi si alza, si inginocchia dall’altra parte, mette un’altra cento lire, ed una mano
meccanica gli mette l’ostia in bocca, il tutto dopo aver scelto su di un juke-box incorporato un
canto gregoriano o l’Avemaria di Schubert.
Ha ragione il professore dice Salvatore. Quello il caffè si deve bere con rispetto, con
devozione: io mi ricordo che una volta il mio barista di Materdei mi fece una cancheriata
(sgridata) solo perché io mentre bevevo il caffè mi stavo leggendo Sport Sud. Mi disse: “Ma
che fate, vi distraete?”
La porta dice Saverio sentendo un campanello squillare. Questo sarà Luigino, vado ad
aprire.
Entra Luigino. Presentazione e saluti. Saverio va a prendere una poltroncina per Luigino
ed un bicchiere di vino per se.
Luigino bello, come stai? dice il professore. è tutta la settimana che non ti sei fatto
vedere.
E già perché questa settimana abbiamo avuto molto da fare, martedı̀ ci è venuto a trovare
il professor Buonanno, quello del Conservatorio che suona il violino. Il professore Buonanno è
tanto amico del barone e di tanto in tanto ci viene a suonare qualcosa, ma vi dico a voi, questa
volta ha superato se stesso; ad un certo momento ha suonato una cosa di Bach, che io adesso
non ricordo propriamente che cosa fosse, ma quello che è certo è che era una cosa bella proprio
bella. Il fatto è che poi la casa del barone, da quando ci siamo venduti quasi tutti i mobili, è
diventata, come dire, più grande, sempre più grande e sempre più eguale a una chiesa, tanto che
il suono del violino si sentiva benissimo. Certe volte riempiva di armonia tutta la casa e certe
volte invece diventava sottile sottile che noi non respiravamo nemmeno per paura di spezzarlo
e cosı̀ ci sono venuti i brividi pure dentro ai capelli.
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Luigino, chiede Saverio ma questo professore non potrebbe venire qualche volta qua per
farci sentire qualcosa?
Bè, ce lo potrei chiedere.
Sı̀ però bisogna fare presto perché il nostro ingegnere si trattiene a Napoli solo per le feste
di Natale.
A proposito di Natale, io e il barone abbiamo cominciato la a fare il presepe come tutti gli
anni e ci sono voluti due giorni solo per aprire tutte le scatole dei pastori, levare la polvere ed
incollare con la colla di pesce braccia e gambe spezzate.
Il presepe dice il professore per noi napoletani è una cosa veramente importante, lei
ingegnere scusi preferisce il presepe o l’albero di Natale?
Il presepe, ovviamente.
E ne sono contento per lei mi dice il professore stringendomi la mano. Veda, gli esseri
umani si dividono in presepisti ed alberisti e questa è una conseguenza della suddivisione del
mondo in mondo d’amore e mondo di libertà ma questo è un discorso lungo che potremo fare
un’altra volta, oggi invece vi vorrei parlare del presepe e dei presepisti
Forza professò dice Salvatore. Parlateci del presepe che qua stanno i ragazzi vostri!
Dunque , come vi dicevo, la suddivisione in presepisti ed alberisti è tanto importante che,
secondo me, dovrebbe comparire sui documenti d’identità come il sesso ed il gruppo sanguigno.
E già per forza, perché altrimenti un povero dio rischierebbe di scoprire solo a matrimonio
avvenuto di essersi unito con un cristiano di tendenze natalizie diverse. Adesso sembra che
io esageri, eppure è cosı̀: l’alberista si serve per vivere di una scala di valori completamente
diversa da quella del presepista. Il primo tiene in gran conto la Forma, il Denaro e il Potere; il
secondo invece pone ai primi posti l’Amore e la Poesia.
Noi qua in questa casa dice Saverio, siamo tutti presepisti, è vero professò?
No, non tutti.
Mia moglie e mia figlia, ad esempio, come quasi tutte le donne, sono
alberiste.
Ad Assuntina piace l’albero di Natale dice sottovoce Saverio.
Tra le due categorie non ci può essere colloquio, uno parla e l’altro non capisce. La moglie
vede che il marito fa il presepe e dice: “Ma perché invece di appuzzolentire tutta casa con la
colla di pesce, il presepe non lo vai a comprare già bello e fatto all’UPIM?”. Il marito non
risponde. E già perché all’UPIM si può comprare l’albero di Natale che è bello solo quando è
finito e quando si possono accendere le luci, il presepe invece no, il presepe è bello quando lo fai
o addirittura quando lo pensi: “Adesso viene Natale e facciamo il presepe. Quelli a cui piace
l’albero di Natale sono solo dei consumisti, il presepista invece, bravo o non bravo, diventa
creatore ed il suo vangelo è “Natale in casa Cupiello”.
Io l’ho visto professò e mi ricordo di quando Eduardo dice: “Il presebbio l’ho fatto tutto
da solo e contrastato dalla famiglia”.
I pastori continua Bellavista. Debbono essere quelli di creta, fatti a mano, un poco brutti
e soprattutto nati a San Gregorio Armeno, nel cuore di Napoli, e non quelli di plastica che si
vendono all’UPIM, e che sembrano finti; i pastori debbono essere quelli degli anni precedenti e
non fa niente se sono quasi tutti un poco scassati, l’importante è che il capofamiglia li conosca
per nome uno per uno, e sappia raccontare per ogni pastore nu bello fattariello: “Questo è
Benito che non teneva voglia di lavorare e che dormiva sempre questo è il padre di Benito che
pascolava le pecore sopra alla montagna e questo è il pastore della meraviglia” e a mano a mano
che i pastori escono dalla scatola, c’è la presentazione. Il padre presenta i pastori ai figli più
piccoli, che cosı̀ ogni anno, quando viene Natale, li possono riconoscere e li possono voler bene
come a persone di famiglia. Personaggi della vita, anche se storicamente inaccettabili come ‘O
monaco e ‘O cacciatore c’o fucile.
Professò, po’ ce sta ‘o cuoco, ‘a tavulella cu’ e’ ddoie coppie assettate, ‘o mellunaro, o’
verdummaro, chille ca venne ‘e castagne, ‘o canteniere, ‘o chianchiere (Il cuoco, la tavola con
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CAPITOLO 5. IL PROFESSORE
le due coppie sedute, il venditore di cocomeri, il verdumaio, quello che vende le castagne, il
vinaio, il macellaio).
Ebbè, dice Salvatore a pure a quell’epoca si doveva faticare fino a notte tarda per poter
campare
E poi ci sta ‘a lavannara (la lavandaia), continua Saverio ‘o pastore che porta ‘e pullastre,
‘o piscatore che pesca overamente nell’acqua vera che scende da dentro all’enteroclisma messo
dietro al presepe.
Papà mio, dice Luigino, quelli un poco scassati li riusciva sempre a mettere in maniera
tale che poi nessuno si accorgeva se tenevano un braccio o una gamba di meno; mi diceva:
“Luigı̀, adesso papà trova una posizione strategica per questo povero pastoriello che ha perduto
una coscia”, e lo piazzava dietro a una siepe o dietro a un muretto, e poi mi ricordo che avevamo
un pastore che ogni anno si perdeva qualche pezzo, tanto che alla fine ci rimase solo la testa e
papà la piazzò dietro a una finestrella di una casetta. Papà le casette le faceva con le scatole
delle medicine e poi dentro ci metteva la luce, e quando, durante l’anno, io mi dovevo prendere
una medicina, per esempio uno sciroppo che non mi piaceva, allora lui prendeva lo scatolino
e mi diceva: “Luigı̀, questo scatolo ce lo conserviamo per quando viene Natale, che cosi ne
facciamo una bella casetta per il presepio, tu però bell’ ‘e papà devi finire prima la medicina
che ci sta dentro, se no papà la casarella come la fa?”
E poi, quando veniva la mezzanotte, continua Salvatore ci mettevamo tutti in processione e giravamo per tutta la casa cantando “Tu scendi dalle stelle”. Il più piccolo della famiglia
avanti con il bambino Gesù, e tutti quanti dietro con una candela accesa tra le mani.
O’ presepe! L’addore (odore) d’a colla ‘e pesce, ‘o suvero (il sughero) pe fa ‘e muntagne,
‘a farina pe fa ‘a neve...
Capitolo 6
Zorro
Caramanna Antonio a servirvi. Biglietti omaggio non ce ne sono, il presidente è uscito e non
si sa quando torna.
Grazie, dico io ma non sono venuto per un biglietto omaggio. Sono qui per raccogliere
informazioni sui tifosi napoletani e siccome mi hanno detto che voi avete una lunga esperienza
in proposito, vorrei pregarvi, sempre se avete una mezz’oretta a disposizione, di raccontarmi
qualcosa sul Napoli.
Lunga esperienza dite voi? Mio caro signore il sottoscritto ha l’onore di servire il Calcio
Napoli dai tempi dell’Arenaccia: Sentimenti Pretto e Berra, Milano Fabbro e Gramaglia, Busani
Cappellini Barrera Quario e Rosellini. Poi, dopo la guerra, ci trasferimmo al Vomero allo
stadio della Liberazione che oggi si chiama stadio Collana e finalmente, come voi vedete, al San
Paolo, dove svolgo le funzioni di responsabile del servizio d’ordine contro portoghesi, fetienti e
teddy-boy.
Ci sono molti portoghesi?
Nelle partite veramente importanti possiamo arrivare fino a undicimila persone che entrano
senza pagare. Ovviamente in questo conto io ci metto dentro sia i portoghesi veri e propri, cioè
quelli che trovano un sistema illegale per entrare, sia i possessori di tessere o biglietti omaggio.
Comunque, se la cosa v’interessa, fate conto che in ogni partita ci sono quattromila spettatori
muniti di biglietto omaggio e tessere varie, tremila biglietti falsi e quattromila invasori. Ed è
contro questo esercito di undicimila persone che il sottoscritto Caramanna Antonio, alla testa
di un manipolo di prodi, ingaggia una domenica sı̀ e una domenica no una furiosa battaglia.
Ma perché date tanti biglietti omaggio?
Perché a Napoli il biglietto omaggio è un titolo onorifico, un attestato di appartenenza
ad una razza superiore. Voi dovreste stare all’ingresso per vedere l’aria di superiorità con la
quale il titolare di una tessera omaggio esibisce la medesima all’addetto ai cancelli. Quando
un napoletano vi dice: “Io alla partita non ho mai pagato” è come se vi dicesse che so io: “I
miei antenati sono stati alle Crociate”. Insomma, in altre parole, se uno a Napoli è costretto
a pagare il biglietto significa che è un fallito, che non conosce proprio nessuno e che non conta
proprio niente.
Ed i portoghesi veri e propri?
Bè quelli dobbiamo dividerli in due categorie: ci sono i portoghesi che entrano di forza e
quelli che entrano di destrezza. I primi veramente sono quelli che ci danno meno pensieri: basta
disporre bene la forza pubblica, creare una doppia barriera alle entrate e controllare i muri di
cinta. Gli invasori di destrezza sono invece i più pericolosi; una ne fanno e cento ne pensano.
Se venite domenica prossima alla partita ve ne faccio conoscere uno che vale per cento: Zorro,
Zorro?
Sissignore, si chiama cosi perché riesce a entrare sempre gratis e poi quando finisce la
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CAPITOLO 6. ZORRO
partita se ne viene da me e, col pugno chiuso e con l’altra mano sull’avambraccio, mi fa con
decenza parlando il segno di Zorro.
E come fa a entrare? chiedo ridendo.
Sempre in una maniera diversa dottò. Secondo me Zorro passa la settimana a studiare come
deve fare per entrare gratis la domenica. Dice che se Papillon è stato il maestro dell’evasione
lui è il maestro dell’invasione.
Raccontatemi qualche episodio.
Zorro è figlio d’arte. Il padre si segnalò clamorosamente al pubblico napoletano in occasione
di una drammatica partita: Napoli-Bologna, tre a tre, allo stadio della Liberazione. Invasione di
campo e partita persa a tavolino per due a zero. Il Napoli aveva dominato sennonché l’arbitro,
inviato da Milano con il preciso scopo di far perdere il Napoli, perché voi dovete sapere che io
sono obiettivo però tutti gli arbitri italiani hanno sempre danneggiato la squadra del Napoli
che per questo fatto non ha mai vinto lo scudetto, speriamo l’anno venturo, dunque vi stavo
dicendo che l’arbitro alla fine piglia e dà un rigore contro il Napoli. Successe Montevergine.
Invasione di campo, mazzate di morte e campo semidistrutto. L’arbitro e i due guardalinee
presero una fuiarella (fuga precipitosa) e si chiusero negli spogliatoi, strenuamente difesi dalla
forza pubblica e dagli addetti al senizio. La folla dei tifosi diventò sempre più minacciosa e
si accalcò fuori agli spogliatoi gridando e facendo i morti alla terna arbitrale. A questo punto
compare il padre di Zorro: si unisce alle forze dell’ordine, respinge alcuni attacchi di tifosi
inferociti, placa gli animi più accesi con nobili parole e ripetuti inviti alla calma, si guadagna
la fiducia degli incaricati del servizio d’ordine, entra negli spogliatoi e piglia a schiaffi l’arbitro.
Avemmo tre giornate di sospensione e cinquecentomila lire di multa.
E Zorro, che fa Zorro?
E che vi debbo dire, carissimo dottore. Zorro è la croce della mia esistenza. Prima della
partita io giro sempre per tutti i varchi per controllare gli ingressi e questo penso: chissà quel
grandissimo figlio di puttana dove sta! Una volta fece un buco nel muro di cinta asportando
alcune pietre di tufo, e fece pagare l’ingresso al pubblico: cinquecento lire gli adulti e cento lire
i ragazzi, poi alla fine rimise le pietre a posto per poter ripetere l’impresa durante le partite
seguenti. Quando viene alla partita, lui e il suo gruppo sembrano un’armata medievale: scale,
corde, rampini ed attrezzature varie per allargare sbarre di ferro e recidere fili spinati.
E non l’avete mai acchiappato?
Una volta solamente. Lo trovammo insieme ad un suo compare nella cella frigorifera di
un camion di gelati Algida. Stavano morendo assiderati. Li dovemmo mettere una mezz’ora al
sole per farli scongelare.
E quali altri trucchi ha studiato?
Tutti dottò, tutti. Per esempio, quando davamo l’ingresso gratuito ai paralitici, entrò con
una carrozzina da paralitico, abilmente truccato con barba e baffi, ed in quella occasione fittò
anche per mille lire cadauna una ventina di carrozzine a paralitici finti. Un’altra volta andò a
prendere l’arbitro alla stazione ed entrò nello stadio come accompagnatore ufficiale della terna
arbitrale e s’incazzò pure perché non lo volevano far entrare nella tribuna d’onore. Insomma
dottò, che vi debbo dire? Voi vedete un’autoambulanza che entra ed esce dallo stadio a sirene
spiegate? Pensate che si tratta di qualche ferito? Nossignore, è Zorro che porta allo stadio la
famiglia.
Insomma cavaliè, se ho ben capito, voi vi dichiarate sconfitto.
Questo mai dottò! Adesso per esempio ho saputo che sono state rubate dodici divise di
agenti di pubblica sicurezza. State sicuro che sotto a questo fatto ci sta la mano di Zorro. Ma
io qua l’aspetto. Caramanna Antonio non si arrende. Venitevi a vedere la partita domenica e
forse potrò darvi questa soddisfazione. A proposito dottò. adesso che ci penso, tengo ancora un
biglietto omaggio, pigliatevelo che domenica la partita è molto importante. Viene la Fiorentina,
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ma noi stiamo tranquilli, perché il mister questo ci ha detto “Il Napoli di quest’anno gioca il
miglior calcio d’Italia” Forza Napoli dottò!
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CAPITOLO 6. ZORRO
Capitolo 7
La teoria dell’amore e della libertà
La sigaretta! grida il bigliettaio nell’autobus.
Ma veramente io adesso mi sono preso il caffè.
Ah, va bene.
SAVIGNANO
Professò le confesso che io nei riguardi di Napoli provo sentimenti sempre contrastanti: a
volte d’amore e a volte di rifiuto. Non so come spiegarlo ma, quando sono in giro per il mondo,
mi struggo dalla nostalgia e poi, quando torno a Napoli, mi accorgo che non ce la faccio a
rimanere.
Caro ingegnere, mi risponde il professore Bellavista ma questo è perfettamente normale:
la maggior parte degli emigrati napoletani di un certo livello, una volta perso l’allenamento alla
“napoletanità”, non sono più in grado, fisicamente parlando, di sopravvivere ad un misero ponte
di quattro giorni nella loro città natale.
E questo veramente mi dispiace, continuo io a perché poi, lei deve sapere che quando sto
fuori Napoli, io difendo Napoli a spada tratta, e, sinceramente parlando, ho la netta sensazione
che questa sia l’unica città dell’Universo dove io posso avere qualche speranza di capire e di
farmi capire. A volte, finisco addirittura per compiangere quei miei amici, non napoletani, che
per quanto sensibili non riusciranno mai ad entrare nella nostra cultura, e qui sia chiaro che per
cultura napoletana non intendo solo la poesia di Di Giacomo, di Viviani o di De Filippo, ma
anche quella saggezza di vita dei nostri vecchi, il loro equilibrio, i loro modi di dire, insomma
quella che volendo usare una brutta espressione si è soliti chiamare “filosofia napoletana”.
E perché la considera una brutta espressione? mi chiede Bellavista.
Perché generalmente viene considerata una filosofia deteriore, qualunquista, fatta di disimpegno e di parassitismo.
Mamma mia, e come me l’avete pittata male questa filosofia napoletana!
E che vuole che le dica professore? A volte, per sopportare Napoli bisogna volerle veramente molto bene. Prenda ad esempio, quello che mi è successo quando sono arrivato alla stazione
centrale sabato scorso. Non avevo fatto nemmeno due passi che già ero stato assalito da uno che
mi voleva vendere bottiglie di whisky, foto pornografiche e orologi, e poi un altro che mi voleva
portare la valigia e, invece di chiedermelo soltanto, cercava di togliermela dalla mano con la
forza, e poi infine cento altre persone: e chi mi offriva il taxi abusivo, chi l’albergo, uno voleva
semplicemente dei soldi per il treno perché teneva la madre malata al manicomio di Aversa,
e poi fuori dalla stazione c’era di tutto: il traffico, i clacson delle auto usati continuamente e
senza motivo, la gente che ti urta, nessuno che rispetta la fila, tutti che parlano ad alta voce i
ristoranti sottosviluppati con i peggiori menù del mondo, le zuccheriere dei bar con lo zucchero
sporco di caffè, lo squallore della metropolitana, il rumore dei vicoli, il rumore delle radio messe
al massimo volume, il rumore dovunque.
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CAPITOLO 7. LA TEORIA DELL’AMORE E DELLA LIBERTÀ
Tutto qua? chiede tranquillo Bellavista. E lei caro ingegnere dicendomi queste cose mi
fa pensare ad un mio carissimo amico, il dottore Vittorio Palluotto. Lo conosce?
Veramente no.
Il dottor Palluotto si trasferı̀ per lavoro a Milano cinque o sei anni fa e oggi è un importante
dirigente di un’importante società di consulenza di cui però non ricordo il nome comunque volevo
dire che, da quando si è trasferito a Milano Vittorio si è, come dire, guastato, e quelle stesse
cose, che prima a Napoli costituivano il suo vivere quotidiano, oggi gli risultano insopportabili.
La verità è che il nostro Vittorio ha perso quel silenziatore incorporato che gli attutiva i rumori
caratteristici del mondo dell’Amore e di conseguenza ha cambiato la scala di riferimento dei
suoi valori: oggi Vittorio Palluotto vede nell’efficienza e nella produttività le virtù cardinali e
finisce col sottovalutare gli effetti secondari e deleteri che queste presunte virtù comportano.
Quello il dottor Vittorio quando è più sotto Natale dice Salvatore viene sempre a trovare
il professore.
Infatti lo stiamo aspettando da un giorno all’altro, dice il professore rivolto verso di me
e se lei mi vorrà onorare ancora di qualche sua visita...
L’onore è mio.
Avrò il piacere di presentarle il mio amico e nemico dottore Palluotto.
Amico e nemico! Ha detto proprio bene il professore interviene Saverio. Quelli ingegnè
sono come cani e gatti, ma si fanno delle appiccicate (litigate) che io dico: ma vuoi vedere che
adesso questi scherzando scherzando si prendono a paccheri (schiaffi)? Anzi io dico sempre:
ma a voi che ve ne importa? Napoli è cosı̀ com’è e non può farci niente nessuno. Se al dottore
Vittorio piace Milano se ne stesse a Milano che cosı̀ non si piglia più tutta questa collera.
Io dice Salvatore una volta sola sono stato al Nord perché ho fatto il servizio militare a
Peschiera sul Lago di Garda, ebbè, mi dovete credere ingegnè, su quel lago ci era un silenzio ma
un silenzio tale che io ogni sera mi andavo a coricare con il male di capa. Quella perciò c’è la
nebbia. Il Padreterno avrà detto: io tutta questa nebbia dove la metto? Adesso la metto nella
valle padana tanto quelli, i settentrionali, già stanno tanto ammosciati che non se ne accorgono
nemmeno.
Salvatore in questa sua teoria aggiunge il professore ha avuto un illustre predecessore:
anche Oscar Wilde diceva che non è la nebbia che fa venire la voglia di lavorare, ma che è la
voglia di lavorare che fa venire la nebbia.
Quanto è bello il professore! Sa tutto! esclama Saverio.
Ma ritorniamo a Napoli continua il professore. Dunque io dico che la maniera di essere
dei napoletani è troppo esagerata, troppo marcata per non indurci al sospetto e alla riflessione.
Secondo me, lo straniero che subisce il primo scontro con questa realtà non dovrebbe affrettarsi
a giudicare secondo il suo codice ed emettere una troppo facile sentenza d’inciviltà, ma, al
contrario, dovrebbe riflettere che se esiste un tale inabitabile universo, peraltro abitato, e comunque noto nel mondo, ciò vuol dire che deve anche esistere una contropartita, un compenso
di natura diversa.
Professò siamo tutti orecchi dice Salvatore. Fateci sapere qualcosa su questo compenso
che dobbiamo avere.
Ma, amici miei, il compenso lo abbiamo già, quotidianamente, ma, per capirlo, è necessario
che io vi accenni alla mia teoria dell’Amore e della Libertà, senza la quale è sicuramente difficile
pesare i meriti ed i demeriti di una maniera di vivere come quella napoletana.
Se non vado errato, già un’altra volta lei mi ha accennato a questa teoria dico io. Perché
non ce la illustra adesso?
Ha fretta? chiede il professore. Deve andare via subito?
Veramente no dico io.
E chi si muove dice Salvatore. Io l’ho già sentita questa cosa qua, quando il professore
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la spiegava al dottor Vittorio, ma però, vi confesso, che quella volta non capii bene tutte le
sfumature e perciò adesso mi fa piacere se il professore ce la spiega un’altra volta.
Ed io ve la torno a raccontare con piacere. Però mi dovete fare una cortesia: questa teoria
non è molto semplice a causa dei diversi significati che si possono dare alle sue parole chiavi:
amore e libertà. Vi chiedo pertanto di concedermi proprio all’inizio un po’ di attenzione.
E ci mancherebbe altro che non stessimo attenti professò risponde Saverio.
Qua la
vostra conversazione, non solo è di grandissimo interesse, ma ci onora altamente. Anzi, sapete
che vi dico? Aspettate un momento a cominciare che io vado a pigliare un’altra bottiglia di
vino, che cosı̀ non mi devo alzare mentre voi parlate e finisce che poi mi perdo qualche passaggio
fondamentale.
Quello Saverio, quando c’è il vino, trova tutto di altissimo interesse maligna Salvatore.
Ma voi, professore, non vi preoccupate: parlate con la massima tranquillità che noi non
abbiamo niente da fare essendo, diciamo cosı̀, quasi tutti in ferie.
Ma è proprio sua questa teoria, professore? chiedo io.
Veramente il primo a parlarmi di amore e di libertà fu un mio amico di Milano, Giancarlo
Galli. Poi in seguito questo spunto fu da me approfondito ed integrato con la filosofia epicurea.
Ora però adesso, dal momento che Saverio ha preso la bottiglia di vino e che si è di nuovo
seduto, vorrei cominciare, e per prima cosa vorrei chiarire che cosa dobbiamo intendere per
desiderio d’amore.
Il desiderio di quella cosa là risponde subito Saverio.
Nossignore Savè, quella cosa là, che tu tieni sempre in fronte, qua una volta tanto non c’entra. Noi per amore dobbiamo intendere quel desiderio istintivo che ha l’uomo per la compagnia
e l’affetto degli altri uomini.
Volete dire i ricchioni professò? interviene ancora Saverio.
E dalli Savè! Ti ho già detto che in questa teoria il sesso non c’entra. Ma tu, Saverio mio,
beviti il vino e statti un poco a sentire! Ah! E se m’interrompi continuamente mi fai perdere
il filo del discorso! Quella, la teoria, è già un poco complicata, tu ti ci metti pure tu!
Non vi preoccupate professò dice Salvatore. Dite pure che a Saverio ci penso io.
Dunque l’amore, come vi dicevo, è un sentimento che ci spinge a cercare la compagnia del
prossimo, ed atti d’amore sono tutte quelle manifestazioni che noi compiamo nel tentativo di
dividere con gli altri le gioie ed i dolori della nostra vita. Questo impulso verso i propri simili
è istintivo. Probabilmente gli studiosi di antropologia vedranno in esso una azione di difesa
dell’uomo primitivo che, attraverso l’alleanza con altri uomini, aumentava le proprie probabilità
di sopravvivenza. È ovvio che la capacità d’amore è diversa da uomo a uomo, per cui esiste
l’egocentrico, la cui forza d’amore è zero, il soggetto che ama solo i suoi familiari, quello che
ama maggiormente i suoi connazionali, i filantropi che amano la umanità intera, per finire a S.
Francesco che amava con la stessa intensità tutto l’Universo in ogni sua manifestazione.
Anche io professò sento di amare tutta l’umanità dice Saverio e non capisco come può
succedere che un popolo si mette a fare la guerra ad un altro popolo. Uno se ci riflettesse un
poco dovrebbe pensare: ma come? Quello anche il nemico è fatto di cristiani come noi, pure
loro debbono tenere a casa madri, mogli e criature che li stanno ad aspettare, e allora come
posso io, sapendo tutto questo, buttare una bomba sopra alla loro casa? Gesù, Gesù, io certe
volte, se ci penso, esco pazzo!
Allora tu, Saverio, non fai distinzioni, per esempio, tra italiani e americani, oppure tra
italiani e cinesi?
Nossignore, per me sono tutti cristiani, ed io li amo tutti nella stessa maniera.
Anche se sono napoletani?
Che c’entra, se sono napoletani è un’altra cosa! Quello è sangue del nostro sangue, ed io
per un napoletano all’estero sarei disposto a fare cose ‘e pazze. Io parlavo dell’umanità, non
dei napoletani.
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CAPITOLO 7. LA TEORIA DELL’AMORE E DELLA LIBERTÀ
Ma vedi Saverio mio, continua il professore è facile amare l’umanità, difficile è amare il
prossimo. Cristo infatti non disse “Ama l’umanità come te stesso” ma disse “Ama il prossimo
tuo come te stesso”, e sai perché? Perché il prossimo tuo, te lo dice la parola, è quello che
ti sta vicino, quello che sta seduto vicino a te nella metropolitana e che magari puzza, quello
che sta dietro a te nella fila e che vuole passare davanti, insomma, il prossimo tuo è quello che
minaccia la tua libertà personale.
Insomma professò, dice Salvatore se ho ben capito il vostro discorso, qua se uno vuole
essere una brava persona che ama il prossimo, deve sentire pure un poco di puzza.
Hai capito benissimo Salvatò, e se la puzza non ti piace allora vuol dire che non sei un
uomo d’amore, ma bensı̀ un uomo di libertà.
E sarebbe? chiede Salvatore.
E adesso te lo spiego. Dunque, per desiderio di libertà dobbiamo intendere la tendenza a
difendere la propria intimità. E qui veramente il termine “intimità” non rende bene l’idea in
quanto generalmente lo si usa per indicare aspetti per i quali si è giustamente riservati, mentre
invece la sfera personale, che noi intendiamo difendere è molto più vasta e si estende dalla libertà
di azione fino a quella di pensiero. Probabilmente la lingua italiana non possiede nemmeno il
vocabolo adatto e questo fatto già c’illumina sul carattere dell’uomo italiano, comunque noi, per
la nostra teoria, ricorrendo naturalmente alla lingua inglese, prenderemo in prestito la parola
“privacy”, che, più che un sentimento, esprime una maniera di vivere e concluderemo dicendo
che per desiderio di libertà dobbiamo intendere il desiderio di proteggere la nostra privacy e nel
contempo il desiderio di rispettare la privacy degli altri.
Seguendo il suo ragionamento, dico io allora ciascuno di noi ha dentro di sé, dosati in
maniera diversa, tutti e due questi impulsi: amore e libertà, che, in base ai significati da lei
attribuiti, pur essendo entrambi desiderabili, sono sempre in contrasto tra loro. Insomma uno,
a volte, quando sta solo cerca disperatamente la compagnia del prossimo e poi, magari altre
volte, quando si vede troppo legato a qualcuno, soffre di non poter essere lasciato in pace.
Precisamente risponde il professore.
È proprio vero professò! interviene Saverio. Io certe volte di mia moglie Assuntina non
ne posso proprio più. Ma come? dico io. Tu vedi che dopo mangiato a me mi piace starmene
un poco fuori al balcone a farmi quella mezz’oretta di addobbochiamiento (sonnolenza) ebbè ma
perché proprio allora tu mi devi intossicare dicendomi continuamente qualcosa: “Savè hai fatto
questo? Savè hai fatto quello?” e titit! tititt tititı̀, sempre nelle orecchie mie! Poi, quella volta
che Assuntina se ne andò a Procida con i bambini da una sorella cugina che tiene la casa vicina
al mare e che ci disse ma perché qualche giorno non venite a farci una visitina a Procida e fate
fare due bagni a queste povere creature che noi ci abbiamo anche il canotto di gomma e che poi
invece voleva essere aiutata dalla mattina alla sera per i figli suoi. Ebbè mi dovete credere, io
solo a casa non ce la facevo più, giravo per le stanze come un inzallanuto (incitrullito) e quando
Assuntina tornò, andai a prenderla al vaporetto un’ora e mezza prima dell’arrivo.
Saverio mio, hai capito perfettamente quello che volevo dire. Nel tuo caso l’amore aveva
sconfitto la libertà.
Professò ma io vorrei dire una cosa, dice Salvatore amore e libertà sono due cose tutte e
due buone? E allora io penso che un uomo a posto dovrebbe tenere tutti e due questi sentimenti.
Insomma volevo dire che uno dovrebbe essere contemporaneamente uomo d’amore e uomo di
libertà, non so se mi sono spiegato.
Sissignore, e infatti queste dovrebbero essere le caratteristiche dell’uomo superiore; però
in pratica i due impulsi sono tra di loro contrastanti e finiscono con l’ostacolarsi a vicenda.
Piuttosto la cosa più interessante è stabilire in quale direzione dovrebbe spingersi l’uomo: se in
quella dell’amore o in quella della libertà.
Voi che dite professò? chiede Saverio.
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Esistono al riguardo due correnti di pensiero molto ben definite, sia nella storia della
filosofia occidentale che in quella cinese.
Dite dite.
Dunque il filosofo cinese Mo tse-ti, non credo che lo abbiate mai sentito nominare, disse...
E come no! interrompe Saverio. Noi in napoletano lo chiamiamo Mao Tse-tung.
Che non c’entra niente ribatte il professore. Sono due persone completamente diverse.
Sı̀ però tutti e due appartengono alla famiglia “ze” dice Saverio. Questo Mo ze-ti, che
dite voi, sarà un antenato di Mao ze-tung.
Tse in cinese vuol dire maestro spiega il professore. Quindi Mao è il cognome, tse il
titolo professionale e tung il nome. Se io fossi cinese sarei chiamato Bellavista-tse-Gennaro.
E che diceva questo Mo ze-ti professò?
Diceva che bisogna amare tutto l’universo. Che uno deve amare i genitori degli altri nella
stessa maniera con cui ama i propri genitori. Insomma predicava l’amore universale e diceva
che il male del mondo era la “discriminazione”.
Che sarebbe?
Sarebbe la distinzione che uno fa tra i parenti e gli estranei, tra i cittadini e i forestieri e
cosı̀ via.
Veramente a me questo Mo ze-ti mi pare un poco esagerato, dice Salvatore e vi faccio
un esempio: secondo Mo ze-ti io dovrei allora amare mia moglie nella stessa maniera con cui
amo, che so io, il ministro Moro?
Mamma mia! dice Saverio. E questo è troppo! Non si può pretendere! Professò sentite
a me; questo Mo ze-ti se fosse vissuto a Napoli e avesse aperto la bocca per dire una cosa del
genere, lo prendevano e lo portavano ad Aversa come pazzo furioso.
Per contro continua il professore, senza tener conto delle interruzioni venne fuori una
diversa filosofia: il Taoismo. Yang Chu, che fu il primo filosofo taoista, disse: signori miei, se
volete vivere bene, ognuno deve pensare a se stesso ed evitare di vivere in mezzo agli altri e
detto questo, se ne andò sopra a una montagna e non scese più.
E questi non erano filosofi! dice Saverio. Questi erano una massa di fetenti, professò!
Piano piano, Mo tse-ti e Yang Chu furono in sostanza i due sostenitori estremi dell’amore
e della libertà, in seguito però le loro posizioni radicali furono mitigate da altri filosofi. E cosı̀
abbiamo avuto Men-cio, che suddivise l’amore in tre diverse gradazioni: quello per le cose,
quello per gli esseri viventi e quello per i familiari. E, tra i taoisti, Lao-tse e Iuang-tse, che
trasformarono l’individualismo di Yang-Chu nel proprio contrario, cioè in uno spiritualismo
umano.
Si però tra le due filosofie professò, dice Saverio quella del primo cinese mi pare più
buona.
Vuoi dire quella di Mo tse-ti? dice Bellavista Ma non e detto, perché poi in definitiva il
taoismo produsse forse la filosofia più pratica, quella di Ciuang-tse o filosofia del giusto mezzo.
Va bè professò, ma quelli non li dovete stare a sentire, quelli sono cinesi, sono un’altra
razza! dice Salvatore Professo, i cinesi sono abituati a vivere con una palla di riso al giorno
e non dicono niente!
A dire la verità, continua il professore non è detto che dobbiamo ricorrere per forza
ai cinesi per trovare un dualismo filosofico tra amore e libertà; in occidente, per esempio,
abbiamo avuto Tonnies, un sociologo tedesco, che nel secolo scorso pubblicò su questo argomento
un’opera fondamentale: “Gemeinschaft und Gesellschaft”.
Mamma bella d’o Carmine! (Madonna bella del Carmine, esclamazione di paura)
Non vi spaventate, che adesso ve lo spiego io, facile facile continua il professore. Dunque
con il termine “Gemeinschaft” Tonnies classificava tutte quelle comunità in cui i rapporti reciproci erano basati sull’amicizia, e con il termine Gesellschaft” le società rette invece dalle leggi
cioè da principi teorici, uguali per tutti. Ora sono evidenti le diverse impostazioni di questi
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CAPITOLO 7. LA TEORIA DELL’AMORE E DELLA LIBERTÀ
due tipi di società: la prima la Gememschaft, a struttura verticale, con un padrino in cima alla
piramide e con una sua precisa gerarchia di livelli, è un tipo di società che pretende l’ossequio
del debole verso il forte e che nello stesso tempo invita tutti alla reciproca collaborazione. Infatti nella Gemeinschaft si vive di raccomandazioni, di frasi del tipo: “È persona mia”, “Per
voi questo ed altro”, “Quale onore!”, “Quello che fate a lui è come se lo faceste a me” e cosı̀
via di seguito...
Professò in questa cosa qua che avete detto voi...
La Gemeinschaft?
Sissignore, in questa cosa qua, dicevo, non si vive bene dice Salvatore. E già perché
se un povero dio non tiene, come si dice a Napoli, i Santi in Paradiso, rimane lui e la mazza.
E adesso vi faccio un esempio: voi dite che questa è una società che si basa sull’amicizia,
d’accordo, ma se io sono l’unico amico di Saverio, e Saverio è l’unico amico mio, e se tra tutti
e due, in questo momento qua, non riusciamo a mettere insieme nemmeno mille lire, abbiamo
voglia di essere amici che ci puzzeremo (moriremo) sempre di fame per il resto della nostra vita
e faremo come si dice a Napoli: “Tieneme ca te tengo”; non so se mi sono spiegato.
Ho capito quello che mi vuoi dire, Salvatore bello, però vorrei precisarti che Tonnies non
ha mai detto che nella Gemeinschaft si vive in maniera più agiata che nella Gesellschaft, ha
solo intuito che proprio le difficoltà connesse ad una comunità di tipo Gemeinschaft riescono
a mantenere in vita certi rapporti d’amicizia tra le persone. Comunque, tornando alla presentazione dell’opera di Tönnies, notiamo che, a differenza della Gemeinschaft, la Gesellschaft ha
una struttura decisamente orizzontale, caratteristica delle società democratiche di tipo anglosassone. E, stranamente, malgrado la sua nazionalità tedesca, il nostro Tonnies non nasconde
una certa predilezione per la Gemeinschaft e cioè per la comunità dell’amore. Questo lo si nota
ad esempio quando ci parla di “caldi impulsi del cuore” e di “logica del freddo intelletto”.
Allora secondo lei, professore, dico io la mafia è un’associazione d’amore?
Mi sembra ovvio: d’amore e di potere nello stesso tempo, ma mai di libertà. Comunque la
mafia rappresenta l’aspetto peggiore della Gemeinschaft, cosı̀ come la burocrazia rappresenta
l’aspetto peggiore della Gesellschaft.
E quali sarebbero secondo lei i popoli d’amore e i popoli di libertà? chiedo io.
Non è che esistano dei popoli fatti tutti di libertà ed altri fatti tutti d’amore, il bianco ed
il nero di questi due sentimenti si mischiano nell’animo di ciascun popolo e, conseguentemente,
noi non potremo colorare le nazioni sulla carta geografica di bianco nitido o di nero assoluto, ma
bensı̀ avremo tutte le tonalità di grigio possibile, la qual cosa ci permetterà però di distinguere
due zone: una più scura che chiameremo regno dell’amore ed una più chiara che chiameremo
repubblica della libertà.
Secondo me, dice Saverio noi siamo nel regno dell’amore, ho detto bene professò!?
Hai detto benissimo Savè, afferma il professore. Infatti il regno dell’amore avrebbe come
capitale Napoli ed un territorio vastissimo che, oltre a coprire la maggior parte delle province
meridionali, avrebbe anche alcune roccaforti nel Nord dell’Europa, come ad esempio l’Irlanda
e come alcune zone della Russia sovietica.
Professò e quale sarebbe poi la capitale della repubblica della libertà?
Ma veramente, io ho sempre pensato a Londra.
Dove io sarei dovuto andare a fare il pizzaiuolo con zio Ferdinando dice Saverio. Meno
male che non ci sono andato!
Quando penso a Londra, continua Bellavista penso sempre a quella volta che vidi, di
notte, un signore “solo” che faceva la fila alla fermata dell’autobus.
Come? Non ho capito bene chiede Saverio. Faceva la fila da solo? E voi come ve ne
siete accorto che faceva la fila?
Me ne sono accorto perché era fermo accanto al palo indicatore, con il fianco destro
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alla strada, in modo da consentire ad altri viaggiatori, che, però non c’erano, di formare
eventualmente una fila d’attesa.
Gesù! Gesù!
Ma che ci volete fare, nell’inglese verace il rispetto degli altri è religione! L’abitazione
tipica inglese ad esempio è costituita da un ingresso, da un viale di accesso attraverso un
piccolo giardino, da alcune camere di rappresentanza al piano terra e da qualche camera da
letto al piano superiore. Ora, accanto a questa casa che vi ho descritto ce ne è un’altra uguale
e poi un’altra uguale ancora. Cioè, voglio dire, non è che per risparmiare abbiano detto:
adesso facciamo un grande palazzo con un solo ingresso, una sola scala e tanti appartamenti.
Nossignore, là ognuno desidera il suo ingresso, il suo giardino, la sua scala personale interna,
cosı̀ che potrà vivere senza sapere come si chiama il vicino di casa, senza sapere chi è, che fa,
come è fatto, eccetera, eccetera; e, con eguale convinzione, desidera sopra ogni cosa al mondo
che anche i suoi vicini lo ignorino e ricambino questa indifferenza nei suoi riguardi.
Io, dice Saverio del mio quartiere so tutto.
E per forza, perché a Napoli ci sono le corde tese da palazzo a palazzo per stendere i
panni, e su queste corde le notizie corrono e si diffondono dice Bellavista. E già perché se ci
pensate bene un momento per stendere una corda tra il terzo piano di un palazzo ed il terzo
piano di un altro palazzo è necessario che le signore inquiline dei suddetti appartamenti si siano
parlate, si siano messe d’accordo: “Signò, adesso facciamo una bella cosa, mettiamo una corda
fra noi e voi, cosı̀ ci appendiamo il bucato tutt’e due. Voi il bucato quando lo fate? Il martedı̀?
Brava, allora vuol dire che noi lo faremo il giovedı̀ che cosı̀ non ci possiamo tozzare.” È nato il
colloquio ed è nato l’amore.
I panni stesi al sole sono tutti belli dice Luigino. Io da piccolino pensavo che i panni
si stendevano al sole per festeggiare qualcosa, come se fossero bandiere. E ancora oggi tutti
questi panni mi danno allegria. Non ho mai capito perché in certi quartieri signorili è proibito
stendere i panni al l’esterno. Il fatto poi che a Napoli queste corde legano tutte le case l’una
con l’altra è una cosa veramente importante; ma voi ci pensate? Immaginate per un momento
che il Padre Eterno volesse portarsi in cielo una casa di Napoli. Con sua grande meraviglia
si accorgerebbe che piano piano, tutte le altre case di Napoli, come se fossero un enorme
granpavese, se ne vengono dietro alla prima, una dietro l’altra, case corde e panni, canzone ‘e
femmene e ‘allucche (grida) e guaglione.
E bravo Luigino, su questo fatto delle case di Napoli che salgono in cielo ci devi fare una
poesia! dice Saverio.
Dopo stesa la prima corda continua il professore le nostre signore diventeranno più
intime, litigheranno e si riappacificheranno, si metteranno insieme per litigare con le signore
del piano di sotto fino a diventare amiche di queste ultime. Ovviamente il sistema ha i suoi
inconvenienti, i suoi prezzi da pagare. E quindi nulla di ciò che accade in una delle case può
essere tenuto nascosto alle altre: amori, speranze, compleanni, corna, vincite al lotto e diarree,
tutto dovrà essere di pubblico dominio. Insomma è l’amore che corre sulle corde ad informare
e a ripartire gioie e dolori. Nessuno è libero, ma nessuno è solo, ed il clima mite favorisce la
solubilità delle notizie mantenendo aperte le finestre delle case ed i portoni dei bassi.
Quello che dice il professore è proprio vero! dice Salvatore. Noi non siamo come gli
inglesi. Noi ci dobbiamo intricare dei fatti di tutti quanti, noi dobbiamo sapere, noi siamo
curiosi.
