Anthony Giddens - Le politiche del cambiamento

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Anthony Giddens - Le politiche del cambiamento
Le politiche del cambiamento climatico: il tempo è scaduto
Una lectio magistralis di Anthony Giddens
Introduce Alberto Martinelli dell’Università degli Studi di Milano
Anthony Giddens interviene in videoconferenza
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Milano, Fondazione Pini – Giovedì 25 giugno ore 19.00
Anthony Giddens
Le politiche del cambiamento climatico: il tempo è scaduto
Traduzione di Francesca Cosi
Il tema fondamentale di questo mio intervento è che tutti noi – come individui, comunità, nazioni e
cittadini del mondo – dobbiamo fare uno sforzo supplementare per affrontare le minacce poste dal
cambiamento climatico. E per farlo abbiamo a disposizione un lasso di tempo limitato. Le profonde
trasformazioni del clima comportano dei rischi non solo per il nostro futuro più lontano, ma anche
per quello prossimo.
Quando sette o otto anni fa ho pubblicato la prima edizione del mio libro La politica del cambiamento climatico, molti erano ottimisti sul fatto che i paesi del mondo si sarebbero alleati tra loro
e avrebbero concordato e organizzato iniziative per ridurre le emissioni di anidride carbonica che
provocano il riscaldamento globale. Era l’epoca in cui il libro e il film di Al Gore, Una scomoda verità
(Paramount Pictures, 2006), si diffondevano in tutto il mondo raggiungendo milioni di persone, tanto
da valere a Gore un premio Nobel per il suo impegno. Nel 2009, sotto l’egida delle Nazioni Unite, si
è tenuto un importante incontro internazionale per cercare di raggiungere degli accordi globali sulla
limitazione delle emissioni di anidride carbonica. Era la quindicesima di queste conferenze (Cop 15),
ma di gran lunga la più vasta che si fosse mai tenuta. Vi hanno preso parte qualcosa come 115 leader
mondiali, compreso il presidente Obama e Hillary Clinton. Il luogo prescelto era in Europa: Copenaghen, una sede significativa in quanto l’Unione Europea si considerava capofila nell’elaborazione delle
politiche attive sul cambiamento climatico.
Gli attivisti di tutto il mondo si aspettavano che gli incontri di Copenaghen producessero una serie
di accordi vincolanti a livello internazionale. Il risultato, però, è stato una specie di fiasco. Purtroppo
non è stato raggiunto alcun accordo, e per di più la voragine che separava i paesi avanzati da quelli in
via di sviluppo si è allargata. All’ultimo minuto un gruppetto di capi di stato si è riunito per stilare un
breve documento, l’Accordo di Copenaghen, che alla fine è stato sottoscritto dalla maggior parte dei
paesi presenti alla conferenza. L’Unione Europea non era presente all’incontro nel quale è stato stilato
l’accordo, e questo ha gettato una grave ombra sul suo prestigio e la sua autorevolezza. Nel tempo,
l’Accordo ha avuto un impatto minimo, se non inesistente, sulle emissioni globali. Non solo tutte le
speranze riposte nella conferenza sono andate deluse, ma in seguito la situazione è ulteriormente peggiorata, proprio perché erano state investite tante energie emotive. I successivi incontri dell’Onu sono
passati in sordina e si sono dimostrati irrilevanti.
Che cosa è successo da allora? La climatologia ha fatto notevoli progressi. Abbiamo compreso più
a fondo i fattori che provocano il riscaldamento globale e le probabili conseguenze di quest’ultimo
(vedi per esempio Rockström et al., 2009). Gli ultimi studi della Nasa, l’agenzia spaziale americana,
che monitorano il livello di biossido di carbonio e di altri gas serra nell’atmosfera, dimostrano che
il 2014 è stato l’anno più caldo a livello globale dal 1880, quando ebbero inizio le misurazioni (Nasa,
2015). A parte il 1998, i dieci anni più caldi finora documentati si sono registrati tutti dal 2000 in poi.
È importante riconoscere che i metodi con cui misuriamo l’avanzare del cambiamento climatico sono
numerosi, non ne esiste uno solo. Il riscaldamento dell’atmosfera, per esempio, è l’indicatore citato più
spesso, ma la Nasa fornisce una ventina di indici diversi relativi ai mutamenti del clima globale, tra cui
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le misurazioni satellitari dallo spazio atmosferico, quelle dallo spazio extra atmosferico, i cambiamenti verificatisi nell’Artide (in particolare il riscaldamento degli oceani), lo scioglimento dei ghiacciai nel
mondo e l’acidificazione degli oceani.
