Trent`anni sono passati da quell`ormai lontano anno
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Trent`anni sono passati da quell`ormai lontano anno
Titolo: SALTO NEL FUTURO Nota: questo testo fa seguito alla conferenza organizzata dal RFI sul tema “Innovazione Ritmo”, tenutasi il 15 marzo 2008 presso il Museo dell’Automobile Bonfanti-Vimar di Romano d’Ezzelino (VI) Gli anni Settanta segnano, nell’industria dell’automobile, un punto di svolta: non tanto per quanto riguarda l’auto in sé, quanto invece perché cambia il modo di concepirla e produrla. In altre parole è l’impostazione della fabbrica a subire una mutazione generazionale, perché s’inizia ad impiegare il braccio meccanico del robot al posto di quello umano. Questa rivoluzione si concretizzò con l’avvento della Ritmo, che esordì nel 1978. Era frutto di un progetto attorno al quale si era cominciato a lavorare nel 1972, quando ancora la 128, lanciata solo tre anni prima, era nel pieno del successo. Per quale ragione, allora, già si pensava alla sua sostituta? La domanda è ancor più lecita se si pensa che questo modello rimase in listino (sia pur prodotto in Polonia) fino al 1985, affiancando la Ritmo per sette lunghi anni. La risposta è duplice: da un lato l’azienda non si può fermare, pena la perdita di competitività. Dall’altro l’evoluzione subita dai processi produttivi a catena, finalizzati a produrre di più a minor costo, imponeva una riflessione. Si era passati da una fase pionieristica, durata fin dopo l’ultima guerra mondiale, nella quale la motivazione delle maestranze a fare bene il proprio lavoro era fornita principalmente dalla partecipazione alla creazione di ciascuna nuova auto che usciva dalla fabbrica. L’organizzazione del lavoro era tale per cui l’abilità di ciascun operaio rivestiva importanza, in particolare di quelli addetti alle macchine utensili. “Metterci del proprio” per produrre meglio, era ciò che distingueva il bravo operaio e lo faceva diventare qualificato, con tutta una serie di benefici sul piano economico e professionale. In più, a questo, si aggiungeva un altro motivo di soddisfazione: il riconoscimento del proprio operato da parte dei superiori, perfino da parte dello stesso prof. Vittorio Valletta (presidente ed amministratore delegato) che era solito premiare personalmente gli anziani della Fiat. Non da ultimo lavorare in Fiat significava garantirsi un posto sicuro e remunerato meglio di qualunque altra azienda meccanica nella penisola. Il procedere dell’automazione, la parcellizzazione del lavoro secondo il concetto ben noto di Taylor e l’avvento di una catena di produzione finalizzata al montaggio del singolo modello, aveva progressivamente ridimensionato l’apporto umano all’esecuzione di operazioni semplici e ripetitive, con riduzione delle capacità tecniche e professionali medie richieste per l’espletamento delle proprie mansioni. Ecco allora che la soddisfazione che derivava dall’aver eseguito il proprio lavoro meglio di altri, dove cioè si riconosceva l’apporto dell’individualità, veniva in parte a mancare, con conseguente demotivazione che finì con l’indurre l’alienazione da lavoro. Era questo un aspetto attorno al quale discutevano figure più o meno professionali, dagli esperti del lavoro agli psicologi, dagli opinionisti televisivi ai sindacalisti, a volte con toni animati. L’alienazione non è una malattia fisica, ma semplicemente significa estraneità, che si traduce nell’eseguire macchinalmente un’operazione mentre il pensiero vaga altrove, con la conseguenza di non riconoscersi più in ciò che si produce. Bisognava, insomma, ripensare il modo stesso di produrre l’automobile, argomento che fu oggetto in tutto il mondo di studi e interventi volti a motivare le persone, fornendo loro un maggiore coinvolgimento e lo stimolo a mettere in atto suggerimenti mirati a migliorare il processo produttivo e il prodotto. Ma non è, con questo, che di punto in bianco si potesse stravolgere la catena di montaggio, pena produrre a costi insopportabili per il mercato. Qualche intervento tampone era stato fatto, in Scandinavia presso la Volvo e anche presso la stessa Fiat, ma aveva il sapore del pannicello caldo. Da noi, poi, si sommava un fattore dirompente, stravolgente, assurdo per molti versi: una conflittualità fine a sé stessa all’interno della fabbrica, che, partita inizialmente con l’intento positivo di elevare i salari e migliorare