No, caro Salvatore, quello che tu chiami curiosità è semplice bisogno d’amore, necessità di
comunicare risponde il professore. Provate a frequentare certi piccoli paesi italiani, o le isole
non battute dal turismo organizzato, come ad esempio Ventotene, e subito vi accorgerete che
la gente è più gentile, vi saluta per strada, v’incontra e vi dice buongiorno. Magari, nello stesso
istante, a Milano due persone che non si conoscono sono costrette a salire insieme in ascensore,
e quei pochi secondi di convivenza forzata, passati senza guardarsi in faccia e senza parlare,
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CAPITOLO 7. LA TEORIA DELL’AMORE E DELLA LIBERTÀ
diventano lunghissimi minuti di disagio. Sono gli inconvenienti delta civiltà. E sı̀ perché se io
oggi in una città civile dico “buongiorno” ad un signore che non conosco, questo, abituato ormai
a vivere in un mondo che ha definitivamente codificato le sue regole di comportamento, ha paura,
giustamente s’insospettisce e si chiede “ma questo perché mi ha detto buongiorno?”. Una volta
sui treni esisteva anche la III classe ed ovviamente veniva frequentata dal popolino più povero,
più povero dal punto di vista economico, ma sicuramente più ricco d’amore. Ebbè mi dovete
credere, era impossibile fare anche un piccolissimo viaggio, senza dover spiegare e raccontare a
tutti i compagni di scompartimento tutta la propria vita: nome, cognome, situazione familiare
e motivo del viaggio. Ovviamente si venivano a conoscere come contropartita una decina di
vite altrui e comunque, anche se spesso queste carrozze di terza erano alquanto maleodoranti,
quando il viaggio terminava, uno si dispiaceva di dover salutare per sempre i suoi nuovi amici,
le immagini dei loro familiari e di tutte quelle storie incompiute di cui non si sarebbero mai
più conosciute le conclusioni. Ora, nella mia teoria, gli odori della III classe rappresentano un
fatto importante perché sono gli odori che si riscontrano puntualmente nei luoghi a più alto
contenuto d’amore. Ad esempio non v’è speranza di trovare traccia di questi odori su uno di
questi nuovi ed asettici aerei: ed è pur vero, che, quando uno di questi aerei cade, spesso i
passeggeri muoiono senza sapere nemmeno il nome di battesimo della persona seduta accanto
a loro, magari le stringono la mano nell’ultimo istante e non sanno chi è.
Madonna mia scansaci tu dice Salvatore.
Qualche giorno fa, dice Saverio dentro alla metropolitana ho conosciuto un falegname
di San Giovanni a Teduccio che poteva tenere quasi ottantanni, ma vi dico a voi pareva ‘nu
guaglione che aveva appena fatto filone a scuola! Io avevo preso come al solito la metropolitana
a Mergellina perché dovevo andare da mia sorella Rachele a via Firenze, che quella siccome
tiene una causa in tribunale con il suo padrone di casa che è una grandissima carogna, vuole
sempre che io l’accompagno quando va dall’avvocato; dunque vi stavo dicendo che don Ernesto,
questo falegname che ho conosciuto sulla metropolitana, è stato capace in sole quattro fermate
di raccontarmi che si era sposato tre volte. Quasi una moglie a fermata! La prima moglie
l’aveva conosciuta quando era ancora militare nella guerra 15-18. Dice che era stato ferito
ad una gamba e che lei faceva la crocerossina. Se la fece subito subito, con tutta la gamba
ingessata, steso dentro al letto dell’ospedale militare, e poi se la dovette sposare, però pare
che, malgrado fosse un pezzo di donna, era friulana, gli morı̀, salute a noi, di polmonite a
Napoli, cinque anni dopo. La seconda moglie era napoletana e lui dice che era una bellezza
cinematografica, però pure questa fece una brutta fine in quanto che, salute a noi, morı̀ sotto le
pietre del famoso bombardamento del 4 agosto del ‘43 che il professore se lo dovrebbe ricordare.
Don Ernesto però non era persona che si scoraggiava tanto facilmente e quindi dopo un paio
d’anni si sposò per la terza volta. Ora pare che questa terza moglie sia tutta pelle ed ossa e
di aspetto cagionevole, eppure, dice lui, che ci ha fatto una buonissima riuscita e che vivono
felici e contenti. Comunque tra primo, secondo e terzo letto, adesso tengono sette figli e sedici
nipoti.
Mondo d’amore, mondo d’amore esclama il professore.
Professò, io prima volevo dire una cosa; ma è vero che a Londra se un povero dio cade per
terra che si è sentito male, nessuno l’aiuta?
E perfettamente vero Salvatò, ma bisogna capirne il perché. Vi dovete convincere signori
miei che il londinese verace, in una circostanza del genere ragiona press’a poco cosı̀: uno
sconosciuto è sdraiato lungo il marciapiede davanti a me, forse è stato colto da malore, o
forse gradisce semplicemente dormire per terra, in entrambi i casi il fatto non mi riguarda e
pertanto io non ho né il dovere né il diritto d’intervenire, sicuramente il comune di Londra avrà
predisposto un servizio per codesta incombenza. Dopo di che lo scavalca e quello muore.
Mamma mia e come sò fetienti sti londinesi !
Sia chiaro però che anche a Napoli il nostro pover’uomo finirebbe col morire, e già per-
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ché qualcuno comincerebbe a gridare “Madonna! ‘O signore si è sentito male, portate una
sedia, un bicchiere d’acqua!”. Ed in pochi minuti cento sedie, cento bicchieri d’acqua e mille
persone soffocherebbero il nostro povero signore che finirebbe per morire d’asfissia, anche se
contemporaneamente avrebbe la consolazione di morire d’amore.
Veramente questo fatto mi sembra un poco esagerato.
È ovvio che questi fatti che vi ho raccontato sono paradossali. Però voi ricordatevi che
la parola esagerazione non esiste nel vocabolario dell’amore. Anche il furto di un portafoglio
potrebbe essere catalogato come un atto d’amore in quanto è un interessarsi di un fatto altrui.
Ho capito, dice Saverio è come dire che uno ruba per curiosità. “Chissà quel signore
che ci tiene nel portafoglio?”
Secondo me, risponde Salvatore un poco è la curiosità ma un poco è anche il bisogno.
Insomma, signori miei, dobbiamo rassegnarci a non poter avere tutto nella vita dice il
professore. Vogliamo l’ordine? La pulizia? E allora rinunziamo all’amore. Se invece ci dà
fastidio il rumore e la confusione e allora andiamo a vivere in Svizzera. Sissignore, andiamo a
Berna. Però ricordiamoci che di Berna si dice che sia grande il doppio del cimitero di Vienna
ma che ci si diverta solo la metà.
Professore, dico io ma lei come spiega questa sostanziale differenza di comportamento
tra popoli del Nord e popoli del Sud? È una semplice questione di razza o possiamo invece
attribuire al caldo del clima una proporzionale emotività dei meridionali?
Al clima veramente non direi. Come le dicevo prima, caro ingegnere, l’amore regna a volte
in zone freddissime. Pensi ad esempio agli irlandesi, emotivi, focosi, sempre pronti ad aiutarsi
gli uni con gli altri, oppure ai russi, cosı̀ come ce li hanno descritti Cecov e Dostojewski. Si
ricorda di Marmeladov in “Delitto e Castigo”, quando nella taverna si mette a raccontare a
tutti la propria vita e quando dice che per ognuno ci dovrebbe essere un posto dove trovare
comprensione?
Ma Marmeladov era un ubriacone.
Giusta riflessione, ma dal momento che abbiamo chiamato in causa il vino, approfondiamo
l’argomento. Chi beve e si ubriaca in effetti lo fa perché vuole spostare il suo comportamento
da una situazione di libertà ad una situazione d’amore, ed il bisogno di bere sarà tanto più
imperioso per quanto più l’individuo si sente lontano dalla sua naturale posizione d’amore È
noto, ad esempio, che il popolo napoletano, malgrado i tanti difetti, non sia dedito al vizio di
bere. Ora questo può essere spiegato solo dal fatto che vivendo già in un mondo d’amore, il
popolo napoletano non sente il bisogno di farsi aiutare dal vino.
Veramente Saverio è napoletano, dice Salvatore e quando se lo può fare un litro di vino
se lo fa.
Se lo fa perché gli piace e perché è gratis, ma non per ubriacarsi, non per sentirsi meno
inibito nei suoi contatti con il prossimo.
Invece gli americani... dico io.
Gli americani hanno il bisogno irrimandabile di riequilibrare una giornata di efficienza, di
produttività e di culto del potere. E allora dobbiamo pensare che le cause di questa differenza
di comportamento siano ancora più remote. Ad esempio, non si riesce a capire se il fatto
che le popolazioni dell’amore sono generalmente cattoliche mentre quelle della libertà sono
prevalentemente protestanti, abbia determinato queste differenze di comportamento o invece
sia stato determinato da esse.
Secondo me, dico io le origini delle differenziazioni dei caratteri degli europei sono da
ricercarsi ancora prima dell’ avvento della Riforma.
Non è facile poterlo dire, perché la Riforma segnò l’inizio di un’accelerazione civile in certi
paesi mentre in altri, per reazione, determinò una repressione della cultura individuale. In altre
parole la Riforma autorizzò i propri fedeli a colloquiare direttamente con il Padreterno. senza
la consulenza del prete-interprete e soprattutto senza dover comprare le grazie richieste secondo
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CAPITOLO 7. LA TEORIA DELL’AMORE E DELLA LIBERTÀ
il listino prezzi in vigore presso la Chiesa Romana. Ora, per attuare questi propositi, Lutero
spinse i popoli a leggere le Sacre Scritture, la cui interpretazione fino a quell’epoca era stata
monopolio dei soli addetti ai lavori, e questo significò soprattutto una spinta all’istruzione e
conseguentemente a quella cosa che oggi chiamiamo civiltà. Rimasero invece cattolici osservanti
i popoli passionali: quelli a cui piaceva il Mistero, il Dogma, la Fede e quindi l’Amore. In altre
parole, è come dire che la strada per il progresso e la libertà pretende in pagamento un pedaggio
d’amore.
Allora professore, se ho ben capito, lei considera strettamente connessi tra loro amore e
ignoranza e quindi colloca gli uomini di libertà ad un gradino qualitativamente più alto...
No per favore ingegnè, e non mi faccia dire quello che non penso: l’istruzione e la qualità
sono due cose diverse. E poi non è nemmeno vero che gli uomini d’amore si trovano tutti nella
fascia meno istruita della società. Anzi da questo punto di vista direi che gli uomini di libertà,
cioè i razionalisti, generalmente rappresentano un gruppo intermedio tra una maggioranza emotiva, posta ai livelli culturali più bassi, ed un’elite di grandi uomini che oltre ad aver acquisito
una coscienza libertaria hanno anche riscoperto nell’amore il vero significato della vita.
Quindi un uomo può essere contemporaneamente uomo di libertà e uomo d’amore?
Certamente, e mentre il rapporto tra queste due caratteristiche ci fa sapere con chi abbiamo
a che fare, la loro somma ci dà un’idea del peso dell’individuo.
Ritornando a Napoli, lei ritiene che i napoletani siano nella stragrande maggioranza uomini
d’amore?
Senza dubbio: in particolar modo il popolino. Noi quando diciamo Napoli dobbiamo dimenticarci di quelle cento o duecentomila persone di cui conosciamo le abitudini e che vivono
tra via dei Mille e Posillipo. La Napoli vera, la Napoli autentica, è ancora quella dei Quartieri
Spagnoli, del Pendino, del Borgo S. Antonio Abate, del Mercato... La Napoli dei venditori
ambulanti, la Napoli delle feste e della miseria dei vicoli... Io mi ricordo sempre di una nostra
pantalonaia che viveva alla Sanità... mi sembra che si chiamasse... Rachelina... sissignore si
chiamava Rachelina. Dunque, come le dicevo, questa Rachelina aveva un bambino di quattro
anni e si rifiutava di fargli fare la vaccinazione antipolio pensi che per convincerla quella volta
fummo costretti a ricorrere ad un’ispettrice di polizia femminile. Fu un’impresa epica: Rachelina sosteneva che il figlio era al sicuro perché sotto la diretta protezione di S. Vincenzo, il famoso
Monacone, patrono indiscusso del quartiere Sanità. Diceva che il bambino a tre anni aveva già
avuto una bronchite con quaranta di febbre e che una notte, mentre lei si era addormentata
sulla sedia accanto al letto del figlio, S. Vincenzo in persona era venuto a svegliarla e le aveva
detto: “Rachelı̀, vatt’a cuccà (va a coricarti) e sta senza pensiero, c’o peccerillo ce penzo io” e
come difatti fu che la mattina seguente il bambino non aveva più la febbre e correva per tutta la
casa. Ora questo S. Vincenzo cosı̀ popolare nel quartiere Sanità, con Napoli in effetti non aveva
avuto mai niente a che dividere: S. Vincenzo Ferreri era difatti un frate domenicano spagnolo,
mai venuto dalle nostre parti, che, agli occhi del popolo, ebbe forse un solo grande merito e cioè
quello di essere guarito prodigiosamente da una grave malattia dopo aver cacciato via tutti i
medici che lo volevano curare. Comunque ritornando al fatto di Rachelina, fu proprio in quella
occasione che io vidi per la prima volta nella mia vita la festa del Monacone. Sto parlando
di un fatto avvenuto un po’ di tempo fa, quando la festa era ancora essenzialmente religiosa e
coinvolgeva mezza Napoli, dal quartiere Stella fino alla piazza del Reclusorio. Oggi purtroppo
la manifestazione ha subito una involuzione consumistica: l’interesse maggiore si è spostato
in gran parte su di un festival canoro di piazza al quale partecipano tutti i big della canzone
italiana “gentilmente pregati” ad intervenire dai mammasantissima del quartiere. Quella volta
invece mi ricordo benissimo che si faceva ancora la sacra processione. Il figlio di Rachelina era
stato vestito da fraticello domenicano ed insieme ad una ventina di altri bambini “miracolati”
era in attesa davanti alla chiesa di S. Maria alla Sanità. Un gelato a testa ed alcune mazzate
distribuite ad intervalli regolari dalle rispettive madri diminuivano la mistica del momento e la
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santità dei piccoli frati. All’arrivo del Santo, in una enorme confusione di folla, i bambini furono
sollevati a braccia dalle mamme e tra applausi, grida e pianti di ringraziamento offrirono ognuno una candela a S. Vincenzo, ricevendone in cambio una benedizione ed uno scapolare. Io mi
allontanai con una grande tristezza nel cuore: pensai che, a rigore di logica, non c’era nessuna
differenza tra una scena del genere ed un rito baluba nel cuore della foresta tropicale e già mi
stavo chiedendo se verrà mai il giorno in cui i miei amati concittadini riusciranno a liberarsi di
tutte queste superstizioni e ad evolversi in senso sociale, quando mi ritrovai davanti alla chiesa
del cimitero delle Fontanelle. Avevo sempre sentito parlare di questo cimitero ma non lo avevo
mai visto. Chiesi ad uno del posto dove fosse l’entrata e mi consigliarono di rivolgermi ai preti
della chiesa. Fu appunto uno di questi preti che mi accompagnò nella visita: dovunque c’erano
ossa e teschi ammucchiati per terra ed in un freddo umido, proveniente dalle pareti squadrate
e alla debole luce di centinaia di lumini, io vidi una decina di donne inginocchiate in silenziosa
preghiera. Il prete mi raccontò che queste donne, qualcuna per semplice devozione, altre perché
madri o spose di dispersi in guerra, prelevavano dai mucchi le ossa necessarie alla ricostruzione
di un proprio scheletro e a lui dedicavano poi tutte le loro cure e le loro preghiere. Più volte mi disse - ho dovuto correggere grossi svarioni anatomici, una tibia al posto di un femore, un
mezzo bacino al posto di una scapola, ma questo non importa: l’importante è credere. Se lei è
un materialista faccia bene i suoi conti tutto quello che resta è questo qua
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CAPITOLO 7. LA TEORIA DELL’AMORE E DELLA LIBERTÀ
Capitolo 8
L’arte della commedia
Signò dovete fare un altro biglietto.
E perché debbo fare un altro biglietto?
Per il ragazzo.
Quale ragazzo?
Questo qua, questo che sta vicino a voi.
E voi me lo chiamate ragazzo. Quello non tiene nemmeno nove anni, è una criatura!
Signò sarà una criatura ma siccome è una criatura alta più di un metro deve fare il biglietto
se vuole viaggiare sull’autobùs.
Ma qua’ più alta di un metro e più alta di un metro, fatemi il piacere! Quello non sarà
nemmeno settanta centimetri!
Signò ho capito, questa mattina voi vi siete alzata con la voglia di scherzare. Il ragazzo, il
bambino, la criatura, chiamatela come volete voi, passa con la testa la sbarra di ferro apposita,
posta all’altezza di un metro, e quindi deve fare il biglietto.
Ma tu vedi che guai si passano.
Gesù Gesù! Quello è sempre stato più basso di un
metro! Ma non lo vedete che il ragazzo si è messo sulla punta dei piedi e che perciò sembra più
alto? risponde la signora ponendo con forza una mano sulla testa del figlio e premendo fino a
fargli abbassare la testa di sotto della sbarra. E ‘acalate Ciccı̀! (E abbassati Ciccillo!)
Adesso basta signò. E che vi siete messa in testa! Qua noi il parlare lo teniamo per fatica!
Il ragazzo o fa il biglietto o scende da sopra all’autobùs, avete capito si o no?
E voi terreste il coraggio di lasciare una criatura sola in mezzo alla strada?
E che fosse d’a mia sta criatura! Che vi debbo dire: scendete pure voi.
Io! Io ho fatto il biglietto.
Durante tutta la discussione l’autobus non si è mai mosso. È fermo con le porte aperte, in
attesa che si chiarisca se il ragazzo deve o non deve fare il biglietto.
Ma in che razza di paese mi trovo protesta un signore dal chiaro accento settentrionale.
Lei, dice rivolto al conducente si decide a partire sı̀ o no? E lei signora lo sa che qui c’è
gente che lavora? Non possiamo mica aspettare tutti che si convinca a sborsare cinquanta lire
per un biglietto. Anzi, sa cosa le dico, ecco le cinquanta lire e faccia il biglietto a suo figlio!
Ma ‘a chisto (questo) chi ‘o conosce! grida intanto la signora indicando il milanese. Mi
fa il biglietto lui a me! dice rivolta ai presenti. Ma tu vedi quanta confidenza! Io se voglio lo
riempio di biglietti: Poi rivolta verso il signore: Avete ragione che qua non ci sta mio marito
e che io sono una povera donna sola contro tutti questi uomini, altrimenti non avete idea di
dove ve le mettevate queste cinquanta lire! Gesù Santa Anna e Maria ma tu vedi che si passa
per un fetentissimo biglietto!
E va bene signò, grida il conducente dal suo posto di guida avete ragione voi, però la
prima guardia che incontro, vi faccio vedere se scendete o no dall’autobùs, volete non volete¡‘
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CAPITOLO 8. L’ARTE DELLA COMMEDIA
Detto questo il conducente chiude le porte e sta per partire quando viene fermato da un
coro di proteste di quasi tutti i passeggeri
Fermate, fermate!
Che altro è successo? chiede il conducente.
E noi eravamo saliti per sentire.
Capitolo 9
Il prezzo fisso
Gli uomini d’affari si vantano di essere astuti e capaci
ma in cose di filosofia son come bambini piccini.
Gloriandosi fra compagni di fortunati saccheggi
trascurano di meditare l’estremo destino del corpo
e non sapranno mai del grande Maestro della verità
che vide il vasto mondo in una coppa di giada.
chen tzu-ang. (656-698 d.C.)
Oggi sono andato a comprare la televisione nuova alla Duchesca annunzia trionfante
Saverio. Ventitré pollici, otto canali e schermo stereoscopico.
E hai fatto un pessimo affare Savè dice il professore.
Ma volete scherzare professò!
Io sono riuscito a scippare il cinquantacinque per cento
di sconto più il cinque ed il pagamento rateale in cinque anni a cambiali con i soli interessi
bancari!
E che è, un mutuo? esclamava Saverio.
No, è che tutti sanno che noi i soldi non ce li abbiamo, e che quindi le cose o ce le danno
cosı̀ o non ce le possiamo comprare.
Ma io non mi riferivo al prezzo Savè. Ma a tutto il male che la televisione può fare a te,
a tua moglie ed ai figli tuoi.
Ma questo non c’entra professò, perché noi la televisione già la teniamo, solo che non piglia
il secondo canale. Dovete sapere che quella la televisione nostra ce la regalò la signora Bottazzi
quando prese il terno con i numeri che le dette in sogno la buonanima di zi’ Rafele. Ve lo
ricordate a zi’ Rafele? Quello che morı̀ a settant’anni mentre faceva l’amore sopra alla pensione
Emilia. Ora però, come vi stavo dicendo, la televisione nostra non andava più bene: faceva ‘e
cape ‘a cucuzziello e se ne scendeva di voce.
Come, che faceva? chiedo io.
Saverio vuol dire traduce il professore che il suo televisore deformava le teste come se
fossero zucchine, dico bene Savè ?
Faceva ‘e cape ‘e cucuzziello, Professò.
E quindi hai ottenuto un buon prezzo?
Ottimo professò, ma che battaglia! Dunque diciamo che i primi scontri si sono avuti verso
la metà del mese passato. Io ci passavo davanti e cosı̀, senza far mai vedere un attaccamento
all’oggetto, incominciai a chiedere il prezzo, e quello tomo tomo (serio serio, calmo calmo) mi
sparò che costava duecentomila lire ma che, trattandosi di me e datosi che una mia cugina aveva
lavorato come ammagliatrice insieme a una sorella sua, mi avrebbe potuto dare l’apparecchio
per centotrentamila lire in contanti. Io, senza mostrare meraviglia, gli risposi che se lo poteva
tenere ma che se invece me lo voleva dare avrei potuto mettere insieme una cinquantina di
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CAPITOLO 9. IL PREZZO FISSO
migliaia di lire, al che lui mi disse che con cinquantamila lire avrei potuto, in attesa che la
signora Bottazzi vincesse un altro terno, mettermi una bell’antenna ‘ncoppo ‘o palazzo (sopra
al palazzo). Insomma la contrattazione iniziò da posizioni molto distanti, ma voi m’insegnate:
con la pazienza si possono ottenere grandi cose. E cosı̀, ogni volta che passavo dalla Duchesca,
lui scendeva di una mille lire ed io salivo di cinquecento finché, verso la fine di novembre,
eravamo arrivati lui a centocinquemila ed io a settantamila, quando quel grandissimo mappino
(sta per delinquente) non volle scendere più nemmeno di una lira. Aveva capito che io ci
tenevo a fare una bella sorpresa alla mia signora a Natale e mi aspettava sicuro sulle centomila
lire. Ma modestamente Saverio Santopezzullo non è fesso e cosı̀ iniziai subito una manovra
di accerchiamento e mi misi a contrattare nella bottega di fronte una televisione di seconda
mano, di quelle grandi di vecchio tipo, che si usavano una volta. Oggi poi alla fine ho fatto
il mio capolavoro; mi sono portato appresso il metro e mi sono messo a prendere le misure
della televisione usata e poi ho detto ad alta voce: “Ci va proprio giusto giusto sul tavolino
del tinello!” e poi, quando proprio non se l’aspettava, gli ho chiesto a bruciapelo da lontano:
“Ottantamila me la date?” e lui subito: “Ottantacinquemila e date un cinquecento lire al
ragazzo.” Professò domani sera per la prima volta in casa Santopezzullo ci vediamo il secondo
canale. Se ci volete onorare?
Grazie Savè, ma tu lo sai che io la televisione non la vedo; comunque, secondo me, la sola
cosa importante che hai fatto è stata la trattativa. Pensa invece come sarebbe stato brutto se
tu fossi nato svizzero e ti fossi dovuto andare a comprare un televisore a Zurigo. Non ci stavano
santi, quello era il prezzo e quello dovevi pagare.
Sı̀ però il prezzo fisso in Svizzera è più basso del prezzo di listino napoletano.
Ma questo non c’entra. Il prezzo fisso è un’altra delle trovate del mondo della libertà.
Dice: ma non è più giusto che tutti paghino lo stesso prezzo? E chi vi dice di no: sarà più
giusto, però a conti fatti è un privilegio che si paga rinunziando ad un’altra fetta d’amore.
Come sarebbe a dire professò, un’altra fetta d’amore?
E sı̀ Salvatore mio. Oggi tu puoi entrare in un grande magazzino, comprare anche la cosa
più curiosa che vuoi, che so io... un barattolo di pittura rossa... e nessuno ti chiede perché ti
serve questa pittura. Perché rossa e non celeste? E cosı̀ finisce che tu esci dal negozio senza
aver parlato con nessuno, ti presenti alla cassa all’uscita, la commessa legge il prezzo, ti fa lo
scontrino, tu paghi e te ne vai.
E che dovrebbe dire la commessa?
Ma come “che dovrebbe dire”! Mi meraviglio di te! Fai conto, per esempio, che io adesso
vado a comprarmi un barattolo di pittura rossa dal cavaliere Sgueglia, il ferramenta che sta qua
sotto a Mergellina. Per prima cosa io ed il cavaliere ci facciamo un quarto d’ora di conversazione
per sapere come stiamo di salute noi e le nostre rispettive famiglie. Poi, finalmente, il cavaliere
mi chiederà: “In che cosa posso servirvi professò Cavaliè” “Datemi per favore cinque chili di
pittura rossa murale” “Pittura rossa?! E che n’avite fà? (E che ne dovete fare)” “Veramente
c’è un mio inquilino che vorrebbe pittarsi una stanza tutta rossa” “Scusate professò, ma quest’inquilino vostro fosse nu poco ricchione?” “Ma che volete scherzare?”, risponderei io, “quello
è tanto una brava persona! Tiene pure un fratello che sta al Banco di Napoli” “Ah va bene”,
e cosı̀ piano piano si arriva alla frase prezzo che poi sarebbe la vera conversazione in quanto
coinvolge fatti personali e fatti di politica economica internazionale: i prezzi che salgono, le
tasse, la guerra del Medio Oriente, l’inquilino mio che effettivamente è un poco originale, tutti
gli argomenti sono buoni per tirare il prezzo chi da una parte e chi dall’altra. E cosı̀ succede
che la gente parla e parlando parlando finisce col volersi bene.
Invece adesso dico io nei grandi magazzini anche per gli alimentari hanno messo il prezzo
fisso. Pere, mele, arance, prima le pesano e poi le mettono nella plastica con il peso ed il prezzo
già segnato che uno non deve fare nemmeno la fatica di dire: “Vorrei un chilo e mezzo d’arance
ma le voglio tutte zucose”.
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Ma qua dove vogliamo arrivare! dice Saverio Quella Assuntina, quando va a fare la spesa
e compra la frutta, si scarta le mele ad una ad una, tanto che Carmeniello o’ Cafone ogni tanto
si tocca i nervi e ci svacanta (svuota) un’altra volta tutta la borsa nella cesta perché dice che
non si può scartare e che bisogna prenderle cosı̀ come vengono vengono, buone e malamente
Io ho un amico a Milano interviene Luigino che chiede lo sconto pure alla Rinascente.
Come lo sconto alla Rinascente! E che è pazzo?
No, si chiama Giovanni Pennino, è napoletano e sono cinque anni che vive a Milano. Lui
stesso me lo ha raccontato. Dice che entra alla Rinascente e se vede una cosa che gli piace, che
so... un tostapane che per esempio costa diecimila e cinquecento lire, lui tomo tomo va vicino
alla commessa e le dice: “Signorina, vorrei comprare questo tostapane ma non vorrei pagare
più di diecimila lire”. “Non è possibile signore, i prezzi sono fissi” risponde la signorina, ma lui
insiste “Si lo so ma per una volta sola facciamo cifra tonda” “Ma signore non si tratta di fare
cifra tonda, scusi: alla Rinascente i prezzi sono fissi.”
Gesù Gesù questo è un fatto overo divertente, e poi che succede?
Succede che il mio amico chiede allora di parlare con la caporeparto continua Luigino
che ogni volta che fa la parte della commessa altera la voce fino a renderla femminile. “Ma
guardi signore, che è perfettamente inutile che io chiami la caporeparto, i prezzi sono fissi e
lei non può risparmiare nulla” ma Giovanni insiste e cosı̀, quando viene la caporeparto, lui le
racconta tutta una storia: “Vedete signorina, io a casa ce l’ho già un tostapane tale e quale a
questo qua, solo che mi si è rotto, allora questa mattina sono andato da un elettricista e quello
mi ha detto che per accomodarlo ci volevano cinquemila lire, ma come ho detto io: cinquemila
lire! Ma se quello nuovo costa diecimila! E cosi ho deciso di venirmelo a comperare nuovo
alla Rinascente, sennonché che succede: vengo qua e trovo che voi intanto avete aumentato il
tostapane a diecimila e cinquecento lire, ora io vi domando: che faccio? Compro quello nuovo
a diecimila e cinquecento lire o accomodo il vecchio a cinquemila?” “Mio caro signore, cosa
vuole che le dica, faccia quello che vuole! Si faccia accomodare il tostapane vecchio, ma noi
alla Rinascente abbiamo solo prezzi fissi e quindi non possiamo fare nessuno sconto” ed il mio
amico: “Ma signorina voi dovete sapere che io sono pure amico della signora Rinascente” e
quella: “Non esiste nessuna signora Rinascente” “Esiste signorina, esiste, solo che voi non lo
sapete .
E poi alla fine che succede? chiede Salvatore.
Che si compera il tostapane per diecimila e cinquecento lire risponde Luigino.
Scusa Luigi, ma allora che ci ha guadagnato?
Che ogni volta che entra alla Rinascente lo riconoscono tutti quanti: lo chiamano “l’amico
della signora Rinascente’ e gli fanno sempre un sorriso.
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CAPITOLO 9. IL PREZZO FISSO
Capitolo 10
Mia madre
Mia mamma nacque nel 1883, quando l’unità d’Italia non aveva ancora compiuto vent’anni.
Nella mia casa i miei genitori e soprattutto i miei nonni parlavano esclusivamente in napoletano.
Per tutta la mia famiglia per esempio, prendere un aereo equivaleva ad un tentativo deliberato di suicidio. Dico questo perché il lettore possa comprendere a quali difficoltà andai
incontro il giorno che, laureatomi in ingegneria, decisi d’impiegarmi nel campo dei calcolatori
elettronici. Il primo problema fu quello di comunicarlo a mia madre.
Mammà ho trovato il posto!
Bravo chillu figlio mio! Bravo! Hai visto? Quello è stato Sant’Antonio che ti ha aiutato.
Io sono anni che prego a Sant’Antonio. Gli dicevo Sant’Antò, quello il ragazzo sta studiando
perché si vuole laureare, ma la paura mia è che dopo laureato nessuno se lo piglia. E dentro di
me dicevo. noi abbiamo sbagliato con questa ingegneria, era meglio che lo facevamo ragioniere,
che cosi si trovava un posto in una banca, una cosa tranquilla, e non ci pensavamo più, e invece
Sant’Antonio ci ha fatto la grazia. Tu mò, bell’e mammà, devi subito andarti a fare una bella
comunione di ringraziamento a Sant’Antonio. Hai capito? E dimmi dimmi; e dove l’hai trovato
questo posto?
All’IBM.
Ma è una cosa sicura? Io non l’ho mai sentita nominare!
Giulia intervenne mia zia, più giovane di mammà e quindi molto più informata a tu non
capisci proprio niente! Oggi gli elettrodomestici sono di moda, c’è stato il marito della signora
Sparano che con un negozietto da tre soldi si è fatto un patrimonio. Tengono la Mercedes, la
governante e fanno la villeggiatura a Ischia!
Ma che elettrodomestici! Io lavoro con i calcolatori elettronici! Mammà i calcolatori non
sono elettrodomestici, sono macchine perfettissime e potentissime, capaci di fare migliaia di
operazioni in un solo secondo!
Tu ti dovessi far male.
Mammà, ma quale male! Io lavoro nel settore commerciale, quello che si occupa della
vendita e del noleggio di questi calcolatori.
Figlio mio, io non ti voglio scoraggiare, ma tu chi vuoi che se li compra questi calcolatori,
noi a Napoli non abbiamo niente da calcolare.
Tutte le grandi aziende hanno bisogno di calcolatori.
Ma per fare che cosa?
Come per fare che cosa? Ma per la contabilità aziendale! Pensa a tutti i conti che debbono
fare le banche, a tutti gli stipendi, alle paghe che si debbono fare nelle industrie, al Comune di
Napoli...
Ma ti pare a te che con tutta la gente disoccupata che c’è a Napoli quelli si vanno a
comprare le macchine tue! Secondo me queste industrie sai che faranno quando dovranno fare i
conti? Si chiameranno tutti i disoccupati che stanno a Napoli e ci daranno una moltiplicazione
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CAPITOLO 10. MIA MADRE
a testa, e poi ti faccio vedere se i disoccupati napoletani non riescono a fare i conti più presto
dei calcolatori elettronici tuoi. Secondo me era meglio se ti riuscivi a impizzare nel Banco di
Napoli.
Mammà non ti preoccupare, vedrai che mi troverò benissimo.
E quanto costano questi calcolatori che devi vendere?
Ci sono tanti modelli diversi e poi quasi sempre queste macchine non si vendono, ma si
fittano.
Si fittano? E quanto è questo fitto?
Bè possono costare poco e molto a seconda del modello, per esempio un milione o anche
dieci milioni al mese.
Dieci milioni il mese! O anime del purgatorio, e chi vuoi che se le piglia queste macchine
figlio mio bello? Tu comunque ricordati di rimanere sempre onesto. Non dimenticarti che
Nostro Signore che sta in cielo tutto vede e tutto sa. Sta là sopra, ci guarda e ci giudica.
Fu cosı̀ che, con la raccomandazione di Sant’Antonio e con la guida funzionale di nostro
Signore, incominciai a lavorare a Napoli. L’inizio fu particolarmente difficile. In effetti eravamo
nel millenovecentosessantuno e la clientela napoletana era ancora all’oscuro sulle possibilità
della contabilità meccanizzata. Il termine informatica non era ancora stato inventato.
Ingegnè ma io non ho capito, mi diceva un probabile cliente voi dite che per ogni articolo
che vendiamo dobbiamo per forza bucare una scheda. E chi la buca questa scheda, venite voi
qua e la bucate?
Nossignore, vi sarà consegnata una macchina perforatrice a mezzo della quale una vostra
impiegata, opportunamente addestrata da noi, provvederà alla perforazione delle schede.
Ah ho capito. Ma ingegnè scusate tanto, se noi dobbiamo bucare una scheda per ogni
articolo che vendiamo, qua dopo un anno avremo tutti gli uffici pieni di schede bucate. E dove
le mettiamo tutte queste schede bucate? Noi non abbiamo posto! No ingegnè secondo me
queste macchine non sono adatte per noi. Queste cose vanno bene per i milanesi, per i torinesi
che fanno le automobili, noi siamo un pastificio, vendiamo la pasta i clienti vanno e vengono, si
prendono la pasta e ci danno subito i soldi, fatture non ne facciamo, poi con i soldi paghiamo
gli operai e tutte le spese, e alla fine quello che ci rimane, in grazia di Dio, ce lo dividiamo in
famiglia, io ed i miei fratelli.
Insomma, diciamo che l’inizio fu difficile. Ma gli anni passarono e piano piano anche l’industria napoletana familiarizzò con la nuova scienza. Oggi i tecnici napoletani non hanno
niente da invidiare a quelli del Nord, anzi, per alcune applicazioni, si sono posti addirittura
all’avanguardia in campo nazionale.
Mia madre no. A lei rimase sempre una certa diffidenza per questo mestiere del figlio e per
queste macchine mostruose che costavano dieci milioni al mese.
Ad un certo punto poi le cose si complicarono ancora di più, e fu quando fui trasferito da
Napoli a Milano, e da rappresentante commerciale divenni PRM, public-relations-man. Spiegare
a mia madre che cosa erano le pubbliche relazioni fu un’impresa disperata.
Ma io non ho capito diceva lei tu la mattina alle nove vai a lavorare, apri il negozio e
che fai?
Mammà, io non debbo aprire nessun negozio, debbo solo facilitare e rendere migliori i
contatti della società con il mondo esterno. Hai capito?
No.
Giulia stammi a sentire intervenne come sempre mia zia. Quello il ragazzo (il ragazzo
ero io) deve essere gentile e cortese con la gente.
E lo pagano sempre?
E come non lo pagano! Le pubbliche relazioni sono una invenzione americana importantissima! Il ragazzo non appena riesce a vedere un cliente, lo piglia e gli dice: “Quanto siete
bello, andiamoci a prendere un caffè...”
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E quanti caffè si deve prendere in una giornata?
Ma lui i caffè non se li deve per forza bere, li offre solamente. L’importante è che sia
sempre cortese e gentile con le persone.
Ma perché, prima non era cortese e gentile?
Sı̀, ma adesso esagera.
Insomma, signori miei, non riuscii a far capire il lavoro delle pubbliche relazioni, e d’altra
parte era logico che cosı̀ fosse dal momento che a Napoli le pubbliche relazioni sono sempre
state fatte da tutti ed in forma completamente gratuita. E fu cosı̀ che, nemo propheta in
patria, rinunciai a trovare un riconoscimento adeguato alla mia nuova professione. Ancora
oggi, quando torno a Napoli, trovo enormi difficoltà a spiegare che cosa faccio alle persone che
mi vogliono bene. Per esempio, proprio l’altro giorno, sono andato da don Pasqualino, barbiere
a domicilio, venditore di oggetti d’antiquariato ed idraulico con l’aiuto di Dio, e lui, mentre
m’insaponava il viso, mi ha guardato e mi ha chiesto:
Ingegnè, ma voi siete un ingegnere di quelli che fanno i palazzi?
No, don Pasquali, io mi occupo di calcolatori elettronici, sto alla IBM.
Momento di pausa, poi bonariamente mi ha detto:
E va bene ingegnè, ma mò non ci pensate più. A voi poi che ve ne importa, pensate ‘a
salute!
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CAPITOLO 10. MIA MADRE
Capitolo 11
Epicuro
S’onori il bello e la virtù
ed ogni altra cosa simile
se recano piacere,
se no, salutatemeli tanto.
epicuro, Athen. XII.
Gennà, chiede il dottor Palluotto al professor Bellavista ma tu come la vedi questa
situazione economica italiana?
Siamo in pieno boom economico.
Ebbè tu certe volte mi fai veramente toccare i nervi! scatta il dottor Palluotto. Ma
come? Siamo in pieno boom economico? Uno con te non riesce mai a fare un discorso serio
che tu subito lo devi buttare in barzelletta. Il guaio è che oramai non puoi più resistere alla
tentazione di salire sul palcoscenico e di dire sempre qualcosa di sensazionale.
E va bene dottò interviene Saverio e non vi arrabbiate! Quello il professore poi che
ha detto? Ha detto che in Italia c’è ancora qualcuno che si sta facendo un poco di boom
economico.
Nossignore, Savè, il dottor Palluotto ha capito benissimo precisa il professor Bellavista.
Io ho detto che siamo in pieno boom economico e lo confermo.
In altre parole l’Italia e
gl’italiani non hanno mai avuto un cosı̀ alto tenore di vita. Da quanto ho avuto modo di vedere
durante queste estate i miliardari in Italia sono all’incirca cinquanta milioni.
E va bene, dice il dottor Palluotto sedendosi sentiamo questa nuova teoria economica
del professor Bellavista.
Caro Vittorio, tu sei troppo giovane e quindi non ti puoi ricordare di come si viveva prima
della guerra, ma se ci fosse ancora la buonanima di tuo padre qui con noi, io non avrei bisogno
di dare tante spiegazioni. Dunque vi stavo dicendo che prima della guerra tutti gli italiani, dico
tutti, vivevano con estrema misura. Eravamo un paese povero e sapendolo mantenevamo un
tenore di vita adeguato. Faccio qualche esempio: i ricchi mangiavano la carne una o al massimo
due volte la settimana, durante gli altri giorni ognuno s’arrangiava con le uova, le verdure e
la caciotta. I ristoranti praticamente non esistevano, i pranzi venivano cucinati dalle madri
di famiglia o da una razza, oggi completamente estinta, che era quella delle domestiche fisse:
vecchie domestiche che rimanevano in una famiglia tutta una vita.
Gli ultimi esempi di schiavitù dell’evo moderno!
Non bestemmiare Vittò! Le vecchie domestiche fisse della Napoli dei miei tempi rappresentavano i pilastri delle famiglie napoletane. Erano le vestali della casa! Non avevano marche
assicurative ma in compenso avevano tanti figli, tutti quelli che si erano cresciuti dividendone
l’amore con le madri effettive.
A casa mia quando ero ragazzo dice Luigino tenevamo una cameriera che si chiamava
Concettina. Quando sono nato io Concettina doveva avere qualcosa come quarant’anni e di
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52
CAPITOLO 11. EPICURO
questi quarant’anni credo che più della metà li aveva già passati in casa nostra. Concettina mi
aveva visto nascere e mi aveva pure cresciuto, e quando mi venne il tifo da bambino dice che
per quattro giorni e quattro notti non si mosse da vicino al mio letto, quattro giorni e quattro
notti senza dormire! Concettina quando a me servivano i soldi per andare, che so io, al cinema
oppure a comprarmi il castagnaccio, me li dava sempre lei. In pratica io credo che tra me ed i
miei fratelli, tutti i soldi di Concettina finivano di nuovo nelle tasche nostre. E già perché quella
Concettina parenti al paese non ne aveva e quando morı̀, salute a noi, nella sua stanzetta non
trovarono nemmeno una lira. Aveva un cassetto dove fu trovata una fotografia sua di quando
aveva vent’anni e stava sotto al braccio di un marinaio. Sulla fotografia c’era una dedica che
diceva: “Al mio grande amore napoletano, Gustavo”. E poi tante piccole cose: i disegni che io
facevo a scuola, le fotografie delle prime comunioni mia e dei miei fratelli, e tante immaginette
di San Giorgio. E già perché Concettina era molto devota a San Giorgio, quello che uccise il
drago, e ogni tanto faceva un voto: per esempio quando papà mio partı̀ per la guerra, lei fece
il voto a San Giorgio che se papà fosse tornato sano e salvo non avrebbe mangiato più frutta
per tutta la vita.
E voi chiede il dottor Vittorio l’avete ricompensata non pagandole le marche assicurative.
Non lo so dottò, ma noi a Concetta le volevamo bene e se le avessimo pagate le marchette
io penso che Concetta si sarebbe dispiaciuta.
Questa è retorica Luigı̀! Il fatto è che, a prescindere dall’episodio di Concettina che probabilmente era diventata una persona della famiglia, spesso certi episodi di amore, per usare
un’espressione cara al nostro esimio professore qua presente, non sono altro che comodi sistemi
per sfruttare l’ignoranza del popolo.
Vittò, come stiamo lontani! dice addolorato il professore.
Ma io non ho capito, interviene Salvatore che c’entra Concettina con il boom economico
italiano?