Con ogni probabilità il riscaldamento globale provocherà un numero crescente di eventi atmosferici
estremi in tutto il mondo, tra cui il peggioramento della siccità in alcune zone e inondazioni e tempeste in altre. Tanto per fare un esempio, negli ultimi cinque anni la California è stata colpita da siccità
estrema, al punto che sta ancora affrontando una grave crisi idrica (Us Drought Monitor, 2014). Il
problema non è dovuto soltanto al cambiamento climatico, ma quasi certamente ne viene influenzato.
Anche in Australia e America Latina si è avuta una siccità duratura e su larga scala. Non è possibile
dimostrare in maniera definitiva che un particolare evento meteorologico sia il risultato del cambiamento climatico, ma dando un’occhiata alle statistiche è difficile non rendersi conto che gli eventi atmosferici estremi stanno diventando sempre più frequenti e gravi in tutto il mondo (vedi per esempio
Ipcc, 2013 e 2014). Un fatto importantissimo da riconoscere è che, per quanto ne sappiamo, il cambiamento climatico è irreversibile. A meno che non venga introdotta qualche innovazione tecnologica
che nessuno è in grado di prevedere, non c’è modo di espellere su larga scala i gas serra dall’atmosfera
una volta che vi sono entrati.
Le conseguenze più probabili del cambiamento climatico indotto dall’uomo possono variare enormemente a seconda di quanto sarà in grado di resistere il pianeta su cui viviamo. Su questo punto
ci sono teorie discordanti. Gli scettici del cambiamento climatico (quelli che dubitano persino che il
fenomeno sia in atto o che reputano minime le sue conseguenze) credono che la Terra sia resistente e
inattaccabile. Niente di ciò che possono fare gli esseri umani è in grado di influenzarla più di tanto.
Gli ambientalisti tendono a considerare gli ecosistemi terrestri intrinsecamente fragili e ritengono
che le attività umane li danneggino. Tuttavia, in merito a ciò che stiamo facendo alla Terra esiste una
terza ipotesi, ancora più allarmante, sostenuta da alcuni scienziati, secondo i quali la natura è come un
animale selvaggio. Noi esseri umani continuiamo a pungolarlo con il bastone e il risultato è che alla
fine reagirà in modo violento (vedi per esempio Broecker, 1987). Questa visione delle implicazioni del
cambiamento climatico è ancora più inquietante rispetto a quella del puro e semplice danno ecologico. Le politiche del cambiamento climatico si concentrano soprattutto sul contenimento del rischio. E
i rischi prefigurati dalla terza ipotesi devono essere presi sul serio.
Non dovremmo confondere rischio e incertezza. Quello che non è noto, sussistendo delle incertezze, è il reale livello di pericolo determinato dal cambiamento climatico. Le scoperte dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), che raccoglie i dati scientifici a intervalli di pochi anni, prevede diversi scenari (Ipcc, 2013; 2014). Alcuni di
questi evidenziano che l’impatto del cambiamento climatico potrebbe essere relativamente limitato,
se saremo fortunati oppure, ovviamente, se verranno prese misure concrete a livello globale per contenere le emissioni di carbonio. Tuttavia, è fondamentale comprendere come l’incertezza sia un’arma
a doppio taglio. L’impatto del cambiamento climatico potrebbe essere maggiore (cioè potrebbe essere
più pericoloso) di quanto creda attualmente la maggior parte della comunità scientifica. La scienza si
basa perlopiù sulla prudenza, quasi per definizione.
Gli esempi di condizioni meteorologiche estreme e del loro impatto sugli esseri umani illustrano
ampiamente la potenza assoluta della natura. Nel Pacifico sudoccidentale, a Vanuatu, si è recentemente abbattuto un ciclone con raffiche di vento a oltre 320 km/h, che ha spianato vaste aree dell’isola.
Quanto al futuro, assumendo un punto di vista ragionevolmente prudente si potrebbe sostenere che
l’umanità interferisce a proprio rischio e pericolo con una potenza simile. L’umanità nel suo complesso sta disturbando forze che incutono timore. Le conseguenze non ricadranno solo sulle prossime generazioni, ma si stanno già verificando, in una certa misura, anche nel presente. Le civiltà del
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passato non hanno mai vissuto eventi di portata simile a quella del cambiamento climatico indotto
dall’uomo. Nessuna società precedente ha neanche lontanamente agito sulla natura nel modo in cui
noi lo facciamo ogni giorno. Si potrebbe eccepire, come fanno oggi alcuni geologi, che la natura non
è più tale perché è completamente permeata dall’intervento e dalle attività dell’uomo. Siamo entrati
nell’era dell’antropocene.