le condizioni di lavoro, finì con l’essere oggetto di ben altre mire dirette a destabilizzare la proprietà stessa dell’azienda. L’azione sindacale finì con il perdere il fine sociale per diventare strumento di un’ideologia che sfociò nelle Brigate Rosse e nei movimenti eversivi. Il clima si fece irrespirabile non solo per le intimidazioni rivolte verso chi non aderiva alle azioni predisposte, ma anche per l’oggettiva difficoltà di lavorare in un ambiente in cui taluni soggetti avevano studiato molto bene le debolezze della catena di montaggio, e sapevano in qualsiasi momento dove e come mettere in atto improvvise e limitate astensioni dal lavoro (al di fuori degli scioperi ufficialmente proclamati) che di fatto paralizzavano la produzione. Se proviamo a sommare tutte queste situazioni, si possono meglio comprendere le ragioni che spinsero i vertici aziendali a dare una decisa sterzata verso l’introduzione dei robot. Per far questo occorreva però ripensare completamente l’automobile, perché la mano dell’uomo può, ad esempio, avvitare una vite dentro spazi angusti, oppure effettuare movimenti e contorcimenti complessi in modi diversissimi tra loro, tutte cose proibite al braccio meccanico per quanti controlli elettronici potesse avere. Per farlo funzionare occorreva predisporre le cose in modo studiato, in maniera che il robot potesse ripetere le operazioni in modo programmato. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi. Di qui l’esigenza del nuovo modello, la Ritmo, che fu progettata per essere montata con il “robogate”, un’attrezzatura studiata e prodotta dalla Comau (società del gruppo Fiat). La sua introduzione permetteva di rinnovare gli impianti di saldatura e verniciatura, con miglioramento dell’ambiente di lavoro e della qualità di produzione. Il robot, infatti, salda e vernicia sempre nello stesso modo. E la 128? Era stata, prima dell’avvento della Ritmo, oggetto di un restyling che non solo ne aveva rilanciato le vendite, ma la poneva tra i modelli più venduti. Godeva inoltre di solida reputazione per l’economia di gestione, per l’affidabilità e la robustezza. Tradotto tutto questo dal punto di vista dell’ufficio commerciale, non c’erano ragioni per sostituirla a breve termine. In altre parole bisognava non solo progettare una nuova vettura in funzione del robogate, ma doveva essere completamente diversa dalla 128, per presentare qualcosa di talmente nuovo ed avanzato da far capire anche ai clienti più affezionati alla 128 (e alle sue concorrenti) che era stato compiuto un deciso salto in avanti. Che, in altre parole, la nuova Ritmo non era semplicemente un modello con le lamiere piegate in modo diverso. Mettiamoci ora nei panni dell’ufficio progetti Fiat. Avete davanti a voi un foglio bianco: cosa ci disegnate sopra? La domanda serve a far capire che è facile criticare a posteriori quando le cose si toccano con mano, ma è molto più difficile fare quando ancora non esiste nulla. E fare non vuol dire tracciare solo belle linee come farebbe un qualsiasi “creativo”, ma disegnare qualcosa che possa essere prodotto con razionalità, utilizzando le tecnologie disponibili e restando nel budget assegnato. Come insegnano i maestri del design industriale. Nella definizione della carrozzeria fu coinvolto per la prima volta anche l’Ufficio Marketing, che orientò il design verso una forma a due volumi con portellone, dato che si percepiva con sempre maggiore chiarezza che quello sarebbe stato il futuro delle berline appartenenti al segmento nel quale si sarebbe collocata la Ritmo. Era di moda in quel periodo criticare la Fiat per le linee troppo conservatrici delle sue vetture, con chiaro riferimento, nel segmento, alla linea a tre volumi della 128. Che però aveva già di suo rivoluzionato lo schema meccanico, con la trazione anteriore e il motore trasversale. Se, accanto a questo, fosse stata adottata in aggiunta una linea a due volumi, forse, con troppa carne al fuoco, l’eccellente accoglienza della clientela (abituata alla linea tranquillizzante e allo schema meccanico tradizionale della 1100 R) non sarebbe stata altrettanto entusiastica. I dirigenti Fiat questi conti li sapevano fare molto bene. Vuoi mettere, però, (pensavano quelli del marketing) quanto sono bravi gli stranieri con le loro due volumi a trazione anteriore? Il riferimento era alla Volkswagen Golf, che però (nota bene) non era stata disegnata in Germania, ma