Ha ragione Salvatore dice Bellavista. Le vecchie domestiche napoletane ci avevano portato fuori strada. Dunque io stavo dicendo che prima dell’ultima guerra, in Italia, anche i ricchi
vivevano con estrema misura ed acquistavano solo le cose assolutamente indispensabili. Io per
esempio, da ragazzo, una volta sola, siccome ero malato, ebbi in regalo un giocattolo, un cavalluccio a dondolo che avevo sempre desiderato, ma mio padre, prima di decidersi all’acquisto,
volle assicurarsi con il medico di famiglia che veramente mi trovavo in pericolo di vita Nelle
ricorrenze tradizionali invece, befane ed onomastici, sı̀ e no si riusciva ad avere qualche fesseria.
Il compleanno era del tutto ignorato e Babbo Natale non si sapeva nemmeno chi fosse.
Sı̀, però c’era dice Luigino un tipo di regalo che oggi non si usa più.
E quale sarebbe?
‘A bella cosa! Uno andava, ad esempio, a fare una visita ad una nonna, ad una zia e si
sentiva sempre dire: “Nennı̀, mo’ a zia sai che te dà! te dà na bella cosa!”. E cosı̀ uno aveva,
che so io, un biscotto, una caramella... Io credo che se oggi una zia volesse dare una caramella
ad un nipote, facilmente si sentirebbe rispondere “no grazie” e buonasera.
Insomma continua Bellavista la vita era più semplice. Certi consumi non esistevano:
per esempio la villeggiatura era un fatto d’élite e nessuno, dico nessuno, faceva il week-end.
Non esisteva nemmeno la parola! Mio padre e mia madre andarono una sola volta a Capri nella
loro vita e fu in occasione delle nozze d’argento. Ci mandarono una cartolina su cui avevano
scritto: “Saluti da Capri, mammà e papà”.
E questo che c’entra con il boom economico? chiede il dottor Vittorio.
C’entra c’entra, perché malgrado la crisi nazionale ed internazionale, il grosso del paese
non ha voluto ridimensionare i propri sprechi: i cinema, i teatri, gli stadi, i posti di villeggiatura
ecc. ecc. hanno continuato a registrare il tutto esaurito come se gli arabi non avessero detto
niente.
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Tu t’illudi Gennà, ma io ti garantisco che quest’anno la nazione, che non ti dimenticare è
fatta soprattutto di operai e di contadini, ha drasticamente ridotto il suo tenore di vita e che
Capri e Saint Moritz non fanno testo, perché proprio gli abituè di Capri e Saint Moritz sono
quelli che non hanno risentito della crisi economica.
Non sono d’accordo, perlomeno non lo sono sulla misura del fenomeno che tu mi citi. Il
contadino e l’operaio non hanno rinunciato ancora a certe conquiste come la 500 e come la
carne per secondo.
E perché ci dovrebbero rinunciare?
Questo è un altro discorso, io volevo solo dire che la crisi è ancora solo sui giornali e non
lo è, come presa di coscienza, nell’animo dei cittadini.
Ma perché professò dice Salvatore io non ho capito, ma noi che dovremmo fare?
Epicuro un giorno disse:
“Se vuoi arricchire Pitocle, invece di aumentarne le rendite
sfrondane i desideri!”
E che voleva dire professò?
Voleva dire che se fossimo tutti un poco più modesti nelle nostre pretese non avremmo
nessuna crisi economica.
Quello il professore spiega Saverio è sempre stato devoto a Sant’Epicuro.
Savè, Epicuro non è stato mai santo, anche se a parere mio se lo sarebbe veramente
meritato.
E perché non lo hanno voluto santificare professò?
Innanzitutto perché è nato nel IV secolo avanti Cristo e poi perché quasi tutti ne hanno
sempre parlato male.
Infatti, precisa il dottor Vittorio epicureo si dice di una persona che pensa solo a
mangiare, bere e a godersi la vita.
E chiamalo fesso! esclama ammiccando Saverio. Ovviamente dottore quando voi dite
godersi la vita volete alludere alla soddisfazione completa dei sensi?
Ecco qua, protesta il professore stiamo facendo finire Epicuro nella monnezza!
Ma quello è stato il dottore che ha detto che il cavaliere Epicuro era uomo di mondo.
E invece non avete capito niente. E adesso se permettete vi illustro io in cinque minuti
l’etica di Epicuro, a cui noi napoletani dobbiamo bene o male il nostro carattere.
Veramente? e perché?
Perché uno dei principali seguaci di Epicuro fu un certo Filodemo di Gadara, vissuto
nel I secolo avanti Cristo. Filodemo si trasferı̀ a Napoli, ad Ercolano per essere precisi, e
qui fondò un’importantissima scuola epicurea sul modello del “Giardino di Atene”. In questa
scuola Filodemo insegnava al popolo napoletano la classificazione dei piaceri ed il disprezzo del
potere.
Infatti professò, il napoletano è sempre stato un poco, come dire, filosofico dice Saverio.
Dunque, continua Bellavista Epicuro diceva che esistono tre tipi di piaceri: i piaceri
primari che sono naturali e necessari, i piaceri secondari che sono naturali ma non necessari ed
i piaceri vani che non sono né naturali né necessari.
Non ho capito professò, ma di quali piaceri parlate?
Un poco di attenzione e mi spiego meglio. Dunque i piaceri primari, quelli cioè naturali e
necessari, sono il mangiare, il bere, il dormire e l’amicizia.
Mangiare, bere, dormire, l’amicizia e basta? chiede Saverio. Professò, ma siete sicuro
che non vi siete dimenticato qualcosa di veramente importante?
No Savè, per Epicuro il sesso era un piacere secondario, ovvero naturale ma non necessario.
Veramente io non sono d’accordo con questo amico vostro dice contrariato Saverio.
E a noi non ce ne importa!
Allora, stavo spiegando che Epicuro, quando diceva che
il mangiare ed il bere erano importanti, non intendeva dire che uno si deve abboffare appena
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CAPITOLO 11. EPICURO
possibile, ma al contrario sosteneva che bisognava accontentarsi dello stretto necessario e quindi
per piacere primario lui intendeva: il pane come mangiare, l’acqua come bere, ed un pagliericcio
come dormire.
E che schifezza di vita che faceva questo Epicuro!
Sissignore, però in compenso questi piaceri erano importantissimi perché erano tutti vitali e una volta che essi fossero stati esauditi l’uomo poteva valutare con maggiore serenità
l’opportunità di tentare qualche piacere secondario.
Per esempio?
Per esempio, il formaggio. È ovvio che il pane e formaggio è più buono del pane solamente,
però è altrettanto vero che il formaggio non è un bene indispensabile. Quindi un uomo che fa?
Chiede quanto costa questo formaggio: se costa poco, se lo compra, se invece costa molto dice:
grazie lo stesso ma veramente io ho già mangiato.
Questo lo diceva sempre Epicuro? chiede Saverio.
Sissignore. In altre parole tutti i piaceri secondari, come il mangiare meglio, il bere meglio,
il dormire meglio o come l’arte, l’amore sessuale, la musica, eccetera eccetera, debbono essere
valutati caso per caso, momento per momento, in modo da poter fare un bilancio dei vantaggi
e degli svantaggi che ci procurano. Avete capito?
Sı̀ professò ma è meglio se ci fate ancora qualche esempio.
E va bene, e allora supponiamo che Saverio oggi conosce una bellissima donna e che questa
donna dice a Saverio che vuole fare l’amore con lui...
Fosse ‘o cielo professò! esclama Saverio. Però sia chiaro che io soldi non ne caccio!
Ecco qua, come vedete Saverio già ha posto una condizione: la donna può essere bella quanto vuole lei, ma se ad esempio volesse una centomila lire, a Saverio la cosa non interesserebbe
più.
Centomila lire! E per chi mi avete pigliato! Se si trattasse di una cinquemila lire e se la
signora ci mettesse molto sentimento, si potrebbe pure vedere.
Supponiamo inoltre che questa donna sia anche l’amante di un guappo, e che Saverio sa
che se questo guappo lo scopre sul fatto è finita per lui, io vi domando: Saverio che fa?
Si caca sotto professò, dice Salvatore e dice alla signora in questione che a lui veramente
non ci piacciono le donne.
Non offendiamo Salvatò, che qua il sottoscritto non si è messo mai paura di nessuno. Però
dico io, con tante donne che ci sono sulla faccia della terra io poi non capisco perché mi dovrei
mettere proprio con questa amante del guappo, dico bene o no?
Insomma Saverio che ha fatto? Ha valutato i pro ed i contro di questo piacere secondario
ed ha deciso che tutto sommato la cosa non è di suo interesse. E questa è, né più né meno, che
la filosofia di Epicuro.
Ma sinceramente professò, non mi sembra una filosofia molto originale commenta Saverio.
Piano piano. Approfondiamo meglio l’argomento. Noi prima abbiamo detto che ogni qual
volta io mi trovo a desiderare un piacere secondario debbo sempre valutarne la convenienza, ed
allora proviamo ad applicare questo concetto alla vita aziendale dell’ingegnere qua presente.
A me? dico io. A me come ingegnere?
Precisamente, a lei come lavoratore.
Dunque lei oggi percepisce uno stipendio per cui
tutto sommato diciamo che non le manca niente. Ad un certo momento però le viene in testa
di volersi fittare una villetta al mare. È naturale che le piaccia il mare e quindi ci troviamo
sicuramente di fronte ad un piacere secondario: naturale ma non necessario. Si rende conto
però che, per riuscire a fare i soldi del fitto deve anche fare carriera e fare carriera comporta
tutta una serie di sacrifici: lavorare fino a tardi la sera, dare ragione al proprio superiore anche
quando ha torto, andare a lavorare a Milano invece di rimanere a Napoli, e cosı̀ via. Ora Epicuro
in questo caso come si comporterebbe? Direbbe: volete sapere una cosa? Io mi accontento di
come sto e tutto sommato di questa villetta al mare me ne fotto.
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Caro Gennaro, questo Epicuro descritto da te è ancora peggio dell’Epicuro che conoscevo
io dice il dottor Palluotto. Questa non è filosofia, questa è superficialità e te lo dimostro.
Punto primo: se l’ingegnere avesse sempre ragionato cosı̀ come dice Epicuro, non sarebbe
diventato mai ingegnere e non avrebbe raggiunto l’attuale stato di benessere. Punto secondo:
se oggi l’ingegnere lavora e vuole fare carriera, non lo fa solamente per comprarsi la villetta
o il motoscafo, ma perché nella vita ci sono anche degli altri valori, che tu forse ignori, ma
che si chiamano soddisfazioni morali. Terzo ed ultimo punto: chi ti dice a te che il lavoro per
l’ingegnere sia un sacrificio? Supponi invece che l’ingegnere si diverta a lavorare, ora dimmi tu
perché dovrebbe rinunciare a questo piacere.
Superficiale non è la filosofia di Epicuro, superficiale sei tu, carissimo Vittorio, quando
non capisci quello che ti dico. Ma procediamo con ordine e rispondiamo innanzitutto alla terza
obiezione, ovvero all’ipotesi che l’ingegnere si diverta a lavorare. Ipotesi strana ma possibile.
Ebbene in questo caso l’inconveniente citato come “lavorare tutto il giorno” viene cancellato
dalla lista dei “contro” e viene inserito nella lista dei “pro”, senza per questo invalidare il
metodo epicureo per il quale, prima di decidere se perseguire o no un dato piacere, è necessario
procedere ad una valutazione globale del problema. Lavorare tutto il giorno però significa
anche trascurare altri aspetti della vita; l’affetto di una moglie, il vivere di più accanto ai figli,
il leggere, il passeggiare e tante altre cose possibili. Comunque sia chiaro che l’individuo è
sempre padrone, secondo le proprie inclinazioni, di preferire un piacere secondario ad un altro
piacere secondario. Quello che invece non gli è consentito è il trascurare un piacere primario a
favore di un piacere vano.
E sarebbe?
Parlo dell’amicizia, ovvero del nutrimento dello spirito.
E per amicizia qui dobbiamo
intendere l’amore che possiamo provare per il nostro prossimo. Ora purtroppo il lavoro, quando
oltrepassa certi limiti, non lascia più il tempo necessario per coltivare gli affetti e quindi non
consente più il godimento di un piacere primario.
Nessuno dice che l’ingegnere per fare carriera debba per forza abbandonare la famiglia o
non avere più amici!
E allora devi ammettere che si tratta di una semplice questione di misura. E qui ti volevo:
tu dici che l’ingegnere se avesse ragionato sempre come Epicuro, non avrebbe raggiunto il suo
attuale stato di benessere, non avrebbe studiato non si sarebbe laureato e non avrebbe occupato
quella posizione che oggi occupa. Ed io ti rispondo che non è detto E già perché Epicuro non
dice che tu devi vivere stando pancia all’aria senza fare niente, in quanto questa scelta potrebbe
essere pericolosa ai fini della tua sopravvivenza e non garantirebbe i tuoi bisogni primari. E
allora Epicuro che fa? Dice all’ingegnere: tu, se hai tempo a disposizione, studia, lavora,
ma cerca di distribuire questo tempo fra tutte le cose importanti che la vita ti offre. E cosi,
finalmente, siamo arrivati alla sostanza della tua critica: le soddisfazioni morali connesse al
lavoro! Ora io posso capire il ciabattino che con una mano si accarezza la suola delle scarpe
che ha appena terminato di fare. Io posso capire il falegname che convince il legno a diventare
mobile o l’artista che socchiude gli occhi per meglio guardare la sua opera, ma non riesco a capire
la soddisfazione dell’impiegato, che sogna di diventare dirigente. Non capisco il deputato che
vuole diventare ministro, il vicedirettore che vuole diventare direttore Non capisco l’uomo che
desidera il potere non per quello che il potere può dare ma per quello che il potere rappresenta.
Il disprezzo del potere è alla base di tutta la filosofia epicurea. Il potere è il piacere vano per
eccellenza. Ricordatevi che sono “vani” tutti i piaceri non naturali e non necessari e che quindi
essere assessore, essere dirigente, portare un pezzo di pietra al dito che costa un patrimonio
solo perché si chiama diamante, sono tutti beni che un individuo sano anche se gli venissero
offerti gratuitamente, dovrebbe sempre evitare per rispetto alla sua stessa persona.
Io però non ho capito una cosa dice il dottor Palluotto ma se a un povero dio piace
diventare assessore, a te che te ne importa? Che male ti fa?
56
CAPITOLO 11. EPICURO
A me niente, a lui stesso moltissimo. E già perché, avendo desiderato un piacere vano,
il poveretto viene subito coinvolto in un’attività competitiva. Tutti i piaceri vani, in quanto
convenzionali, sono anche competitivi. Infatti questi piaceri, non essendo naturali, sopravvivono
solo grazie al condizionamento cui viene sottoposta la società, e allora che succede: che se in
un certo ambiente viene messo in palio per più persone un solo titolo di capoufficio, tutti gli
aspiranti a questo titolo, in quanto rivali, non riescono più a raggiungere un rapporto di amicizia.
Io, per esempio, la sera, dopo mezzanotte, mi vado a fare due passi a Mergellina e capita spesso
che incontro qualche amico. Anzi spesso incontro proprio Luigino. È vero Luigino?
E come no! risponde Luigino. Noi chiacchierando chiacchierando certe volte facciamo
le due, le tre di notte. Il professore per esempio mi dice: “Luigı̀ mò ti accompagno a casa” ed
arriviamo fino a sotto il portone di casa mia, e allora io poi, siccome mi dispiace di lasciarlo solo,
gli dico: professò mò vi accompagno io” e cosı̀ andiamo fino a casa sua. E questo facciamo:
io accompagno a lui e lui accompagna a me, e parliamo parliamo...
La strada è fatta per parlare e camminare commenta Bellavista.
Ma questo che c’entra? chiede il dottor Palluotto.
C’entra, c’entra! È addirittura illuminante! Io con questo discorso sulle passeggiate notturne volevo evidenziare che nessun potente, nessun Kissinger, nessun Breznev, Carli o Cefis,
possono permettersi il lusso di passeggiare la notte con un amico, e questo per ben due motivi:
primo perché non ne avrebbero il tempo e secondo perché forse non hanno nemmeno un amico
con cui parlare.
Ma scusami Gennà, ma che esempio del salsiccio mi stai facendo!
protesta il dottor
Palluotto. Tu mi citi due persone che praticamente non fanno niente dalla mattina alla
sera. Tu e Luigino, per quello che producete sulla terra, vi potete fare pure tutta la nottata a
passeggiare, tanto quello che è certo è che la mattina dopo non avete niente da fare. Ma io, e
mi dispiace per il tuo Epicuro, mi rifiuto nella maniera più categorica di concepire la vita come
un fatto puramente edonistico.
E adesso non bestemmiare Vittò!
grida il professore Bellavista. Tu mi confondi la
temperanza epicurea con l’edonismo dei cirenaici!
Dottò, mi meraviglio di voi dice Saverio guardando con disapprovazione il dottor Palluotto.
Vivere il momento, acchiappare il piacere non appena sia possibile e dovunque esso si
trovi, non è stato mai il credo di Epicuro! Era Aristippo di Cirene che predicava la ricerca del
piacere.
D’accordo dice Palluotto ma anche una vita basata sul disimpegno totale non può essere
accettata. L’hippy, vestito di stracci, che si trascina di paese in paese, vivendo come un parassita
alle spalle di quella stessa società che lui condanna, a me sinceramente fa schifo.
E gli hippies non sono epicurei, sono cinici!
Dicendo questo mi confondi Epicuro con
Diogene!
Dottò dice sempre Saverio oggi non è giornata vostra: non ve ne va bene una.
Epicuro, il grande Epicuro, l’apostolo del giusto impegno diceva che la prima virtù era
la temperanza, la misura! E Napoli è la terra delle cose fatte fino ad un certo punto. La
produttività può essere fatale come l’ignavia!
Se non sbaglio, dico io giorni fa lei ci diceva che anche nella filosofia cinese si professava
questa teoria del giusto mezzo.
Non solo nella filosofia cinese, ma anche in quella indiana e nella stessa filosofia greca
da altri grandi pensatori. Il primo tra i cinesi a parlare della “dottrina della via di mezzo”
fu un nipote di Confucio che si chiamava Tse-ssu o qualcosa del genere, ma per leggere una
vera apologia sulla temperanza bisognerà aspettare altri due secoli e finalmente con Ciuang-tse,
il grande filosofo taoista, avremo la teoria del “cammino mediano” ed il concetto di “felicità
relativa”.
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E chi ne capisce niente! commenta Saverio. Con tutti questi Ciuang e Sik Sik che
conosce il professore.
Non posso però farvi andare via senza citare il più illustre assertore di questa teoria:
Aristotele continua imperterrito il professore Bellavista. Il principio aristotelico del mezzo
si rifà ad una precedente dottrina di Platone e afferma che la virtù è il punto equidistante fra
due estremi.
Buonanotte professò protesta Saverio a questo punto vi state capendo voi solamente!
Ed infine ricordiamoci del padre moderno della filosofia del buon senso: Giovanni Loc
ke riprende il professore, ormai inarrestabile. Locke fu quel filosofo che disse: “Il controllo
delle nostre passioni rappresenta il giusto accrescimento della nostra libertà”. Purtroppo i filosofi del piacere sono sempre stati boicottati dagli utopici che nella storia della filosofia, hanno
finito per prevalere. E questo, a mio parere, non perché le loro idee fossero migliori ma solo
perché erano superiori di numero. Basta pensare che, verso la fine, del diciottesimo secolo,
la Germania non faceva altro che fabbricare filosofi idealisti: Kant, Fichte, Hegel, tutta gente
tedesca di nascita e tedesca di idee. Parlavano molto e scrivevano ancora di più, per cui i poveri
filosofi del piacer moderato, i Bentham, i Mill, in tutto questo casino non riuscirono nemmeno
a farsi sentire...
Professore, professò, noi non stiamo capendo niente.
E come botta finale, piglia e chi ti arriva? Carlo Marx e Federico Nietzsche. Alla faccia
del caciocavallo! Sı̀ sı̀, mettiti a parlare con Federico Nietzsche di prudenza e quello il minimo
che fa ti sputa in faccia!
Professò, noi non stiamo capendo niente dice Salvatore E chi è questo Federico non-socome che sputa in faccia alla gente?
Federico Nietzsche. Quello che disse: “Non sono i vostri peccati che gridano vendetta al
cielo, ma la vostra moderazione, l’avarizia che conservate nei vostri stessi peccati!”
Professore!... Professò, noi non stiamo capendo il resto di niente dice Saverio.
Hai ragione Savè. E allora io adesso per farmi perdonare ti racconto una storiella facile
facile di Ciuang-tse. Dunque Ciuang racconta che un giorno, dovendo andare a trovare un suo
zio...
Zi’ Confucio?
No Savè, il nipote di Confucio era un altro filosofo. Questo invece è Ciuang-tse, il filosofo
taoista. Dunque ti stavo dicendo che Ciuang per andare da questo suo zio doveva attraversare
un grande bosco. Ad un certo punto però, siccome si era stancato, si mise a riposare sotto
ad una grande quercia secolare. Non erano passati nemmeno dieci minuti che arrivarono dei
taglialegna e si misero a tagliare certi alberi di pioppo che stavano davanti alla quercia. Ora
sembra che, mentre i taglialegna facevano il loro lavoro, la quercia disse a Ciuang...
La quercia? La quercia parlava? chiede Saverio. A Professò secondo me questa dev’essere
un’altra puttanata cinese!
Statte zitto Savè! dice Salvatore. Questo è un racconto allegorico. Professò non lo date
retta e diteci che cosa disse la quercia a quell’amico vostro.
Dunque la quercia disse: “Ciuang, come vedi, sono venuti a tagliare gli alberi più utili e
tu da questo puoi capire perché io ho impiegato cinquecento anni ad imparare a far diventare
inutile il mio legno”. Ciuang riprese il viaggio e pensò che appena tornato a casa sua avrebbe
dovuto scrivere un libro sull’utilità dell’inutile. Nel frattempo però era giunto dallo zio e questo
fu cosı̀ contento di vederlo che ordinò al suo servo di ammazzare un’oca per festeggiare l’arrivo
del nipote. Il servo, prima di andare nel cortile dove stavano le oche, chiese allo zio di Ciuang
se doveva ammazzare l’oca che stava covando le uova, oppure quella che di uova non ne faceva
nemmeno. Ovviamente lo zio disse di ammazzare l’oca più inutile e fu cosı̀ che Ciuang-tse, per
tornarsene a casa, prese il sentiero di mezzo.
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CAPITOLO 11. EPICURO
Capitolo 12
Eccesso di velocità.
Ma vedete dottò, mi dice il tassista mentre siamo fermi nel traffico a qua non si tratta di
una questione di strade! Qua il guaio è che il cittadino napoletano prende la macchina pure
se si deve fare il giro intorno al palazzo per comprarsi un pacchetto di sigarette. È comme se
dicesse: “Io ho faticato una vita sana sana per farmi l’automobile e mò che me la sono fatta
me ne voglio vedere bene!” Voi adesso sicuramente non mi crederete, ma qua la domenica
pomeriggio verso le cinque, cinque e mezza, il napoletano medio sapete che fa? S’imbarca con
tutta la famiglia e si va a fare una passeggiata sulla Caracciolo. Sissignore, si fa Mergellina,
Via Caracciolo, Via dei Mille, Via Crispi e poi scende di nuovo a Mergellina: con tre giri riesce
a tornare a casa giusto giusto per Carosello. Lui si diverte nel traffico!
Sı̀ però secondo me la colpa è anche dei vigili urbani che non fanno rispettare il codice
della strada. Prendete ad esempio il fatto del clacson. A Napoli lo suonano tutti e quasi sempre
per nessun motivo...
Dottò ma il clacson non lo dovete pensare, quello uno o suona solo per sentirsi in compagnia. Qui la tragedia è che siamo diventati tutti automobilisti. Ecco qui! Tu guarda a chist’
disgraziato comme s’è ‘mpezzato! (come si è infilato) grida improvvisamente maledicendo una
cinquecento che gli aveva tagliato la strada. Io mò voglio proprio vedé chi è stu piezze ‘e
fetente. Gesù, Gesù, ma chella è ‘na femmena! Tu vide che se passa. Pure ‘e femmene ce
vulevano! Invece ‘e fa ‘e zoccole ‘mmiez a via, statavenne ‘a casa vosta! (Io adesso voglio
proprio vedere che è questo pezzo di fetente. Gesù Gesù ma quella è una donna! Anche le donn
ci volevano! Invece di fare le puttane per la strada, restate nelle vostre case!). Voi mò siete
stato testimone: io se non ero pronto a frenare, qua stamattina avevo passato nu guaio!
Ma veramente voi vi eravate voltato indietro per parlare con me.
Ma che, volete scherzare dottò? Io tengo la patente da ventidue anni e non ho mai avuto
incidenti. Io sono sempre stato tamponato, io! Multe quasi mai: qualche divieto di sosta in
questi ultimi tempi, datosi che fino a poco tempo fa tenevo sopra al comune uno zio da parte di
mammà che mi faceva togliere tutte le multe; sennonché, salute a noi, il Signore se lo è voluto
chiamare in cielo e adesso mi debbo stare un poco più accorto a dove lascio la macchina. A
proposito di multe, dottò, voi dovete sapere che il sottoscritto è l’unico automobilista al mondo
che ha preso una multa per eccesso di velocità andando dietro ad un funerale.
Come? chiedo io ridendo. Dietro a un funerale?
Sissignore, mi dice voltandosi proprio dietro ad un funerale, e già perché voi dovete
sapere che io, quel giorno del funerale, seguivo il feretro portando con me la vedova e due nipoti
del defunto. Sennonché, arrivati a Via Foria, la vedova smise improvvisamente di piangere e
dopo aver gridato come una pazza: “Giuvannı̀, voglio murı̀ pur ‘io cu tte!” aprı̀ lo sportello
posteriore destro e tentò di buttarsi sotto alle ruote di un filobus che ci veniva subito dietro. A
Napoli sapete com’è: il dolore ci esalta ed in certi momenti siamo capaci di fare qualsiasi fesseria.
Fortunatamente però il nipote che stava seduto vicino alla vedova riuscı̀ ad acchiapparla per
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CAPITOLO 12. ECCESSO DI VELOCITÀ.
i vestiti e cosı̀, tra strille ‘e allucche’ (grida stridule), tutti quanti insieme: io, i nipoti ed i
passeggeri del filobus, riuscimmo a calmare la vedova disperata. Ovviamente però in tutto
questo trambusto ci eravamo perso il carro del defunto e cosı̀ io fui costretto ad iniziare il mio
primo inseguimento della giornata. La disgrazia volle che una macchina targata Napoli che
mi stava davanti, e che doveva essere portata da qualche straniero perché si fermava a tutti i
semafori rossi, mi fece perdere un sacco di tempo per cui l’inseguimento fu alquanto difficoltoso
e fu solo a piazza Carlo III che riuscii ad accodarmi nuovamente al carro del defunto. Stavo
camminando di nuovo a velocità funebre quando il nipote che si era seduto vicino a me si mise
a gridare: “Ma quello non è zio Giovannino!” Avevo sbagliato feretro! Stavo seguendo un altro
funerale! “Giuvannino mio non me lassà!” gridava la vedova. “A zı̀, nun facite accussi ” (zia
non fate cosı̀) gridavano i nipoti. Nel taxi non si capiva più niente: io, da lontano, intravidi un
altro carro funebre sulla salita di Capodichino. Sorpassai il carro falso e premetti tutto il piede
sull’acceleratore quando eccolo là; un disgraziato di vigile motociclista della stradale che mi si
para davanti con la paletta. E che dovevo fare? Mi fermai e scesi per spiegare alla guardia la
situazione drammatica; e diciamo che ci ero pure riuscito, quando improvvisamente la vedova,
in un momento di distrazione dei nipoti, piglia e cerca di buttarsi da sopra al ponte della salita
del Campo. È stato cosı̀ che nel tentativo di salvare la vita alla vedova io non volendo feci lo
sgambetto al signor brigadiere, che poi pure io caddi per terra facendomi male a un ginocchio.
Anzi, diciamo la verità; noi ci facemmo male tutti quanti, quella solo la vedova non si fece
niente.
Capitolo 13
Il basso
L’uccello ha il nido
il ragno la tela
l’uomo l’amicizia
william blake
Gennaro carissimo, forse quando discuto con te, se non arriviamo mai ad una conclusione,
il torto è solo mio. E già perché tu hai il gusto del paradosso, dell’aneddoto, tipico per un
napoletano, mentre io invece, vivendo a Milano, mi sono abituato a razionalizzare i problemi.
E allora sai che succede? Succede che a un certo punto m’incacchio, mi metto a gridare e tu
ti diverti. Oggi invece mi sono imposto di conservare la massima calma e voglio, dico voglio,
ottenere un risultato pratico dalla nostra discussione.
E quale dovrebbe essere questo risultato pratico?
Voglio che tu ammetta che la concezione di vita epicureo-napoletana, da te cosı̀ bene
illustrata, non può portare ad alcun progresso civile.
E allora non hai bisogno di fare nessuna discussione con me, perché io sono già convinto
che la filosofia epicureo-napoletana non può portare a quel progresso che tu consideri civile.
Che vuoi dire?
Voglio dire che il problema non è tanto nel metodo di vita quanto nel fine che si vuole
raggiungere. Qua bisogna mettersi prima d’accordo su che cosa intendiamo per “progresso
civile”.
Secondo te Napoli, i bassi, il mare inquinato, la disoccupazione, il colera e via dicendo
sono un esempio di progresso civile?
Piano piano, sono migliaia di anni che l’umanità si domanda quale sia il fine vero della
vita e tu adesso vorresti che io qua in due minuti piglio e te lo dico!
E va bene, ribatte ironicamente il dottor Vittorio e allora vuol dire che adesso mi prendo
un anno di aspettativa, cosı̀ tu potrai avere tutto il tempo che vorrai per illuminarmi.
Sai che ti dico? Che mi sei più simpatico quando t’incazzi che quando fai lo spiritoso.
Ti chiedo scusa Gennà, ma mi dimenticavo che qua lo spiritoso lo puoi fare solo tu.
E’ vvi’lloco dice Salvatore mò s’appiccecano! (Eccoli là, adesso litigano)’
Nossignore, dice il professore procediamo con ordine. Dunque, tu prima hai cominciato
a citare i bassi napoletani e mi hai chiesto se a mio parere i bassi potevano costituire un
esempio di civiltà. Ebbene io potrei pure risponderti che, visti da un’angolazione epicurea, i
bassi napoletani possono essere considerati modelli di civiltà.
Hai visto Filumena Marturano Gennà? chiede il dottor Palluotto. Ti ricordi di quando
Filumena la ‘napoletana” racconta la sua infanzia nel basso? Ebbè sai che ti dico? Che se
Eduardo ti sentisse dire che il basso è un modello di civiltà ti potrebbe pure uccidere, ma no
con un colpo di pistola... con le mani ti ucciderebbe Gennà, con le mani!
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CAPITOLO 13. IL BASSO
La tragedia dell’umanità è la parola! Miliardi di sensazioni, miliardi di concetti e pochissimi
vocaboli per esprimerli. A volte penso che se avessimo usato i numeri al posto delle parole, per
manifestare il nostro pensiero, probabilmente saremmo riusciti a trovare un più esatto mezzo
di comunicazione.
Professò non ho capito niente dice Saverio. Di che numeri state parlando?
Voglio dire, Saverio mio, che quando io dico “civiltà”, questo suono che tu senti uscire
dalla mia bocca: “civiltà”, per me significa una cosa, per te un’altra e per il dottor Vittorio
un’altra ancora.
E allora che dobbiamo fare?
Dobbiamo aver pazienza e parlare. Parlare e cercare di capirci, evitando le prevenzioni ed
i condizionamenti.
E va bene dice il dottor Vittorio ti ascolto. Però tu adesso spiegami che cosa significa
nel tuo vocabolario la parola civiltà.
Vedi Vittò, quando uno dice civiltà pensa subito alle cose più importanti realizzate dall’uomo e finisce cosı̀ con il confondere la civiltà con il progresso. La civiltà vera invece, quella
che dico io, è qualcosa di più, è la presenza dello spirito dell’uomo nelle cose. Tu prendi per
esempio la tua azienda di Milano, quella dove tu lavori, ora io adesso non la conosco, è vero,
però immagino che siccome sta a Milano deve essere un’azienda organizzatissima: bellissimi
uffici, segretarie, centralini telefonici e compagnia cantando, eppure Vittò io ti domando: ma
secondo te, questa azienda è un fatto di progresso o di civiltà? Ha una dimensione umana
questa azienda in cui tu ti puoi riconoscere?
Che vuoi dire per dimensione umana?
Un venditore ambulante costituisce un esempio elementare di azienda a dimensione umana,
diciamo che è una bicicletta che cammina finché sopra c’è un ciclista uomo che pedala. Ma la
tua azienda forse non è una bicicletta, forse è un maxi-tandem con centinaia di persone che
pedalano, e un giorno a te verrà il sospetto che potresti anche non pedalare, più, tanto il maxitandem camminerebbe lo stesso, ed un altro giorno, se questo maxi-tandem fosse diventato cosı̀
lungo da avere bisogno di migliaia di pedalatori, ti verrebbe il sospetto che se anche scendete
tutti la bicicletta continuerebbe a camminare. Ecco, questo è il punto in cui l’azienda viene
a perdere la dimensione umana. Quel giorno, quando saranno scesi tutti, tu ti accorgerai che
sul maxi-tandem sono rimasti a pedalare soltanto degli uomini-finti, del tutto simili agli altri
uomini-veri ma con gli occhi spenti. Ed avrai paura, ti verrà il dubbio che se un giorno, a
causa di un cataclisma mondiale, che so io, di una bomba atomica, la razza umana cessasse
di vivere, questa tua azienda continuerebbe a camminare, magari fino al prossimo 27; e in un
mondo pieno di morti e di silenzio si sentirebbe solo il rumore di qualche macchina elettronica
che stampa cedolini stipendio, fatture e cortesi lettere di sollecito.
E qual è il numero di dipendenti che un’azienda non deve superare per conservare la
dimensione umana?
Questo numero dipende da te, dalla tua capacità d’amore. Finché durante un convegno,
salendo su un pullmann della società, tu riuscirai a conoscere tutte le persone per nome, e
allora potrai dire che la tua azienda ha ancora qualcosa di umano. Il giorno in cui invece non
conoscerai più nessuno, sappi che quel giorno anche tu avrai perso nome e cognome.
E allora secondo voi professò dice Salvatore le aziende grandi dovrebbero spaccarsi in
tante aziende piccole? Dico bene o no?
Dici benissimo Salvatò. E prima o poi saranno costrette a farlo.
Purtroppo ti sbagli, Gennaro mio ribatte il dottor Vittorio. È dimostrato che solo le
grandissime aziende possono raggiungere un’ottimizzazione dei costi. Oggi la tecnologia non
perdona, presuppone forti investimenti di ricerca e solo una grande azienda a livello mondiale
può permettersi il lusso di sostenerli.
Sı̀ lo so, adesso le cose stanno proprio come dici tu, ma in un prossimo futuro non sarà
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cosı̀, avremo la terza fase industriale o “fase dell’amore” e saremo tutti costretti a ritornare alla
dimensione umana.
E quale sarebbe professò, questa fase dell’amore? chiede Saverio.
Signori miei, il motore dell’azienda moderna è l’incentivo, ora fino a pochi anni fa questo
incentivo, senza il quale l’uomo non si spostava di un centimetro, era il bastone. Tu non lavori?
Ed io ti licenzio! La “fase del bastone” però è durata più o meno fino agli anni 60, fino a
quando lo statuto dei lavoratori con il licenziamento per giusta causa ed il salario garantito
non ha tolto il bastone dalle mani del datore di lavoro. E allora l’azienda ha reagito ed ha
inventato la “fase della carota”. Tu lavori? Ed io ti premio, io ti pago di più! Ma nel corso
degli anni 70 nasce la riforma tributaria, o per lo meno nasce per i lavoratori dipendenti, e
questa riforma piano piano svuota di contenuto anche la politica del merito e uno si accorge
improvvisamente che “non può guadagnare di più”. Che cosa gli rimane? Il potere! Il potere
con i suoi simboli, con la sua liturgia e con le sue medaglie. Oggi il potere è cosı̀ importante
che un’azienda può permettersi il lusso di premiare i suoi figli prediletti dando loro solo pezzi
di potere, ed i premiati saranno felici di sobbarcarsi nuovi carichi di preoccupazioni solo per un
titolo e senza pretendere alcun aumento effettivo del loro stipendio. Ma fino a quando il potere
eserciterà questo fascino? E soprattutto come faranno le aziende a distribuire potere il giorno
in cui ne avranno esaurito le riserve? E già perché anche il potere, a forza di distribuirlo, può
finire. Hai voglia tu di spezzettarlo per poter accontentare più persone, ad un certo momento
sarai costretto a distribuire falso potere e quel giorno anche la seconda fase, la fase della carota,
sarà finita.
E allora?
E allora inizierà la terza fase: la fase dell’amore.
Volete dire le donne?
No, l’amore. L’amore che io posso avere per il mio capo e che lui può avere per me. Io
lavorerò perché avrò desiderio della sua stima e lui lavorerà perché vorrà guadagnarsi la mia.
Ma tutto questo sarà possibile solo nell’ambito di una dimensione umana dell’azienda.
Queste sono tutte parole ribatte il dottor Palluotto. Parole belle e suggestive, ma la
verità è che il mondo va avanti grazie alla produttività, alla cultura ed alla specializzazione e
che queste tre cose presuppongono impegno e serietà.
Puttanate! risponde Bellavista. Per quanto riguarda la produttività io non sarei tanto
sicuro che il mondo andrà sempre avanti per merito suo; chissà che un giorno, proprio per colpa
della produttività, il mondo non incominci ad andare indietro invece di andare avanti. Basta
pensare all’ecologia ed a tutti i suoi terribili problemi. Per quanto poi riguarda la cultura e
la specializzazione chiariamoci le idee, secondo me questi sono due termini antitetici: cultura
per me significa interesse per le cose che ci circondano e specializzazione è invece interesse del
particolare. È ovvio che io sia un estimatore della prima ed un nemico della seconda.
Un momento Gennà lo interrompe il dottor Vittorio tu divaghi e ti allontani dal discorso
centrale. Tu prima, ad un certo momento mi hai smammato la palla che il basso era un esempio
di abitazione civile, poi non ne hai parlato più. Potremo avere ora l’altissimo onore che l’esimio
professore Bellavista ci illumini sulle dotazioni civili del basso napoletano?
Ecco qua, lo sapevo! Tu mi parli di dotazioni. Se per civiltà tu intendi i tripli servizi, e
allora, carissimo Vittorio, abbiamo già chiuso il discorso: il basso è un’abitazione incivile. Ma
se per abitazione intendi amore, famiglia, tribù, amicizia, e allora possiamo trovare nel basso
qualcosa che al sesto piano incomincia a scarseggiare.
Ma tu ci hai mai vissuto in un basso?
No, ma questo non vuol dire assolutamente niente. Conosco molte persone che vivono nei
bassi e conosco molte persone che vivono al sesto piano. Avevo un amico a Torino che un giorno
mi disse: “Gennà, io sono ricco, sono scapolo e vivo in un appartamento di 200 metri quadri.
Tu mi devi venire a trovare perché io ti voglio far vedere che bella casa che tengo e poi anche
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CAPITOLO 13. IL BASSO
perché mi fa piacere la tua compagnia. Devi sapere che io a Torino, certe volte, un po’ per
pigrizia, un po’ anche perché conosco poca gente, la sera resto solo in casa e dopo che mi sono
visto la televisione, se non tengo sonno, mi prende una malinconia che non ti puoi immaginare.
Gennà,” mi diceva “ma come sarebbe bello se invece se potessimo abitare tutti insieme, tutti
vicini, tutti in un vicolo solo: io in un basso e tu in quello affianco, e poi appresso al tuo ci
sarebbe il basso di Peppino, e poi quello di Federico, e poi quello di Giovanni. Invece per colpa
della vita, io sono finito a Torino, tu a Napoli, Peppino a Parigi, Federico a Roma, Mimi a La
Spezia, e Giovanni a Milano. Dimmi tu come ci possiamo parlare!”
E che esagerazione professò! dice Salvatore. Ma questo amico vostro se li poteva pure
fare due amici a Torino, no?!
E non è cosı̀ facile!
Per farsi un amico ci vuole quasi una vita. Bisogna essere stati
poveri insieme e qualche volta felici. L’amicizia vuole il suo tempo ed i continui trasferimenti
di residenza non consentono il consolidarsi degli affetti. A questo le ditte che trasferiscono il
proprio personale non ci pensano mai. A volte anche le grandi città, quelle che per attraversarle
ci metti un’ora e mezza, sono capaci di allontanarti due amici per sempre. Nella vita del vicolo
invece queste cose non succedono. Per esempio, immaginatevi per un momento che questa casa
fosse un basso napoletano: ecco qua, noi adesso siamo in un basso, la porta è aperta e possiamo
veder passare la gente. Ad un certo momento passa un nostro amico: Peppino. Peppı̀, diciamo
noi, e comme stai ? Vieni, vieni qua che ci facciamo due risate. E ci mettiamo a parlare.
Io conosco il fratello del nostro cozzicaro di fiducia che vive in un basso di vico Pace a
Forcella dice Salvatore. L’altro giorno mi ha raccontato che aveva tenuto per tre giorni il
televisore con l’audio scassato e che nessuno della famiglia se n’era accorto. Avevano sentito
con l’audio degli altri!
Avete capito?
dice raggiante il professore. Avevano sentito con l’audio degli altri!
Insomma nella vita del basso il problema del “che cosa faccio stasera” non esiste più. Le
opportunità si affacciano da sole sulla porta aperta del basso napoletano Non c’è privacy. Però
non c’è nemmeno il malato che resta solo. Ma ci pensate voi alla vecchiaia? Essere vecchi e soli,
vivere in un appartamento al sesto piano in un quartiere residenziale di una grande città. Sı̀ e
no ti resta il telefono per comunicare col resto del mondo. Nel basso invece no, nel basso un
vecchio non può rimanere solo, nel basso un bambino tiene sempre un amico con cui mettersi
a giocare. In pratica è come quando si sta in crociera; ognuno ha una cabina sua, però poi ci si
incontra tutti sul ponte a parlare. Ebbè, fate conto che a Napoli ci sono almeno duecentomila
persone che vivono in crociera.
Caro Gennaro, quello che tu dici è molto divertente, però io, se fossi il Padreterno, ti farei
vivere da oggi in poi in un basso napoletano. Ti farei fare una bella crociera. Sissignore, proprio
a te che non riesci a sopportare cinque minuti tua moglie e le amiche di tua moglie. Ti vorrei
proprio vedere a vivere in un basso con la gente che entra e che esce continuamente dalla casa
tua.
Mi aspettavo questa uscita da te, Vittorio bello. È logico che io, dopo aver vissuto un’intera
vita in un appartamento, non sono più all’altezza di sopravvivere in un basso, ma ciò non toglie
alcun valore alle mie riflessioni sulla capacità d’amore della vita del vicolo. E la dimostrazione
di quanto dico la puoi avere riflettendo che nemmeno gli abitanti del basso ormai sono più
disposti a salire al sesto piano. Infatti più di una volta, hanno cercato di far trasmigrare intere
popolazioni bassaiole in quartieri di case popolari senza convincerle ad abbandonare le loro
amate spelonche. E per forza! I “benefattori” della pubblica amministrazione avevano creduto
che i bassi fossero solo delle abitazioni e basta. E invece no: i bassi sono anche botteghe, studi
di consulenza, clubs sportivi, luoghi d’incontro, chiese, sedi di ditte import-export e soprattutto
moduli umani.