E qui incontriamo un’apparente contraddizione. Se da un lato negli ultimi sette o otto anni la conoscenza scientifica si è consolidata e i rischi si sono fatti più evidenti, dall’altro l’opinione pubblica pare
essersi mossa nella direzione opposta, quantomeno nei paesi industrializzati. I sondaggi indicano che
la percezione della pericolosità del cambiamento climatico e della necessità, in un futuro prossimo, di
prendere provvedimenti per limitarlo si è spostata nella direzione contraria a quella delle principali
scoperte scientifiche (vedi per esempio Johnston e Deeming, 2015). In altre parole, sembra che la maggioranza dei cittadini si preoccupi dei pericoli legati al cambiamento climatico meno di quanto facesse
qualche anno fa. Come mai? La prima ragione, come sappiamo tutti, sta nel fatto che sono in gioco interessi enormi, soprattutto per quanto riguarda alcune compagnie produttrici di combustibili fossili.
Queste ultime si sono impegnate attivamente, almeno in certi paesi, in un’opera di disinformazione,
per cercare di attenuare la consapevolezza generale del rischio (vedi per esempio Frumhoff e Oreskes,
2015). Su questo punto esiste una forte somiglianza tra il cambiamento climatico e il fumo, dato che
l’industria del tabacco ha tentato a lungo di nascondere le conseguenze del tabagismo.
Il secondo motivo (a mio avviso più importante del primo) è appunto che le scoperte relative ai
pericoli del cambiamento climatico sono filtrate dalla scienza; per essere più precisi, dal lavoro di circa
10mila climatologi in tutto il mondo. Finora non è mai esistita una questione in cui la scienza abbia
avuto un ruolo così significativo e preminente nel policy-making globale. Io non sono un climatologo
ma, da studioso della politica del cambiamento climatico, conosco bene le basi della climatologia, sebbene non al livello di un professionista. Non è forse vero che gran parte del pubblico non specializzato
è ben lontana dalle scoperte della climatologia e della scienza? Non dovrebbe sorprendere, allora, che
gli scettici del cambiamento climatico, una percentuale minima dei climatologi professionisti, siano
in grado di esercitare un impatto notevole sull’opinione pubblica.
In terzo luogo, c’è un grave problema di free-riding. La Gran Bretagna contribuisce a meno del 2
per cento delle emissioni globali. Per quale motivo, si potrebbe obiettare (e c’è chi lo fa), questo paese
dovrebbe guidare la campagna contro il cambiamento climatico? Ogni nazione o gruppo di nazioni
potrebbe rifiutarsi di agire finché non lo faranno anche gli altri, il che è di fatto quanto è accaduto a
Copenaghen. La questione del free-riding è un grosso ostacolo per le politiche collettive sul cambiamento climatico, e non esiste un modo semplice per aggirarlo.
Infine, esistono problemi reali di sviluppo economico. I paesi ricchi sono responsabili della maggior parte delle emissioni di gas serra nell’atmosfera. La loro stessa opulenza è dovuta al fatto di avere
adottato i combustibili fossili e altre fonti di inquinamento climatico. Di conseguenza, dovrebbero
essere loro ad accollarsi quasi per intero il fardello di ridurre le emissioni, anche a costo di perdere
la propria posizione economica. I paesi più poveri dovrebbero avere le stesse opportunità di sviluppo
delle nazioni industrializzate. Ma, si potrebbe sostenere, la parte ricca del mondo non può perorare la
chiusura dei percorsi di sviluppo che lei stessa ha seguito per crescere.