era frutto della geniale matita di Giorgetto Giugiaro. E così la Ritmo nacque a due volumi. Altri suggerimenti del marketing furono filtrati dall’Ufficio Stile, che non accettò, ad esempio, la forma quadrata dei fari a favore di più tradizionali gruppi ottici circolari. Detto questo, nel progetto Ritmo c’erano altre novità poco visibili, ma che erano frutto di anni di studi e di sperimentazioni da parte del Centro Ricerche Fiat. E coinvolgevano i materiali, le tecniche di formazione dei particolari e le esperienze maturate nella lotta contro la corrosione. Poi c’era il Centro Sicurezza Fiat di Orbassano (inaugurato nel 1976 alla presenza, fra gli altri, di Luca Cordero di Montezemolo) che forniva preziosi elementi ai progettisti sul corretto disegno e calcolo delle singole parti al fine di migliorare la sicurezza passiva. Attenzione però: le esperienze in materia di sicurezza in Fiat non erano una novità. In precedenza erano effettuate presso il Laboratorio Sicurezza Fiat, che già nella seconda metà degli anni ’60 era tra i più avanzati al mondo. Il nuovo Centro Sicurezza fu costruito proprio per dedicare ulteriore spazio e sofisticate attrezzature a un tema che è sempre stato tenuto in considerazione in Fiat. Tant’è vero che la Ritmo superò brillantemente i più severi crash-test al mondo che si facevano in California. Altre vetture, europee e giapponesi, non poterono fregiarsi di tanto riconoscimento. Nella Ritmo, insomma, confluì un processo evolutivo che portò a tecniche che fecero scuola. La scocca della Ritmo, ad esempio, fu progettata con l’ausilio del computer, che la Fiat fu tra i primi a promuovere come strumento di calcolo. Con la Ritmo fu impiegata la plastica come elemento strutturale, rivoluzionando lo stile dell’auto. Per mezzo della plastica stampata ad iniezione, o con altre tecnologie sviluppate e messa a punto in Fiat, si possono creare geometrie non ottenibili altrettanto facilmente con l’acciaio. E dimensionando il tutto in modo corretto, scegliendo i polimeri idonei, si ottengono risultati interessanti anche in termini di resistenza. I paraurti della Ritmo (un misto di polipropilene ed elastomero in proporzione 80%-20%) assorbivano urti fino a 6 km/h senza danneggiarsi. Se colpiti, flettevano e ritornavano nella posizione originaria senza subire deformazioni permanenti. La dichiarazione della Fiat poteva sembrare addirittura riduttiva, alla luce delle prove effettuate a suo tempo dal mensile Quattroruote, il quale constatò che la velocità dell’urto poteva crescere fino a 9 km/h prima d’innescare qualche lieve danno permanente. Quella dichiarazione della Fiat, tuttavia, teneva conto che i materiali plastici presentano un invecchiamento nel tempo che ne fa decadere, in una qualche misura, le proprietà meccaniche. Questo fenomeno fu tenuto in debito conto: di qui la scelta. In più, in un solo colpo, con i nuovi paraurti si formava tutta la parte frontale e posteriore della vettura, risparmiando componenti e assemblaggi di parti diverse. A tutti gli altri costruttori non restò che prendere atto del passo avanti fatto dalla Fiat e cominciare a correre per recuperare il gap tecnologico che si era creato. Un famoso costruttore europeo disse: “Le nostre auto non monteranno mai paraurti di plastica”. Come sono andate le cose si è visto dopo. Naturalmente ogni nuova tecnologia ha i suoi limiti. I primi paraurti di plastica, ad esempio, non erano verniciabili. O meglio: c’era chi, pur avvertito, tentava l’esperimento e verniciava il paraurti della Ritmo in colore vettura. All’inizio tutto filava liscio, salvo, poco tempo dopo, vedere la vernice che si squamava e veniva via a croste. Con il tempo l’azione dei raggi ultravioletti della luce solare, combinata con i cicli termici di dilatazione e contrazione del materiale, i residui oleosi e il sale cosparso d’inverno sulle strade, provocavano la depigmentazione della plastica, con formazione di chiazze biancastre sulla superficie del paraurti (marezzature) dovute in parte all’affiorare della fibra di vetro. Analoga sorte, pur con effetti minori, subiva la plancia, anch’essa di plastica. Furono problemi che fu possibile quantificare e risolvere solo con l’esperienza diretta sul prodotto, che la Fiat fu la prima a fare per il fatto che fu la prima a partire. Con la plastica si era risolto anche un altro problema: le tracce di ruggine che si formavano sulle parte inferiori della