Gennà tu bari! Sissignore, tu bari e sai di barare! È logico che quei poveri cristi si sono
rifiutati di abbandonare i bassi, ma questo perché? Perché i bassi rappresentavano anche l’unica
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loro forma di guadagno. Di che cosa vive la gente dei bassi? Di commercio e di contrabbando.
Pazzielle (giocattoli) per i bambini e sigarette per i grandi. Se i benefattori, come li hai chiamati
tu, avessero offerto non solo l’appartamento al sesto piano ma anche un buon impiego, ti faccio
vedere io se non se ne andavano di corsa dalle loro tane.
Ed io invece ti dico che si prendevano l’impiego al comune e che continuavano a vivere nel
basso, vendendo pazzielle e sigarette di contrabbando.
Pensa che i bassi erano criticati fin dai tempi di Goethe e di Dumas e non si è fatto niente
in tutto questo tempo per eliminarli.
E secondo me erano critiche frettolose. Devi sapere che i bassi in questi ultimi secoli hanno
svolto un’importantissima funzione sociale: non hai mai pensato che Napoli è l’unica grande
città del mondo priva di quartieri esclusivamente popolari? I ghetti del sottoproletariato, tipici
delle città fortemente industrializzate, come Torino o come Chicago, non sono mai esistiti nella
nostra città. A Napoli il popolino abitava nei bassi, i nobili al cosiddetto “primo piano nobile”
e la borghesia ai piani superiori. Questa stratificazione sociale di tipo verticale ha ovviamente
favorito gli scambi culturali tra le classi, evitando uno dei peggiori mali del classismo e cioè il
sempre maggiore divario culturale tra il povero e il ricco.
Veramente, a me non sembra che il popolino napoletano sia diventato molto colto!
Nossignore Vittò, io dicendo colto non ho voluto alludere all’istruzione scolastica del proletariato napoletano. Quello è un altro problema le cui responsabilità sono da addebitare
esclusivamente ai governi centrali. Io volevo dire che l’uomo del popolo a Napoli, malgrado la
sua ignoranza, è comunque ricco di certi valori umani, e queste sue caratteristiche sono dovute,
secondo la mia tesi, ad una vita vissuta in un ambiente misto, dove il continuo contatto tra il
marchese del primo piano, l’avvocato del secondo ed il povero tutto-fare del basso, ha finito per
allargare gli orizzonti di vita a tutti gli ambienti del palazzo, senza alcuna distinzione di ceto.
Oggi però non è più cosı̀: oggi i ricchi hanno abbandonato Spaccanapoli e si sono trasferiti
tutti nei loro ghetti di Via Orazio e di Via Petrarca, dove, guarda caso, bassi non ce ne sono. Nei
quartieri dei bassi, invece, sono rimasti solo i poveri, forse felici come dici tu, ma sicuramente
sempre più poveri di prima.
Vittò, quello che tu non vuoi capire è che la felicità è un concetto relativo. Ognuno di noi
ha la “sua felicità” come unità di misura e quindi per sapere se è felice o no deve confrontare
ogni istante la propria condizione con il proprio ideale di felicità. Ad esempio io adesso chiedo
a Saverio. Savè per te che cosa è la felicità?
Come volete voi professò.
Ma che significa come volete voi, Savè? insiste il professore. Fammi capire, secondo te,
che cosa è la felicità.
Ma professore mio, io sono perfettamente d’accordo con voi e quello che voi dite per me
sta benissimo. Perciò ditelo voi che cosa è la felicità, che Saverio vostro non si permetterebbe
mai di contraddirvi.
Savè stammi a sentire: tu un giorno mi dicevi che voi in famiglia siete tutti devoti a San
Pasquale...
San Pasquale Bailonne! Santo importantissimo, molto amico di San Gennaro. È da quando
mi sono sposato che tengo una devozione per San Pasquale e debbo ammettere che mi sono
sempre trovato benissimo.
Ma come benissimo! protesta il dottor Vittorio. Sei disoccupato, non tieni una lira
e dici benissimo! Tu stesso prima mi hai detto che stavi preoccupato, perché i ragazzi tuoi
crescono soprattutto nei piedi e non sai come fare per comprare le scarpe a tutti e tre.
Sı̀ avete ragione dottò, io sono molto preoccupato per la faccenda delle scarpe dei ragazzi,
ma noi a San Pasquale delle scarpe non ce ne abbiamo parlato. Noi a San Pasquale diciamo
soltanto: “San Pascà aiutaci tu” e ringraziando Iddio siamo sempre stati benissimo in salute.
Ecco, dice il professore ed io proprio a questo volevo arrivare. Io volevo capire qual era
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CAPITOLO 13. IL BASSO
la grazia principale che Saverio chiedeva, perché questa grazia principale mi avrebbe detto anche
quale era la condizione di felicità per Saverio. In altre parole, quando vediamo un ragazzino
sporco e stracciato, sotto la porta di un basso, che ride o che canta, noi, che conosciamo i
conforti del benessere, proviamo sicuramente tenerezza e pietà per lui, mentre invece il ragazzino
in questione, sempre vissuto nel suo ambiente, è in quel momento all’apice della sua felicità
relativa.
Quella che tu chiami felicità relativa io la chiamo incoscienza assoluta ribatte il dottor
Vittorio. E sı̀, Gennaro carissimo, perché se è pur vero che l’importanza di certi beni è relativa
alla persona che desidera, purtuttavia per altri beni questo discorso non è più valido. Io per
esempio capisco che la soddisfazione che posso provare ad acquistare un canotto di gomma sia
paragonabile, come intensità, a quella che prova il figlio di un miliardario quando compra uno
yacht, ma nella vita esistono anche dei beni oggettivi, che hanno la stessa importanza per tutti
e che quindi prescindono dalla condizione del beneficato. Prendi proprio l’esempio che prima
ci ha fatto Saverio: la salute. La famiglia di Saverio gode ottima salute ed è felice, ed io glielo
auguro per cento anni, ma il giorno che avesse bisogno di un’assistenza medica, di un ospedale
efficiente, mi dici tu a Napoli dove lo trovi un ospedale efficiente?
Dottò lo interrompe Saverio scusate il gesto ma io sono costretto a fare i debiti scongiuri,
come si dice.
E l’ospedale efficiente continua il dottor Vittorio altro non è che il risultato dell’impegno
e della produttività dell’uomo. Senza l’abnegazione e la serietà di migliaia di scienziati e di
studiosi, l’uomo oggi vivrebbe ancora allo stato brado.
Il guaio tra me e te, Vittorio mio, è che tu in ogni ragionamento devi essere sempre radicale.
Io non ti ho detto che tutti gli uomini della terra devono moderare il loro impegno e rifiutarsi
di migliorare le condizioni umane. Ma anche tu ammetterai che non tutti gli esseri umani sono
uguali e che esiste una categoria di superuomini, ed una, molto più numerosa, di gente normale.
Ebbene Epicuro elaborò la sua etica di comportamento proprio per questa gente alla buona.
L’etica del giusto impegno altro non era che un manuale di comportamento nei riguardi dei
falsi idoli che condizionano l’umanità. È chiaro che quando un uomo ha la grazia del genio,
il fuoco inestinguibile dell’esploratore, e allora deve giungere fino alla fine della sua missione.
I Cristoforo Colombo, i Sabin, i Fleming, sono una razza a parte. Purtuttavia io non posso
concedere ad un dottor Brambilla qualsiasi la licenza di uccidere i propri affetti familiari solo
per consentirgli di raggiungere la carica di amministratore delegato della ditta Pinco Pallino.
Permettimi di non essere d’accordo con te. Io penso che i Sabin ed i Fleming sono le punte
di un fenomeno di qualità che investe tutta le specie umana. Io sono convinto che se oggi a
Milano le condizioni di vita sono di gran lunga più civili di quelle di Napoli, il merito non è degli
amministratori milanesi ma di tutto il popolo di Milano. E non mi venire adesso a chiedere di
nuovo che cosa intendo per civile od incivile. Per me incivile è il fatto che Pozzuoli detiene il
record di mortalità infantile in Italia. Incivile è una malattia come il colera.
Dottò non vi dimenticate che anche voi siete napoletano e che non ci potete parlare cosı̀ dice Salvatore Prima di offendere un popolo, voi dovete risalire alle responsabilità che gli amministratori di Napoli e soprattutto quelle del governo italiano tengono nei confronti della nostra
città. Non ci dimentichiamo che nel secolo scorso Napoli era una capitale che fece la prima
ferrovia e che teneva più teatri di quanti non ne tiene adesso.
Salvatò io parlo cosı̀ proprio perché sono napoletano. Io quando leggo di Napoli sui giornali,
quando qualche volta sento delle interviste impietose fatte dalla televisione a qualche povero dio,
mi si stringe il cuore. Provo contemporaneamente affetto e vergogna per questo mio concittadino
che si sforza di parlare italiano e che abbasta ca vence ‘o Napule è ormai rassegnato ad assistere
alla morte civile della sua città.
Vittò, io ho capito il tuo stato d’animo e perciò ti voglio bene dice il professore So
benissimo quanta fatica Napoli dovrà fare per liberarsi dalle corde del traffico e della corruzione
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che la stanno strangolando, però tu non puoi desiderare che Napoli diventi uguale a Milano. Il
colera a Napoli ha ucciso alcune decine di persone ma nello stesso momento a Milano ne sono
morte migliaia di solitudine. Io non voglio pagare il progresso con una perdita d’amore. Io
vorrei tentare una strada diversa, una strada che non abbia bisogno di ricorrere al potere e alla
competitività. È allora a questo punto ti faccio ancora la domanda numero uno: che cosa è la
vita?
La vita è la vita risponde prontamente il dottor Vittorio E non credere che la risposta
sia banale. Significa che la cosa più importante è vivere. Ma perché tutti possano più vivere
a lungo possibile è necessario che tutti si impegnino a fondo. Epicuro guardava troppo vicino,
lui si e no andava ad analizzare le conseguenze che una determinata scelta di vita avrebbe
provocato nei prossimi due o tre anni. Il problema è invece di dimensioni completamente
diverse. Impegnamoci oggi perché i figli dei nostri figli siano felici domani.
Ragionando come dici tu però, nemmeno i figli dei nostri figli potranno essere felici
domani.
E perché?
Perché non ne avrebbero il tempo. Sarebbero troppo impegnati a far felici i figli dei loro
figli e finirebbero per chiudere la propria vita senza aver mai conosciuto la felicità.
Chiacchiere Genna’, chiacchiere! Purtroppo è cosı̀: noi facciamo solo chiacchiere. E allora
cosa vuoi che ti dica: ci rinunzio. Però in compenso so che tu sai. Sissignore, io so che tu,
quando cammini per Napoli, sai che quella che vedi non è la Napoli tua, quella Napoli che esiste
solo nella tua testa e che forse non è mai esistita.
E chi lo sa! Chi lo sa come è Napoli veramente. Comunque io certe volte penso che anche
se Napoli, quella che dico io, non esiste come città, esiste sicuramente come concetto, come
aggettivo. E allora penso che Napoli è la città più Napoli che conosco e che dovunque sono
andato nel mondo ho visto che c’era bisogno di un poco di Napoli. Luigı̀, tu non parli, ma
anche tu una volta sei stato a Milano e allora fammi una cortesia: diccelo pure tu a Vittorio
quello che significa Napoli per noi.
Ma non lo so, io vi ascolto con attenzione e mi sembra che avete ragione tutti e due.
Sissignore, ho vissuto un anno a Milano e quindi capisco quello che dice il dottor Vittorio:
effettivamente la città funziona e poi non è vero che la gente sia antipatica, anzi io l’ho sempre
trovata gentile. La metropolitana per esempio: è proprio bella: pulita e velocissima, che anche
quando la perdi ne arriva subito un’altra. Il clima? Ma al clima ci si abitua. Mi ricordo di certe
mattine alle otto in via Melchiorre Gioia. Freddo e nebbia. Qualche volta c’era pure il sole ma
non si vedeva: sapevi solo che c’era perché in un certo punto del cielo il grigio diventava più
bianco. La gente alle otto andava a lavorare e non sentivi nessuno parlare, fumo dalla bocca e
via in fretta. Ecco io di Milano questo mi ricordo: tutti che andavano di fretta.
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CAPITOLO 13. IL BASSO
Capitolo 14
Servizio sveglia
Buongiorno ingegnè. Bella giornata oggi, non è vero? mi dice Salvatore mentre sto per uscire
dal portone. Non sembra proprio che stiamo a dicembre.
Veramente bella, Salvatò, quasi quasi mi levo pure il cappotto.
E quello il Signore, come si dice, dove vede la neve, ovverosia il bisogno, spande il sole.
Be’, perlomeno quello.
A proposito di bisogno ingegnè, adesso parlando parlando mi distraevo. Sapete che ora
è?
Sono le nove e cinque.
E allora devo andare a svegliare il baroncino De Filippis. Perché non mi accompagnate un
momento pure voi?
A svegliare il baroncino De Filippis?
Sı̀, ma non a casa sua. Andiamo dietro al palazzo e lo chiamiamo da sotto alla finestra,
quello abita al primo piano. Voi dovete sapere che io ricevo dal baroncino De Filippis tremila
lire al mese per svegliarlo tutte le mattine alle nove precise ad eccezione della domenica.
Ma non capisco, non sarebbe più semplice per lui usare una sveglia?
E no, ingegnere! La sveglia non sarebbe assolutamente adatta allo scopo.
E perché?
E perché adesso ve lo spiego risponde Salvatore avviandosi verso il cortile del palazzo.
Voi dovete sapere che il baroncino studia all’Università. Sissignore fa Legge vuole che qualcuno
lo chiami ogni mattina alle nove perché lui si deve mettere a studiare se no non si laurea.
Ma io penso che uno alle nove potrebbe pure svegliarsi naturalmente da solo. Avesse detto
le sei lo avrei potuto pure capire.
Sı̀, avete ragione, però il baroncino è purtroppo, come dire, un poco scafatiello (intraprendente), non so se avete capito: gli piacciono le donne dice sorridendo con malizia Salvatore.
E cosı̀ va a finire che la notte si ritira alle due e qualche volta pure alle tre; e già perché lui
va a ballare alla Mela: è veziuso (vizioso)!
Parlando parlando siamo intanto giunti sotto la finestra dove evidentemente dorme il nostro
viveur. A questo punto Salvatore, con voce bassissima, quasi un sussurro, finge di gridare:
Baroncino... Baroncino De Filippis... sono le nove... Avvocato... svegliatevi... Sono le
nove.
Ma Salvatò, se non gridate un poco più forte quello non vi può sentire!
È logico ingegnè che non mi può sentire. Ma se io grido, il baroncino si sveglia veramente
e poi se la prende con me.
Ma allora che siete venuto a fare sotto la finestra?
Ingegnè, voi non avete capito proprio niente! spiega pazientemente Salvatore. Io, come
vi ho detto prima, ricevo tremila lire al mese per venire tutte le mattine alle nove precise sotto
alla finestra del baroncino e per fare un tentativo di sveglia, faccio il mio dovere e me ne vado.
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CAPITOLO 14. SERVIZIO SVEGLIA
Il baroncino da parte sua, dando l’ordine di venirlo a svegliare ogni mattina alle nove, ha pure
lui dimostrato, come dire, una certa buona volontà e si è messo a posto con la coscienza. Voi
avete fatto da testimone. Insomma diciamo cosı̀ che stiamo tutti a posto.
Capitolo 15
La rosa dei 16 mestieri
La ragione e la passione
sono il timone e la vela
di quel navigante
che è l’anima nostra.
kahlil gibran
Secondo me, ogni epoca ha avuto i suoi filosofi, dico io e noi adesso non possiamo
condividere l’idea di un filosofo vissuto più di duemila anni fa. Epicuro, se fosse nato in
quest’epoca, avrebbe sicuramente predicato in maniera diversa.
Nossignore, ingegnere, la filosofia di Epicuro è sempre attuale.
E no, professore, questo lei non me lo può dire! L’invito che Epicuro rivolge agli uomini,
affinché provvedano a soddisfare i soli bisogni primari, oggi non può più reggere. L’equivoco,
secondo me, è tutto qui. Mangiare e bere all’epoca di Epicuro era veramente un problema...
E lo è ancora ingegnè, interrompe il dottor Vittorio lo è ancora!
Be’ diciamo che oggi il settanta per cento dell’umanità si muore ancora di fame, precisa
il professore e che il trenta per cento fa la dieta.
Volevo dire, continuo io che, essendosi alzato il livello medio del tenore di vita nel mondo
occidentale, una buona parte di quei beni, che Epicuro nel trecento avanti Cristo considerava
secondari, se non addirittura terziari, come la cultura, la carne, l’informazione, la partecipazione
e via dicendo, oggi sono diventati beni irrinunciabili e quindi di primaria importanza.
E con questo? m’interrompe il professore. Signori miei per favore, e facciamo un piccolo
sforzo, no! Non prendiamo sempre le cose alla lettera! Cerchiamo invece di recepire la sostanza
del messaggio epicureo e allora ci accorgeremo che forse mai come adesso la filosofia epicurea
è stata di capitale importanza. Insomma, Epicuro che ha detto? Che bisogna valutare i beni
della vita in funzione del loro contenuto naturale ed in funzione della loro necessità. Ora questo
metodo ci dà come risultato una scala di valori, dove tutti i beni si trovano allineati uno dietro
l’altro: in cima a questa scala ci sono i beni primari e cioè quelli naturali e necessari, seguono
poi i beni secondari, naturali e non necessari ed infine, in coda a tutti, giacciono i beni vani,
caratterizzati dal non essere né necessari e né naturali. A questo punto se ne viene l’ingegnere
e mi dice che quello che al tempo di Epicuro non era considerato necessario oggi è invece
diventato indispensabile. Benissimo, gli rispondo io, la cosa non ci preoccupa assolutamente:
vuol dire che quel confine che un tempo separava, secondo Epicuro, i beni primari da quelli
secondari si è, nel frattempo, spostato fino a comprendere qualche altro nuovo bene primario.
Ma ciò non significa che l’etica di Epicuro non è più valida, anzi oserei dire che ne viene ad
essere addirittura rafforzata. Infatti se Epicuro considerava beni primari il mangiare, il bere,
il dormire e l’Amicizia e se, come voi dite, il mangiare, il bere e il dormire sono oggi più alla
portata di mano di quanto non lo fossero all’epoca di Epicuro, dobbiamo concludere che allora
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CAPITOLO 15. LA ROSA DEI 16 MESTIERI
è ancora di più aumentata l’importanza dell’Amicizia come bene primario Amicizia che, non
dimentichiamolo mai, bisogna contrapporre al Potere, bene competitivo e padre indiscusso di
tutti i beni terziari.
Veramente a me questa sembra più un’immagine cristiana che epicurea.
E perché, maledizione e morte, siete fuorviati dal termine “epicureo” che significa tutta
un’altra cosa. Ma scusatemi se insisto: il mondo che oggi ci circonda, è o non è un immenso
torneo dove ognuno è alla disperata ricerca del successo, cioè del suo gradino di potere? La
macchina bella, il titolo accademico, la tribuna d’onore e tutte le mille comodità inventate dal
consumismo altro non sono che gradini, gradini di una scala di valori, che il potere ha creato per
costringere l’uomo a produrre sempre di più. Basta pensare che in qualsiasi ufficio voi oggi vi
rechiate, sia esso appartenente a un partito politico, a un’azienda privata o a un ministero, tutto
quello che cade sotto i vostri occhi rappresenta un gradino di potere acquisito dal funzionario
che vi ha ricevuto. Un’innocente caraffa d’acqua minerale; un esotico ficus alto un metro non
stanno lı̀ per utilità o per bellezza, ma perché costituiscono dei ben precisi livelli di potere
conquistato duramente con anni d’impegno e di lotta quotidiana. In alcune grandi aziende c’è
addirittura un impiegato destinato a tempo pieno a controllare che ciascun funzionario non
arredi il proprio ufficio con oggetti appartenenti ai livelli superiori. Ora in questo casino di
falsi valori, piomba Epicuro e dice: signori miei, badate alla sostanza delle cose e pensate che
subito dopo la salute, la cosa che più conta è l’amicizia! Non vi fate condizionare da falsi ideali!
Mettete su di una bilancia i vostri obiettivi prima di eleggerli a meta dei vostri desideri!
C’è una cosa che non mi quadra Gennà. Tu l’altro giorno ci hai parlato per tre ore per
convincerci che libertà e amore sono valori antitetici, oggi te ne vieni e dici che l’amore si oppone
al potere, a questo punto io debbo dedurre che per te libertà e potere sono la stessa cosa...
Piano piano, non diciamo fesserie!
lo interrompe il professore. Se mi accordate un
minuto di pazienza vi farò un disegno esatto della mia teoria. Savè per favore, fammi una
cortesia, mai per comando: guarda sulla scrivania e vedi se trovi una penna ed un foglio a
quadretti. Guarda bene che ci dovrebbe essere un block notes...
Ecco qua professò ai vostri ordini: penna e carta e se voi permettete vado a prendere pure
un’altra bottiglia di Lettere perché qua il discorso si fa difficile e allora è meglio che noi ci
rinfreschiamo le cervella.
Bravo Saverio. Dunque, come vi stavo dicendo, noi qua per capire bene la teoria dell’amore
e della libertà, dobbiamo arrivare ad un’esemplificazione grafica dell’animo umano. Mi spiego
meglio: supponendo che la natura umana fosse costituita solamente da due impulsi, uno d’amore
ed uno di libertà, allora sarei in grado di rappresentare l’animo umano sotto forma di un
diagramma cartesiano a due dimensioni...
Buonanotte professò dice Salvatore. Noi ce ne andiamo.
Ma statti quieto Salvatò, aspetta e vedrai che si tratta di una cosa semplicissima. Dunque
guardate qua: e cosı̀ dicendo il professore disegna sul foglio due rette ortogonali questa retta
orizzontale rappresenta l’asse dell’amore e questa retta verticale è l’asse della libertà. Dove
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mi trovo io, Gennaro Bellavista, in questo piano cartesiano? Eccomi qua: io sono il punto
B che approssimativamente si trova in questo posto e cosı̀ facendo il professore disegna un
punto sul foglio e traccia, a partire da questo punto, due linee tratteggiate ortogonali agli
assi di riferimento. Questo punto mi rappresenta in quanto io posseggo una certa quantità x
d’amore ed una certa quantità y di libertà. O Dio, chiariamo subito che nel corso della vita
questo punto B che mi identifica si sposta, istante per istante, a seconda delle vicende che mi
capitano. Cioè, se ad esempio fossi costretto a coabitare con molte persone, è chiaro che il mio
desiderio di libertà aumenterebbe a scapito del desiderio d’amore, mentre invece un naufragio
su di un’isola deserta mi provocherebbe un immediato bisogno d’amore. Pensate per esempio
al differente stato d’animo di un uomo che guida la propria automobile nel traffico e di uno
che si trova su di una barca in mare aperto: nel traffico è insofferente, pronto a litigare ed a
offendere, in mezzo al mare invece, se incontra un’altra barca, saluta da lontano, anche se non
conosce minimamente la persona che saluta.
È vero, è vero.
Però questo non toglie che ci sarà sempre un punto che ci caratterizza, un punto che
potremmo definire il baricentro di quell’area che noi tocchiamo nel corso della vita in funzione
degli stati d’animo che sono prevalsi.
Ed io dove sto, professò? chiede Saverio. Se non vi dispiace mi volete mettere pure a
me sopra al foglietto.
Tu Saverio stai qua, punto S: molto amore e quasi niente libertà.
E perché sto cosı̀ scarso a libertà professò?
Perché quella volta che Assuntina e i bambini se ne andarono a Procida e tu rimanesti
solo, invece di ringraziare a Madonna per la fortuna che avevi avuto, non hai capito più niente
fino a quando non sono tornati tutti quanti a Napoli.
È vero professò, avete perfettamente ragione.
Ma continuiamo nel nostro tentativo di rappresentazione grafica.
Dunque io prima vi
ho detto che l’asse orizzontale era l’asse dell’amore, ora però quest’asse ha anche una parte
negativa, quella di sinistra, che è rappresentata dall’odio. È chiaro cioè che abbiamo a che fare
con un asse viscerale, istintivo, fatto tutto di cuore e niente di testa.
Ed il contrario della libertà quale è professò?
Piano che qua le cose si complicano, e già perché se per l’amore abbiamo tutti, più o meno,
capito di che cosa vogliamo parlare, non credo che possiamo dire altrettanto della libertà.
La libertà è la libertà dice Salvatore.
E purtroppo caro Salvatore la risposta non è cosı̀ facile. Libertà per qualcuno vuol dire
democrazia e per qualcun altro vuol dire anarchia, e allora a questo punto io sono costretto a
spendere ancora un paio di parole per spiegare a voi che cosa intendo io per libertà.
Dite pure senza preoccupazione professò.
Dunque io penso che libertà è nello stesso tempo desiderio di non essere oppresso e desiderio
di non opprimere. Quindi il contrario di libertà sarà il desiderio di essere prevaricato e il
desiderio di prevaricare e cioè il “potere”.
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CAPITOLO 15. LA ROSA DEI 16 MESTIERI
Per me il contrario della libertà è il fascismo dice il dottor Vittorio.
Il fascismo è solo il vestito peggiore del potere. Identificando il potere con il fascismo si
corre il rischio di non riconoscere come uomini di potere certi individui che, pur non professando
alcuna idea politica, godono ad esercitare o nella propria famiglia o nell’ambiente di lavoro la
funzione del comando. Nossignore, qui dicendo potere noi non dobbiamo pensare solo al colpo
di stato: è desiderio di potere anche il cercare di diventare capo-usciere, oppure il volersi
comprare una “centoventotto” in un ambiente dove tutti hanno la “cinquecento”, e non perché
la “centoventotto” è più comoda, ma solo per godere dell’invidia degli altri. “Invidia crepa”
come si legge dietro ai carretti nei vicoli della Napoli povera.
Professò ma allora se non ci possiamo comprare nemmeno la “centoventotto” che dobbiamo
fare, dobbiamo ignorare il progresso?
Nossignore Savè, la centoventotto ce la possiamo comprare, però dobbiamo fare come
diceva Chiuang: “Usa le cose come cose e non farti usare dalle cose come cosa”. Insomma
Chiuang voleva dire che devi usare la centoventotto come centoventotto e non come simbolo di
potere. Per esempio, l’ingegnere nostro prima ci ha detto che lui si è comprato un bel motoscafo;
molto bene, noi allora domandiamo all’ingegnere perché si è voluto comprare questo motoscafo.
Perché gli piace il mare aperto, il mare pulito? Perché vuole allontanarsi dalla spiaggia, dalla
folla? Perché vuole pensare? Se ci risponde di si, e allora vuol dire che l’ingegnere è un uomo di
libertà. Se invece il motoscafo se lo è comprato perché ha piacere che tutti, quando lo vedono
partire dal molo, dicano: “ma guarda che bel motoscafo si è comprato l’ingegnere, chissà quanto
guadagna alla fine del mese” e allora dobbiamo concludere che anche l’ingegnere nostro è un
uomo di potere.
Secondo me, dice Saverio l’ingegnere il motoscafo se lo è comprato per portarsi le donne
in mezzo al mare.
Quindi il consumismo dico io può essere configurato anche come ricerca del potere?
Ovviamente mi risponde il professore. Il consumismo fa leva sul desiderio di potere
esistente negli uomini per potersi espandere, e crea a questo scopo tutta una scala di traguardi:
ogni gradino una tappa, un titolo da raggiungere. Solo per il filosofo il consumismo è una scala
che scende invece di salire, una scala che trascina l’uomo verso il basso, allontanandolo sempre
di più dall’asse dell’Amore.
Veramente, dice Salvatore noi napoletani non è che consumiamo moltissimo.
Osserviamo adesso con un poco di attenzione i nostri assi cartesiani, continua il professore
e cerchiamo di dare un nome a ciascuno dei quattro quadranti. Il quadrante positivo, questo
qui in alto a destra, io lo chiamerei il quadrante del saggio e proporrei di intestarlo a Gandhi,
la grande Anima, il profeta della non violenza; in effetti si potrebbero trovare centinaia di altri
grandi pensatori a cui dedicare il quadrante dell’amore e della libertà: a Bertrand Russell, a
Giovanni XXIII, a Martin Luther King, però poi ad esaminarli con cura ad uno ad uno ci
accorgiamo che Russell era un poco più amante della libertà che non dell’amore e che Giovanni
XXIII era invece più un uomo d’amore che di libertà e cosı̀ via anche per tutti gli altri. Il
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sentiero di mezzo cioè la bisettrice del quadrante positivo, esige che siano perfettamente uguali
e bilanciati nell’uomo il desiderio d’amore ed il suo desiderio di libertà, e quest’uomo sarà tanto
più da ammirare per quanto maggiore sarà la distanza che lo separa dali origine degli assi.
E San Francesco?
San Francesco è puro amore, ignora completamente il problema della libertà, quindi lo
troveremo piazzato direttamente sull’asse dell’amore, vicinissimo a Gesù.
E negli altri quadranti, professò, chi ci mettiamo?
Dunque vediamo un poco: questo quadrante qua in basso a sinistra, è il quadrante del
Tiranno, il più brutto di tutti. In una situazione del genere non vedo che un nome: Hitler, odio
e potere.
Grandissimo fetente!
Il quadrante in alto a sinistra è il quadrante del ribelle e vorrei dedicarlo ai fedayn. E si
perché scusate, voi mettetevi nei panni di un fedayn e ditemi se questo povero dio non ha tutte
le ragioni per odiare e desiderare la libertà nello stesso momento. Praticamente gli hanno tolto
tutto: la casa la patria e la dignità. E già perché gli israeliani non si sono limitati a fottersi solo
il loro paese, li hanno voluto anche sputtanare, dimostrando a tutto il mondo che con l’impegno
e l’intelligenza era possibile ottenere dei frutti e del benessere anche da un suolo arido come
quello palestinese. Secondo me, questo è il vero motivo dell’odio dei fedayn verso Israele.
Ma dico io, dice Saverio io veramente a questi fedayn non li arrivo a capire. Ma come,
voi invece di ringraziare la Madonna con la faccia per terra, che erano arrivati gli israeliani con
un po’ di capitale in un paese di morti di fame, vi mettete a fare tutto questo bordello! Non era
meglio sfruttare questa voglia di lavorare che tenevano gli israeliani e campare tutti in grazia di
Dio? Nossignore, si mettono a fare i terroristi. Ma santa pace di Dio, voi avete la fortuna che
Gerusalemme è la Città Santa preferita da tutte le religioni, e mettetevi sotto e create subito un
grande businnes turistico religioso! Vi mettete a vendere reliquie, figurelle di santi, medagliette
e pietre di tufo e poi dite che le avete tolte dal muro del pianto! Ma imparate dal Vaticano,
andate a farti un’istruzione a Pompei o a Padova, organizzate un torneo di calcio tra squadre
di religioni diverse!
Ha ragione Saverio, dice Salvatore con un minimo di capitale si potevano fare un fottio
di soldi. Un poco di pubblicità fatta bene, che so io, un carosello che dicesse: “La comunione a Gerusalemme vale il doppio” oppure: “Fatevi la circoncisione con lo sconto-Fiera” e si
arricchivano tutti, israeliani e palestinesi. Che ne dite professò?
Secondo me, dice ridendo il dottor Palluotto l’America invece di mandare Kissinger in
Medio Oriente ci doveva mandare Saverio e Salvatore.
Voi scherzate dottò! dice Saverio. Ma se all’ONU ci fossero solo napoletani state sicuri
che non scoppierebbe più nemmeno una guerra e che tutte le fabbriche di armi del mondo si
dovrebbero accontentare di fabbricare solo trich-trach e botte-a-muro per la fine dell’anno.
Signori, un poco di attenzione! riprende il professor Bellavista. Riprendiamo il nostro
discorso e cerchiamo di dare un nome anche all’ultimo quadrante: amore e potere. Io non so
voi come la pensate, ma secondo me questi sono proprio gli obiettivi istituzionali della Chiesa
Cristiana e quindi io proporrei di chiamarlo il quadrante del Papa.
Ma Govanni XXIII non lo avevamo già messo nel primo quadrante?
Sissignore. Ma quando io parlo di potere e d’amore penso al Papa in astratto e cioè a
quella che voleva essere la sua funzione nella Storia. È chiaro poi che, valutando i singoli Papi,
Giovanni XXIII finisce nel quadrante di Gandhi e Alessandro VI e Bonifacio VIII in quello di
Hitler.
E nel quadrante del Papa, quale papa ci mettiamo?
Per me non ci sono dubbi.
Gregorio VII. Ildebrando da Soana. Chiarito il significato
dei quattro quadranti, possiamo ora divertirci a piazzare tutti; personaggi della storia che ci
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CAPITOLO 15. LA ROSA DEI 16 MESTIERI
vengono in mente. Dunque vediamo un po’: Byron lo piazziamo qui, tanto desiderio di libertà
ed un pizzico di odio per tutto il mondo...
Ma Byron non era un personaggio d’amore e di libertà? chiede il dottor Vittorio.
Niente affatto, libertà quanta ne vuoi, ma amore niente. Non confondiamo l’amore con
il romanticismo. Byron era calvinista e zoppo, misantropo e snob. E non ci dimentichiamo
che gli piaceva identificarsi con Lucifero, l’angelo bellissimo che si era ribellato a Dio per odio
e per desiderio di libertà. E dal momento che parliamo di ribelli vediamo di sistemare anche
Nietzsche. Amici miei, questo Nietzsche qua è un signore veramente difficile da classificare:
che sia stato un grande poeta e nello stesso tempo un uomo d’odio non ci sono dubbi, ma la
domanda è: potere o libertà?
Nietzsche era il filosofo preferito di Hitler, dice il dottor Vittorio che dubbi ti vengono?
Mettili vicini e non ne parliamo più.
Nossignore.
Zarathustra non era un uomo di Potere, Zarathustra era quello che disse:
“Ribellione, ecco la nobiltà dello schiavo”. Forse Nietzsche può essere tutto: libertà e potere,
amore e odio. Un punto inquieto che impazza da ogni parte, eppure, se proprio fossi costretto a
fermarlo in un punto, io lo bloccherei qui, nel quadrante dell’odio e della libertà, nel quadrante
dei ribelli e non in quello dei tiranni. L’intelligenza, dice Nietzsche, si misura con la quantità di
solitudine che un uomo è capace di sopportare. Ma proseguiamo nel nostro gioco e cerchiamo di
piazzare ancora un po’ di gente. Dunque vediamo un po’: Rousseau lo mettiamo qua, Voltaire
qua, Albert Schweitzer dall’altra parte più in basso a destra, Napoleone qua e Stalin laggiù
a metà strada tra Hitler e Napoleone, un po’ più di odio ad Ezzelino da Romano, Giovanni
Locke lo mettiamo ovviamente abbastanza vicino al sentiero di mezzo e Timone di Atene, che
si vantava di odiare tutti indistintamente, proprio sull’asse dell’odio. E Prometeo? Prometeo,
che rubò il fuoco per amore dell’uomo e che passò l’eternità in catene, lo mettiamo qua: nel
quadrante dell’amore e della libertà. Poi. vediamo un po’, bisogna trovare un posto per Marcuse
nel quadrante dell’odio e della libertà, uno per Marx...
Marx veramente, dice il dottor Vittorio io lo vedrei di più nel quadrante dell’amore.
Niente affatto: senza una qualche componente d’odio non si può fare quello che ha fatto
lui. Poi vediamo appresso: Giuda, Caino, S. Simeone lo stilita proprio sull’asse della libertà,
Landru, Kennedy e Krusciov, Pericle, Didone, Socrate, Giuseppe II d’Asburgo, il più grande
sovrano europeo, lo mettiamo nel quadrante del potere e dell’amore, poi Abelardo, Shylock,
Lorenzo il magnifico, S. Agostino, Lorenzo Bresci...
Molto interessante, dico io se ne potrebbe addirittura ricavare un gioco da questa sua
teoria. Per esempio si potrebbe fare una lista di personaggi famosi, antichi e contemporanei, e
poi verificare come ciascuno di noi, separatamente, li colloca nello schema.
Sissignore, io per esempio, una volta mi sono divertito a disegnare una specie di guida per
questo gioco, guida che in seguito ho chiamato: “la rosa dei 16 mestieri”.
77
La rosa dei 16 mestieri?
Eccola qua, adesso ve la faccio vedere dice il professore prendendo un nuovo foglio a
quadretti e disegnandoci sopra ancora una volta lo schema. Dunque, si tratta in pratica di
tracciare sedici assi, un po’ come quelli dei punti cardinali, e di attribuire a ciascun asse un
mestiere o, in senso più generale, una vocazione. Per quanto riguarda gli assi principali non
penso che, dopo tutto quello che abbiamo detto, siano necessarie ancora delle spiegazioni: l’asse
emozionale avrà da una parte il santo e dall’altra il diavolo, mentre l’asse razionale avrà
dalla parte della libertà l’eremita ovvero l’uomo che non vuole avere nessun contatto con
nessuno, né di amore né di odio, e dalla parte del potere il re, il re concepito come carica più
che come individuo in carne ed ossa. Anche per gli assi a 45◦ , avendovi descritto prima i singoli
quadranti, ve ne ho in effetti già anticipato le definizioni, e quindi adesso non ho che da ripetere:
per il I quadrante il saggio, per il II il papa, per il III il tiranno e per il IV il ribelle.
Più interessanti invece sono i mestieri relativi agli assi secondari: nel quadrante principale, ad
esempio, avremo il poeta, più sentimento che logica, e dall’altra parte lo scienziato, più
intelligenza che amore. Nel II quadrante troveremo invece la donna...
La donna?
Sı̀, la donna intesa come funzione. Un essere dotato di grandi capacità affettive ma anche
di un certo desiderio di possesso, con tutte le conseguenze che un tale miscuglio può generare:
gelosia, passione, desiderio di protezione, desiderio di schiavitù, istinto materno e cosı̀ via.
Sı̀ però io conosco delle donne che...
D’accordo, m’interrompe il professore ma, per favore, non ci dimentichiamo mai che la
mia teoria è generalizzante e che quindi non pretende di classificare tutte le nostre conoscenze
personali. E continuiamo con il nostro lavoro; dunque, nel II quadrante tra il re ed il papa io
metto il dirigente. Ora con questo termine voglio alludere ad un particolare tipo di dirigente,
cioè a quell’imprenditore che, pur essendo al vertice della piramide gerarchica, vuole bene ai
“suoi” dipendenti. In altre parole dicendo dirigente io intendo dire: paternalismo, befana
aziendale, panettone a Natale e tutte quelle cose che legano il padrone “padre” al dipendente
“figlio”: quindi dirigente vuol dire pure capo-mafia, secondo il significato antico e romantico
del termine, come vuol dire monarca costituzionale, principe illuminato e cosı̀ via.
Sı̀ professò, dice Salvatore però quello che non si capisce è come si deve piazzare una
persona quando ha più di una di queste caratteristiche che voi avete detto. Per esempio, pigliate
il caso di una donna scienziato?
Benedetto Iddio!
Ma se già l’ho spiegato prima all’ingegnere! Il mio è un discorso
generalizzante, cerca solo di fornire una schematizzazione di massima.
Professò andate avanti.
E cosi siamo arrivati al III quadrante. Qua ci mettiamo l’avaro: più potere che odio.
E si perché l’avaro è avaro anche nell’odio. Lui si limita ad odiare il prossimo nella misura
in cui questo odio risulta sufficiente a difendere i suoi averi. Dall’altra parte invece avremo
l’assassino: molto odio e poco potere. L’assassino vero non è quello che ammazza per onore
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CAPITOLO 15. LA ROSA DEI 16 MESTIERI
o per rubare, l’assassino vero è quello che ammazza per ammazzare. Nel IV quadrante infine
troviamo tutte le sfumature della rivoluzione: dall’anarchico indipendente, che accoppia un
suo immenso desiderio di libertà ad una base di odio verso il prossimo, fino al terrorista che
approfitta del momento rivoluzionario per soddisfare un proprio irreprimibile bisogno di odio e
di violenza.
Io invece vorrei sapere un’altra cosa dice Luigino. In questo schema qua, noi, dico noi
gente comune, dove stiamo?
Caro Luigino, e questa è forse la domanda più importante che ho avuto questa sera: noi
dove stiamo? e già perché che ce ne importa di sapere dove si trova Voltaire o dove si trova
Napoleone, a noi interessa sapere dove stiamo noi, dove si trovano i nostri amici, le persone che
incontriamo tutti i giorni. Io, in un primo momento, volendo rispondere a questa domanda,
sono tentato di collocare la quasi totalità delle persone che conosco nel quadrante dell’amore
e della libertà: e sı̀ perché penso che dopo tutto si tratta sempre di brava gente. Io di uomini
dittatori non ne conosco, individui che odiano dalla mattina alla sera nemmeno e quindi, per
esclusione li vedo tutti ammassati in una piccola zona del I quadrante tra modeste quantità
d’amore e piccoli aneliti di libertà. Poi, riflettendoci meglio, capisco un fatto fondamentale:
che quasi nessuno è uomo di libertà. Quelli a cui piace il denaro, sono uomini di potere. Quelli
che vogliono fare carriera, sono uomini di potere. I camorristi, gli egoisti, i gelosi in amore, gli
estremisti, i consumisti, quelli che corrono dietro agli oggetti-simbolo, sono sempre uomini di
potere. E allora piano piano tutti i miei amici, tutti i miei conoscenti trasmigrano nel quadrante
inferiore in una zona caratterizzata da modesti desideri d’amore e da più consistenti desideri di
potere.
Forse sarà cosı̀, ma a me piace immaginare che le cose stiano invece differentemente dice
Luigino. Io nel quadrante dell’amore e della libertà ci vedo quasi tutti: io ci vedo, per esempio,
i bambini, le bestie... i cani soprattutto, e poi ci vedo le piante, che noi non lo sappiamo ma che
chissà quanta voglia hanno di muoversi e di mettersi al sole. Io certe volte mi metto a guardare
gli alberi e mi sembra quasi di poterli sentire. Ricordo sempre quei versi di Pavese:
tutto il mondo è coperto di piante
che soffrono nella luce
e non s’ode nemmeno un sospiro.
Capitolo 16
Controra
Sono le tre di un pomeriggio d’estate. Il sole è impietoso. L’ombra non esiste o forse è solo
un’illusione ottica, dal momento che non provo alcun sollievo nemmeno a restare seduto sotto un
ombrellone degli chalet a Mergellina. A Napoli si chiama controra. Il termine sta a indicare
che si tratta di un’ora contraria, cioè di un’ora che dovrebbe essere vissuta come un’ora della
notte: a letto e nel buio di una stanza. L’orario unico è stato inventato nei paesi senza sole.
Sono con un collega di Milano e ci stiamo riposando da un’eccellente colazione consumata a
Vini e Cucina, la famosa trattoria della signora che sta di fronte alla stazione di Mergellina.
La signora ci ha preparato una cosa semplice, e durante il pranzo ha ritenuto suo dovere riempire
di male parole il mio povero amico, reo di essere milanese e quindi probabile tifoso interista.