Queste motivazioni sono certo molto forti e spiegano buona parte della paralisi che ha colpito le
politiche sul cambiamento climatico a livello mondiale. Tuttavia, come ho sostenuto nella Politica
del cambiamento climatico, la motivazione fondamentale dello scollamento fra le preoccupazioni del
grande pubblico e le scoperte scientifiche non è tra quelle citate. La ragione sta in quello che nel libro
ho presuntuosamente definito «paradosso di Giddens»: visto che nessuna generazione prima della
nostra si è mai dovuta confrontare con il problema del cambiamento climatico indotto dall’uomo,
nel momento in cui tale questione viene messa a confronto con le più svariate questioni mondiali,
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l’opinione pubblica fatica a considerarla un problema reale, figuriamoci urgente. Per i motivi già detti,
non conosciamo in anticipo il vero livello di rischio. Nelle situazioni di rischio già note, in genere, la
questione è molto diversa. Ogni volta che una persona sale in macchina, siamo in grado di prevedere
quante probabilità ci sono che rimanga coinvolta in un incidente. Con il cambiamento climatico, invece, non è possibile farlo, perché non possiamo attingere all’esperienza passata. Questo fenomeno è
caratterizzato dal concetto di «troppo tardi». Il paradosso sta nel fatto che, come umanità collettiva,
potremmo anche attendere finché il potenziale distruttivo del cambiamento climatico diventerà inconfutabile, ma, per definizione, a quel punto sarà troppo tardi, poiché – per quanto ne sappiamo al
momento – il cambiamento è irreversibile.
Nel dicembre di quest’anno si terrà un’altra riunione dell’organo delle Nazioni Unite per il cambiamento climatico. Sarà il ventesimo raduno annuale di questo genere (Cop 20). Per la prima volta
dai tempi di Copenaghen la conferenza si svolgerà in Europa, in questo caso a Parigi. Cercando di
anticipare l’opinione pubblica, come in effetti devono fare, e con le cicatrici di Copenaghen in parte
risanate, i leader politici cercheranno nuovamente di stipulare accordi internazionali vincolanti per la
riduzione delle emissioni. Al Gore è tornato alla ribalta e sta organizzando una serie di concerti e altri
eventi globali per portare qualche miliardo di persone nelle strade e fare pressione sui leader.
Quante probabilità ci sono di ottenere ciò che non è stato raggiunto a Copenaghen sei anni fa? Il
risultato potrebbe essere diverso, perché i principali attori non vorranno ripetere quella sconfitta e ne
conoscono bene le cause. I leader europei sono fin troppo coscienti dell’impotenza dimostrata l’ultima
volta, e non vorranno certo che la cosa si ripeta. Negli ultimi sei anni l’atteggiamento della leadership
cinese è notevolmente cambiato. Ai tempi del Cop 15, i cinesi erano molto cauti nel promettere di ridurre le emissioni. Da allora hanno mutato radicalmente posizione. Adesso ritengono il cambiamento
climatico pericoloso di per sé e lo collegano agli alti livelli di inquinamento atmosferico nel paese, che
per loro rappresentano una questione di enorme importanza. La giornalista Chai Jing ha prodotto
una serie di trasmissioni dal titolo Under the Dome (Jing, 2015), che documenta gli effetti del grave
inquinamento delle città cinesi sulla salute e su altri aspetti della vita. I video sono diventati virali su
Internet. Sebbene sia stato censurato dal governo cinese, i funzionari statali sanno fin troppo bene
quanto il problema sia serio. Le misure attuate per ridurre l’inquinamento diretto potrebbero, almeno
in linea di principio, accompagnarsi anche alla riduzione dei gas serra.
La spinta a trovare un’intesa è forte. Ma è irrealistico aspettarsi una svolta. Anche se verranno
raggiunti degli accordi, come è possibile, non c’è alcun meccanismo per renderli vincolanti. L’Onu
è relativamente debole, poiché non ha alcun potere legislativo, e non esiste alcun quadro normativo
efficace a livello internazionale. A questo punto abbiamo bisogno di un nuovo paradigma, che ritengo
debba comprendere quattro aspetti principali.
1. Il cambiamento climatico deve essere riconosciuto come una questione urgente, che rappresenta
un rischio qui e ora. Nella Politica del cambiamento climatico, come in gran parte delle analisi del
fenomeno, collocavo i rischi soprattutto nel futuro. Tuttavia, ciò che probabilmente accadrà nel
2030, 2040 o 2050 è troppo lontano per far leva sull’opinione pubblica. Inoltre, devo ammettere
che di fatto si tratta di una prospettiva sbagliata. Il motivo per cui il cambiamento climatico è una
questione attuale e urgente è che si sovrappone a una serie di altri rischi della società globale, e che
tali rischi rappresentano dei moltiplicatori. Fra questi c’è l’aumento della popolazione mondiale.