vettura, in particolare nella zona di lamiera sotto ai paraurti e sul bordo del cofano, dovute alla proiezione di brecciolino da parte dei veicoli che precedevano o ai sassi proiettati dalle stesse ruote del veicolo. E dove non c’era la plastica ci pensava la lamiera zincrometal (allora la migliore), impiegata nelle zone più sensibili, a prevenire la formazione della ruggine. Salvo...indesiderati interventi in linea di montaggio, del tipo appoggiare il guanto sporco di grasso sulla lamiera prima dei trattamenti anticorrosione. Se il robogate era una novità che non riguardava direttamente l’automobilista, la plastica e il nuovo e moderno disegno della carrozzeria erano invece il messaggio visibile del progresso. Che si estrinsecava anche attraverso i singoli componenti, come i pulsanti sul cruscotto di nuova concezione, l’orologio digitale con cifre rosse luminose, il volante con corona rivestita di materiale anallergico (questa era una primizia) e una dotazione di accessori da far invidia ad un’ammiraglia. Che comprendeva, solo per citarne qualcuno, l’aria condizionata, il tettuccio apribile e il cambio automatico. La linea, inoltre, presentava temi innovativi come le studiate asimmetrie del frontale, visibili nella presa d’aria in plastica per l’abitacolo spostata sul lato destro del cofano e nelle feritoie praticate sul paraurti anteriore, la cui ampiezza era maggiore sul lato sinistro. Anche il marchio Fiat non era collocato come da tradizione al centro della calandra, ma si trovava sul bordo del cofano a destra. Altro elemento di distinzione era il contrasto tra elementi squadrati e spigolosi (lo specchietto esterno, il taglio laterale del paraurti e le cornici dei finestrini) con altri di forma rotonda, quali i fari e le maniglie porta. Originali erano i cerchi, perché i due motivi verniciati di nero della versione CL spezzavano la simmetria centrale tipica di tutti i cerchioni di normale produzione. L’interno si caratterizzava per i pannelli porta di plastica senza rivestimento. Erano pratici perchè facilmente lavabili, ma diedero adito a qualche critica per l’impressione di eccessiva semplicità. E qui avevano ragione gli opinionisti in quanto, nelle serie successive, furono migliorati con inserti in stoffa che rendevano più accogliente l’abitacolo. Per il resto nulla da eccepire: i sedili erano ben conformati e rivestiti con materiali di qualità, con appoggiatesta e cinture di sicurezza ottenibili a richiesta. Il pratico portellone ampliava, rispetto alla 128, le possibilità di carico, con in più l’opzione di avere il sedile posteriore con schienale sdoppiato e ribaltabile. Nel confronto con le concorrenti la Ritmo condivideva con l’Alfa Romeo Alfasud il primato di essere la vettura che meglio ottimizzava il compromesso tra prestazioni, consumi e prezzo d’acquisto. Volta e gira erano proprio le cose che un acquirente guardava per prime quando sceglieva una nuova automobile. L’Alfasud prevaleva su tutte per prestazioni, pur mantenendosi sobria nei consumi. La Ritmo aveva dalla sua i consumi più bassi: si avvaleva in ciò delle esperienze maturate in Fiat con la 128, cosa che in tempi di crisi energetica era un argomento forte. Figlia di un periodo sociale buio, la Ritmo fu per il mondo dell’automobile come il bucaneve che annuncia, sullo sfondo del brullo paesaggio invernale, l’arrivo della primavera. E anche dopo anni dal lancio, quando l’esperienza dei clienti sul prodotto aveva originato dati e numeri, la Ritmo conobbe un importante riconoscimento internazionale. Le fu attribuito dagli Svedesi nel 1984, da sempre sensibili all’argomento solidità e sicurezza: l’ente "AB Svensk Bilprovning”, che si occupava per conto dello Stato di sicurezza stradale e di revisione delle auto, constatò che la Ritmo non aveva fatto registrare alcun difetto strutturale o di componenti fondamentali come freni e sterzo. La sua linea e le soluzioni tecniche adottate indicarono la via maestra che tutti avrebbero seguito negli anni a venire. I primati che la Fiat acquisì con questo modello fanno della Ritmo un’auto che merita considerazione da parte degli appassionati. Non sarà prestigiosa come un’ammiraglia di lusso, non sarà desiderata come una supersportiva dalla linea mozzafiato e dalle prestazioni estreme, ma ha segnato per l’industria e per l’automobile un progresso tangibile, molto più di tante auto “di moda” nel mondo del collezionismo. FINE