Inutilmente il mio amico ha fatto presente che lui nella sua vita non era mai andato a vedere
una partita di calcio; niente da fare: la signora ha continuato imperterrita a fare apprezzamenti
sulla sua persona, sul fatto che parlava con l’erre moscia e sulla sua presumibile scarsa virilità,
ha quindi esteso tali dubbi a tutti gli uomini milanesi ed in particolare ad Helenio Herrera,
ex allenatore dell’Inter, ed infine ha tenuto una filippica contro Garibaldi, colpevole di aver
unificato l’Italia allo scopo d’impedire al Napoli di vincere tutti gli anni lo scudetto del Regno
delle Due Sicilie.
Siamo usciti sotto una tempesta di sole con l’intento suicida di arrivare a piedi in ufficio,
fin sulla seconda rampa di Via Orazio. Come era facile prevedere all’altezza degli chalet di
Mergellina siamo definitivamente crollati, e fortuna ha voluto che nel momento del deliquio
abbiamo trovato a portata di mano due dondoli liberi ed un ombrellone. Lawrence d’Arabia
non sarebbe andato oltre. Senza parlare, ma spostando leggermente la testa per rispondere sı̀
o no alle domande del cameriere, siamo riusciti ad ordinare due granite di limone. Letargo per
dieci minuti e poi le granite. Consumiamo, anzi prosciughiamo i nostri bicchieri; e poi di nuovo
immobili, senza muoverci e senza parlare. Guardo, in assenza di pensieri, il tavolino arancione,
i bicchieri asciutti, il biglietto da mille ancorato al portacenere e resto in attesa del cameriere.
A questo punto compaiono loro: ‘e guagliune. Si tratta di una chiorma (un gruppo) di una
decina di ragazzi, tutti scalzi, tutti in costume da bagno e con i jeans arrotolati sotto al braccio.
Tornano da uno dei tanti stabilimenti balneari di Posillipo basso. Passano ridendo e gridando.
Uno di loro, l’ultimo della fila, tredici o quattordici anni, capelli bagnati, occhi vivi, pelle nera,
si ferma davanti al nostro tavolo, pensa, mi guarda e dice:
Dottò, ma se io adesso mi scippo questa mille lire e me ne scappo, voi che fate?
Come che faccio. Ti corro appresso e ti faccio un mazzo tanto.
Ma dove volete correre dottò? Voi state spaparanzato su questa sedia a dondolo e prima
che vi alzate in piedi, io già sono arrivato sopra alla chiesa di S. Antonio.
Ma tu che vuò?
Niente, volevo solo farvi notare che praticamente avreste potuto perdere mille lire. Facciamo una cosa: me ne date duecento e non ne parliamo più.
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CAPITOLO 16. CONTRORA
A questo punto il mio amico vuole dargli per forza tutta la mille lire; io mi oppongo perché
penso che certe iniziative non bisogna incoraggiarle. Decidiamo per cinquecento lire e una
sigaretta.
Capitolo 17
Il quarto sesso
Al momento di marciare molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico.
La voce che li comanda
è la voce del nemico.
E chi parla del nemico
è lui stesso il nemico.
bertolt brecht.
Savè tu internazionalmente parlando non sei nessuno, dice Salvatore mettitelo bene
in testa, tu come italiano conti poco più di un abissino! Sei una colonia Savè, una colonia
americana. E ringrazia Dio che è finita la tratta degli schiavi, se no finiresti in piazza Rockefeller
a New York con il cartellino del prezzo appeso al collo.
Gesù Gesù ma io esco pazzo risponde Saverio. Ma tu sai io che farei se fossi il Presidente
dell’America? Direi: “Ma all’anima e chi ve’ muorte io mo’ da oggi in poi mi faccio i cazzi
miei, e voi italiani siete tutti liberi di puzzarvi dalla santissima fame, insieme ai russi, agli
egiziani, ai cinesi, ai vietnamiti e a chi canchero vi vuole stare a sentire”.
E lo facesse l’America, lo facesse. Noi questo stiamo aspettando.
Ma come, e questa è la gratitudine? Salvatò ma tu lo sai che quando finı̀ l’ultima guerra
mondiale tutta quanta l’Italia stava, come si dice, con le pacche nell’acqua (in pessime condizioni) e se ne venette un certo Marshall, nu’ signore americano, e disse: “Italiani miei non
vi preoccupate e pensate alla salute che qua ci sta lo zio vostro che pensa a voi, quanto vi
serve? Di che si tratta? Dite e non fate complimenti” e allora uno di noi gli disse: “Ma come,
noi italiani fino a qualche giorno fa eravamo tuoi nemici, ti sparavamo addosso non appena ti
vedevamo...”. “Ma no” rispose lui. “Quello è stato tutto un qui pro quo anzi scusate tanto
se nella confusione vi abbiamo scassato qualche cosa, ma adesso non vi preoccupate che qua
ci stanno i denari e accomodiamo tutto cosa.” E poi, dopo che questi ci hanno letteralmente
salvato dalla morte sicura, sfamato e vestito, tu, per tutto ringraziamento, ogni volta che viene
un presidente americano in Italia che fai? Pigli e lo abboffi di fischi e pernacchi! E questo te
pare giusto Salvatò?
Quello che tu tieni di bello Saverio mio è l’ingenuità. Tu sei come una criatura che va alla
prima elementare, io ti dò una caramella e tu fai quello che voglio io. Ma adesso secondo te
Marshall i soldi all’Italia ce li ha dati perché improvvisamente si era innamorato del Vesuvio?
E le basi militari, Savè, le basi militari! Me lo dici, se non ci avesse dato quei quattro soldi,
il signor Marshall le sue basi militari dove se le metteva? Le avrebbe dovute piazzare tutte
nelle zone intime delle proprie sorelle con grande godimento delle truppe ma con scarso valore
strategico internazionale.
E va bene, ma a me non mi pare giusto che noi prima critichiamo l’America e poi ogni
volta che ci mancano i soldi per campare andiamo a New York a piangere miseria.
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CAPITOLO 17. IL QUARTO SESSO
Non ti fare tanti scrupoli Savè che quelli gli americani non sono fessi: se si preoccupano
di sostenere la nostra economia è perché uno scopo ce l’hanno. Ricordati quello che ti ho detto
prima: Savè sei una colonia.
E va bene sarò una colonia. L’importante però è che siano loro a preoccuparsi di mantenere
a noi, il guaio sarebbe se fossimo noi a doverci preoccupare di mantenere loro.
Questo fino a un certo punto. Tutto va bene finché ti comporti come piace a loro. Prova
a voler cambiare regime e vedi che ti succede. Sei come un cappone attaccato a una cordicella
in attesa che viene Natale. Se non ti muovi puoi pure pensare di essere libero di andare dove
ti pare e piace, ma se solo provi ad allontanarti di un metro, tracchete e la cordicella ti tira la
coscia. Sei una colonia Savè.
E già perché l’Ungheria e la Cecoslovacchia nel frattempo sono diventate due aquile che
volano libere e indipendenti! Qua la verità è che Napoli è sempre stata una colonia e l’unico
dubbio che ci rimane è se è preferibile fare la colonia russa o la colonia americana.
Basta guagliù, basta! interviene il professor Bellavista. E basta a parlare di politica.
Non serve a niente. I discorsi sono sempre gli stessi: tu dici Cile ed io ti rispondo Cecoslovacchia,
tu mi parli male dell’America ed io ti parlo male della Russia, e tutti rimaniamo della stessa
opinione di prima. Sono tutte cose dette e ridette un milione di volte. Ormai i solchi di
queste conversazioni si sono talmente induriti che non è più possibile percorrere una strada di
discussione politica senza finirci irrimediabilmente dentro.
Ma voi come la pensate professò?
Ecco qua: “Voi come la pensate” e questo è un altro difetto di tutte le conversazioni
politiche; etichettare. Chi sei? Sei fascista? Sei comunista? Sei liberale? Non sei niente e
allora sei qualunquista. A me se uno mi chiede politicamente che cosa sono, sai certe volte che
mi verrebbe la voglia di rispondere? “Sono uomo e mi piacciono le donne”.
E che c’entra.
C’entra Savè. Perché proviamo una volta tanto ad affrontare il discorso politico da un’ottica completamente diversa: quella sessuale. Facciamo l’ipotesi per esempio che al mondo esistano
quattro sessi: i maschi, le femmine, i ricchioni e quelli che vogliono il potere, e cerchiamo di
capire questo quarto sesso mettendoci nei loro panni.
A Napoli si dice: è meglio cumannà che fottere.
Infatti Salvatò, per quelli del quarto sesso è proprio cosı̀: a pensare di raggiungere il potere
si eccitano, come uno di noi vicino ad una bella ragazza. L’unica differenza sta nel fatto che il
potere non sazia, anzi è come una droga e richiede sempre dosi maggiori.
Ma questo e qualunquismo Gennà lo interrompe il dottor Palluotto.
Ecco che vi dicevo prima? Il bisogno di etichettare. Le parole usate come corpi contundenti.
Uno sta facendo un ragionamento e l’altro non è d’accordo, però non è che risponde con un
altro ragionamento e ti dice: no, qua secondo me le cose stanno cosı̀ e cosı̀. Nossignore, le regole
della discussione politica presuppongono l’etichettatura: il tuo discorso non mi piace e allora
io ti chiamo qualunquista, come quel siciliano che ogni volta che litigava con il suo amico ed
aveva torto troncava la discussione dicendo: “Sı̀, ma tu tieni le corna”. È il desiderio di porre
l’avversario in stato d’inferiorità: essere qualunquista è come essere cornuto. Forse alla fine del
mio discorso, potrebbe pure accadere, senza che nemmeno io me l’aspetto, che quello che dico
sia vicino al pensiero di Mao ed alla tesi della rivoluzione continua, ma il qua presente mio
amico Vittorio lo ha subito definito qualunquista, e già perché lui sa che in quella luce l’idea
cade, si svilisce anche quando viene condivisa da tutti. A nessuno piace essere cornuto.
Madonna mia Gennà e come la stai facendo lunga risponde il dottor Palluotto. Vuol
dire che non parlo più. Solo fammi la cortesia di non chiamare questa tua cosa una discussione
politica.
Ma è mai possibile che voi due, che poi siete tanto istruiti, non siete capaci di dire due parole
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senza appiccicarvi? dice Salvatore. Lo capirei se foste come me e quest’altro analfabeta di
Saverio, che ha sempre votato Monarchia manco se fosse un nobile di casa Savoia.
Che c’entra, io ho votato Monarchia non per idea politica, ma perché quello l’assessore
doveva fare assumere mio fratello Vincenzino alla Nettezza Urbana che poi ci è riuscito lo
stesso perché l’allora fidanzata di mio fratello, attuale cognata mia, era governante a casa
dell’assessore, l’onorevole Abbondanza, e mio fratello un giorno che erano usciti tutti insieme
salvò il bambino, cioè il figlio dell’assessore, mentre che stava finendo sotto le ruote di una
macchina, veramente il bambino ha sempre negato il fatto, ciononostante l’assessore lo fece
entrare lo stesso nella Nettezza Urbana dove però Vincenzino mio fratello non scopa in quanto
che deve solo controllare se gli altri scopano o no.
A Napoli una discussione politica finisce sempre cosı̀ dice il dottor Vittorio.
Nella
commedia. Gennà scusaci per l’interruzione e continua con il tuo suggestivo parallelo tra sesso
e potere.
Hai detto bene: tra sesso e potere. E già perché è proprio cosı̀ che io valuto il potere. Una
libidine violenta che ti prende e ti domina. Un’eccitazione più forte di te, che ti fa passare sopra
a qualsiasi bassezza. Una forza che non conosce amicizia, senso dell’onore, pietà per i deboli.
E allora si finisce con il comprendere il tradimento, con il giustificare la tortura. Ma insomma
che significa “Potere”, chi è questa donna irresistibile che non può essere divisa perché come
tutte le vere passioni è assoluta? Come fare per conquistarla se la donna-potere è una ed è
desiderata da tanti? Si finisce con il desiderare un esercito per poterla conquistare, si cerca una
bandiera dietro alla quale questo esercito si possa riconoscere. E cosı̀ nascono i grandi ideali,
ovvero le grandi scuse storiche.
Le Scuse storiche?
Sissignore, quelle che Freud chiama le “Identificazioni”. Insomma se voglio farmi seguire
da un esercito per prendere il potere devo trovare innanzitutto una scusa, cioè una bandiera
dietro alla quale camminare. I miei uomini avranno bisogno di una divisa per potersi riconoscere
in battaglia e poi avranno bisogno di slogans, di inni e soprattutto di ideali. Ma per scegliere
con cura gli ideali migliori io debbo sondare l’animo umano e capire quali corde vanno toccate,
quali sentimenti risiedono nei giovani cuori dei miei soldati. E cosı̀ scopro che gli ideali traenti
dell’animo umano sono tre: Dio, Patria e Giustizia. Tutti gl’Imperi della Storia hanno avuto
come collante uno di questi tre ideali. Gli antichi Egiziani con le caste sacerdotali avevano
proclamato un ben noto principio di potere: Osiride è con noi. E dopo di loro nel ramo Dio
si specializzarono con successo Maometto e la Chiesa Cristiana. Il primo utilizzò Allah come
propellente per invadere l’Africa e l’Europa, e cosı̀ come avrebbe fatto un moderno manager
americano, si costruı̀ un piano d’incentivo su misura: il Corano. Chi ammazzava un infedele
andava in Paradiso, chi moriva per Allah passava la vita eterna a letto con le Urı̀ del Profeta.
E la Chiesa Cristiana non fu da meno: essendo riuscita ad ottenere l’esclusiva di Gesù per il
mondo occidentale, la utilizzò per dominare per una quindicina di secoli. Tutto era buono pur di
mantenere il potere. Scoprirono che Dio era il miglior esattore esistente al mondo, in quanto che
a Lui niente si poteva nascondere e dal momento che Lui vedeva tutto, tutti dovevano pagare il
dieci per cento del proprio reddito al suo rappresentante in terra, al Papa. Era possibile anche
macchiarsi di peccati terribili, salvo poi a contrattare, in contanti, sconti ed indulgenze sui
secoli da trascorrere al Purgatorio. Peccato che a quell’epoca non fossero stati ancora inventati
i calcolatori elettronici.
Ma questa è storia vecchia ormai
Non tanto, in Irlanda del Nord continuano allegramente a mettersi le bombe sotto al sedere
in nome di Cristo pur essendo tutti cristiani. Ma continuiamo la nostra carrellata storica.
L’ideale Patria è stato sicuramente il più utilizzato a scopi di potere. Il sentimento di Patria
deriva automaticamente dal sentimento di famiglia. Chi non ama i propri figli e i propri genitori?
Chi non si sente solidale con i propri amici e con i propri concittadini? Tra fare il tifo per la
84
CAPITOLO 17. IL QUARTO SESSO
propria squadra di calcio e fare la guerra con un popolo straniero il passo è breve. La lingua,
la razza, i costumi sono già di per sè una divisa. Basta eccitare le differenze e subito ti ritrovi
un esercito. Cosı̀ nacque l’Impero Romano, dove la qualifica di “cives romanus” era diventata
la massima onorificenza mondiale. Cosı̀ nacquero Napoleone, Hitler e Mussolini. L’ideale di
Giustizia invece è stato scelto a movente solo verso la fine del Settecento. E già perché fino a
quel momento la Chiesa Cristiana, con una trovata veramente geniale, aveva convinto tutti i
diseredati che la Giustizia non era cosa di questa Terra e che solo nell’al di là si sarebbero potuti
pareggiare tutti i conti. Comunque l’ideale di Giustizia, una volta preso piede, ha facilmente
sovrastato gli ideali di Patria e di Religione. Marx è stato il Messia, Lenin lo Stratega, Stalin
il Dittatore. Anche questa volta siamo partiti da Gesù e siamo arrivati a Bonifacio VIII. È il
mostro del potere che ogni volta s’intrufola nelle file dei puri per poi comparire al vertice della
piramide quando ormai tutti si sono spontaneamente incatenati al suo carro.
Scusa se t’interrompo Gennà, ma con questo tu che vorresti dire: che siccome c’è sempre
qualcuno che strumentalizza gli ideali, noi non dobbiamo avere ideali?
In un certo qual modo sı̀. Vorrei che fossimo più freddi, vorrei che ragionassimo più con
la testa e meno con il cuore. Vedi, non a caso in Italia, paese del mondo dell’amore, i partiti di
massa sono quelli che hanno scelto come bandiera i tre ideali di base: Dio, Patria e Giustizia.
La massa è viscerale e pertanto vota DC, MSI, o PCI, cioè i partiti dell’amore, mentre invece
i liberali, i repubblicani e i socialisti, che sarebbero i partiti di testa, contano su un minore
numero di voti.
Io alle ultime elezioni volevo votare repubblicano, dice Saverio ma poi ho pensato che
arrivavo ultimo e allora ho cambiato idea.
Ma anche i repubblicani e i socialisti perseguono un ideale di Giustizia.
Sı̀, ma con minore aggressività.
Vedi, la valutazione di un’ideologia politica non deve
mai considerare gli obiettivi finali ma solo i metodi per poterli raggiungere. Mi spiego meglio:
supponi che tu adesso, da un viottolo laterale ti affacciassi su di una grande strada maestra,
e che, come prima decisione, ti venisse chiesto in quale senso vuoi percorrere questa strada:
se giri a destra sei un conservatore, le cose ti stanno bene come stanno e tutto sommato non
te la senti di rischiare ciò che già hai per eventuali miglioramenti, se giri a sinistra invece sei
un innovatore, cioè uno che tende a cambiare le cose nella speranza di migliorarle. Ora io
credo che in questa stanza siamo tutti d’accordo che le cose in Italia, cosı̀ come stanno, non
vanno assolutamente bene. Nessuno di noi può onestamente essere soddisfatto degli ospedali,
delle scuole, delle pensioni e di tutte quelle porcherie che di continuo siamo costretti a vedere.
Quindi, io penso, che gireremmo tutti a sinistra e imboccheremmo tutti questa famosa strada
nel verso giusto e cioè quello dell’innovazione. A questo punto però ci troviamo di fronte ad una
seconda decisione, a mio avviso la più importante, e precisamente: a quale velocità vogliamo
camminare? Noi sappiamo che alla fine della strada c’è la Società Ideale, l’Utopia, è umano
quindi che si desideri arrivare prima possibile, ma la strada è piena di curve e le curve non
dipendono da noi, le curve sono ostacoli oggettivi che esistono e di cui dobbiamo tener conto
se non vogliamo finire fuori carreggiata. Vi faccio degli esempi: una volta in Italia è stato
detto che non era giusto speculare sulla salute del popolo e che quindi tutti i lavoratori avevano
diritto ad un’assistenza gratuita. Si sono quindi create le mutue. L’idea in sé era assolutamente
perfetta degna della meta finale. L’applicazione dell’idea è stata un disastro. E perché? Perché
il popolo ha abusato di questo diritto ed ha chiesto e ricevuto medicine in misura maggiore di
quanto non ne avesse bisogno, molti medici hanno pensato solo ad aumentare la quantità delle
loro visite a scapito della loro qualità, e alla fine ci hanno guadagnato solo le case farmaceutiche
ed i medici disonesti. Ci domandiamo allora che cosa è che non ha funzionato. È semplice,
avevamo dimenticato che sulla nostra strada, quella del progresso, c’era una curva. Avevamo
dimenticato che il popolo italiano in questo momento, ha una scarsa coscienza civica. In effetti
bastava diminuire, anche di poco, la velocità della riforma sociale. Ad esempio bastava che
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il legislatore avesse stabilito un contributo, che so io, di cento lire per ciascuna medicina a
carico del mutuato e non avremmo più trovato nei bidoni delle immondizie migliaia di scatole
di medicinali mai aperte. L’Italia avrebbe avuto un consumo farmaceutico uguale agli altri
paesi e le casse dello stato avrebbero posseduto qualche migliaio di miliardi in più. Ma per
fare questo sarebbe stato necessario venire a patti con la demagogia. E quale politico italiano
se la sente oggi di affrontare la demagogia? Forse il solo La Malfa, ma prende pochi voti e
poi è brutto, televisivamente parlando. Riassumendo, ogni qualvolta si compie una scelta non
bisogna pensare subito alla soluzione ideale ma tener conto dei fatti. Oggi, per esempio, con la
classe politica che abbiamo e con la tendenza tipicamente italiana all’intrallazzo, al favoritismo
ed alla burocratizzazione, io, onestamente, avrei paura ad affidare ad un solo partito, anche
se comunista, tutte le leve del potere, i centri di produzione, le forze di polizia ed i mezzi
d’informazione. C’è tra voi qualche comunista che con tutta coscienza valuti il popolo italiano
all’altezza di questa prova?
C’è molto di vero in quello che dici Gennaro risponde il dottor Palluotto. Però tu nell’esempio della strada hai dimenticato di parlarci di quelli che vanno a destra, dei reazionari.
Ora questi benedetti signori non è che si limitano a stare a destra e a guardare, ma esercitano
un’azione frenante di cui non si può non tener conto. Voglio dire che dobbiamo premere sull’acceleratore sempre un poco di più di quanto sia necessario, perché dall’altra parte c’è qualcuno
che sotto sotto mette un piede sul freno. Prendi ad esempio la contestazione studentesca: niente di più sregolato e disordinato! Eppure ha avuto una sua enorme importanza. Il problema
della scuola, senza questa spinta folle, non si sarebbe nemmeno posto all’attenzione del governo.
Con questo voglio dire che non bastano i soli partiti moderati per governare ma che anche gli
estremisti hanno una loro ben precisa funzione.
Sempre che non riescano a vincere però.
Bisogna ammettere che il professor Bellavista è sempre coerente dice Luigino. La stessa
moderazione che lui usa nel ricercare il piacere nella vita, l’adopera anche nelle sue scelte
politiche. Chissà però perché questa moderazione non piace a nessuno.
Be’, la spiegazione esiste ed è semplice. Apparentemente una società viene trainata dai
giovani e dagli artisti. Ora per quanto riguarda i giovani vi ricordo una frase di Longanesi: “Si
nasce incendiari e si muore pompieri”, e per quanto riguarda gli artisti è ovvio che la filosofia
della moderazione possa fare solo schifo, ma ricordatevi che gli ultimi secoli di storia ci hanno
insegnato che sulla fine chi decide è la borghesia, e la borghesia a volte può essere più pericolosa
del Movimento Studentesco. Il giorno in cui la borghesia si accorgesse che il comunismo, capito
male, potrebbe essere una nuova forma di fascismo, saremmo perduti. Il desiderio di ordine, di
pena capitale, e di divieto dello sciopero è troppo diffuso per non dover temere un’involuzione
del genere.
Scusate se v’interrompo dice Saverio ma c’è una cosa che io nel comunismo continuo a
non capire. Dice che se viene il comunismo saremo tutti uguali e guadagneremo tutti lo stesso.
Sarà ma non è questo che a me m’interessa. A me mi preoccupa una altra cosa: la merda, la
merda chi la leva?
Come?
Dico, la merda che ogni tanto si forma chi la porta via? E sı̀ perché qualcuno ci deve pur
essere per levare la merda. Ora mi chiedo: si farà un po’ per ciascuno, a turno, o ci saranno
dei cristiani propriamente incaricati a levare la merda? Secondo me democrazia o comunismo,
la merda me la faranno levare sempre a me.
Ma ci saranno le macchine per fare certe cose.
E sı̀ le macchine! Voi pigliate per esempio un vecchio malato, che fate lo pulite con la
macchina? Nossignore la verità è che esistono vite belle e vite brutte e chi decide in proposito
è sempre il Padreterno prima che noi nasciamo. E il Padreterno dice questo lo chiameremo
86
CAPITOLO 17. IL QUARTO SESSO
Saverio lo faremo innamorare di Assuntina Del Vecchio e gli faremo avere tre figli e questi figli
saranno tutti belli e gli vorranno sempre bene.
È vero Luigı̀ risponde Saverio E poi devi sapere pure un’altra cosa che alla merda uno
si abitua, puzza solo nei primi giorni che si va a lavorare.
Capitolo 18
Una colazione d’affari
Preparare una colazione d’affari a Napoli? Non è possibile. La città non è organizzata: mancano
i ristoranti specializzati, i menu sono tutti a base di carboidrati, i camerieri e gli avventori non
consentono nessuna privacy ed infine i posteggiatori volteggiano implacabili nella convinzione
che chiunque mangi in un ristorante sia un turista straniero voglioso di ascoltare o’ surdato
‘nammurato.
Tutto questo non significa che a Napoli sia impossibile trattare e concludere affari mangiando. Diciamo semplicemente che è diverso e che bisogna sapersi adattare. Ricordo, per esempio,
di una cosiddetta colazione di affari da me avuta con un cliente quando ancora lavoravo a Napoli: avevo deciso di scartare Ciro a S. Brigida, dove sicuramente avrei mangiato benissimo
ma dove altrettanto sicuramente avrei trovato troppa folla, e mi ero avviato verso una trattoria
di S. Lucia, proprio di fronte al cinema, dove secondo i miei calcoli a quell’ora non avrei dovuto
incontrare molta gente, essendo la clientela abituata a mangiare verso le due. Tutto procedeva
secondo le previsioni: sala pressoché vuota, spaghetto a vongole e per dopo la solita micidiale
richiesta: carne o pesce? Comunque una volta adempiuto nel bene e nel male alle formalità
delle ordinazioni, io avevo appena iniziato il discorso che tenevo a cuore, quando eccolo l’immancabile, il fatalistico, l’emaciato, il sorridente professionista della posteggia. Vestito, come
il ruolo comanda, con dignitosa povertà ma con colori e dettagli adatti ad un artista, armato
di una vistosa chitarra, egli avanza nel locale deserto per piazzarsi a circa tre metri dal nostro
tavolo. Attendo con paziente rassegnazione che il nostro aedo si commuova cantando tu si ‘a
canaria, ca pure quanno more canta canzone nove sennonché contro tutte le aspettative egli
resta silenzioso e rispettosamente ci guarda.
Continuo a parlare di lavoro ed ho l’impressione che questa volta il posteggiatore stia aspettando la fine del la nostra conversazione. Sennonché, nel corso di una pausa, si avvicina con
discrezione e con un leggero inchino ci porge un cartoncino stampato: “non suono per non
disturbare, grazie”.
Gli demmo cinquecento lire e se ne andò
Gaetano, il cameriere, quando venne a portarci il conto ci disse: Puveriello è pate ‘e figli ‘e
nun sape sunà! (Poveretto, è padre di figli e non sa suonare).
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CAPITOLO 18. UNA COLAZIONE D’AFFARI
Capitolo 19
L’ideale politico del professore
Liberatemi dalle strade della morte
ch’io possa camminare con la libertà a fianco
verso patrie sconosciute.
rabindranath tagore, Balaka.
Scusami Gennà, ma tu parli parli e alla fine non hai detto niente dice il dottor Palluotto.
Come sarebbe a dire che non ho detto niente?
Volevo dire che alla fine di tutta la tua dissertazione politica tu non ci hai fatto capire
quale siano in parole povere le tue idee politiche.
Il dottor Palluotto, professò, vorrebbe sapere voi per chi avete votato suggerisce Saverio.
Ed io l’avevo capito. Voi qua per forza volete schedarmi, e già perché logicamente voi dite
che, in una discussione politica, un povero dio come può fare a parlare con uno se prima non
ha capito se questo qui è fascista o è comunista. Non è vero, Vittò?
Ma che c’entra questo ribatte il dottor Palluotto. A me non me ne frega assolutamente
niente di sapere per chi hai votato. Io volevo umilmente farti osservare che nella tua conferenza
politica di poco fa, tu hai sostanzialmente fatto due asserzioni: hai detto che il potere, qualsiasi
sia l’ideale scelto come mezzo di affermazione, altro non è che il manifestarsi di un istinto
di sopraffazione da parte di una minoranza nei confronti della collettività, e poi hai criticato
qualsiasi iniziativa rivoluzionaria contro il potere, predicando la moderazione riformistica. Ora
a me sembra, correggimi se sbaglio, che consigliare il prossimo a disinteressarsi della politica,
in quanto corsa al potere, e nello stesso tempo invitarlo a rallentare ogni spinta rivendicativa,
equivalga tutto sommato a fare un discorso qualunquista che, guarda caso, coincide proprio
con i “desiderata” dei signori che detengono il potere. A questo punto professor Bellavista io
ti chiedo: giù la maschera e dicci da che parte stai. Quali sono le tue vere idee politiche?
E se ti confessassi che io, Gennaro Bellavista, un’idea politica non ce l’ho? E se ti dicessi:
Vittorio mio, l’unica idea politica che mi viene in mente certe volte è quella di restare chiuso
in casa a pensare? Mi crederesti sı̀ o no?
E no che non ti crederei.
E forse avresti ragione. Comunque io adesso vorrei proporvi una cosa: siccome tempo ne
abbiamo e parlare ci piace, cerchiamo di fabbricarci, di comune accordo, un ideale politico che
vada bene per tutti.
Secondo me non ci riusciremo mai.
E va bene, e allora vorrà dire che ci avremo provato. Ma vediamo almeno dove andiamo a
finire. Dunque iniziamo con una domanda: che cosa pensate che un ideale politico debba volere
sopra ogni altra cosa?
Be’, risponde il dottor Vittorio secondo me su questo non ci sono dubbi: il bene primo
è la giustizia sociale. In fondo che cosa è lo stato? Un ente la cui ragione di essere è dovuta al
fatto che gli uomini sono ancora dei grandissimi figli di puttana. “Homo homini lupus diceva
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CAPITOLO 19. L’IDEALE POLITICO DEL PROFESSORE
Hobbes. Ora ragioniamo: se è l’egoismo a creare lo stato, è chiaro che primo obiettivo di questo
stato debba essere il controllo di questo egoismo, ovvero il raggiungimento di una giustizia
sociale.
Sono perfettamente d’accordo con il dottore sull’importanza della giustizia sociale, dico
io ma veramente vorrei ricordare anche qualche altro bene fondamentale a cui, secondo il mio
parere, uno stato dovrebbe tendere. E parlo, mi avrete già capito, della libertà individuale. Il
termine libertà purtroppo è vago, dato il grandissimo uso che tutti ne fanno, però se vogliamo
collegarci a quanto detto proprio in questo momento dal dottor Vittorio e cioè ai motivi che
determinano la nascita dello stato, ci accorgiamo che lo stato nasce coercitivo cioè ha come
primo obiettivo la limitazione della libera volontà degli esseri umani...
Si ma solo per disciplinarne gli impulsi predatori, cioè per evitare che si commettano atti
ingiusti verso gli altri.
D’accordo, ma dal momento che la valutazione morale di questi atti è affidata allo stato
e che questo stato in ogni caso è costituito da esseri umani cioè da quei lupi di cui parlava
Hobbes, non possiamo non tenere in grandissimo conto la libertà individuale...
Vedo con piacere, dice Bellavista che siete subito giunti al nodo del problema: giustizia
e libertà, collettivismo e individualismo.
Ma perché non diciamo che ci piacciono tutte e due, giustizia e libertà, e non ne parliamo
più propone Saverio.
Perché pare che tutte e due, Savè, non si possono avere risponde Salvatore. E allora
uno si deve decidere: vuole mangiare in silenzio o preferisce la libertà di morirsi di fame?
Ma questo secondo me, dice Luigino dipende dal carattere della persona. Io per esempio
se fossi un’antilope e dovessi scegliere tra la foresta vergine insieme con i serpenti ed i leoni, ed
il giardino zoologico dove tutti i giorni viene il guardiano a portarmi da mangiare, io non avrei
dubbi: foresta vergine.
Si va bene Luigi, interviene Saverio però tu renditi conto che a Napoli noi siamo quasi
tutti disoccupati e che il Comune, che poi sarebbe il nostro giardino zoologico, già tiene venticinquemila dipendenti e che ha detto che non ne può assumere più. Cosı̀ noi, ogni mattina, ci
dobbiamo buttare tutti insieme nella foresta vergine. E siamo tanti Luigı̀. E allora sai che ti
dico? Che un poco di giardino zoologico, magari a turno, in fin dei conti non ci dovrebbe fare
tanto male.
Signori, un po’ di attenzione per favore! interrompe il professore. Vorrei raccontarvi quello che diceva a questo proposito un grandissimo pensatore contemporaneo: Bertrand
Russell. Dunque il grande vecchio sosteneva che al mondo esistono due tipi di beni: i beni
materiali ed i beni spirituali, e due tipi di impulsi corrispondenti: gli impulsi possessivi e gli
impulsi creativi. I beni materiali sono caratterizzati dal fatto di essere finiti nella loro quantità.
In altre parole, secondo Russell, se io adesso mi bevo tutto il vino che sta in questa bottiglia,
voi qua rimanete tutti a bocca asciutta, e quindi il vino è un bene materiale.
Pure secondo me dice Saverio.
I beni spirituali sono invece caratterizzati dall’essere illimitati nella quantità. Se a me piace
Beethoven, io sono in grado di farmene una scorpacciata senza per questo togliere a nessuno
di voi la possibilità di apprezzarlo nella stessa misura. Anzi più io sento Beethoven e più può
essere che lo sentite pure voi. Affermata quindi la superiorità qualitativa dei beni spirituali
sui beni materiali, Russell fa subito una considerazione di fondamentale importanza ai fini dei
nostri discorsi: l’uomo non può essere disponibile ad alcun impulso creativo se prima non ha
soddisfatto il suo bisogno base di beni materiali.
Se non sbaglio, professò, interviene Salvatore questo vostro amico vuole dire che a
stomaco vacante Beethoven si sente una schifezza?
Precisamente. Ma purtroppo la faccenda è molto più complessa di quello che si pensa:
che cosa vuol dire “bisogno base di beni materiali”? Qual è la giusta misura di beni che a
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ciascuno compete? In un mondo in cui tutti hanno la macchina, un povero cristo che non
ce l’ha, giustamente si sente povero. Quindi quando parliamo di giusta distribuzione di beni
materiali, dobbiamo riferirci non alla dotazione necessaria e sufficiente per la sopravvivenza
fisica dell’essere umano ma bensı̀ alle condizioni medie di vita di quel paese in quel momento
storico. Insomma sembra che l’uomo, signori miei, sia disponibile ad evolversi in senso spirituale
solo quando è riuscito a superare quello che lui ritiene essere il suo livello consumistico di
base. Ora noi in questi ultimi secoli abbiamo visto affermarsi sostanzialmente due modelli
politico-economici: il capitalismo ed il comunismo. Sarebbe interessante analizzare, alla luce
delle considerazioni adesso fatte, quali siano i limiti di questi modelli politici. Il capitalismo,
inventato da un signore che si chiamava Adamo Smith, è un modello di sviluppo basato sulla
libera concorrenza che ascrive al proprio passivo due colpe fondamentali: primo, non garantisce
la giustizia sociale, secondo, distoglie l’umanità dai beni spirituali. Il motore, di cui si serve
il capitalismo per portare avanti il sistema, usa come carburante l’egoismo dell’uomo, ovvero
l’unica risorsa energetica attualmente presente in ogni parte della terra. In mancanza di senso
civico e di amore evangelico il capitalismo fa appello all’avidità dell’uomo e inventa la religione
del profitto. I canoni di questa religione sono abbastanza semplici: l’uomo s’identifica col suo
conto bancario. Il merito gli viene riconosciuto con il potere o con i contanti. Siamo in piena
spirale consumistica. L’uomo è obbligato a produrre sempre di più per poter comprare quello
che ha prodotto in eccedenza. Non esiste tregua. Non c’è spazio per una pausa, per la ricerca di
un bene spirituale. L’impulso creativo non riesce a svilupparsi proprio perché l’uomo è troppo
distratto dalla ricerca del denaro necessario a sostenere le spese della sua prossima villeggiatura.
Ma che cosa è successo? Perché un tempo eravamo felici con meno? La risposta è semplice: il
consumismo ha alzato il suo prezzo. Il livello minimo di benessere di oggi è più alto. Domani lo
sarà ancora di più e tu uomo dovrai soffrire sapendo di non possedere nemmeno un televisore
a colori.
Dite a me professò? risponde Salvatore. Io non tengo nemmeno il secondo canale, e
quando è il mercoledı̀, che ci sta il film sul secondo, dobbiamo andare da mia cognata che sta
nel vicolo appresso.
E veniamo al comunismo continua imperterrito il professor Bellavista. Qui ci troviamo
di fronte ad un regime che finora per raggiungere l’obiettivo per cui è nato, la giustizia sociale,
è dovuto ricorrere alla forza, cioè alla cosiddetta dittatura del proletariato. E come tutti i fenomeni di potere assoluto, siano essi costituiti da un partito politico o da un’azienda industriale,
pretende l’uniformità della base. Perché, signori miei, non ci facciamo illusioni, dove regna il
potere assoluto non esiste l’individuo e quindi non esiste la libertà.
Ma secondo me dice il dottor Vittorio dovremo prima accordarci sul significato della
parola libertà.
Vittò ti ripeto pari pari le parole di Russell: un ideale politico deve avere come massimo
obiettivo l’individualità L’uomo politico non deve pensare al popolo come massa uniforme ma
come tanti esseri umani diversi: uomini, donne, bambini. Uomini che pensano, che sono diversi
perché d queste diversità di pensiero nasceranno le idee del futuro Individualismo significa vita,
uniformità significa morte. Ora invece chi comanda sa che è tanto più facile comandare quanto
più è uniforme la base. La omogeneità dei sudditi li rende prevedibili. E come una cattiva
giustizia sociale produce un’imperfetta distribuzione dei beni materiali, cosı̀ una mancanza di
libertà individuale costringe le menti in spazi sempre più ristretti, né più né meno, dice Russell,
come un tempo usavano fare i cinesi con i piedi delle donne. Morale: anche con il comunismo
gli impulsi creativi si vanno a far benedire seppure per motivi completamente diversi da quelli
del mondo occidentale.
Scusami Gennà, ma io penso che tu qua commetti uno sbaglio grossolano. L’Oriente ha
in grandissimo conto il bene spirituale e ciò te lo dimostra sia l’impegno con il quale il mondo
comunista ha affrontato fin dall’inizio il problema dell’istruzione, sia il fatto che nelle fabbriche
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CAPITOLO 19. L’IDEALE POLITICO DEL PROFESSORE
e negli uffici l’incentivazione è esclusivamente morale. In pratica non è la sete del maggior
guadagno che spinge l’operaio comunista a lavorare meglio ma la consapevolezza di servire la
collettività. Questo è il vero miracolo comunista.
Vittorio mio, a prescindere che su questi miracoli io non metterei le mani sul fuoco, qui
facciamo a non capirci. Io per libertà intendo principalmente la libertà di pensiero e fino a
prova contraria la ritrovo in parte solo nei regimi a democrazia parlamentare.
Ma sempre in una economia capitalista.
Sissignore, ma benedetto Iddio, perché non tentare di giungere ad un regime democratico
che, retto da una pluralità di partiti, limiti attraverso leggi opportune il cinismo del capitale e
nel contempo spinga gli uomini, attraverso tutti i canali d’influenza e cioè attraverso i giornali,
il cinema e la televisione, alla ricerca dei beni spirituali.
Sempre dopo i beni materiali, non è vero professò? chiede Salvatore.
Ovviamente, dal momento che la recettività dell’uomo all’impulso creativo è massima
quando l’uomo stesso si è liberato delle sue schiavitù materiali.
Tutto questo mi sta bene dice il dottor Palluotto. Però io vorrei sapere da te perché
continui a pensare al comunismo come ad un regime dittatoriale. Insomma tu dici comunismo
e pensi alla Russia, confessalo Gennà. Perché invece non ti sforzi di immaginare un comunismo
diverso: un comunismo italiano?
A prescindere che avrei tutti i motivi per pensare al comunismo come ad un regime
dittatoriale, io ho solo detto che preferisco a qualsiasi tipo di regime assoluto un governo
democratico.
E chi ti dice che il comunismo italiano non possa rimanere un regime democratico?
D’accordo, ma allora dimmi in che cosa differirebbe il tuo partito comunista da un partito
socialdemocratico? No Vittò, ti ripeto, finché sarà possibile io vorrei comprarmi tre giornali al
giorno e mi sentirò libero fino a quando questi tre giornali mi racconteranno lo stesso fatto in
tre maniere diverse.
I tuoi tre giornali però sono diversi solo nella prima pagina, Gennaro mio, cioè nella pagina
politica, mentre invece sono perfettamente uguali nelle pagine successive ed è là che si nasconde
l’insidia.
Non ho capito dove vuoi arrivare.
Ed io te lo dico. Volevo dire che c’è qualcosa di uguale in tutti i mezzi d’informazione, siano
essi fatti d’immagini televisive o di carta stampata, e questo qualcosa di eguale è la pubblicità
ovvero la propaganda del capitalismo. Tu vagheggi un mondo dove la scala dei valori veda
primeggiare i beni spirituali e la pubblicità intanto ti frega plagiando le menti più deboli e
spingendole verso i consumi superflui.
Qui sono perfettamente d’accordo con te ed è per questo che credo indispensabile combattere il capitalismo moderno.
Ma come puoi combatterlo da solo se non attraverso una sostanziale spinta politica, il
che tradotto in termini pratici significa attraverso un partito sufficientemente appoggiato dal
consenso popolare. Ora fino a prova contraria Bertrand Russell in Italia non ha fondato nessun
partito e quindi, tu puoi abbattere il capitalismo solo con l’aiuto del partito comunista italiano.
E se invece di delegare alla spinta i soli comunisti provassimo a spingere tutti insieme?
Ma per quanto mi riguarda, dice Saverio non contate su di me, forza di spingere non ne
ho. Datemi prima un posto sicuro e una casarella di due stanze solo per la mia famiglia e poi
veniamo a spingere pure noi. Beato a voi professò che ogni mattina vi leggete tre giornali, e non
lo dico per il tempo perché io quello ce l’ho, anzi a dire la verità proprio di tempo ce ne ho in
abbondanza, ma la cosa che più vi invidio con tutto il cuore professò sono le quattrocentocinquanta lire che voi spendete ogni mattina per comprare i giornali. Ma mò non vi pigliate collera
e bevetevi pure voi nu’ bello bicchiere ‘e vino. Alla vostra salute professò, che possiate campare
cent’anni. Io di politica vi confesso che non ne capisco proprio niente. Salvatore s’arrangia
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perché tiene un cugino extraparlamentare, come si dice, che lo tiene informato, ma io a dire la
verità quando debbo andare a votare mi sento come un asino in mezzo ai suoni e finisce sempre
che voto per fare qualche piacere a un amico. E cosı̀ succede che una volta voto destra nazionale
e un’altra voto comunista Mi ricordo per esempio che quando ci fu il referendum per il divorzio,
mi misi d’accordo con Ferdinando che siccome lui voleva votare “si” ed io volevo votare “no”
decidemmo di non andare proprio a votare, ci bevemmo in portineria un litro di Gragnano alla
salute del referendum e per evitare che uno dei due potesse votare il giorno dopo buttammo i
certificati nel cesso, con decenza parlando. Ma scusate professò, ma come volete che a me possa
importare del divorzio se io non tengo nemmeno la forza di separarmi dai Percuoco?
I Percuoco? E chi sono i Percuoco?
La famiglia Percuoco, padre, madre, cognata sorda e quattro fedayn che la signora Percuoco si ostina a chiamare “quelle povere creature mie”.
E che c’entrano i Percuoco con il divorzio?
E adesso ve lo spiego. Lui don Ernesto Percuoco sarebbe pure una brava persona che si
arrangia a fare il conoscitore...
Come, il conoscitore?