Nel 1850 sulla Terra c’era meno di un miliardo di persone, oggi ce ne sono più di sette miliardi e
il totale potrebbe raggiungere i dieci. Il mondo non ha mai dovuto accogliere un simile numero di
abitanti. Questo rischio si aggiunge a quelli provocati dal cambiamento climatico. Lo stesso vale
per la scarsità d’acqua e cibo, che è influenzata dal cambiamento climatico, ma ha anche motivazioni indipendenti, legate all’abuso di acqua in alcune zone e all’incapacità di altre di nutrire gli
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abitanti. Ciascuno di questi rischi si sovrappone alla possibilità che scoppino violenze e guerre.
Nel loro complesso, tali rischi sono allarmanti e immediati. La serie televisiva americana Years of
Living Dangerously (Showtime, 2014-2015) cerca di dimostrare che la siccità provocata dal cambiamento climatico è stata una causa rilevante della guerra civile siriana. Un simile insieme di fattori
sta emergendo in molte aree del mondo.
2. A prescindere da ciò che accadrà a Parigi quest’anno, probabilmente gli accordi bilaterali e regio-
nali saranno più importanti di qualunque accordo universale venga raggiunto in quella sede, e questo per diverse ragioni. Come ho già affermato, le Nazioni Unite sono deboli. Il mondo è dominato
da blocchi di potere, e cioè da grandi paesi e da raggruppamenti di grandi paesi. Ciò che faranno
gli Stati Uniti, la Cina, l’India, il Brasile e l’Unione Europea determinerà fino a che punto potranno
essere introdotte politiche reali invece che teoriche. Purtroppo, le azioni di ciascuno, e in particolare di grandi paesi in via di sviluppo come la Cina e l’India, potrebbero determinare il futuro del
clima globale e, di conseguenza, della nostra civiltà. Nel complesso questi paesi ospitano ben più
di metà della popolazione mondiale. Dalla conferenza di Parigi potrebbe scaturire un sistema per
riunire i grandi paesi. A quanto pare, la Cina sta collaborando con gli Stati Uniti, poiché ravvisa i
rischi del cambiamento climatico e il modo in cui si sovrappongono ai gravi problemi di inquinamento interni. L’attore cruciale del momento, tuttavia, è forse l’India, che continua a fare pressioni
per aumentare la produzione di carbone, anche se quest’ultimo è la fonte più incisiva di gas serra.
Se non si riesce a convincere l’India a unirsi agli altri attori principali sulla scena globale, la partita
potrebbe essere persa. In ogni caso, gli accordi bilaterali hanno un grande potenziale e potrebbero
esercitare un impatto notevole.
3. A livello globale occorre sfidare il potere delle imprese produttrici di combustibili fossili. Queste
compagnie – i produttori di carbone, petrolio e gas – hanno portato un notevole sviluppo economico in molte parti del mondo, ma sono una delle principali sorgenti delle emissioni che contribuiscono al cambiamento climatico. Finora le fonti energetiche rinnovabili hanno avuto un impatto
minimo sul livello di diffusione dei combustibili fossili. Nei decenni passati sembrava che, su scala
mondiale, le compagnie del settore fossero inflessibili. Sono così potenti e hanno un tale effetto di
inerzia – dovuto ai loro ingentissimi investimenti – che pareva impossibile cambiare di segno il
loro impatto sulla scena mondiale. Credevo che le cose stessero così, ma ho cambiato idea. Viviamo
in un’epoca di cambiamenti tecnologici drastici e globali, guidati dalla rivoluzione digitale: abbiamo la possibilità di cambiare le strutture consolidate e, in effetti, in alcune zone ciò è avvenuto più
in fretta e in maniera più ampia di quanto fosse mai accaduto prima. Quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per arrivare a 50 milioni di utenti. Per contro, il primo smartphone risale
a soli 15 anni fa (Wss, 2014). Oggi ne vengono usati circa due miliardi e mezzo in tutto il mondo,
e inoltre, per la prima volta nella storia dell’umanità, le tecnologie più avanzate sono arrivate nei
paesi poveri per via diretta. Molti paesi africani hanno potuto saltare l’intera epoca dello sviluppo
delle linee telefoniche fisse e andare dritti al sistema di telefonia mobile. È forse possibile fare lo
stesso con le tecnologie rinnovabili? Grazie ai progressi nella digitalizzazione può accadere che ampie zone dell’Africa e di altri paesi in via di sviluppo passino direttamente alle rinnovabili su vasta
scala, e che lo facciano con rapidità. Più o meno lo stesso principio si applica alla possibilità di avviare una campagna di disinvestimento globale (vedi per esempio Rusbridger, 2015). Le compagnie
produttrici di combustibili fossili sono inserite nel portafoglio titoli di numerosi fondi pensione.