Il conoscitore è uno che conosce. Per esempio a voi vi si scassa l’automobile, allora voi
andate da don Ernesto e lui subito vi accompagna da un amico meccanico e vi presenta come
amico suo, e cosi succede che voi pagate di meno perché il meccanico vi fa lo sconto e don
Ernesto si guadagna qualche piccola cosa per la presentazione.
E quali fornitori conosce?
Qualsiasi tipo di fornitore: piastrellisti, idraulici, sarti, pompe funebri, ristoranti, elettricisti e via dicendo.
Ma se ho ben capito questo Percuoco abita nella vostra casa chiedo io.
Proprio cosı̀ risponde Saverio. E si perché io, Ernesto Percuoco l’ho conosciuto sotto
le armi quando facevo lI militare a Fortezza, che poi in seguito ci siamo visti ancora a Napoli
al biliardo di via Mezzocannone, dove ci facevamo di tanto in tanto qualche partitella a scopa.
Ora voi sapete come vanno queste cose: “Ma che bella casa che tieni! Ma che te ne fai di una
casa cosi grande! Ma perché non mi subaffitti una stanza a me e a mia moglie e uno stanzino
a mia sorella che tanto quella tra pochi giorni si sposa ad un maestro di scuola e se ne va. Io e
mia moglie siamo delle persone tanto tranquille. Non ci vedi e non ci senti. Siamo sposati da
cinque anni e non abbiamo figli. Il Signore non ha voluto”. Ne’ che ne potevo sapere io che il
Signore fino allora non aveva voluto e che poi, come i Percuoco mettevano piede in casa mia,
cambiava parere! Quattro figli in cinque anni! La signora non arrivava a sgravare che già stava
incinta un’altra volta! Adesso il più piccolo tiene otto anni. Giorni fa ha tentato di incendiare
l’edicola dei giornali a piazza Sant’Anna perché il giornalaio, don Eugenio, gli aveva schiattato
(sgonfiato) il pallone. Amelia, la sorella, è diventata sorda ed il fidanzato si è fatto prete ed
anche per questo non se l’è voluta sposare più. Ora a questo punto voi vi dovete immaginare
per un momento quello che succede a casa mia. I quattro figli Percuoco ed i tre figli miei fanno
complessivamente sette malviventi che un’ora sı̀ ed un’ora no cercano di uccidersi tra di loro e
quando fanno pace si mettono tutti insieme per cercare di uccidere qualche estraneo. La mia
signora generalmente passa il tempo a ricevere e a dire male parole alla signora Percuoco che
essendo figlia di un ex cocchiere di carrozzella ha una vocazione innata per la conversazione
colorita. Insomma, in parole povere, il Medio Oriente messo a confronto con casa mia è soltanto
un paese dove esiste qualche diversità di opinione. Ora io ce lo dico sempre ad Ernesto. Ernè
trovati una casetta! Qua uno di questi giorni ci scappa il morto, qua non si può più andare
avanti, separiamoci! Niente. Lui dice che è subaffitto bloccato e che nemmeno un reggimento
di truppe corazzate lo farebbe abbandonare la casa. Adesso voi mi direte ma che c’entrano i
Percuoco con il divorzio? Ma come che c’entrano! Se uno non riesce nemmeno a separarsi dai
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CAPITOLO 19. L’IDEALE POLITICO DEL PROFESSORE
Percuoco come volete che si possa separare da una moglie e trovare pure i soldi per vivere in
due case diverse?
D’accordo Savè, ma se il tuo matrimonio non fosse felice, e se tua moglie ti facesse le corna,
mi dici tu senza divorzio che cosa faresti?
Che cosa farei? In primo luogo nel dubbio la ucciderei e poi, trovandomi facendo, ucciderei
pure la signora Percuoco cu tutt’e guagliune.
Capitolo 20
Lo strillone
Oggi pomeriggio ho incontrato De Renzi, mio vecchio amico di scuola. Io stavo ad una fermata
dell’autobus al Rettifilo e lui era fermo di fronte a me, in macchina, prigioniero del serpentone
La velocità zero del traffico ci ha consentito di riconoscerci e di iniziare tutta una piccola
rimpatriata dei nostri ricordi di scuola a base di: Ma che ne sarà successo di Bottazzi? E
ti ricordi del professore Avallone? a Ma come si chiamava quella ragazza della I E?. Tutto
questo sempre rimanendo io in piedi alla fermata dell’autobus, e lui, seduto in una 127 rossa
targata Catania. Ad un certo punto De Renzi mi ha chiesto:
Ma dov’è che devi andare?
Vicino piazza Nazionale.
E allora sali che ti dò un passaggio.
E cosı̀, più per continuare la parata dei ricordi che per fare più in fretta, mi sono seduto in
macchina accanto a lui.
De Renzi, e dimmi una cosa: ma tu che fai? Dove lavori?
Sono direttore della filiale di Catania della SAMAPITALIA e mi occupo di articoli in
plastica per l’edilizia. Diciamo che non sto né bene né male. Adesso sono qua per Natale.
Ovviamente ho sempre un po’ di nostalgia di Napoli, ma ormai sono più di sette anni che mi
sono trasferito. Ho sposato una catanese e tengo due bambini: uno di cinque ed uno di tre
anni. Sai com’è? Abbiamo il nostro giro di amicizie e ringraziando Dio, stiamo tutti bene in
salute. E tu invece che fai?
Stavo per rispondere quando abbiamo sentito uno strillone che vendeva il Corriere di Napoli e che gridava a squarciagola: Grande sciagura a Catania, grande sciagura!. Un po’
impressionato De Renzi ha comprato subito una copia del Corriere e velocemente si è messo a
sfogliare il giornale. Nessun titolo però, nessun trafiletto, parlava di questa grande sciagura ed
eravamo ancora alla ricerca della notizia quando il ragazzo dei giornali si è avvicinato di nuovo
e ci ha detto: Non vi preoccupate dottò, è cosa ‘e niente, se il giornale non lo porta vuol dire
che non è successo niente d’importante.
E si è avviato verso una macchina targata Caserta.
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CAPITOLO 20. LO STRILLONE
Capitolo 21
Lotta continua
Sedendo quietamente senza far nulla
viene la primavera e l’erba cresce da sè
le montagne azzurre sono da sè montagne azzurre
le bianche nubi sono da sé nuvole bianche.
toyo eicho. Zerrin Kushu
Savè, quello che tu non ti vuoi mettere nelle cervella, è che oggi essere comunista non
basta dice Salvatore. Non significa proprio niente!
Ma come? Ma se tu sei sempre stato comunista!
E oggi non lo sono più. Mi sono spostato a sinistra.
Più a sinistra dei comunisti?
Sissignore. Mio cugino Tonino che è metalmeccanico e lavora a Sesto San Giovanni, queste
cose le sa. L’ultima volta che l’ho visto mi ha spiegato per filo e per segno che adesso i veri
comunisti sono solo gli extraparlamentari.
Quelli a Sesto San Giovanni queste cose le sanno subito, noi invece a Napoli sappiamo
sempre tutto in ritardo.
Insomma, Savè, fatti conto che l’attuale partito comuni sta italiano praticamente sarebbe
il partito socialista di prima mentre l’attuale partito socialista non è altro che l’ex partito della
democrazia cristiana.
Tu che dici? E l’attuale democrazia cristiana che è?
Diciamo che è come se fosse il partito monarchico di subito dopo la guerra.
Gesù Gesù! E quando è successo tutto questo casino?
In altre parole è successo che in Italia, mentre l’elettorato si spostava a sinistra, gli eletti
si spostavano a destra. Cosı̀ che alla fine tutto è rimasto tale e quale a prima.
E questo te l’ha detto sempre tuo cugino Tonino?
Sı̀, ma pure il professore è d’accordo.
Non ti ricordi che l’altro giorno ci disse che il
vero pericolo che stavamo correndo era quello della borghesia che si era messa a votare per i
comunisti?
Salvatò, io ti volevo sempre chiedere una cosa: ma chi è questa borghesia di cui si sente
sempre parlare? Ogni tanto io sento dire “il proletariato deve difendersi dalla borghesia!”, “viva
i lavoratori abbasso i borghesi!”; Salvatò per favore, tu mò mi devi dire chi sono questi borghesi.
Quelli che non lavorano? Io per esempio che non tengo un lavoro, che sono? Lavoratore o
borghese?
Vedi Savè il borghese è in parole povere il benpensante, quello che è contento del sistema e
pensa solo a difendersi quei quattro soldi che si è messo da parte. Anche il borghese lavora, però
nonostante questo è la parte peggiore della società, perché non fa nessuno sforzo per cambiare
le cose. Il borghese è quello che, quando c’è uno sciopero, vuole andare a lavorare lo stesso; è
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CAPITOLO 21. LOTTA CONTINUA
quello che, quando ci fu il referendum, non voleva il divorzio perché era una novità, hai capito
Savè?
Sissignore ed il professore che ha detto? Che la borghesia si è messa a votare per il partito
comunista? Non può essere che quello il professore voleva scherzare?
No, non voleva scherzare, e anzi qualcosa di vero nel suo ragionamento ci sta. Insomma
il professore è come se dicesse: che cosa può volere un borghese? L’ordine e la disciplina?
Ora siccome in tutti i paesi comunisti pare che quest’ordine e questa disciplina ci stanno, il
comunismo al borghese può pure piacere. Ma qualcun altro dice: sı̀ d’accordo ci sarà l’ordine,
però quando verrà il comunismo non potrai più avere una tua idea politica. E che me ne fotte
a me di avere una idea politica, ti risponde il borghese che pensa solo ai fatti suoi. Ma ti
toglieranno le proprietà! A me? A me dice il borghese non mi possono togliere proprio niente.
Le proprietà le toglieranno a Lauro, ad Agnelli, no a me che tengo solamente nu quartino. E
cosı̀ piano piano finisce che pure i borghesi votano per i comunisti, con la piccola differenza
però che il comunismo che piace a loro non è quello che piace a noi.
E allora ci vorrebbero due partiti comunisti diversi.
Bravo Saverio.
Lo vedi che sei arrivato a quello che ti stavo dicendo io. Due partiti
comunisti diversi: uno per i borghesi ed uno per i veri comunisti come a me e a te.
E come si dovrebbe chiamare questo secondo partito comunista?
Lotta continua. Ed io mi ci sono già iscritto. E ora voglio che ti vieni a iscrivere pure tu.
A Lotta continua?
Proprio cosı̀.
Salvatò ma dimmi una cosa, ma poi deve essere per forza “continua” questa lotta?
Capitolo 22
La polverina
E adesso basta! Qua cosı̀ non sı́ può andare avanti. Questo è un paese di merda, dottò! E
si, scusate la volgarità ma quando ci vuole, ci vuole. Ma come: scippano una povera donna in
mezzo alla strada? E va bene, diciamo noi, ci vuole un po’ di pazienza. Rapinano una banca?
E cosa ‘e niente: le banche se lo possono permettere. Sequestrano un figlio di un miliardario?
Vuol dire che il padre i soldi li teneva. Il mio ragazzo di bottega la sera si fotte i meglio pezzi
di carne dal bancone? E va bene dico io, stiamoci zitti, che se quello poi ricorre ai sindacati,
con la storia dei contributi è capace di mettermi in mezzo a una strada. Insomma io voglio dire
che l’Italia si è abituata alla marioliggine. Come dire che ci ha fatto il callo e che la notizia non
fa più notizia. Eppure certe volte vi capita una cosa che uno dice: Gesù Sant’Anna Giuseppe
e Maria, ma allora non si può proprio più avere fiducia di nessuno!
Ma che vi è successo di cosi grave don Ernè?
E adesso ve lo racconto. Voi dovete sapere che tutti quanti noi macellai, per far diventare
la carne un poco più rossa, perché diciamo la verità: anche l’occhio vuole la sua parte, usiamo
la cosiddetta “polverina”. Ora Dio solo lo sa perché, questa polverina è proibita. Gli scienziati
hanno detto che è una sofisticazione e cosı̀ succede che di tanto in tanto l’Ufficio di Igiene manda
qualcuno per fare il controllo. Veniamo a noi, l’altro giorno è venuto l’ispettore dell’Ufficio di
Igiene ed io gentilmente gli ho subito detto: “ Ispettò mi sono permesso di mettervi da parte
un lacerto che è la fine del mondo, cosı̀ vi potete fare una bella genovese”. “No grazie” mi
ha risposto lui. “Oggi è venerdı̀ e mangiamo di magro” e detto questo ha scoperto un poco
di polverina, quasi niente, su di un pezzo di annecchia che stava nel frigorifero. Dottò, questo
grandissimo farabutto mi ha messo una multa, ma una multa che uno poi dice: chissà quale
giorno di questo chiudo la macelleria, attraverso il marciapiede e vado pure io a rapinare un
momento l’agenzia del Banco di Napoli che sta qua dirimpetto, prelevo duecento milioni e mi
ritiro.
Volete scherzare don Ernè, voi con la macelleria che tenete guadagnate più di un rapinatore.
Dunque vi stavo dicendo, non mi ero nemmeno ripreso da questa fetente di multa che
vengo a sapere che l’Ufficio di Igiene era andato pure da mio fratello Giggino, quello che tiene
la macelleria sopra a Villanova, e che pure lui, come tutti quanti noi, mette la polverina sulla
carne. Nè, quelli prelevano i pezzi di carne, fanno le analisi e non ci mettono la multa!
Ma forse erano d’accordo con vostro fratello.
Ma quale accordo dottò! Gli vendevano la polverina falsa!
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CAPITOLO 22. LA POLVERINA
Capitolo 23
Piedigrotta
Siamo angeli con un’ala soltanto e possiamo volare solo restando abbracciati.
L.D.C.
Ma voi ve la ricordate la Piedigrotta di una volta? dice il professore. Oggi è ormai finita!
Arriva, passa e nemmeno ve ne siete accorto. Una volta no, una volta era una festa desiderata,
una festa che si aspettava. Quelli che avevano un balcone sulle strade dove passavano i carri,
a via Roma, a via Partenope o alla Riviera, ospitavano gli amici. I ragazzi scendevano per le
strade e formavano ‘a ghenga’. Coriandoli, trombette e mazzarielle, risate e scoppole a centinaia.
Quando ero ragazzo, mia madre, che non voleva farmi scendere per strada perché si metteva
paura, mi comprava sempre o cuppulone, una specie di grande secchio di cartone colorato che
tenevo capovolto e sospeso ad un filo di spago da sopra al balcone, cosı̀ che quando passava ‘o
suggetto, cioè una signora quequera o un uomo curioso, io come un fulmine, patapumfete, e
glielo calavo fino a dentro le orecchie.
Per quello che posso ricordare io, dice il dottor Vittorio è sempre stata una festa di
pessimo gusto. Violenza e rumore, questa era Piedigrotta. Che oggi poi, a distanza di tanti
anni, ci ricordiamo di Piedigrotta come di una festa divertente lo posso pure capire, ma è chiaro
che il merito del ricordo è solo per la nostra adolescenza e non per la manifestazione che in se
stessa non ha mai avuto nulla di edificante.
Ecco qua, dice il professore mò è venuto Vittorio e mi ha fatto diventare una fetenzia
pure il ricordo di Piedigrotta!
Ma andiamo, siamo seri. Lo vogliamo capire o no che la morte di Napoli è stato il folklore!
Tutti noi sappiamo che quando c’era Piedigrotta cercavamo di evitare le strade dove si svolgeva
la festa, e allora confessiamolo onestamente che noi, a Piedigrotta, non ci siamo divertiti mai.
Ma come non ci siamo divertiti mai, dottò! dice Saverio. Io ero piccolo è vero ma i carri
me li ricordo ancora: e ci stava il carro con le maschere d’Italia, con Pulcinella, Arlecchino e
compagnia cantando, e poi c’era il carro dei frutti di mare con le femmine con le coscie da fuori
che uscivano da dentro alle cozze, e poi c’era il carro con il Vesuvio che fumava overamente, con
la funicolare illuminata e con la gente che cantava: Iamme, Iamme. Era bella dottò Piedigrotta.
Papà una volta mi comprò una trombetta e mi fece con il cartone un cappello di bersagliere
che colorò di nero con l’inchiostro e che po ci azzeccò con la colla e lo spago le penne di un
pollastro che ci eravamo mangiati la domenica prima. Quei pollastri veri che prima si tenevano
in casa e poi si mangiavano nelle ricorrenze.
E vi ricordate i fuochi? I fuochi a mare?
Sı̀ però quello il fatto dei fuochi era uno sparpetuo!’ Mi ricordo che si passava tutta la
notte ad aspettare che si decidessero a sparare. Succedeva che prima sparava un fuochista e poi
passavano due ore prima di vedere sparare un altro, e cosı̀ finiva sempre che mi addormentavo
dove capitava capitava, su una poltrona o su un divano di fronte alla finestra.
Noi invece dice Luigino andavamo a vedere i fuochi a mare a casa della nonna, la madre
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CAPITOLO 23. PIEDIGROTTA
di papà. La nonna, buonanima, abitava al corso Vittorio Emanuele ed aveva una casa asteco
e cielo da dove si poteva vedere tutto il golfo di Napoli, dal castello dell’Ovo fino alla punta
di Pietra Salatas. Una casa bellissima, che quando era la sera di Piedigrotta si riempiva di
gente. La nonna faceva una cena, ma una cena che sembrava la vigilia di Natale, venivano tutti
i miei zii e tutti i miei cugini, e si faceva la tavola dei grandi e quella dei guagliune. Non vi
potete immaginare l’ammuina che ci fidavamo di fare noi ragazzi a casa della nonna la sera di
Piedigrotta: si cominciava con i coriandoli e si finiva con le mazzate.
Luigı̀, a dire la verità non ti vedo proprio a fare a mazzate. *
E perché no! Sono stato ragazzo pur’io. Mi ricordo però che ad una certa ora, proprio
perché ci eravamo tanto sfrenati, i più piccoli cadevano di peso sui letti e noi ragazzi ci mettevamo con i grandi ad aspettare i fuochi. Per non prendere freddo inutilmente tutti quanti,
fuori rimaneva soltanto uno di noi che non appena vedeva il primo lancio gridava: “ ‘e fuoche,
‘e fuoche! “ e allora tutti correvamo fuori al terrazzo. “Portate la genitrice” gridava papà ed
i miei zii più giovani la sollevavano di peso con tutta la poltrona portandola fino al parapetto.
“E vvi ‘lloco, e vvi ‘lloco!” gridava qualcuno, “Quante so’ belle” dicevano tutti. Ed io mi
ricordo di quella volta che stavo dietro a tutti quanti, e vicino a me ci stava una cuginetta mia,
Annuccia. Annuccia teneva un anno meno di me ed io mi ero completamente innamorato di lei.
Le scrivevo le poesie ed a tavola ci facevano sedere sempre vicino. Ci chiamavano i fidanzati.
E mi ricordo come che fosse adesso che quella sera dei fuochi io le presi una mano in mano.
Annuccia teneva una manella fredda fredda. Prima cercò di liberarsi e poi piano piano anche
lei mi strinse la mano Il cuore se ne stava uscendo dal petto. Poi mi ricordo che mi voltai
a guardare Annuccia e vidi una faccella spaurita che non mi guardava. Una faccella che si
colorava di giallo o di rosso, un po’ per la timidezza e un po’ per il riverbero dei fuochi. Và
trovà Annuccia mò addò sta’.
Capitolo 24
Gennarino ‘o kamikazze
Ingegnè se venivate dieci minuti fa vi facevo conoscere Gennarino ‘o kamikazze.
Gennarino chi?
Gennarino ‘o kamikazze ripete Salvatore. Gennarino è un amico mio e di Saverio ed è
anche un grande personaggio napoletano, noto a tutte le maggiori compagnie di assicurazione
italiane.
E che fa questo Gennarino?
Si butta sotto alle macchine per farsi pagare dalle società di assicurazione.
Begli amici che tenete Salvatò!
E no, ingegnere carissimo, andiamoci piano ribatte Salvatore con tono risentito. Quello
Gennarino un tozzo di pane se lo deve pure guadagnare. E poi se ci pensate bene rischia di
persona: non so quante costole si è rotto fino ad adesso facendo questo mestiere.
Io so soltanto che per colpa di questi Gennarini vostri, siccome tengo ancora la macchina
targata Napoli debbo pagare il doppio del premio dell’assicurazione. Vi sembra giusto questo
fatto qua?
E allora a questo punto vi debbo raccontare la storia di Gennarino.
Gennarino, come
mestiere, in origine faceva il guantaio, come il padre, il nonno, i bisnonno eccetera eccetera.
Sennonché improvvisamente la moda cambiò e i guanti non se li misero più nessuno ad eccezione
degli assassini che non volevano lasciare impronte digitali, e cosı̀ il povero Gennarino, che si era
sposato a diciotto anni ed aveva fatto qualche figlio, fu costretto ad arrangiarsi per tirare avanti.
Per un poco di tempo si specializzò a rubare le griglie di ottone che stavano nei gabinetti dei
treni. Lui saliva sul treno, staccava la griglia di ottone che era incastrata nel pavimento e la
buttava nella campagna dove dopo con calma se l’andava a riprendere. Ma anche quella volta
la moda era contro Gennarino. Le Ferrovie dello Stato decisero di cambiare la maniera di fare
i gabinetti dei treni e il nostro povero Gennarino dovette pure lui cambiare mestiere. Allora
decise di intraprendere una carriera, diciamo cosı̀, più moderna e si mise nel ramo assicurazioni
che poi, effettivamente, come dice la parola, gli hanno assicurato una certa tranquillità.
Ma scusate, le assicurazioni lo sanno che gli incidenti sono simulati?
Ma che simulati ingegnè, quello si butta veramente sotto le macchine!
E non si ammazza?
E no, perché è un artista!
Gennarino ha il colpo d’occhio: valuta in una frazione di
secondo la velocità della macchina, la prontezza di riflessi del guidatore, il tipo di macchina ed
il livello economico del proprietario. Insomma voi dovete capire che se fa solo un piccolo errore
di valutazione, Gennarino può rimanerci veramente sotto, oppure può correre il rischio di essere
investito da un pirata della strada, gente disonesta senza coscienza civile, che per evitare di
spendere quattro soldi, non si assicura nemmeno.
E quindi poveretto qualche volta si fa veramente male.
E per forza, dagli e dagli, prendi una botta oggi, prendi una caduta domani, quello adesso
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CAPITOLO 24. GENNARINO ‘O KAMIKAZZE
Gennarino tiene pure una età. In compenso però è riuscito a mettersi qualche soldo da parte.
Pensate che proprio lui mi ha detto che, poco tempo fa, le Assicurazioni Italiane si erano riunite
in un congresso per colpa sua e pare che gli avessero offerto un compenso forfettario mensile a
patto che non si buttasse più sotto alle macchine, insomma, una specie di pensione.
Meno male, cosı̀ adesso non deve più rischiare la vita.
Ma adesso non gli conviene più il posto fisso a Gennarino! Prima glielo dovevano offrire questo posto! Oggi Gennarino, grazie a Dio, si è fatto un nome e si è messo a lavorare
all’ingrosso.
Come sarebbe a dire all’ingrosso?
E già perché adesso Gennarino non si limita più si soli incidenti personali.
E no, lui
praticamente acquista fratture altrui. Chiunque nel quartiere si fa male... che so io, fate conto
che uno cade per le scale e si rompe una gamba? Ebbene invece di andare subito all’ospedale
avvisa prima Gennarino, il quale combina immediatamente un incidente finto con un’automobile
di qualche amico incensurato e poi dopo lo porta all’ospedale.
Voi che dite?
E già perché, come potete immaginare, al fratturato la cosa conviene moltissimo, anche
perché, oltre ad un adeguato compenso, riceve immediatamente da Gennarino una assistenza
legale e medica di primissimo ordine: Gennarino è un luminare della medicina legale, gli basta
certe volte sentire i soli lamenti del paziente per stabilire il tipo di frattura, i giorni di degenza
e la somma di risarcimento del danno. Insomma ingegnè secondo me Gennarino potrebbe fare
il primario all’ospedale traumatologico di Capodimonte. Gli dovrebbero dare, come si dice...
la laurea ad honorem.
Capitolo 25
La delinquenza
Ho sentito in una chiesa un lazzarone pregare Dio perché lo raccomandasse a S. Gennaro di
farlo vincere al lotto.
DUMAS, Il Corricolo
Giovane donna seviziata da quattro teppisti a Centocelle dice Saverio, leggendo ad alta
voce il Roma. Professò ma che vogliono dire quando dicono: “seviziata”?
Vogliono dire che se la sono fatta.
Ma allora io quando sto, diciamo cosı̀, in intimità con mia moglie, che faccio la sevizio?
Nossignore Savè. Quelli, i quattro teppisti, se la son fatta con la violenza.
Professò, allora io quest’estate mi sono seviziata una tedesca che senza esagerazione sarà
stata alta un metro e novanta! Eppure me la sono seviziata tutta da solo, in pieno giorno, all’erta all’erta, dietro al deposito della Atan a Capodimonte Quella era venuta a Napoli perché,
datosi che in Germania fa la professoressa di scuola, voleva vedere il Museo di Capodimonte, e
allora mi aveva chiesto a me dove si trovava l’entrata ed io, facendo finta di volerla accompagnare, parlando parlando, me la sono combinata. Professò mi dovete credere: dopo la sevizia,
diciamo cosı̀, la tedesca è rimasta tanto contenta che voleva stracciare il biglietto di ritorno
dell’aeroplano, e già perché aveva deciso di restare tutta la vita a Napoli. Insomma era stata
colpita come si dice da un colpo di fulmine. Allora io ci ho dovuto spiegare che veramente tenevo già moglie e figli e cosı̀ lei si è fatta capace e mi ha detto: “Maine libbe Saverio, ich zuriuc
kommen da te” che in tedesco vuol dire: “Mio caro Saverio, tu mi hai dato molta soddisfazione
ed io appena posso torno a Napoli per fare un’altra volta l’amore con te”.
Va bè Saverio, ma questa non è stata una sevizia dice Salvatore. Perché voi eravate uno
contro uno, e poi se la tedesca non fosse stata d’accordo ti avrebbe dato tanti di quei boffettoni’
che in quel caso il vero seviziato saresti stato tu. Invece nel fatto di Centocelle erano quattro
contro una.
All’anima dei fetienti!
Purtroppo non c’è niente da fare, commenta il professore bisogna rassegnarsi a convivere
con la violenza.
Secondo me, il male è nel sistema dice il dottor Vittorio. E questo lo ha scritto a chiare
lettere Moravia dopo i fatti del Circeo. Una società che ha come norma il sopruso del potente
sul debole non può che generare assassini!
Be’, noi la violenza ce la siamo pure voluta chiamare dice Bellavista. Abbiamo buttato
nella immondizia tutti gli ideali dell’Ottocento, e cioè la fede, l’amore per la patria, il senso
della famiglia, senza preoccuparci di sostituirli con altri ideali. Diciamo la verità: oggi come
oggi, in Italia, i soli idealisti rimasti in circolazione sono i comunisti in buona fede ed i tifosi
del calcio! Ora a me sembra ovvio che un uomo non possa sopravvivere senza ideali. È sempre
un ideale quello che trascina l’individuo verso l’amore o verso la libertà, e questo a secondo
che si tratti di fede o di desiderio d’indipendenza. La mancanza invece di una spinta ideale fa
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CAPITOLO 25. LA DELINQUENZA
cadere l’uomo in una situazione di odio-potere e lo costringe a scegliersi come idea sostitutiva
la BMW o l’eroina. In conclusione, se avete dei figli e se vi accorgete che questi vostri figli non
hanno avuto la grazia dalla fede, dell’arte o del genio, affrettatevi a farli fare dello sport, oppure
iscriveteli fin da piccoli al partito comunista e forse riuscirete ad evitare di avere in famiglia un
drogato o un futuro delinquente.
E va bene professò, dice Saverio ma poi ci ritroveremmo i figli comunisti per tutta la
vita?
Non credo, per tutta la vita no. C’è un detto che dice: chi non è comunista a vent’anni è
senza cuore e chi lo è ancora a quaranta è senza testa.
Ma veramente professò, voi come pensate che si dovrebbe fare per combattere tutta questa
violenza?
Bè, il discorso sull’origine della violenza è alquanto complesso: tutti in proposito hanno
un’opinione e quello che è bello è che forse tutti hanno ragione. C’è chi parla d’istinto naturale
alla violenza e chi di temporanea carenza di guerre atte a soddisfarlo. C’è chi parla di edonismo
incontrollato Chi d’improvviso crollo della fede. Chi di società permissiva e chi, addirittura, di
programma politico eversivo.
Volete dire i fascisti, professò?
Si, però a tale proposito dobbiamo ricordarci di quello che ha detto Pasolini qualche giorno
prima di essere ucciso. Pasolini disse che a tutti noi farebbe molto comodo addebitare la violenza
ad una causa esterna. Immaginare, per esempio, l’esistenza di un gruppo fascista che complotta
nella nostra cantina per poterci distruggere . Invece la triste verità è che la violenza è già dentro
di noi, forse non innata, ma sicuramente alimentata dal sistema.
Professò scusate, ma Pasolini, pace all’anima sua, nunn’era nu poco ricchione?
Era molto intelligente e come tutti i grandi anticonformisti spesso faceva e diceva cose che
davano fastidio. Sennonché la gente a volte bada più a quello che un personaggio fa che non a
quello che pensa. C’è un bellissimo detto che dice: quando il dito indica la luna, gli imbecilli
guardano il dito.
Sı̀ però...
Pasolini, in quel periodo illuminato, che certe volte precede la morte, avvertı̀ per primo
l’arrivo dei mostri. Egli ci avvisò, tentò di suonare l’allarme, ma nessuno gli volle credere:
“Attenzione” gridò Pasolini, “spegnete la televisione! Sappiate che la luce del video alimenta
i mostri! Li ingrassa!” Niente, gli psicologi continuarono a parlare di bontà innata del genere
umano e si rifiutarono di ammettere l’esistenza del Diavolo. I mostri però in tutto questo si
erano accorti che Pasolini aveva dato l’allarme e lo fecero fuori.
Ma di quali mostri andate parlando professò? Quello è stato chillu ricchiunciello che si
chiamava Pino la rana ad uccidere Pasolini!
Parlo dei mostri del consumismo! Gesù, ma ditemi una cosa: se ad un povero dio, completamente privo di cultura e di principi morali, voi gli mostrate ogni giorno in televisione
l’immagine felice di una società consumistica, che cosa vi aspettate che succeda? Che questo
disgraziato si rassegni a vivere una vita di serie B solo perché è nato e cresciuto dalla parte
sbagliata?
Professò ma allora secondo voi, dice Saverio ognuno si deve pigliare quello che vuole?
E questa sarebbe anarchia! Si sa, nella vita c’è chi nasce ricco e c’è chi nasce povero, ma poi
uno s’abitua e non ci fa più tanto caso.
Caro Saverio, non ci fai caso tu, perché forse sei molto più napoletano di quello che
credi. Ma se il consumismo ti alza continuamente lo standard medio della vita, se il tuo
animo è indifferente ai piaceri dello spirito, insomma se non sei libero dai condizionamenti della
pubblicità, tu che fai? Prendi un mitra e spari al primo signore che ti passa davanti a un vicolo
oscuro.
E sı̀! Quando piglio e sparo! E chi l’ha mai visto nu mitra, professò!
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Gennà, in linea di massima sono d’accordo con te nel considerare il consumismo una delle
principali cause della delinquenza dice il dottor Palluotto. Però tu ti sarai accorto che nella
generalità dei casi il delinquente nasce già emarginato. Voglio dire cioè che in Italia chi ha un
impiego, un posto di lavoro, è uno che generalmente si è già rassegnato al proprio livello di vita
e non va in giro ammazzando la gente. Ma quando tu Stato, benedetto Iddio, prendi una città
come Napoli, con un milione e mezzo di abitanti, sai che ci sono duecentomila disoccupati e
te ne fotti! Non provvedi a creare i presupposti per una vera e propria industrializzazione! E
allora vuole dire, caro Stato, che questa delinquenza te la sei voluta fabbricare proprio tu, con
le tue stesse mani. Non è più un discorso manicheo di buoni o di cattivi, non è una questione
di mancanza di ideali, è semplicemente un fenomeno di cattiva programmazione della vita di
una comunità.
Piano, piano con questa parola: industrializzazione dice il professore. Napoli è stata
rovinata da Lauro, da Gava e dalla chimera dell’industrializzazione. Lauro l’ha gestita come
l’ultimo dei Borboni, Gava ha addirittura fatto rimpiangere Lauro , ma nessuno dei due ha
fatto tanto male a Napoli come chi ha creduto di risolvere il problema napoletano con l’industrializzazione. Voi invece immaginatevi una Napoli senza ciminiere, una Napoli che nella piana
di Bagnoli al posto dell’Italsider avesse avuto tutta una serie di alberghi, di cottages, di villini
e di casinò. Positano, Amalfi, Ischia, Capri, Procida, Baia, il lago d’Averno, Pompei, Ercolano,
Vietri, Cuma, il Faito, il Vesuvio, isole, scogli, montagne, vulcani, laghi. Il punto d’incontro
del turismo mondiale! La Las Vegas d’Europa! Il paradiso in terra! Ma pensate, ad esempio,
al Castello dell’Ovo, a questo bellissimo maniero medioevale, ricco di enormi sale, di piccole
viuzze interne e di suggestive botteghe. Pensate per un momento quale fonte di guadagno
avrebbe potuto essere per Napoli un castello in mezzo al mare se lo si fosse adibito a palazzo
di congressi, con sale attrezzate per la traduzione simultanea e con gli hotels ed i ristoranti del
borgo marinaro a portata di mano! Insomma, voi pensate ai napoletani e ditemi se, a vostro
parere, li vedete più adatti come metalmeccanici o come lavoratori nel settore turistico. Ora,
per creare una grande stazione internazionale che ci voleva? Una mano dal Padreterno per
quanto riguardava le bellezze naturali ed una efficiente Azienda autonoma di Soggiorno e Cura
per l’organizzazione. Ebbene il Padreterno ha fatto tutto il suo dovere. L’Azienda autonoma
no!
E quanta gente avrebbe lavorato con i turisti?
Praticamente tutti un milione e mezzo di persone albergatori, commercianti, marinai e
compagnia cantando. Napoli aveva già tutte le cose principali: cielo, mare, clima, isole meravigliose, acque termali, animo gentile e località archeologiche. I miliardi sarebbero venuti
dall’estero sotto forma di valuta pregiata e non sarebbe stato necessario costruire aziende a
perdere sul tipo dell’Alfa Sud.
Va bene ma questo che c’entra con la delinquenza?
C’entra, c’entra, perché, anche se è vero che alcuni uomini nascono già delinquenti, la
maggior parte di essi viene iniziata dal bisogno. E se un tempo la delinquenza si trovava
allo stadio romantico dello scartiloffio e della truffa d’ingegno, oggi con il consumismo si è
meccanizzata. Oggi spara con una tale disinvoltura da far sorgere il dubbio che il vero obiettivo
del rapinatore non sia più il bottino ma la violenza.
Se è per questo a Napoli c’è ancora qualche fenomeno simpatico di delinquenza interviene
Salvatore. Per esempio una settimana fa ho letto che si sono rubati cinque chilometri di filo
di rame della ferrovia Cumana: il treno si è dovuto fermare in aperta campagna.
Ed io ho letto aggiunge Saverio che i soliti ignoti si sono rubati due motori nuovi nuovi
che erano stati messi nel collettore di Via Caracciolo per sollevare i liquami di fogna, e farli
arrivare fino a Cuma. A proposito professò, ma mò che se ne faranno i mariuoli di questi due
motori?
Speriamo che se li vendano al Comune a metà prezzo. Comunque ritornando al nostro
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CAPITOLO 25. LA DELINQUENZA
discorso sulla delinquenza, dobbiamo prima d’ogni cosa ricorrere ad una fondamentale classificazione dei delitti e distinguere chiaramente tra furto onesto, furto disonesto e crimine violento.
Quindi pretendere che lo Stato preveda carceri differenti e pene differenti per ciascuna classe
di reato.
Furto onesto?
Sissignore, il furto onesto è quello che si commette per necessità sociale e che funge da
forza riequilibratrice di certe sperequazioni economiche.
Non ho capito professò.
Savè gli risponde Salvatore il professore vuole dire che in attesa del comunismo, che poi
ci farà guadagnare a tutti lo stesso, tu sei autorizzato a prelevare qualche migliaio di lire dalle
tasche della gente per diminuire la differenza di reddito oggi esistente tra te ed il tuo derubato.
Veramente non ho detto proprio cosı̀. Comunque Salvatore ha evidenziato solo uno dei fini
filosofici del furto onesto. Diciamo che il furto è un gioco competitivo che come tutti i giochi
ha delle regole precise, per cui, se il ladro nel commettere il furto ha rispettato queste regole,
il derubato perde il diritto al lamento ed il reato si qualifica come “furto onesto”.
E quali sarebbero queste regole precise?
Primo: rubare solo lo stretto necessario alla propria sopravvivenza ed a quella della propria
famiglia.
Quindi se uno ha una famiglia numerosa è autorizzato a rubare di più?
Epicureisticamente sı̀, se si tratta del necessario. Secondo: rubare il superfluo degli altri,
sempre nel caso però che questi altri abbiano dimostrato di non meritarselo.
Come sarebbe a dire?
Fate conto per esempio che uno straniero venga a Napoli e lasci una bella macchina fotografica incustodita sul sedile dell’automobile. Chi è più colpevole? Il mariuolo napoletano o il
provocatore straniero?
Io arresterei lo straniero per istigazione a delinquere! dice Salvatore. Professò ma è
vero che se il derubato è americano il furto diventa un poco più onesto?
Sissignore, ma deve essere americano o svizzero.
E perché? chiedo io.
Perché in questo caso i piccoli furti locali tendono a compensare i grandi furti di valuta
compiuti, per esempio, a livello internazionale dai colossi bancari.
E quali altre regole ci sono?
C’è il tocco di classe.
E quale sarebbe?
Il tocco di classe consiste in un esercizio di fantasia che eleva il furto fino a farlo diventare
virtuosismo d’artista. Come sempre è più facile farsi capire con degli esempi: “Ladruncolo,
travestito da bigliettaio, sale su di un autobus al capolinea e fa i biglietti a tutti i presenti in
attesa, incasso lire 800”. Oppure: “Ragazzino di bar, munito di vassoio con tazzine da caffè,
si fa urtare da ricco passante distratto e provoca piangendo una colletta a suo favore. Il fatto
si è ripetuto nel corso della giornata numerose volte fino alla completa distruzione dei cocci
delle suddette tazzine”. Ancora: “Coraggiosi ladri, travestiti da carabinieri, arrestano ricco
ricettatore. Sequestrati i preziosi, i ladri hanno compilato scrupolosamente una distinta in due
copie ed hanno consegnato il ricettatore stesso alle carceri giudiziarie di Poggioreale. Sembra
che il malcapitato sia rimasto in carcere due mesi in attesa di giudizio”. Come vedete il furto
onesto prescinde dall’entità della refurtiva: è espressione d’artista, spettacolo, invenzione!
Professò, secondo me, i primi due esempi che ci avete citato non fanno testo e non sono
furti d’arte dice Salvatore. Si tratta solo di poveri cristi che escono la mattina per il bosco per
vedere come apparare la mille lire. Io ne conosco uno che ogni mattina fa un mestiere differente:
una volta fa il gettonaro, cioè va alla stazione e controlla che in tutti i telefoni pubblici non
ci sia qualcuno che si è scordato di recuperare i gettoni, lui dice che in una mattinata riesce a
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farsi pure venti venticinque gettoni, un’altra volta fa il mollicaro, si fa regalare le molliche dei
dolci dai pasticcieri e poi se le vende dentro ai coppetielli di carta sotto alle scuole elementari!
Certe volte invece salta sui treni non appena arrivano alla stazione, si prende tutti i giornali e
le riviste lasciate sui sedili, e poi se li va a vendere fuori alla stazione a metà prezzo. Insomma
s’arrangia. Peccato perché da giovane sembrava che dovesse diventare un grande inventore
Inventò la fornacella EROS, cioè una specie di braciere portatile a petrolio per far riscaldare le
puttane che dovevano stare in mezzo alla strada. Il mercato c’era ma non trovò il finanziatore.
Quello per lanciare l’articolo ci sarebbe voluto almeno un carosello!
Come sempre accade in questa casa, si comincia con un discorso serio e si finisce nella
macchietta dice il dottor Palluotto. Ora non vorrei che il nostro ingegnere se ne tornasse a
Roma con l’illusione che Napoli sia rimasta l’unica città italiana incontaminata nel mare della
violenza. Le assicuro, egregio ingegnere, che su questo argomento noi napoletani non abbiamo
niente da invidiare ai milanesi. La più grossa industria locale è il contrabbando, si parla di
quarantamila impiegati, e fin qui poco male. Pare che nel ‘75 abbiamo vinto lo scudetto degli
scippi. Per quanto riguarda poi le auto riusciamo a gareggiare validamente con Torino. Là c’è
la FIAT che le costruisce e qua ci siamo noi che organizziamo il salone internazionale dell’auto
rubata e del pezzo di ricambio. Mettiamoci pure qualche sequestro di persona, qualche rapina
a mano armata, qualche assassinio misterioso, i Nuclei armati proletari ed il quadro generale è
bello e fatto. Se lei stenta a crederci, non ha che da comprarsi ogni giorno Il Mattino e leggersi
un poco di cronaca.
Veramente io non sono d’accordo sull’informazione che uno riceve leggendo il giornale dice
Luigino. E sı̀ perché quel quadro generale di cui ha parlato il dottor Palluotto non è esatto,
non è giusto. Uno se legge solo il giornale finisce con il pensare che la razza umana è veramente
schifosa: padri che ammazzano figli, figli che ammazzano padri! Sequestri di bambini! E invece
le cose non stanno cosı̀: la gente mediamente è più buona! Solo che i giornali non parlano
mai delle persone buone perché queste non fanno notizia. E già perché le persone buone sono
migliaia, ma che dico migliaia: sono milioni! Pensate invece come sarebbe bello se uscisse un
giornale fatto tutto di notizie come queste: “Il ragioniere Esposito ha avuto un aumento di
stipendio di lire ventiduemila per cui è andato al cinema Delle Palme con la sua signora a
vedere Sussurri e grida in prima visione”. “Pagina sportiva: il cavaliere Cacace ha battuto
a scopa il brigadiere Dacunto per dieci partite su dieci. Il brigadiere Dacunto sostiene che il
cavaliere Cacace è troppo fortunato per non doversene preoccupare”. “La signorina Calcagni
Angela è stata assunta come hostess all’Alitalia di Roma. La madre della signorina Angela le
ha regalato una spilla a cuoricino fatta tutta di brillantini con dentro l’immagine di S. Antonio
perché cosı̀ se la può mettere sulla divisa”. “Ieri il signor Tuccillo Pasquale è andato a prendere
la figlia a scuola. La bambina appena ha visto il padre fuori alla scuola gli è corsa incontro
gridando papà”.
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CAPITOLO 25. LA DELINQUENZA
Capitolo 26
Il mistero
Erano le due, c’era il sole ed io mi trovavo con Pasquale Amoroso e la sua signora in una
tavernella nei pressi di Terzigno.