In tutto il mondo sta crescendo l’impegno degli azionisti affinché tali fondi investano di più nelle
tecnologie rinnovabili.
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4. L’attivismo locale può avere un impatto globale immediato in modi prima impensabili. Oggi un
cinese che vive in Gran Bretagna può parlare tutti i giorni con i familiari in Cina tramite il proprio
dispositivo mobile, facilmente e quasi senza spesa. Probabilmente, persino pochi anni fa nessuno
lo avrebbe ritenuto lontanamente possibile. Si tratta di un fenomeno che cambia l’essenza dell’immigrazione e della mobilità. Lo stesso può succedere nel rapporto fra attivismo locale e regionale
e imperativi del cambiamento climatico, e ne abbiamo un esempio nelle città. Invece di lasciare
soltanto agli stati il compito di guidare i tentativi di limitare il cambiamento climatico, le città
potrebbero arrivare a ricoprire un ruolo significativo. Essendo in grado di organizzarsi in maniera dinamica, possono collaborare a livello mondiale, e in tempo reale. È possibile condividere le
conoscenze in tempo reale come mai prima d’ora. Vari gruppi di città, come il C40 Cities Leadership Group, che si sono costituiti per fungere da testa di ponte nella trasformazione necessaria a
combattere il cambiamento climatico. Le città producono una notevole quota di emissioni globali,
soprattutto nei paesi più poveri. Di fatto però si stanno verificando trasformazioni sorprendenti:
per esempio Città del Messico, una delle metropoli più inquinate del mondo, ha pianificato una
serie di iniziative per cercare di ridurre sia l’inquinamento che le emissioni locali, ottenendo un
successo straordinario in un periodo di tempo relativamente breve. Ciò che può essere fatto a Città
del Messico può essere fatto in molte altre città di tutto il mondo, in linea di principio. Allo stesso
modo, i gruppi di attivisti locali, che grazie alla rivoluzione digitale possono fare rete in maniera
immediata, sono in grado di esercitare un impatto più globale che mai, e questo impatto potrà poi
ripercuotersi a livello locale.
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Bibliografia
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C40 Cities Leadership Group, informazioni disponibili in Internet: http://www.c40.org.
Frumhoff Peter C. e Oreskes Naomi, «Fossil fuel firms are still bankrolling climate denial lobby groups», in The
Guardian, 25 marzo 2015, disponibile in Internet: http://www.theguardian.com/environment/2015/mar/25/
fossil-fuel-firms-are-still-bankrolling-climate-denial-lobby-groups, e profilo di Naomi Oreskes scaricabile
qui: http://www.theguardian.com/profile/naomi-oreskes.
Giddens Anthony, La politica del cambiamento climatico, trad. di Giuseppe Barile, il Saggiatore, Milano 2015.
Ipcc (2013): «Sintesi per i Decisori Politici. Contributo del gruppo di lavoro al Quinto rapporto di valutazione
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www.ipcc.ch.
Jing Chai, Puntata 1 di 8 di Under The Dome, Documentary on China’s Pollution by Chai Jing, 2015, visibile qui:
https://www.youtube.com/watch?v=MhIZ50HKIp0 (sottotitolato in inglese).
Johnston Ron e Deeming Chris, «British political values, attitudes to climate change, and travel behaviour», in
Policy & Politics, 2015, articolo breve ma circostanziato acquistabile qui: http://dx.doi.org/10.1332/03055731
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Nasa, Nasa Goddard Institute for Space Studies, «NASA, NOAA Find 2014 Warmest Year in Modern Record», in
Research News, 16 gennaio 2015, disponibile in Internet: http://www.giss.nasa.gov/research/news/20150116/.
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16 marzo 2015 disponibile in Internet http://www.theguardian.com/environment/2015/mar/16/argumentdivesting-fossil-fuels-overwhelming-climate-change (per un profilo di Alan Rusbridger: http://www.theguardian.com/profile/alanrusbridger).
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2014, disponibile in Internet: http://www.strategyanalytics.com/default.aspx?mod=reportabstractviewer
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Years of Living Dangerously (documentario televisivo in nove puntate), Showtime, Cbs Corporation, 2014-15.
Sito ufficiale: http://www.sho.com/sho/years-of-living-dangerously/hom
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