La strada provinciale che avevamo da poco finito di percorrere collegava in pratica tutti i
comuni dell’entroterra vesuviano: S. Anastasia, Somma, Ottaviano, S. Giuseppe Vesuviano e
Terzigno, e quindi veniva ad aggirare il Vesuvio alle spalle fino ad affacciarsi di nuovo sull’autostrada del Sole all’altezza di Torre Annunziata. Durante tutto il viaggio Amoroso aveva più
volte litigato con la moglie a causa della sua smodata passione per il giuoco del lotto, passione
ovviamente non condivisa dalla signora, ed io, che per un po’ avevo cercato di fare da paciere,
ad un certo punto mi ero completamente distratto contemplando l’altra faccia del Vesuvio,
vulcano spento, del tutto inaspettato se visto di dietro.
Tovaglioli di carta, tavola di marmo, pollastrelli adolescenti tra i piedi, la tavernella si
presentava con tutte le caratteristiche richieste ad una trattoria di paese povero dell’interno.
Decidemmo per uno spaghetto aglio ‘e ‘uoglio’ e cominciammo a calmare i morsi della fame divorando pane nero, burro, acciughe e salame di Boscotrecase, il tutto facilitato da un Gragnano
fresco ed aspro come una pigna d’uva nera appena spremuta.
Questa uscita con i coniugi Amoroso era tutto merito di un mio cliente che, conoscendo il
mio interesse per Napoli e per certe tradizioni napoletane, mi aveva detto: Ingegnè, se volete
sapere tutto sul banco-lotto e sugli assistiti, e allora dovete parlare con un nostro usciere che si
chiama Amoroso, quello se vi prende in simpatia vi porta pure alla Croce del Carmine a parlare
con il Santone.
Durante un primo incontro avuto a Napoli, Amoroso mi spiegò che questo Santone non
era un assistito come tutti quanti gli altri, per via del fato che, al contrario degli assistiti
tradizionali, lui i numeri chiari non li dava e che per potersi manifestare raccontava dei fatti
chiamati misteri. Per essere più precisi Amoroso mi disse proprio cosi: Vedete ingegnè, quello
il Santone i numeri chiari non li può dare, e questo per due motivi: primo perché ce l’hanno
proibito...
Ce l’hanno proibito? E chi ce l’ha proibito?
Da sopra! Ce l’hanno proibito da sopra! rispose Amoroso indicando il cielo. Insomma
ingegnè, quelli sopra sono fatti cosı̀: se l’assistito esagera e dà troppi numeri, loro da sopra,
possono pure sospendere l’assistenza da un momento all’altro, non so se mi sono spiegato.
Ah, ho capito. E poi per quale altro motivo?
Perché anche il governo aveva cominciato a sospettare. L’intendenza di Finanza al Santone
se l’era già chiamato in due occasioni per via di quella volta che uscı̀ il 18 terzo eletto che lui
aveva fatto giocare a mezza Napoli. Voi dovete sapere che a quell’epoca là il Santone dava
ancora i numeri chiari, e cosı̀ successe che una volta in una cantina il Santone disse: “Sabato
prossimo esce 17 terzo eletto e la settimana dopo esce 18 allo stesso posto”. È inutile dirvi
che, essendo veramente uscito il 17 terzo eletto, la settimana appresso tutta la popolazione si
111
112
CAPITOLO 26. IL MISTERO
precipitò a giocare il 18. La gente, insomma, pur di trovare la cifra necessaria per una giocata
tanto sicura, s’impegnò tutto quello che si poteva impegnare: oro, argento e oggetti di casa.
Comunque, come fu e come non fu, quando venne il giorno dell’estrazione, che come voi sapete
si tiene a S. Biagio dei Librai, subito dopo estratti i primi due numeri e nel mentre che il
funzionario addetto girava il cestello con gli altri numeri, si senti una voce dalla folla che gridò:
“comm’o ggire e comm’o vuote ‘o panariello, terzo eletto ‘o fa sempre 18” e come difatti fu
che tracchete e ascette 18. Allora il governo, che in quel la occasione dovette rifondere un
cuofano di soldi, sguinzagliò subito l’intendenza di Finanza ed i Carabinieri per poter appurare
come aveva fatto quell’uomo in mezzo alla folla a sapere che sarebbe uscito il 18. E fu cosı̀
che indagando indagando arrivarono fino al Santone che per questo da quel giorno là i numeri
chiari non li volette più dare. Si chiuse e si mise a raccontare i misteri.
E quali sarebbero questi misteri?
I misteri sono dei fattarielli semplici semplici che voi poi, se ne siete capace, ve li interpretate da solo, se no, ve li fate spiegare da qualcuno che fa l’interprete di professione. Io
ne conosco uno bravissimo che sta sopra Villanova e che adesso sono tanti anni che fa questo
mestiere che difficilmente può sbagliare un mistero.
Perché allora non mi raccontate qualche mistero che il Santone già vi ha fatto?
Vi servo subito. Adesso ve ne racconto uno facile facile che cosı̀ voi mi potete seguire.
Dunque, tenete una penna? Bravo! E allora scrivete quello che vi dico io: dunque: Salvatore
fa 6, scrivete 6, e Gennaro fa 19, scrivete 19, mò adesso Gennaro chiama a Salvatore, chiamare
fa 52, scrivete 52. Gennaro dice: “Salvatò, viene cca”.’ Che significa?
Che significa?
Significa che la cadenza del 9, Gennaro, vuole tenere vicino sé la figura del 6, Salvatore.
Benissimo, allora io adesso vi domando: quali sono i numeri che hanno la figura del 6?
Quali sono?
Sono il 6, il 15, il 24, il 33...
42, 51...
Bravo l’ingegnere! Ha capito subito! Però adesso noi tra questi numeri dobbiamo trovare
quel numero che, oltre ad avere la figura del 6, tiene pure la cadenza del 9. Qual è?
Qual è?
E 69.
E perché?
Perché 6+9 fa 15 e 15 è figura di 6 dal momento che 1+5 fa 6. Ora veniamo a noi: siccome
Gennaro che fa 19, vuole tenere vicino a sé Salvatore, che è figura di 6, noi possiamo fare due
ipotesi: o ci giochiamo 25 e 77, o ci giochiamo 69 e 77.
Amorò, non ho capito una cosa: ma che c’entrano adesso 25 e 77?
Ingegnè seguitemi: Se Gennaro e Salvatore si sono, diciamo cosı̀, auniti insieme e allora è
chiaro che uno si deve giocare il 25, perché 6 + 19 fa 25. Fate conto per esempio che io adesso
vi dicessi: “Rosa si è messa sotto al braccio di Giovanni” voi che vi giochereste?
? Vi giochereste 54, perché Rosa fa 30 e Giovanni fa 24 e 30 + 24 fa 54! Se invece Gennaro
e Salvatore stanno semplicemente vicini, ma non si sono uniti, e allora dobbiamo ragionare a
figura e a cadenza, come vi ho detto prima, e giocare 69.
E 77, che c’entra il 77?
Gesù ma è semplice no: chiamare fa 52, Gennaro fa 6 e Salvatore fa 19; ed il numero di
conto, cioè la somma dei numeri del mistero, fa 77: 52+6+19.
Ah!
Insomma uno non si deve far scappare nemmeno una parola quando parla il Santone, se
no perdete tempo e denaro. Quello una volta mi fece questo mistero: Antonio vede a Pasquale
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che sta scendendo una scala, però non appena Pasquale è arrivato a terra Antonio si volta e si
butta addosso a Giuseppe. Io mi giocai 8...
Perché 8?
Perché Pasquale fa 17 che è figura di 8, e siccome Pasquale la scala l’aveva scesa tutta
quanta fino a terra, io mi giocai il numero più piccolo che ci sta con la figura di 8 che poi
sarebbe propriamente il numero 8.
Ah ho capito.
E poi mi giocai il 32, perché pensai che Antonio fa 13 e Giuseppe 19 e siccome Antonio si
era buttato addosso a Giuseppe, 13 + 19 facevano 32. Insomma il mistero era chiaro e cosı̀ mi
ci giocai sopra pure una certa cifra: 8 e 32, diecimila lire, ambo secco sulla ruota di Napoli. Se
uscivano mi alzavo due milioni e mezzo di lire! Nè quella viene l’estrazione e che esce?
Che esce?
Esce 8 e 50. Ingegnè quello Antonio si era voltato! 13 era diventato 31. Insomma, quando
Antonio si era buttato addosso a Giuseppe, lui si era già voltato, per cui 31+19 avevano fatto
50 e no 32!
Mannaggia la morte! Insomma uno non si deve far scappare nemmeno una parola.
Nemmeno una parola ingegnè! Nemmeno una!
Ma ci sono altri assistiti oltre al Santone?
Sissignore, voi dovete sapere che a Napoli ci dovrebbero stare sempre settantadue assistiti.
Settantadue?
Sissignore.
Ora però, mentre una volta questi assistiti si conoscevano tutti quanti tra
loro e quindi si sapeva chi erano, oggi invece capita che qualche assistito è magari diventato
avvocato... medico... insomma una persona di conseguenza per cui, non avendo bisogno,
diciamo cosi, finisce che non esercita apertamente la professione. Non so se mi sono spiegato.
Comunque noi napoletani, all’epoca, abbiamo avuto dei grandissimi assistiti: il famoso Cagli
Cagli, Buttiglione, ‘o Servitore, ‘o Monaco sapunaro, ‘o Monaco’e S Marco... insomma ce ne
erano tanti. Una volta a Cagli Cagli per fargli dare i numeri lo appesero per i piedi a capa
sotto. Ma lui non parlò. Disse solo: “Mi potete uccidere ma i numeri non ve li dico”. Quelli
erano terribili quando si mettevano una cosa in testa. Per esempio adesso vi racconto una
cosa curiosa e cosı̀ dicendo Amoroso si alzò e si venne a sedere vicino per potermi raccontare
sottovoce un fatto evidentemente non adatto alle orecchie della signora voi dovete sapere che,
quando le donne andavano d’o Monaco sapunaro per farsi dare i numeri, quel grandissimo
sporcaccione sapete dove ce li scriveva? Ce li scriveva piccoli piccoli, con una matita bleu, nelle
parti più intime e più nascoste, non so se mi avete capito, in modo che quelle povere die non
se li potevano leggere da sole nemmeno se avessero usato uno specchio.
E come facevano a giocarli?
Ebbè, dovevano forzosamente ricorrere a qualcuno che ce li leggeva. Però in questo caso
allora si veniva a sapere che, come dire, avevano commesso l’infrazione, cioè la schifezza.
Questo era ‘o Monaco sapunaro?
Sissignore. Poi c’era ‘o Monaco ‘e S. Marco che una volta ebbe l’ordine, sempre da sopra,
di dare un ambo ad uno che era il peggio nemico suo. Diciamo come se fosse stato una specie di
voto di umiltà che doveva fare. Ora che fece questo figlio di buona donna? Siccome l’ambo che
avrebbe avuto l’ordine di dare era 3 e 59, prese una pentola d’acqua bollente e la menò tutta
quanta sulla coscia di quel poveretto. Insomma ingegnè, non so se mi sono spiegato è come se
ci avesse detto: “tiè, giocate 3 e 59, 3 l’acqua bollente e 59 a coscia”.
Terribile!
Sı̀ però diciamo quello e quello: loro pure, gli assistiti, la notte acchiappano mazzate di
morte!
Acchiappano mazzate? E chi ce dà sti mazzate?
Forze soprannaturali. E già perché, secondo voi, le mazzate si possono prendere solamente
114
CAPITOLO 26. IL MISTERO
dai vivi? Il mio interprete, don Antonio, quello che sta sopra Villanova, siccome è stato segretario di un grande assistito che adesso è morto, salute a noi, mi ha raccontato che quelli,
gli assistiti la notte prendono mazzate ‘e cecate: punie, pacchere... cavece ‘nfaccia.’ Insomma
ingegnè, pure loro ci hanno la loro croce.
Signora, ma voi ci credete?
Nemmeno una parola! mi rispose la signora. Con questo non voglio dire che mio marito è
un bugiardo. Dico solamente che non mi riesco a spiegare come degli uomini grandi... colonnelli
d’aviazione, ingegneri... non per voi... insomma gente anche istruita e con capelli bianchi può
credere a tutte queste fesserie! Sı̀ lo so, anche nell’alta aristocrazia ci possono essere, come si
dice, dei malati di mente, però io dico questo a mio marito: tu che ringraziando nostro Signore
tieni un posto di rispetto, come può essere che ti metti a competere cu nu cafone’e Terzigno che
va raccuntanne tutte sti scemità? “Gennaro trase dint’a chiesa... Aitano chiamm’a Gennaro...
Poi dicono certe parolacce! Dico io: ma sono dieci anni che ti stai a giocare una posizione, lo
vuoi capire sı̀ o no che è tutta una mistificazione! Che quelli...
Ma non la date retta ingegnè! Statti zitta tu che sei una femmina e che certe cose non
le puoi capire! Non è vero che non ho mai vinto: ho preso parecchi ambi e parecchi numeri
situati!
Sı̀ sı̀, quattro soldi!
E poi quello che mia moglie non vuole capire, è che uno gioca pure per avere una speranza,
dico una, di non morire cosı̀ come è nato: pezzente e disperato! Mannaggi’o sanghe’e chi...
Sempre sia lodato! Uè non bestemmiare che ‘o Signore se piglia collera, hai capito! Pezzente e disperato? Ingegnè noi non siamo ricchi, questo è vero, però non ci manca niente e
staremo molto meglio se questo mio signore non si giocasse dieci, dodicimila lire a settimana!
Sapete che dice papà mio? Dice: “Io ho vinto cinque milioni al banco lotto, ho vinto tutti i
soldi che non mi sono giocato!”
Ma che ragionamento cretino...
S’intelligente tu che te fai fa fesso da ‘o Santone!
Gesù Gesù, ingegnè, ma io ho avuto le prove! Quello una volta faceva la neve a Napoli ed
io volli andare per forza fino alla Croce del Carmine a trovare il Santone. Siccome a quell’epoca
là non tenevo ancora la macchina ci andai con la vespa. Ebbè mi dovete credere ingegnè: ci
arrivai talmente congelato che il Santone mi dovette scongelà per capire da sotto io chi ero.
Insomma per farvela breve, il Santone ebbe pietà di me e mi disse: “Pascà, te voglio fa’ nu
regalo, giocate 24 primm’aletto”.
E ve lo giocaste?
Sissignore.
E uscı̀?
Nossignore, ma uscı̀ 3 e 17: 3 ‘o regalo e 17 Pasquale.
Ingegnè, non lo date retta che quello ha sempre perduto.
Statte zitta tu! Ingegnè, un’altra volta mi disse: “o zingaro se mena ‘ncuoll’a zingara”
lo zingaro si butta addosso alla zingara, ‘o zingaro fa 15, ‘a zingara fa 64, io mi giocai 79
primm’aletto e non uscı̀. La settimana dopo “Gaetano trase dint’a casa”‘ la figura del 7 entra
nella cadenza del 9, era chiaro che avrei dovuto insistere a giocare il 79, sennonché, per colpa
di mia moglie che volle fare una gita ad Ischia, non me lo potetti giocare anche perché io non
sapevo che nelle isole il sabato mattina i banco-lotti sono chiusi, e come difatti fu che alla cinque
arapette ‘a radio e tracchete ascette ‘o 79.
Cosı̀ chiacchierando e sempre parlando di numeri, di figure e di cadenze, arrivammo finalmente a questa Croce del Carmine. Più che un paese era una strada con una dozzina di case, una
chiesa ed un bar che fungeva contemporaneamente sia da cantina che da supermercato. Avete
visto a don Gaetano? chiese Amoroso. Mò mò stava sulla piazza, fu la risposta. Non
riuscii però a capire quale fosse questa piazza perché non appena usciti dal bar incontrammo
115
don Gaetano di faccia. Era un uomo di mezza età, più vicino ai cinquanta che non ai quaranta,
pelle abbronzata, quasi marrone, e viso non rasato con lunghi peli bianchi sparpagliati. Aveva
una cicatrice sul mento. Pare che da giovane fosse vissuto in America. Indossava un completo
nero ormai liso, al di sotto del quale, invece della camicia, aveva una maglia di lana, una di
quelle maglie di lana color caffelatte che si portano d’inverno al posto della canottiera. Aveva
il cappello.
Don Gaetà come state? disse tutto contento Amaroso.
Vi voglio presentare l’amico qua presente che è un altro grande appassionato del giuoco
del lotto.
Bravo bravo rispose il Santone. Andiamoci a sedere che io tengo un poco di fame e mi
voglio mangiare prima una cosa.
Ci trasferimmo tutti e tre in fondo al bar in una saletta semibuia dove stavano quattro tavoli
ed un calcio-balilla. La signora era rimasta in macchina perché diceva che se no si attaccava
i nervi. Il Santone si fece portare una birra ed un panino con la mozzarella, poi, mangiando
mangiando prese un foglio di un quaderno a righe da prima elementare, e disegnò due linee
parallele; pensò un attimo e disse: Chist’è nu fuosso. Antonio sta vicino ‘o fuosso e sta
aspettann’a Pascale pecchè tenano n’appuntamento. Dice Antonio vicino a Pascale: “Pascà te
sto aspettanno ‘a tantu tiempo!” poi rivolto a noi Stateve ‘bbuone ve ne putite ‘ı̀.
Amoroso si alzò e mise una cinquecento lire nella tasca del Santone (pare che i soldi non li
potesse toccare) ed io m’incaricai di pagare il panino e la birra.
Mò nella macchina parliamo disse Amoroso serissimo mentre uscivamo dal bar.
Ed infatti, non appena uscimmo dal paese, iniziò l’interpretazione del mistero.
Dunque Antonio fa 13, ma siccome sta vicino al fosso che fa 65, è chiaro che il primo
numero che ci dobbiamo giocare è il 78 ca si no pecchè Antonio si ieva ‘a mettere vicin’o
fuosso? Il busillis invece nasce per il secondo numero: e già perché o ci giochiamo 17 Pasquale,
o 43, l’appuntamento, oppure la figura di 8 che tiene il maggiore ritardo.
E perché?
Perché, se vi ricordate bene, il Santone ha detto che Antonio stava aspettando Pasquale
da molto tempo. E allora noi adesso dobbiamo andare a vedere quale dei numeri con figura
di 8 sta ritardando da più tempo, e questo lo possiamo sapere solo se andiamo un momento a
Villanova dall’interprete. Quello sa tutto... studia pure la notte per capire bene un mistero.
Però, mò che ci penso, e se ci giocassimo 31 ‘o panino e 84 ‘a birra?
Amorò, scusate se ve lo dico, ma a me sembra che questo Santone dia troppi numeri tutti
insieme!
E sı̀ lo so. Però se uno sta attento capisce quando li dice apposta e quando li dice davvero.
A proposito ingegnè voi Vi siete accorto che il Santone tiene una ferita sui mento?
Sı̀, una specie di cicatrice.
Ebbè, secondo voi, in quale preciso momento il Santone si è toccata la ferita? Quando
ha parlato del fosso, quando ha parlato dell’appuntamento, o quando ha detto che voleva un
panino e una birra?
Veramente non ci ho fatto caso.
E neppure io, mannagg’e can’e caccia,’ sono stato attento! E già perché dovete sapere che
il Santone quando vuole trasmettere un numero sicuro, proprio in quel momento si tocca la
ferita.
Fu cosı̀ che alla fine ci giocammo 26, 43 e 78. Nessuno di questi numeri uscı̀, però Amoroso
mi disse: Ingegnè non vi dovete scoraggiare cosı̀ presto! Voi questo terno ve lo dovete giocare
almeno per tre settimane di seguito; fatevi almeno un triduo!
La critica maggiore l’ebbi invece dall’ingegnere Carloni direttore del centro elettronico della
società presso il quale Amoroso lavorava come usciere.
Ma come! mi disse l’ingegner Carloni Siete andato con Amoroso dal Santone alla Croce
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CAPITOLO 26. IL MISTERO
del Carmine! Voi, un ingegnere della IBM, un tecnico del futuro! Insomma vi siete fatto plagiare
da Amoroso e siete andato appresso ai misteri e ai Santoni: mi meraviglio di voi! Non dovrei
essere io a ricordarvi che questa è l’era del positivismo, l’era dei calcolatori elettronici...
Sı̀, ma io...
Ingegnè, e benedetto Iddio, se sul serio v’interessa il giuoco del lotto e allora dovete seguirmi
un attimo al Centro, e là credo, modestamente, di potervi mostrare qualcosa di veramente
significativo. Due anni fa, insieme ad un piccolo gruppo di programmatori, abbiamo messo a
punto un programma statistico che con l’aiuto di un calcolatore IBM 370 tira fuori ogni sabato
i numeri più probabili della ruota di Napoli.
? Questo metodo si chiama: “metodo delle sfaldature cromatiche”, e ve ne spiego il perché:
supponiamo che sabato prossimo esca una certa cinquina, la domanda è: dopo quante settimane
questa cinquina comincerà a sfaldarsi?
A sfaldarsi?
Si, cioè non ci domandiamo dopo quante settimane, mediamente, uscirà di nuovo uno dei
cinque numeri della cinquina. Allora, in tal caso, noi diremo che la cinquina si sarà sfaldata, e
già perché perdendo un numero la cinquina sarà diventata una quaterna. E cosı̀ di seguito: la
quaterna a sua volta si sfalderà per diventare un terno ed il terno si sfalderà per diventare un
ambo e via dicendo. Ora, se coloriamo con colori differenti tutte le cinquine e le loro relative
sfaldature, ne verrà fuori un diagramma colorato, il diagramma delle sfaldature cromatiche,
che ci permetterà di intuire, anche visivamente, il colore predominante della prossima cinquina.
Non so se mi avete seguito.
Bé veramente cosı̀ cosı̀.
Ma è semplice ingegnè. Vedete noi, nel calcolatore, abbiamo memorizzato gli ultimi novanta anni di estrazioni del lotto ed abbiamo scoperto che, tolti i famosi ventotto numeri ritardatari
cronici che, come tutti sanno, non escono mai e che perciò noi abbiamo deciso, una volta per
tutte, di non considerare, una cinquina si può sfaldare al massimo entro la sesta settimana e
finisce di sfaldarsi al massimo entro la undicesima.
Veramente?
Sissignore. Ora con il nostro programma FTP...
Il programma FTP?
FTP, Fortuna, Tecnica e Perseveranza, noi finiamo con l’avere ogni sabato una rosa di
numeri probabili su cui puntare.
E avete mai vinto?
Per ora no, ma la vittoria non può mancare. Perché più passa il tempo e più il cerchio
delle probabilità si restringe. E poi noi adesso integreremo le “sfaldature cromatiche” con un
altro metodo inventato dall’ingegnere Scarola, detto metodo delle “permanenze ossessive”; anzi,
sapete che facciamo? Mò lo chiamiamo e ci andiamo a prendere un caffè tutti insieme, che cosı̀
Scarola potrà descriverci il suo metodo di persona, strada facendo.
Le “permanenze ossessive” furono troppo difficili perché io le potessi capire di primo acchito.
L’ingegnere Scarola parlò a lungo di curve asintotiche e di legge dei grandi numeri; ciò malgrado
io, che avevo raggiunto il mio punto di pieno, preferii abbandonarmi al piacere di un espresso
fatto come si deve, corto e potente come un colpo di karatè.
Al momento di pagare, come sempre accade oggi, ci fu un problema di spiccioli. In Italia
ogni città ha risolto il problema del resto secondo un proprio stile: a Torino hanno stampato
per primi gli assegni circolari da lire cento, a Milano danno i biglietti della metropolitana, a
Napoli il cassiere del nostro bar tirò fuori un cartellone numerato da 1 a 90 e mi chiese:
Volete un numero dottò? Sabato prossimo al primo estratto diamo seimila lire.
# 25 - Neapolitan Power
Se un uomo dovesse dedicarsi a una ricerca sistematica per scoprite che cosa maggiormente
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distrugga l’amicizia e cosa produca l’inimicizia troverebbe quanto cerca nel regime della polis.
Osservate l’invidia per coloro che in essa cercano di primeggiare. Osservate la rivalità che
necessariamente sorge tra i competitori.
FILODEMO Dl GADARA, Volumina Rhetorica II, 158
Potere significa programmazione del futuro dice il professore. Napoli è invece fantasia
e quindi improvvisazione. Ma ecco qua l’ingegnere nostro! Ingegnè, e che è successo stasera?
È un’ora che la stiamo aspettando!
Lo so e me ne dispiace moltissimo, ma sono rimasto bloccato dal traffico a metà del corso
Vittorio Emanuele, e cosı̀ ho fatto tardi.
Io qualche giorno fa dice Salvatore a stavo accompagnando il dottor Passalacqua per
una falsa testimonianza in Pretura, ed al ritorno, sulla salita di Salvator Rosa, siamo rimasti
bloccati per un’ora intera, ma vi dico a voi un’ora di orologio, in mezzo al traffico! Pensate
che ad un certo momento era tanto che stavamo aspettando che è venuto vicino a noi uno
scugnizzo, il quale, prima ci ha voluto vendere per forza due panini con la mortadella, e poi,
datosi che stavamo sempre fermi e che si erano fatte quasi le tre, ci ha detto che per duecento
lire, compreso il gettone, era disposto a fare una telefonata per conto nostro a casa per avvisare
le famiglie di non stare in pensiero.
Le pensano proprio tutte! dice Saverio.
Un traffico come questa sera però non lo avevo mai visto! dico ancora io, per scusarmi
del ritardo. Il fatto è che in questi giorni al traffico di tutti i giorni si è aggiunto anche quello
delle feste di Natale e quindi per le strade di Napoli oggi c’è pure la provincia che è venuta
a fare lo shopping. E come se non bastasse, pare che proprio questa sera si è aperta un’altra
voragine in via Tasso, isolando il Vomero per l’ennesima volta.
Ci vuole pazienza! sospira il professore. Lei, ingegnere carissimo, deve sapere che Napoli
è stata costruita praticamente su di un insieme continuo di volte. Sissignore: immediatamente
sotto la città di Napoli esistono innumerevoli caverne di tufo e migliaia di pilastrini, per cui, di
tanto in tanto, succede che a causa delle infiltrazioni dovute alle piogge ed agli straripamenti
delle fognature, tutte queste caverne si riempiono di acqua e qualcheduno di questi pilastrini
se ne cade provocando in superficie quelle voragini di cui poi lei si lamenta. La tragedia è che,
essendo la città costruita ad anfiteatro e cioè su di un piano inclinato, uno di questi giorni
assisteremo al “varo della città di Napoli”.
Professore però in tutto questo, io, con la mia venuta, credo di avere interrotto una sua
conversazione filosofica.
Sissignore, dice Saverio il professore ci stava parlando del disprezzo del potere.
Bè, veramente più che del disprezzo del potere io stavo parlando di indifferenza per il potere. Il napoletano, secondo me, considera il potere una fatica, un impegno troppo severo perché
valga la pena di dedicarcisi per tutta la vita. D’altra parte il potere è esigente e non accetta
il quasi-impegno, il compromesso, diciamo pure quel part-time del pensiero che il napoletano
sarebbe forse disposto a concedere, e allora va a finire che il nostro uomo delega, si fa da parte
e tira fuori quelle espressioni qualunquiste per cui poi viene tanto criticato, come il: fottatinne
oppure il ma tu quant anne vuò campà e cosı̀ via.
Professò, però la vita, dovete convenire, è veramente breve! dice Saverio. E se uno
deve mettersi pure a fare la politica, mi dite voi dove lo trova più il tempo per guadagnarsi il
necessario per campare? Io penso invece che se i partiti dessero un piccolo stipendio a tutti gli
iscritti...
Questa indifferenza per il potere lo interrompe il professore ha fatto sı̀ che Napoli in tutti
i secoli della sua storia non ha mai, dico mai, avuto un ruolo imperialistico. Se ci pensate bene,
tutte le altre città italiane possono vantarsi di aver vissuto un loro momento storico; lasciamo
stare Roma che è quasi il sinonimo della parola Impero, e prendiamo per esempio Venezia,
Genova, Milano, Firenze, Torino e cosı̀ via tutte città che per un certo periodo, breve o lungo
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CAPITOLO 26. IL MISTERO
che sia hanno combattuto per terra o per mare hanno vinto e conquistato popoli vicini. Napoli
mai! Durante l’espansione romana in Italia, per esempio, di Napoli non si è sentito nemmeno
parlare: e già perché non solo non eravamo presenti come popolo aggressivo ma nemmeno come
popolo resistente. Insomma uno, leggendo la storia di Roma, potrebbe addirittura pensare che
Napoli a quell’epoca non esistesse ancora. Ed invece no: era già una città fiorente e popolosa,
solo che i suoi abitanti si dedicavano quasi esclusivamente al turismo, alla pesca, all’agricoltura
ed agli spettacoli. Napoli era popolata da coloni greci (ovviamente d’origine ateniese e non
spartana) che avevano costruito per diletto dei popoli vicini soltanto anfiteatri, stadi e case di
villeggiatura. Non annoverava quindi tra i suoi abitanti grandi figure di generali come i Camillo
o i Marco Antonio, ma solo abili attori comici, che nei ruoli delle famose maschere atellane:
Maccus, Pappus, Bucco e Dossenus si guadagnavano da vivere divertendo le platee imperiali.
Ogni tanto però, malgrado il suo buon carattere, questo popolo napoletano aveva lo stesso dei
guai dai suoi feroci vicini, e già perché a volte capitavano situazioni in cui non c’erano vie
d’uscita: per esempio, arrivava Mario il conquistatore e, giustamente, i napoletani gli facevano
una bellissima festa, poi veniva Silla, nemico di Mario, e li puniva violentemente. Poi arrivava
Pompeo? Altra festa, e subito dopo veniva Giulio Cesare che s’incazzava per la festa fatta a
Pompeo.
Gesù, ma io non capisco, ma che c’entravano i napoletani con Cesare e Pompeo?
Silla, Cesare, Pompeo erano uomini di potere e quindi non potevano capire il significato
filosofico della parola “neutrale”: per loro una minima inclinazione bastava a classificare un
popolo o come alleato o come nemico. Ma ritorniamo ai nostri napoletani ed alla loro scarsa
attitudine alla guerra e pensate a come è strano il fatto che, pur essendo Napoli una città di
mare, non sia mai esistita una vera “marineria napoletana”. In effetti il Mediterraneo nella
storia degli ultimi tremila anni è stato dominato da turchi, genovesi, fenici, saraceni, veneziani,
pisani, cartaginesi, amalfitani e cosı̀ via dicendo, ma dai napoletani mai. Noi pescavamo nel
golfo, punto e basta.
E l’ammiraglio Caracciolo?
Una brava persona, più brava però come pilota che come condottiero!
Io ho una mia teoria in proposito dice Salvatore. Secondo me un popolo è tanto più
imperialista per quanto più è brutto il clima del paese suo. Insomma io voglio dire che uno
non si mette in viaggio per occupare un’altra terra se si trova bene dove sta. E questo spiegherebbe perché i napoletani non sono mai stati dei grandi conquistatori ma sempre dei grandi
conquistati.
Ad avallare la tesi di Salvatore dice il professore vorrei presentarvi una veloce carrellata
di tutta la storia della città di Napoli, dalle origini a oggi...
P’ammore d’a Madonna, professò! lo interrompe Saverio. Questa sera ci sta pure il film
alla televisione e voi ci volete raccontare tutta la storia della città di Napoli!
Mio caro Saverio, la storia di Napoli è di una brevità impressionante. Sissignore, tutta la
storia della città di Napoli può essere condensata in soli tre episodi: una dominazione straniera
presa a caso, Masaniello e la repubblica partenopea.
Ma quante dominazioni straniere ci sono state a Napoli, professò?
Ebbè, dovete calcolarne una dozzina. A dirle cosı̀, come mi vengono in mente senza un
preciso ordine cronologico, ricordo: i greci, i romani, i goti, i longobardi, i bizantini, i normanni,
i saraceni, gli svevi, gli angioini, gli aragonesi, gli spagnoli in genere, i francesi, gli austriaci
e i piemontesi. Per non parlare poi dell’ultima invasione alleata e cioè degli americani, dei
canadesi, degli inglesi, dei marocchini eccetera eccetera.
Gesù, Gesù! Ma ci sono venuti proprio tutti a Napoli?
Solo i russi, fino ad ora, non ci hanno ancora onorato.
E non è detto professò: il secolo XX non è ancora finito.
La verità è che durante i suoi primi secoli di vita, Napoli è stata completamente sovrastata
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dalla vicinanza di Roma, e quindi, mentre le province più lontane approfittarono della distanza
che le separava da Roma per crearsi una propria autonomia, Napoli preferı̀ diventare un posto
di villeggiatura per gl’imperatori romani. Più tardi, dopo i secoli bui del medioevo, le grandi
dinastie europee si dilettarono a palleggiarsi il Regno di Napoli, per cui i napoletani si coricavano
la sera sotto una dominazione spagnola e si svegliavano la mattina sotto una dominazione
francese. E già perché per qualcosa come quattro o cinque secoli, le grandi dinastie regnanti si
erano divertite a dividersi l’Europa come se stessero giocando a Monopoli: tu mi dai il Regno
delle Due Sicilie a me ed io do la Lorena ed il ducato di Parma e Piacenza a te. Purtroppo in
questo gioco i napoletani furono sempre pedine e mai giocatori; d’altra parte però, ringraziando
Iddio, i nostri antenati non si offesero mai per queste sudditanze e con la più sincera allegria
non negarono mai a nessuno una buona e calorosa accoglienza. Certamente ci fu qualche re
che fu più amato degli altri, come, ad esempio, Ferdinando I di Borbone, lazzaro, sfaticato e
festaiolo, mentre invece qualche sospetto, e quindi qualche antipatia, la destò Alfonso d’Aragona
a causa della sua efficienza e della sua produttività. Tutti comunque furono prima o dopo
napoletanizzati e cioè persero quel desiderio di potere che avrebbe permesso loro di difendere
il Regno dal successivo invasore.
Professò, scusate dice Salvatore non è che io adesso voglio mettere in dubbio quello che
voi ci state raccontando, ma datosi che il dottor Palluotto se ne è tornato a Milano e, come
dire... vi manca l’opposizione... Insomma voglio dire che né io, né Saverio e nemmeno Luigino
ci abbiamo questa grande preparazione storica e che per quanto riguarda l’ingegnere, come voi
avete già capito, non essendo di casa, da persona educata, non vi può certo contraddire. Ora
dico io: come può essere che Napoli nel mondo non abbia mai contato il resto di niente?!
Io non ti ho mai detto che il Regno di Napoli non abbia mai avuto una sua importanza.
Ho semplicemente constatato che i napoletani sono sempre stati estranei a qualsiasi tipo di
potere. Anzi, se la cosa ti può interessare, ti posso dire che tra il XII ed il XIII secolo il Regno
di Napoli fu forse una delle nazioni più importanti e più progredite di Europa. Sotto Ruggero
II il Normanno e soprattutto sotto Federico II di Svevia Napoli ebbe una struttura politica
ed amministrativa di primissimo ordine, una grande Università di stato, una sua legislazione,
degna in tutto e per tutto di quella romana, purtuttavia a promuovere e a difendere tutte queste
belle cose non erano stati i napoletani, bensı̀ i tedeschi di Federico, e quando i tedeschi se ne
andarono via pure l’ordine se ne ando.
Professò ma di Masaniello che ci raccontate? chiede Saverio. Masaniello era napoletano!
Nossignore, risponde Salvatore Masaniello era di Amalfi. Non è vero professò?
Masaniello era più napoletano di me e di voi precisa il professore. Masaniello, ovvero
Tommaso Aniello, era nato e vissuto a Vico Rotto al Mercato. Ma non sono questi dati
anagrafici a renderlo napoletano. Masaniello, tra tutti i personaggi storici, comici, politici e
artistici nati a Napoli, è quello che maggiormente incarnò lo spirito napoletano. E questo perché
espresse le contraddizioni, l’istinto di amore, l’incapacità di esercitare il potere, la generosità
e l’ignoranza del suo popolo. Masaniello è amore e disordine. E Napoli ingiustamente non ha
creduto opportuno, fino ad oggi, di intitolare a Masaniello una via o una piazza degna di questo
suo emblematico figlio.
Professò, ma Masaniello era allora una specie di Che Guevara?
Nossignore, Masaniello non è accostabile a nessun rivoluzionario di nostra conoscenza. Se
volete capire Masaniello dovete capire che la sua rivoluzione è stata soprattutto una rappresentazione teatrale. Una grande, epica e comica tragedia.
E raccontateci professò, raccontateci questa tragedia.
Dunque le versioni sulla rivoluzione cosiddetta di Masaniello sono molte e sono spesso
anche diverse tra loro. Andiamo da quella di Benedetto Croce che quasi snobba il personaggio
attribuendo tutto il movimento rivoluzionario alle trame istigatrici di Giulio Genoino, a quella
120
CAPITOLO 26. IL MISTERO
di Alessandro Dumas, grandissimo pallonaro, che nel suo Corricolo esalta il giovane pescivendolo
fino a farlo diventare un personaggio simile a D’Artagnan. Quello che è sicuro però è che la
fama raggiunta dal nostro eroe nel mondo civile fu grandissima: lo stesso Croce, che come
vi dicevo non amava il personaggio, ci racconta che in Europa si coniarono medaglie portanti
in effigie da una parte Cromwell e dall’altra Masaniello, e che due secoli dopo, in Belgio,
l’inizio della rivoluzione nazionale belga partı̀ proprio dal teatro dove si stava rappresentando il
“Tommaso d’Amalfi” dramma musicale di Daniele Auber. Comunque, chi volesse approfondire
l’argomento non ha che da leggersi i libri scritti su di lui da Michelangelo Schipa, da Carlo
Botta e dal Capecelatro, oppure le versioni più moderne e quindi più interessanti scritte da
Antonio Ghirelli e da Indro Montanelli.
Hai capito Savè? dice serio serio Salvatore. Tu domani vai alla Libreria Minerva, a
ponte di Tappia, e ti compri tutti i libri che ha detto il professore.
Niente affatto, risponde Saverio a quello che dice il professore a me mi basta e mi avanza.
Professò, non lo state a sentire a Salvatore e raccontateci ‘o fatto ‘e Masaniello.
Dunque la rivoluzione di Masaniello, come tutte le rappresentazioni teatrali che si rispettano, cominciò con le prove. Sissignore con le prove: un mese prima Masaniello, un poco incazzato
perché avevano arrestato la moglie per contrabbando di farina, incendiò la baracca del dazio
a piazza Mercato ed una settimana prima, con la scusa dei festeggiamenti per la Madonna del
Carmine, armò con delle lunghissime canne duecento lazzaroni vestiti da turchi, i cosiddetti
“alarbi”, e li fece sfilare davanti a palazzo reale. Arrivati al cospetto della famiglia reale e di
tutta la corte, gli “alarbi” di Masaniello si allinearono e invece di mostrare il pugno teso, come
avrebbero fatto oggi i nostri extraparlamentari, voltarono la schiena e deposero per terra le loro
canne di bambù, mostrando in tal modo il sedere al vicerè ed a tutti i grandi di Spagna che
stavano affacciati alle balconate.
Questa fu veramente una bella pensata, professò!
Una settimana dopo, il 7 luglio 1647, iniziava la vera e propria rivoluzione. Come tutti
voi già sapete, il primo ed unico motivo di questa rivoluzione era stata la tassa sulla frutta
che il vicerè, duca d’Arcos, con il beneplacito della nobiltà napoletana, aveva imposto qualche
mese prima; ora, mentre tutte le rivoluzioni come si deve sono sempre state iniziate con un
lancio di sassi, perlomeno fino a quando non arrivò Molotov ad insegnarci l’uso delle bottiglie,
quella napoletana inizio con un lancio di fichi. Sissignore, fichi e male parole misero in fuga i
soldati spagnoli ed il popolo napoletano, al grido di “Viva il Re di Spagna, viva S. Gennaro,
viva Masaniello e abbasso le tasse” invase palazzo reale.
E la levarono la tassa sulla frutta?
Nello stesso giorno, ma a questo punto Masaniello non si volle più accontentare di questa
sua vittoria, anche perché fu istigato in tal senso dall’ideologo della rivoluzione, il subdolo
Genoino, ex segretario di stato del conte d’Ossuna, che in quella congiuntura trovò modo di
sfogare le sue velleità politiche, per metà liberali e per metà arteriosclerotiche. Genoino infatti
aveva più di ottantanni. Ma veniamo a noi: la rivoluzione continuò con una serie d’inviti a
corte ed anche questo bisogna considerarlo come un fatto nuovo nella storia delle rivoluzioni!
Masaniello, con un cappello di piume e con un vestito di lana bianca laminato d’argento, andò
a trovare il viceré ed appena lo vide svenne ai suoi piedi, nè più nè meno di come avrebbe fatto
Paolo Villaggio nei panni di Fracchia. Ripresi i sensi, da vero rivoluzionario napoletano, professò
il proprio attaccamento per il Re di Spagna e promise un contributo di un milione di ducati
(ma dove pensava di andarli a prendere?). A sua volta il viceré pensò bene di regalargli una
collana d’oro del valore di tremila ducati che Masaniello prima rifiutò e poi finı̀ per accettare.
Comunque si affacciarono entrambi al balcone ed il popolo entusiasta si mise a gridare al colmo
della gioia: “Viva il Re, viva Masaniello, e viva la Madonna”. Qualche giorno dopo, la moglie
del viceré, duchessa d’Arcos, regalò tre vestiti alla moglie di Masaniello, donna Bernardina, e
li invitò nuovamente a corte per un pranzo tete-a-tete. Fu in quell’occasione che avvenne il
121
mistero della limonata.
Il mistero della limonata?
Sissignore, della limonata. Voi dovete sapere, signori miei, che il dramma di Masaniello è
un dramma in due atti e che il primo atto si chiude proprio cosı̀: con Masaniello che beve la
limonata a palazzo reale. Ora, la storia non lo dice, però tre sono le ipotesi: o la limonata era
avvelenata, o misero in giro la voce che Masaniello era uscito pazzo, o fu il potere che veramente
gli dette alla testa, il certo è che da quando bevve la limonata a palazzo reale Masaniello non
fu più lui: come si dice a Napoli incominciò a dare i numeri. Fece cose incredibili: baciò i
piedi al duca d’Arcos, prese a calci il conte di Maddaloni, fece fermare il corteo del viceré,
che si recava insieme con lui al Duomo, per fare pipı̀ dietro a una fontana, si autoproclamò
“Generalissimo della Serenissima Reale Repubblica Napoletana”, insomma ne fece di tutti i
colori. Questo secondo atto, che durò esattamente cinque giorni cosı̀ come era durato il primo,
passerà alla storia come “i cinque giorni della pazzia di Masaniello”. La mia interpretazione è
estremamente semplice: come un terrestre non può impunemente scendere su di un altro pianeta
senza la protezione di un opportuno scafandro, cosı̀ Masaniello, da autentico napoletano, non
era riuscito a respirare su di un pianeta a lui completamente sconosciuto, il pianeta Potere.
Povero Masaniello!
Il fatto strano fu che, in tutto quel casino ed in soli dieci giorni, Masaniello riuscı̀ pure
ad amministrare con una certa energia una specie di giustizia: fece fuori moltissimi briganti
che inutilmente i viceré spagnoli avevano fino ad allora perseguitato e spopolò le carceri, o
concedendo amnistie o condannando a morte con una decisione che avrebbe fatto invidia a
Dracone. Diciamo che non ammetteva ricorsi in appello. La pazzia, nel frattempo, dovuta a
scarsa dimestichezza con il potere, incalzava. Si arrivò ad un punto che tutti erano contro di lui:
gli spagnoli ed i lazzari, ex compagni di barricata. Imprigionato fuggı̀. Inseguito si rifugiò nella
chiesa del Carmine e qui, quando nessuno se l’aspettava, sali sul pulpito per parlare per l’ultima
volta al suo popolo: “Amice miei, popolo mio, gente: vuie se credite ca io so pazzo e forze avite
raggione vuie: io sò pazze overamente. Ma nunn’è colpa da mia, so state lloro che m’hanno
fatto’ascı̀ afforza’nfantasia! Io ve vulevo sulamente bbene e forze sarrà chesta ‘a pazzaria ca
tengo ‘ncape. Vuie, primme, eravate munnezza e mò site libbere. Io v’aggio fatto libbere. Ma
quanto pò durà sta libbertà? Nu juorno?! Diecie juorne?! E già pecchè pò ve vene ‘o suonno e
ve jate tutte quante ‘a cuccà. E facite bbuone: nun se pò campà tutta ‘a na vita cu na scuppetta
‘mmano. Facite comm’a Masaniello: ascite pazze, redite e vuttateve ‘nterra, ca site pat’e figlie.
Ma si ve vulite tenere ‘a libertà, nun v’addurmite! Nun pusate ll’arme! ‘O vedite? A me
m’hanno avvelenate e mò me vonno pure ‘accidere. E ci ‘hanno raggione lloro quanno diceno
ca nu pisciavinnolo nun pò addeventa generalissimo d’a pupulazzione a nu mumento a n’ato.
Ma io nun vulevo fa niente ‘e male e manco niente uoglio. Chi me vo bbene overamente dicesse
sulo na preghiera pe me: nu requia-eterna e basta pé quanno moro. P’o riesto vo ttorno ‘a
dı̀: nun voglio niente. Annudo so nato e annudo voglio muri. Guardate!!”‘ [Traduzione: Amici
miei, popolo mio, gente: voi credete che io sia pazzo e forse avete ragione voi: io sono pazzo
veramente. Ma non è colpa mia, sono stati loro che per forza mi hanno fallo impazzire! lo vi
volevo solo bene e forse sana questa la pazzia che ho nella testa. Voi prima eravate immondizia
ed adesso siete liberi, Ma quanto può durare questa vostra libertà? Un giorno? Due giorni? E
già perché poi vi viene il sonno e vi andate tutti a coricare. E fate bene: non si può vivere tutta
la vita con un fucile in mano. Fate come Masaniello: impazzite, ridete e buttatevi per terra,
perché siete padri di figli. Ma se invece vi volete conservare la libertà. non vi addormentate!
Non posate le armi! Lo vedete? A me hanno dato il veleno e adesso mi vogliono anche uccidere.
Ed hanno ragione loro quando dicono che un pescivendolo non può diventare generalissimo del
popolo da un momento all’altro. Ma io non volevo far niente di male e nemmeno niente voglio.
Chi mi vuol bene veramente dica per me solo una preghiera: un requiem soltanto per quando
muoio. Per il resto, ve lo torno a dire: non voglio niente. Nudo sono nato e nudo voglio morire.
122
CAPITOLO 26. IL MISTERO
Guardate!] E cosı̀ dicendo si levò tutti i panni da dosso. Le donne gridarono, gli uomini risero
e Masaniello si mise a piangere. Il suo discorso in effetti non era rivolto al popolo, era rivolto
a Dio. Lo inseguirono di nuovo e lo uccisero a fucilate in una cella della chiesa. Aveva ventisei
anni. Fu decapitato ed il suo corpo gettato in un fosso. Dopo qualche giorno, avendo il viceré
alzato il prezzo del pane, il popolo capı̀ l’importanza di Masaniello. Il suo corpo fu recuperato
e la sua testa ricucita sul collo. Centoventimila napoletani lo portarono in processione tutto
vestito di lino bianco e su di un manto di velluto nero.
Bellissima storia, professò! dice Saverio è stata una storia bellissima e commovente. E
poi voi ce l’avete raccontata proprio come se ci foste stato veramente presente.
E questa è l’unica rivoluzione fatta dai napoletani?
L’unica a carattere interamente popolare. In effetti la storia della cosiddetta “fedelissima
città di Napoli” conta qualcosa come una quarantina tra rivolte e sommosse, ma ciascuna di
esse, ad eccezione di quella di Masaniello, ha sempre avuto una matrice aristocratica. Guardate
per esempio alle congiure dei baroni, alla rivolta del principe di Macchia, alle rivoluzioni del
‘99, del ‘21, del ‘48: hanno tutte in comune una chiara suddivisione delle forze: da una parte i
nobili o gli intellettuali e dall’altra parte il Re con il popolino.
E la repubblica napoletana?
E questo appunto era il terzo fatto significativo che vi volevo raccontare.
D’accordo professò, però fate presto che tra poco comincia il film alla televisione dice
Saverio.
Professò scusate, ma a noi del film della televisione non ce ne importa proprio niente interviene spazientito Salvatore. La televisione la lasciamo agli ignoranti. Voi raccontate e non
vi state a preoccupare.
Dunque la repubblica napoletana! continua Bellavista senza farsi ulteriormente pregare.
La repubblica napoletana, da me citata prima col nome di rivoluzione del ‘99, nasce come
figlia naturale della più celebre rivoluzione francese. Ciò nonostante ci accorgiamo subito che
in questo caso madre e figlia non si assomigliano per niente. E già perché, per un incredibile
errore di copione, la rivoluzione napoletana vede sulle barricate gli aristocratici a fianco degli
intellettuali ed i “sanculottes” a difesa della Corona!
Professò, non ho capito niente!
Savè ho detto che a Napoli, il popolo, invece di mettersi a fare la rivoluzione contro la
monarchia, come era già successo a Parigi, si era messo tutto dalla parte del Re.
E perché?
Perché mai nessuno si era preoccupato di spiegare al popolo napoletano che cosa voleva
dire la parola “repubblica”. Ma veniamo a noi: il fatto cominciò nel ‘98, quando, illusi per
una vittoria navale di Nelson su Napoleone, quella di Aboukir, i reali napoletani decisero di
inviare un esercito a Roma e di cacciarne via i francesi. A dire la verità, l’iniziativa non era
nel carattere di Ferdinando che, se non altro per non correre il rischio di perdersi qualche
battuta di caccia, non avrebbe mai dichiarato guerra a nessuno. Ma purtroppo il nostro povero
Ferdinando doveva fare i conti con la sua signora, la efficientissima Maria Carolina d’Austria,
la quale, siccome odiava i poveri, il marito, i napoletani e Napoleone, tanto fece che lo convinse
ad attaccare i francesi. Io ho sempre pensato che Maria Carolina, se fosse nata centocinquanta
anni più tardi, sarebbe stata la moglie ideale per Adolfo Hitler. Comunque, la guerra era stata
appena dichiarata. che agli ordini di un quequero’ generale austriaco, certo Mack, quarantamila
napoletani invasero Roma.
Come a Lazio-Napoli professò dice Saverio.
Come?
Dico: come quando c’è la partita Lazio-Napoli “quarantamila napoletani invadono Roma!”
Savè, fratello caro, e non mi far perdere il filo del discorso! protesta il professore. Dun-
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que, come vi dicevo, Mack si avviò con i suoi quarantamila soldati e si scontrò quasi subito con
l’ala destra dell’esercito francese comandata dal generale MacDonald che, malgrado contasse
solo ottomila effettivi, secutò ferocemente i napoletani. Successivamente, nei pressi di Otricoli,
Mack ebbe la sventura di incontrare pure il generalissimo Championnet con il resto dell’armata
francese e la disfatta assunse le dimensioni di un autentico paliatone. Ferdinando, che fin dal
primo mutare delle fortune di guerra, aveva preso a fuggire, non si fermò più e, travestito da
gentiluomo, si fa per dire, giunse a Napoli dove prese con sè i figli, Maria Carolina, il maresciallo Acton, i due Hamilton, il tesoro della Corona e il tesoro di San Gennaro, alcuni reperti
preziosi di Ercolano e tutto quello che di prezioso e di trasportabile riuscı̀ a trovare nella reggia
e s’imbarcò sulla prima nave in partenza per la Sicilia, lasciando come suo sostituto il povero e
pacifico principe Pignatelli. Gli dovette dire qualcosa come: “Ciccı̀ fa chello che vuoi tu: resisti,
se vuoi resistere, mettiti d’accordo se ti vuoi mettere d’accordo, ma adesso scusami perché vaco
nu poco ‘e pressa”
I’ che bella figura ‘e niente! dice Saverio.
Come disse un poeta dell’epoca: Venne, vide e fuggı̀ continua il professore. Ora, giunti
a questo punto la situazione parve irrimediabilmente compromessa. Sennonché, proprio quando
nessuno se l’aspettava. Capita il primo colpo di scena: il popolo napoletano, senza che nessun
capo borbonico lo avesse guidato e senza che nessuno gli avesse detto niente, contrariamente
alle sue tradizioni, si ribellò alle truppe liberatrici ed il povero Championnet invece di trovarsi
affianco due ali di popolo plaudente fu costretto ad affrontare una incredibile guerriglia, strada
per strada e vicolo per vicolo. Che cosa era successo? Era successo che questo popolo napoletano, considerato profondamente vigliacco da Ferdinando e addirittura schifato da Maria
Carolina, al grido di “Viva il Re e viva San Gennaro”, aveva fermato nientemeno che le invincibili armate napoleoniche! Pignatelli che in tutto questo non aveva capito niente firma un
armistizio con Championnet nel quale in sostanza riconosce l’esistenza di una Repubblica napoletana e nel contempo s’impegna a pagare un forte contributo alle truppe francesi. Intanto gli
intellettuali napoletani avevano iniziato a teorizzare la loro repubblica. Inutilmente cerchereste
tra i cognomi di questi giacobini i Cacace e gli Esposito. L’elenco dei primi martiri democratici napoletani è pieno di Carafa, Filomarino, Pimentel-Fonseca, Serra, Sanfelice, Caracciolo,
Ruvo e compagnia cantando. Gente del popolo: nessuno. L’unico nome che ricordo è quello di
un certo Michele che per essersi schierato tra i repubblicani passò alla storia come Michele ‘o
Pazzo.
E poi che cosa successe?
Successe che i nostri primi repubblicani erano tutti troppo poeti e troppo poco uomini
di stato per poter mettere in piedi una repubblica, per cui potremo dire che forse l’unico vero
italiano, dotato contemporaneamente di spirito democratico e di senso pratico, fu il generale
francese Championnet. Sennonché la repubblica partenopea ebbe la sfortuna di perdersi pure
questo unico suo strenuo difensore: gelosie tra generali, miopia del Direttorio, inciuci’ messi ad
arte da un grandissimo fetentone che si chiamava Faypoult, fecero sı̀ che Championnet fosse
richiamato in Francia per finire sotto processo. A Punta del Pezzo, intanto, vicino Reggio
Calabria, in nome del Re era sbarcato un certo cardinale Ruffo con una decina di persone.
Questo Ruffo era un grande uomo d’arme, furbo, coraggioso, buon oratore ed ottimo cavaliere,
insomma era tutto fuorché cardinale. Avvalendosi di queste sue qualità egli riuscı̀ in nome dalla
Santa Fede a raccogliere un grandissimo esercito e, dopo essersi alleato con i più grandi i briganti dell’epoca, attaccò i francesi contemporaneamente da Sud e da Nord. Lo Sciarpa, Michele
Pezza detto Fra’ Diavolo, Pronio, il terrificante Gaetano Mammone, commisero le più inaudite
crudeltà contro i poveri e teneri giacobini ed inutilmente MacDonald, che aveva sostituito nel
comando Championnet, costrinse con le armi San Gennaro, o per meglio dire il cardinale Zurlo,
a fare velocemente il miracolo nella speranza di accattivarsi le simpatie dei lazzaroni; la Repubblica Partenopea era ormai irrimediabilmente condannata. A proposito di San Gennaro, dovete
124
CAPITOLO 26. IL MISTERO
sapere che, a causa di questo miracolo fatto in presenza dei francesi, i napoletani successivamente lo deposero e scelsero al suo posto, come patrono di Napoli, Sant’Antonio. Benedetto
Croce racconta che i napoletani ce l’avevano a tal punto con San Gennaro per il suo appoggio
ai francesi che esposero in rua Catalana un quadro in cui si vedeva Sant’Antonio prendere a
frustate San Gennaro. Il popolo però non fu capace di mantenere a lungo questo suo rancore,
per cui, alla prima piccola eruzione del Vesuvio, S. Gennaro riebbe subito di nuovo il suo posto
di Santo patrono.
E la repubblica intanto che fine aveva fatto?
Una brutta fine! Il cardinale Ruffo occupò Napoli e strinse d’assedio il forte Sant’Elmo ed
il Castello dell’Ovo, dove si erano asserragliati gli ultimi patrioti partenopei (i francesi, vista la
mala parata, se l’erano già squagliata). Ruffo che, tutto sommato, era un uomo d’onore promise
salva la vita a tutti i rivoluzionari, sennonché la regina Maria Carolina, la SS, e la sua degna
compagna Emma Liona Hamilton, secondo il Colletta ex donna perduta, convinsero Nelson a
stracciare i salvacondotti e ad uccidere senza pietà il meglio dell’intelligenza del Regno.
Poveri guagliune!
Ora io ho scelto questi tre episodi della storia di Napoli, proprio perché penso che dal
comportamento del popolo in questi tre avvenimenti, noi possiamo trovare la chiave dell’animo
napoletano. Tre diverse situazioni ed uno stesso comportamento. La dominazione straniera, la
rivolta popolare e la rivoluzione intellettuale: in nessuno dei tre casi il popolo ha fatto una scelta
di potere. Subisce passivamente la dominazione straniera, non approfitta di una situazione di
potere trovata per caso, rifiuta di salire sull’autobus della rivolta sociale messo in moto dagli
intellettuali. Quando combatte, lo fa solo per difendere qualche bene primario o per amore del
Re e della Santa Fede. La domanda allora che noi ci dobbiamo porre a questo punto è: siamo
un popolo d’amore o siamo un popolo ignorante? Le due ipotesi sono troppo interconnesse tra
loro per consentirci una risposta precisa.
Professò ma non può essere che il napoletano è indifferente al potere solo per una questione
di clima? Che so io: fate conto per esempio che è l’acqua che beviamo a Napoli, quella del
Serino, che funziona da elemento refrigerante interno. Insomma voglio dire; vuoi vedere che
a Napoli proprio quando uno si sta caricando per spaccare mezzo mondo ad un certo punto
magari tiene sete, si beve un bicchiere d’acqua e allora, come d’incanto tutta la rabbia che
teneva dentro si scioglie come neve al sole. Non può essere professò?
Fosse il cielo Salvatò, che Napoli possedesse un’acqua tanto miracolosa! La imbottiglieremmo e la venderemmo su tutti i mercati del mondo!
Diventeremmo pure noi un paese produttore professò!
O Dio però, secondo me, qualcosa nell’aria ci deve stare che frena, che limita le nostre
ambizioni, altrimenti non si spiegherebbero i casi di Annibale, di Celestino V e di Renato
Carosone.
E mò che c’entrano Annibale e Carosone?
Annibale attraversò mezza Europa per venire a distruggere Roma, scavalcò le Alpi con
tutti gli elefanti, vinse le battaglie più spaventose e poi, proprio quando si trovava Roma a
portata di mano, decise di fermarsi a Capua, dicendo che in verità per il momento lui preferiva
farsi prima qualche mese di ferie. Celestino V invece si trovava proprio a Napoli, quando decise
di fare il “gran rifiuto” ed io non so se voi vi rendete conto che Celestino in quell’occasione
rinunziò al posto di Papa, cioè al posto fisso più ambito che offriva quell’epoca. Ed infine
Carosone che al culmine della sua notorietà preferı̀ abbandonare l’attività artistica con la scusa
che oramai aveva già guadagnato abbastanza.
Professò, secondo me, il napoletano è ambizioso ma senza esagerare dice Saverio. E
come se fosse una società ad ambiziosità limitata, non so se mi sono spiegato.
Saverio vuol dire che secondo lui, dice il professore il napoletano si comporta come se
tenesse, incorporata nel cervello, una valvola psicostatica, cioè un relè pronto a scattare non
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appena la pressione dell’impegno, e quindi della preoccupazione, raggiunge un determinato
valore.
Come sarebbe a dire: una valvola?
Savè, né più né meno di quello che succede dentro allo scaldabagno: l’acqua si scalda, si
scalda, finché non arriva ad una certa temperatura, raggiunta la quale un semplice termostato
provvede a spegnere lo scaldabagno.
Ho capito dice Saverio voi volete dire che anche il napoletano, come lo scaldabagno, si
riscalda, però fino ad un certo punto, perché poi ci ha questa valvola che avete detto voi che
scatta e dice: “titò, ma a te che te ne fotte?”
Secondo me, invece, è una questione di ordine e di disordine dice Luigino. L’ordine
genera il potere e il disordine genera l’amore. Supponete, per esempio, che Hitler fosse nato
a Napoli e che partendo da Napoli, avesse voluto conquistare il mondo: come prima cosa non
sarebbe riuscito mai a trovare tanti Eichmann disposti ad eseguire gli ordini senza fare nessuna
obiezione e poi, è inutile illudersi, per realizzare le sue famose “soluzioni finali” avrebbe avuto
bisogno di una organizzazione che noi napoletani sicuramente non gli avremmo potuto fornire.
Effettivamente: ammazzare cinque o sei milioni di ebrei deve essere stata una cosa abbastanza complicata!
Sarebbero accadute scene incredibili continua Luigino. Facciamo l’ipotesi che a un certo
momento, per esempio, Hitler avesse dato l’ordine di trasportare un camion di ebrei da un lager
situato diciamo a Frattamaggiore fino ai forni a gas delle stufe di Agnano. Durante il tragitto
l’autista del camion, SS napoletano, si sarebbe sicuramente messo a parlare con l’ebreo seduto
più vicino a lui. Avrebbe detto: “Ma a voi chi ve lo ha fatto fare di nascere ebreo? Sentite a
me convertitevi alla religione cristiana!” e quello gli avrebbe risposto: “Ma non è colpa mia se
sono nato ebreo, i miei genitori sono ebrei, i miei figli sono ebrei, noi siamo nati tutti quanti
ebrei”. “Ma pecchè vuie site pate ‘e figlie?”. “Sissignore tengo tre creature”. “Voi che dite?
Gesù, Gesù! Io mò a chistu poverommo, quando stiamo sulla tangenziale che nessuno ci vede,
piglio e ‘o faccio scennere”. Fine del partito nazista napoletano.
Ha ragione Luigino: è questione di ordine e di disordine, dice Salvatore io perciò quando
esco la mattina nel vicolo e quando vedo che per terra ci sono ancora dei pezzi di carta e dei
sacchetti di monnezza, dico fra me e me: “meno male Salvatò, Pure per oggi possiamo stare
tranquilli!”
# 28 - Il Mariuolo
Ma che è successo?
Non lo so, io adesso sono venuto.
Ma di che si tratta?
Ma se non mi sbaglio pare che hanno preso un mariuolo.
No, no! Lo stavano prendendo, ma poi quello se ne e scappato.
Gesù Gesù, e qua non si può più campare tranquilli cu tutti sti mariuoli!
Folla enorme. Un centinaio e forse più di persone si accalca in piazza Mercato davanti ad
un negozio di giocattoli. Ho fatto tardi e vorrei correre a casa ma la mia natura napoletana
si ribella ad andar via senza essere prima informata della cosa. Insomma diciamo cosı̀ che
vorrei almeno sapere di che si tratta.
Ma scusate, sapete che è successo?
Signore mio bello, è la seconda volta che me lo chiedete, lo vedete o no che pure io sto
cercando di capire! Eh! Abbiate un po’ di pazienza e tra qualche secondo mi pregerò di darvi
tutte le informazioni che desiderate!
In effetti il fatto era noto nei suoi dettagli solo al centro dell’assembramento, mentre
io ed il signore a cui avevo rivolto la domanda, stando ancora ai bordi della calca, altro non
potevamo sapere che alcune voci riportate da gente che a sua volta aveva ascoltato la cosa
non dai protagonisti, ma bensı̀ da alcuni vice-raccontatori, cioè da persone che a loro dire
126
CAPITOLO 26. IL MISTERO
avevano appreso per primi i particolari dai vari personaggi del dramma. La discordanza però
delle prime versioni (alcuni per mitomania probabilmente inventavano e raccontavano fatti di
pura fantasia) ci spinse a superare la cintura mediana dei sub-capannelli e ad incunearci fino
alla fonte prima della vicenda che nel nostro caso era costituita da un ometto occhialuto dai
capelli e dal colorito rosso. Il nostro uomo gridava e chiedeva comprensione a chiunque avesse
avuto voglia di accogliere i suoi sfoghi, tenendo in tutto questo un pallone di foot-ball sotto il
braccio.
Ma voi capite che se quello non mi scappava io lo potevo pure uccidere; lo potevo!
Ma che è successo? chiede un signore appena arrivato.
E che ne volete sapere! Ormai questa non è più Napoli, è il Far West, caro signore mio!
Noi dovremo girare come a Gary Coopèr, con la pistola appesa ai pantaloni! Ma voi vi rendete
conto: io ero andato un minuto a comprare questo pallone per sotto all’albero di Natale per
mio nipote Filuccio, ed avevo lasciato un momento la macchina aperta...
Ebbè, pure voi però certe cose ve le andate proprio cercando, ma come: prima lasciate la
macchina aperta, e poi vi lamentate che a Napoli ci sono i mariuoli?
Ma che c’entra, io sono entrato per un minuto soltanto, e poi lo sapevo che la macchina
era aperta, perciò non la lasciavo mai di vista: un occhio alle pazzielle’ ed uno alla macchina.
Va be’ però una macchina aperta è sempre una provocazione commenta ostinato il signore
di prima.
In Svezia non esistono serrature interviene un altro signore. E nessuno ruba niente. Le
carceri sono vuote.
Come vi stavo dicendo io ero andato a comprare un giocattolo qua da Minale, e sapendo
che avevo lasciato la macchina aperta, con un occhio tenevo mente alla macchina e con un
altro cercavo il pallone per mio nipote Filuccio, tanto è vero che, quando sono andato a pagare
alla cassa, ho anche chiesto alla signora qua presente, che stava davanti a me nella fila, se
gentilmente mi poteva fare passare che io tenevo la macehina aperta. Ho detto cosı̀, non è vero
signò?
Sissignore, dice la signora chiamata a testimone ha detto proprio cosı̀ ed io l’ho fatto
passare davanti.
Ma proprio mentre stavo pagando, cioè proprio quando con una mano tenevo i soldi e con
l’altra il pallone, che ti vedo? Quel grandissimo farabutto che s’impizza nella macchina mia!
Non ci ho visto più: ho scostato la signora...
Eh sı̀ mi avete scostato! Voi mi avete buttato per terra! dice la signora ormai assurta al
ruolo di primo testimone. Che se non era per questo bravo giovane...
... Ho scostato la signora, ho buttato via il pallone e mi sono precipitato verso la macchina
per acchiappare quel fetentissimo lazzarone. Ma che ne volete fare i capitoni? Le anguille? Io
l’ho preso per un piede, ma quello si divincolava come un epilettico, mi ha tirato certi calci in
faccia che non vi dico, e poi fetente e ‘nzevato’ come stava, non mi riusciva di tenerlo fermo: mi
sfuieva tra le mani. Insomma quello è entrato da uno sportello e se ne è scappato da un altro!
Veramente è stato come ha detto il signore, dice uno dei presenti ‘o mariuolo era già
sparito dint’e vicoli c’o signore steva ancora stiso luongo luongo ‘ncopp’e sedili d’a machina.
Ma se lo prendevo! Madonna mia, se lo prendevo! Che cosa ne avrei fatto voi non ve lo
potete nemmeno immaginare. Cinque volte mi hanno rubato la radio della macchina! Cinque
volte! Sopra all’assicurazione mi schifano. Sissignore, si sono stancati di vedermi fare denunzie!
L’ultima volta, me l’hanno detto chiaro e tondo: “Dottò non vi mettete più la radio che tanto
pure se ve la rubano noi non ve la paghiamo”. Mi hanno fatto togliere lo sfizio di un poco
di musica, mi hanno fatto togliere! Ebbe’ mi dovete credere, io adesso solo una cosa desidero:
prendere uno di questi mariuoli e darci tante mazzate, ma tante mazzate che se non me lo
levano da sotto chissà come va a finire.
127
Avete proprio ragione. Se lo stato non si decide a mettere la pena di morte dobbiamo farci
giustizia da noi.
E va bene! Mò mettiamo la pena di morte pure per mariuncielli!
La vedova Santoianni dice un altro signore l’altro ieri l’hanno scippata davanti alla
chiesa. Pensate, povera vecchia, tiene settant’anni e l’hanno imbroscinata per terra come una
mappina!
Ma dico io la polizia che fa? Quando serve non si vede!
E per forza! Quelli sono buoni solo a fare le multe per divieto di sosta, ma poi se vedono
un mariuolo fanno finta di non vedere.
Non è vero, signora, li prendono, li prendono. Ma è la magistratura che in Italia oggi non
funziona. E come li prendono cosı̀ li fanno uscire.
Ma che è successo? chiede un signore appena arrivato.
Stavano per rubare la macchina al signore.
Di chi è questo bambino?
Pascalı̀, bello ‘e mammà, che stai facendo?
Signò, per favore tenetevi il bambino per mano e ditegli che i giocattoli non si possono
toccare.
Ma l’hanno preso poi il mariuolo?
No, ‘o signore se lo è fatto scappare da dentro alle mani!
Ma che è successo? chiede un altro signore.
Il signore occhialuto, a cui è stata rivolta la domanda, sempre tenendo il pallone sotto al
braccio, tace per qualche secondo per creare la necessaria suspense e poi dice:
Io ero andato a comprare questo pallone qua da Minale per mio nipote Filuccio ed avevo
lasciato la macchina aperta davanti al negozio...
Ma dico io: voi poi a piazza Mercato, lasciate la macchina aperta?
Ma santo Iddio, mica mi sono allontanato! La tenevo continuamente d’occhio! E poi per
fare presto ho anche chiesto alla signora qua presente, che stava in fila davanti alla cassa prima
di me, se cortesemente mi faceva pagare prima a me datosi che avevo la macchina aperta.
Sissignore ha detto proprio cosı̀. dice la signora. E proprio mentre stava pagando si è
accorto del mariuolo.
Come l’ho visto mi sono precipitato. Ho scostato la signora e...
Eh sı̀ mi avete scostato! Voi mi avete buttato per terra! Se non era per questo bravo
giovane che mi manteneva...
... ho scostato la signora, ho buttato via il pallone, mi sono lanciato addosso al mariuolo
e sono riuscito ad acchiapparlo pure per un piede. Ma quel figlio di puttana era diventato un
capitone: mi scappava da tutte le parti...
Mentre il signore è impegnato a raccontare per l’ennesima volta il fatto, intorno a lui si
fa improvvisamente un assoluto silenzio. La folla si apre per fare largo ad un ragazzino di
quattordici anni o poco più, il “mariuolo”, e ad un pezzo d’uomo alto un metro e ottanta che
lo accompagna tenendogli un braccio sulla spalla.
Dottò dice l’uomo con la voce calma del guappo riconosciuto il ragazzo durante l’incidente di prima ha perduto nella vostra macchina una catenina d’oro che teneva al collo. Quella
è un ricordo della buonanima della mamma. E aperta la macchina dottò?
Sı̀. risponde il signore.
Ciccı̀ vatt’o piglià a catenina c’o dottore non te dice niente
# 29 - Il sentiero di mezzo
Stasira li cimi di l’arbuli chi movinu la testa e li vrazza parlano d’amuri a la terra e io li
sentu. Sunnu li paroli di sempri chi vui scurdastivu cumpagni di viaggiu nudi e pilusi in transitu
dintra gaggi di ferru.
IGNAZIO BUTTITTA, 1968
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CAPITOLO 26. IL MISTERO
E cosı̀ sono finite pure le ferie mi dice il professore. Ora io non so se le capita pure a lei
ingegnere, ma uno qua non fa a tempo a desiderare che venga Natale che già si ritrova all’anno
venturo. Come se le giornate non fossero più quelle di una volta: tutte uguali, tutte fatte di
ventiquattro ore. Sembra quasi che ogni giornata sia un poco più corta di quella precedente,
magari, che so io, di un solo millesimo di secondo, però più corta. L’ipotesi dell’accelerazione
del tempo non è mia, ma di un certo de Sitter, un astronomo olandese che disse che i giorni
si accorciavano sempre di più perché l’universo era in fase di contrazione e non di espansione,
come invece sostengono la maggior parte degli altri scienziati. De Sitter ha detto pure che,
a forza di affrettare i suoi battiti e di contrarsi, l’universo un giorno sparirà completamente.
Intanto per quanto riguarda noi, qua l’altro giorno è sparito il dottor Vittorio e lei domani se
ne torna a Roma, cosicché a Napoli, come al solito, rimaniamo io, Luigino, Saverio e Salvatore.
Ingegnè a proposito, quando lei si accorge che sto parlando troppo, per favore, m’interrompa.
E sı̀, perché quello è il mio principale difetto: io parlo parlo e non do mai il tempo agli altri di
dire mezza parola. Il bello è che dopo mi viene pure il sospetto di non essere stato chiaro, cioè
di aver confuso le idee di quelli che mi stavano ascoltando e allora finisce che continuo a parlare
per poter riassumere... vorrei chiarire insomma... Prenda per esempio il discorso sull’amore e
sulla libertà, oppure la teoria del disprezzo del potere... tutti argomenti suscettibili di equivoco.
Ora succede che quando quello che mi ascolta non riesce a classificarmi secondo i suoi schemi
tradizionali, le cose allora per me si mettono male; e sissignore perché o passo per un nostalgico
menestrello di una Napoli inesistente, macchiettistica, cartolinara... o per uno speculatore, un
connivente del potere, un qualunquista strumentale. A nessuno che venga il sospetto che sotto
sotto possa esserci magari un messaggio cristiano! Eppure il problema è tutto lı̀: se vogliamo
vivere veramente questa nostra vita dobbiamo cercare di far funzionare la testa ed il cuore ed
incamminarci sul sentiero di mezzo. La ricetta poi, tutto sommato, è pure abbastanza facile da
ricordare: metà amore e metà libertà. Infatti nel mio schema come lei sicuramente ricorderà,
l’unica maniera per portarsi sul sentiero di mezzo era quella di pareggiare l’impulso di libertà
con un equivalente impulso d’amore. Ora io a volte mi domando: ma sono libero, o credo
di essere libero? Vuoi vedere che parlo, penso ed agisco proprio come gli altri vogliano che
io parli, pensi ed agisca? Generalmente il potere s’impone: o in maniera vistosa, come nel
caso di una dittatura, o in maniera sottile e cioè attraverso i condizionamenti. Ebbene essere
libero vuol dire essere sicuro di ragionare con il proprio cervello e di non lasciarsi influenzare
dalla propaganda. E non è semplice! Però, se uno cominciasse a diffidare dai comportamenti di
massa... se uno si rifiutasse di ripetere in coro nei cortei qualsiasi tipo di slogan a rima baciata...
se uno ogni qual volta che sta per comprare qualcosa prendesse l’abitudine di domandarsi: “ma
io poi questa cosa veramente la desidero?” oppure: “vuoi vedere che è il potere che ha deciso
che io adesso mi debbo comprare questa cosa?”... e allora forse riuscirebbe pure a trovare la
strada della libertà.
Ma poi chi è mai questo potere? Qualcuno pensa che sia il Capitale, qualcun altro l’America,
e chiaramente entrambi sbagliano di dimensioni. La CIA e le multinazionali sono solo dei piccoli
concentramenti di potere ma non sono il Potere. La verità è che siamo proprio noi i genitori del
potere. Noi stessi che col nostro desiderio di comandare mettiamo al mondo miliardi e miliardi
di molecole di potere fino a creare un mostro astratto, amorale ed immenso che si mette a vivere
al di fuori di noi. Come fermarlo? Come difenderci? Non è facile. E già perché il potere ha
iniziato la sua opera di plagio fin da quando eravamo ragazzi, per cui ad un certo punto, quando
la mente ha cominciato ad intravedere la verità, è successo che ci siamo svegliati e ci siamo
ritrovati seduti su di un treno in corsa: il treno delle nostre abitudini. Il week-end, la macchina,
gli oggetti che abbiamo comperato e che ormai dobbiamo difendere dai ladri, insomma tutte
quelle cose che noi chiamiamo il nostro tenore di vita e che c’impediscono di scendere dal treno.
Infine molti di noi su questo treno non stanno soli, ci stanno con la moglie, con i figli... e come
si fa a scendere dal treno in corsa insieme a tutta la famiglia? Fai conto, per esempio, che tua
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moglie consideri indispensabile fare la villeggiatura sulla costa Smeralda, oppure che tua figlia
voglia per forza il motorino, tu che fai? O li abbandoni al loro destino e ti butti dal treno,
oppure ti metti a fare gli straordinari per soddisfare i loro improrogabili desideri. Prima che
tutto questo succeda è allora necessario iniziare una guerra graduale contro il potere, “step by
step” come direbbe Kissinger. Senza farsene accorgere molto, uno incomincia a rifiutare una
carica oggi, una medaglia domani e cosı̀, di millimetro in millimetro, prende quota sull’asse
della libertà. La televisione fa Carosello? E tu ti volti da un’altra parte per non guardare.
Oggi è una giornata di sole? E tu te ne vai a piedi in ufficio e non prendi la macchina. In
parole povere, dal momento che i condizionamenti del potere agiscono sempre sulla massa è
anche abbastanza facile capire che cosa è che si deve evitare: si deve evitare la massa, o per
meglio dire, le abitudini della massa.
Il discorso non è razzista, perché se da una parte l’impulso alla libertà ti spinge ad evitare
la massa, dall’altra parte l’impulso all’amore ti porterà ad incontrarti con essa, però mai in
quanto massa, bensı̀ in quanto insieme di uomini, voglio dire di uomini diversi. E già perché
sia chiaro che la massa può essere considerata, a seconda che uno la vede con un’ottica di
potere o con una intenzione di amore-libertà, un essere solo, unico, con un milione di teste o
un milione di esseri diversi. Destra e Sinistra sono definizioni incomplete: quando ho a che
fare con qualcuno, l’unica cosa che m’interessa veramente di sapere è se mi trovo davanti ad
un collettivista o ad un individualista. Questo è importante! Alcuni pensano, per esempio, che
tutti gli uomini siano cattivi. Tommaso Hobbes è stato il loro profeta ed essi amano la dittatura.
Altri invece desiderano la democrazia perché sono convinti, come diceva Rousseau, che tutti gli
uomini siano nati buoni per natura e che sia stato il sistema in seguito a corromperli. Ebbene,
secondo me, la maggior parte degli uomini è, diciamo cosı̀, di animo buono e solo in un piccolo
gruppo di criminali prevale l’odio nel cuore. Un giorno forse concorderemo con Lorenz che la
violenza dipende da una secrezione dell’organismo e allora quel giorno risolveremo il problema
sostituendo semplicemente i cartelli con su scritto “Carcere Giudiziario” con altri cartelli su
cui avremo scritto “ospedale”. Per oggi il vero problema, a mio avviso, non è quello del
recupero dei malvagi, verso i quali comunque la società, clinicamente o giudiziariamente, dovrà
sempre difendersi, ma quello della coltivazione dei germogli di bontà nei cuori della maggioranza.
Insomma io dico che gli uomini non sono cattivi ma non sono neppure buonissimi: gli uomini
sono piccoli. Piccoli perché medi. Piccoli perché quasi sempre senza fede. Però tuttavia,
anche se in forma solo latente, c’è sempre dentro l’animo degli uomini un’enorme disponibilità
verso il mistero. Mai come in questo periodo hanno avuto fortuna nel mondo gli astrologi, i
cartomanti e gli stregoni! Chiunque abbia voglia di travestirsi da veggente troverà con irrisoria
facilità schiere di uomini e soprattutto di donne, analfabeti e laureati, assetati di conoscere in
anticipo il proprio futuro. La Chiesa non ha intuito questo immenso serbatoio potenziale di
disponibilità verso l’irrazionale, o per meglio dire, non è riuscita a sfruttarlo, facendo confluire
verso le proprie rinseccate pianure miliardi di metri cubi di fede. Eppure la Chiesa nel corso dei
secoli è riuscita sempre a cavarsela nelle situazioni più difficili, tirando fuori i santi giusti nei
momenti giusti. Oggi invece, malgrado un Giovanni XXIII, i suoi teologi continuano a discutere
intorno a un tavolo se la masturbazione sia o non sia da tollerare e non si accorgono che forse
basterebbe un gesto, un atto d’amore e di povertà, per trascinarsi dietro un immenso esercito di
disperati che non chiedono altro che credere. Ma santa pace di Dio, come può un cristiano del
1976 onestamente riconoscersi in un vescovo medioevale che gli chiede di accoppiarsi solo per
concepire? Ci rendiamo conto o no che con ogni probabilità, quando la nostra generazione sarà
sparita, gli unici a parlare ancora di sesso saranno soltanto loro i preti? Per favore siamo seri,
e quando vogliamo parlare di Cristo ricordiamoci che stiamo parlando soprattutto di carità.
Pascal diceva che per credere in Dio bastava desiderare ardentemente che Dio esistesse, e questo
è vero. Però Pascal amava solo Dio, misticamente, smisuratamente, ma solo Dio. Pascal non
amava gli uomini! Credere in Dio, cioè avere Fede, può rappresentare nella vita un’enorme
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CAPITOLO 26. IL MISTERO
risorsa personale, ma soltanto l’amore del prossimo è in grado di risolvere i nostri problemi
esistenziali e questo non per ottenere un premio nell’al di là, ma per dare un significato alla
nostra stessa esistenza.
Mia madre, ad esempio, visse con serenità tutti i problemi di una lunga vecchiaia, proprio
perché puntellata dalla fede e dall’amore verso gli altri. Aveva ottant’anni e si era costruito nella
sua cameretta un piccolissimo altare, in pratica una mensola di marmo ed un inginocchiatoio.
Di fronte, sul muro, aveva attaccato tutte le immaginette dei suoi santi preferiti, il cuore di Gesù
e quelli che lei chiamava “i miei morti”. Mia madre ogni giorno recitava centinaia di requiem per
le anime dei defunti. Ogni morto aveva la sua piccola fotografia e la sua razione di preghiere.
Negli ultimi tempi i morti schedati erano diventati moltissimi, e questo perché mammà non
si limitava a pregare solo per i defunti della nostra cerchia familiare, ma in pratica ogni qual
volta sapeva della morte di qualcuno che per qualche ragione le era caro, lei lo aggiungeva alla
schiera dei suoi affidati. Ricordo che aveva perfino le fotografie di Mario Riva e di Marilyn
Monroe. “Puverella”, diceva, “e che brutta fine c’ha fatto.” La mattina poi, tranne che negli
ultimi anni, aveva l’abitudine di andare in chiesa per farsi la comunione e, quando qualche
volta mi affacciavo al balcone, io la vedevo rimpicciolire mano mano che si allontanava lungo la
strada. La cosa più strana fu che mia madre diventò veramente sempre più piccola, voglio dire
più piccola di statura, come se pregando pregando si fosse quotidianamente e progressivamente
trasferita in quel suo minuscolo paradiso fatto di figurelle di santi e di morti sconosciuti. A volte
penso che mia madre non sia morta come tutti gli altri mortali, ma che sia soltanto sparita a
forza di rimpicciolire.
Io parlo d’amore, di Dio, di prossimo, e poi mi accorgo di essere un uomo di libertà. Questa
la mia incoerenza! Diciamo che vorrei amare. Mia moglie e mia figlia non mi capiscono: mi
guardano come se fossi un marziano, un animale esotico in un giardino zoologico. Probabilmente pensano che la vecchiaia mi abbia completamente rincoglionito e mi sopportano come si
sopporta un malato in famiglia. Diciamo che e come se possedessero una loro sicurezza di vita
basata sul fatto che per ogni cosa hanno sempre a portata di mano una regola precisa: questo
si fa, questo non si fa, quest’altro si deve fare per forza “se no pare brutto”. Eccola la frase
terribile che decide la maggior parte di tutte le azioni della nostra vita: “se no pare brutto!”.
Il problema del libero arbitrio non si pone nemmeno se messo a confronto con il “se no pare
brutto”. I regali obbligati, il lutto. La donna che deve sposarsi, la cravatta, gli auguri, le condoglianze, i distinti saluti, il pollo con la forchetta e il coltello, il pesce no, la moglie che deve
rimanere incinta... “se no pare brutto”. Ora secondo mia moglie io non dovrei ricevere in casa
Saverio e Salvatore e raramente Luigino “se no pare brutto”. Lei e il dottor Palluotto sı̀ perché
siete laureati. Mia moglie ha letto il Gattopardo, il Padrino e lo Squalo, confonde Chopin con
Schopenhauer, va in palestra per dimagrire ed al Cineforum per risparmiare. Quando vede una
stella cadere, il primo desiderio che le passa per la mente è quello di riuscire ad imparare il
bridge perché tutti sanno che è un gioco tanto per bene. Mia figlia invece si dichiara agnostica,
femminista e razionale, però se appena conosce un giovanotto che le piace, la prima cosa che gli
chiede è sotto quale segno è nato, e se quello risponde: “Leone” la senti dire: “Leone? Io avevo
capito subito!”. Io a mia figlia avevo messo un nome bellissimo: Aspasia, lo stesso dell’etera
di Pericle, una delle più belle ed intelligenti donne della storia, ma a lei il nome non è piaciuto. “Povera ragazza, ha detto la madre, ma che ti aveva fatto di male?” E adesso si chiama
Patrizia, insieme a qualche altro centinaio di migliaia di ragazze della sua età. Ieri Patrizia si
è comprata una borsa di tela di Fendi: “Vedi tutte queste F papà? La borsa è tutta firmata,
perciò costa di più”. Sono tutte fasi di una catena di eventi la cui logica finale è l’uniformità
dell’universo.
Ma facciamo l’ipotesi che Gesù volesse tornare di nuovo sulla terra. Come farebbe secondo
lei a raggiungere il cuore degli uomini? Che cosa dovrebbero fare gli apostoli per diffondere
il Verbo? Mettersi ai semafori e distribuire volantini come fanno i testimoni di Geova? Nos-
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signore, Gesù oggi, in un mondo superaffollato ed in continuo movimento, avrebbe una sola
speranza di essere ascoltato e cioè quella di comparire in televisione tra le 20.30 e le 21 di una
sera qualsiasi. E non sarebbe necessario nemmeno fare grandi miracoli: basterebbe una stazione pirata sufficientemente potente ed un paio di tecnici esperti. Anche perché con l’attuale
perfezione tecnologica raggiunta dai mezzi televisivi, nessuno sarebbe più in grado di distinguere tra un miracolo ed un trucco TV. Ma poi che cosa dovrebbe dire Gesù se avesse questa
opportunità? Incomincerebbe a parlare come nei Vangeli... direbbe: “Io che sono la Luce del
mondo... in verità vi dico...” poi si fermerebbe, guarderebbe con dolore tutti i telespettatori
seduti in poltrona e concluderebbe mormorando: “Beati coloro che credono senza vedere”... La
gente penserebbe ad un fatto pubblicitario oppure ad una cosa di Luca Ronconi. fine.