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Prima edizione Tsunami Edizioni, aprile 2014 - Gli Uragani 16
Tsunami Edizioni è un marchio registrato di A.SE.FI. Editoriale Srl
In copertina: Eremos, di Marco Castagnetto.
L’artwork è disponibile come poster esclusivo da Argonauta Records, www.argonautarecords.com
Stampato nel mese di aprile 2014 da Arti Grafiche La Moderna - Roma
ISBN: 978-88-96131-62-6
Tutti i diritti riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, in qualsiasi formato senza
l’autorizzazione scritta dell’Editore.
La presente opera di saggistica è pubblicata con lo scopo di rappresentare un’analisi critica, rivolta
alla promozione di autori ed opere di ingegno, che si avvale del diritto di citazione. Pertanto tutte le
immagini e i testi sono riprodotti con finalità scientifiche, ovvero di illustrazione, argomentazione
e supporto delle tesi sostenute dall’autore.
Nell’impossibilità di risalire agli aventi diritto delle fotografie pubblicate, l’Editore si dichiara disponibile a sanare ogni eventuale controversia.
EUGENIO CRIPPA - FILIPPO PAGANI
Stagioni
Luna
Le
della
GLI OPETH
DAL DEATH AL PROG
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INDICE
MARTELLATE DI RICORDI di Filippo Pagani....................................................7
ADVENT ’ZINE & OTHER STORIES di Eugenio Crippa..................................11
Capitolo 1 MADE IN SWEDEN..................................................................... 17
Capitolo 2 LE ORIGINI DEGLI OPETH.......................................................... 27
Capitolo 3 ORCHID......................................................................................... 55
Capitolo 4 MORNINGRISE..............................................................................69
Capitolo 5 MY ARMS, YOUR HEARSE..........................................................93
Capitolo 6 STILL LIFE.................................................................................... 113
Capitolo 7 BLACKWATER PARK................................................................. 131
Capitolo 8 DELIVERANCE & DAMNATION.............................................. 155
Capitolo 9 GHOST REVERIES...................................................................... 193
Capitolo10 WATERSHED.............................................................................. 217
Capitolo11 HERITAGE................................................................................... 259
Capitolo12 EPILOGO (WORK IN PROGRESS...)......................................... 311
Appendice EREDI E SODALI........................................................................ 335
RINGRAZIAMENTI........................................................................................... 348
FONTI................................................................................................................. 350
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MARTELLATE
DI RICORDI
di Filippo Pagani
Q
UESTO LIBRO NON RACCONTA SOLTANTO LA STORIA DI UN NOTO GRUPPO SCAN-
dinavo.
Come nei migliori romanzi d’appendice, o nei best-seller d’altri tempi,
tra le sue righe si cela - niente meno - la storia di un’amicizia, nata nell’autunno del 2000 nel capoluogo lombardo, nei paraggi della stazione Centrale.
L’occasione, quasi inutile precisarlo, un live show: la sera del tredici
novembre il minuscolo Tunnel, discoteca saltuariamente adibita a saletta
concerti, accolse i The Gathering, all’epoca non ancora vedovi dell’ugola seducente della valchiria Anneke. Mentre io e la piccola folla attendevamo
che i musicisti comparissero sul palco, un tizio alle mie spalle testò la sua
macchina fotografica flashando in pieno un mio vecchio compare.
A concerto terminato, quel guizzo inaspettato costituì per l’imberbe fotografo, tale Eugenio Crippa, il pretesto ideale per ‘scroccarmi’ un passaggio
in auto verso casa, in area brianzola.
L’ovatta rimbombava nelle orecchie, le note del concerto al quale avevamo
appena assistito erano lungi dallo spegnersi, ma le impressioni di novembre
scivolavano di bocca con una facilità impressionante, in un rituale ping-pong
dialettico che i morbosi fruitori di musica ripetono a cadenza quasi giornaliera. Per due giovincelli di provincia come noi, l’aver condiviso uno show
per pochi intimi non era il solo collante. Oltre a subire entrambi l’indescrivibile fascino della cantante olandese, scoprimmo ben presto di avere altro in
comune. Vi era anche lo spirito esplorativo, quella specie di impulso un po’
sottocutaneo e un po’ viscerale che preme affinché vi sia sempre nuovo cibo
per nutrire la mente, così da costruire attorno alla fantasia e al privatissimo
parterre di emozioni delle dimore sonore sempre più cangianti e suggestive.
La passione e l’interesse nei confronti di un quartetto allora semi-sconosciuto, incensato dal magazine Grind Zone e originario del Nord Europa, le
cui ultime due lettere del nome generano spesso confusioni circa la corretta
pronuncia fonetica, non tardò a manifestarsi. E ha quasi dell’incredibile che
sia io con ‘Morningrise’ nel ’96 che lui con ‘Still Life’ nel ’99 li scoprimmo
nei dintorni del nostro diciottesimo compleanno: una maturità musicale
sopraggiunta esattamente nel medesimo giorno di quella anagrafica.
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Dopo alcune settimane di ambientamento, vale a dire di numerosi passaggi sotto il lettore ottico dell’impianto hi-fi, privarsi di quelle orgiastiche melodie, anche per una manciata di giorni, equivaleva per entrambi al
peggiore dei supplizi - secondo solo alla privazione del cibo, dell’acqua, del
whisky e del sonno. A proposito di sonno: il tempo dedicatogli tendeva a ridursi. Al suo posto subentravano le veglie condite da lunghe telefonate, ove
spesso il discernimento della musica degli Opeth prendeva il sopravvento su
qualsiasi altro argomento. Ciò accadeva in particolare per ‘Blackwater Park’,
licenziato una manciata di mesi dopo, nel marzo 2001.
L’avvicinamento a ciascuno degli album degli Opeth già pubblicati - e,
in seguito, a quelli futuri - è sempre proceduto a tappe, con smisurata pazienza e una curiosità degna dei fanciulli in un negozio di giocattoli.
Io ed Eugenio vorremmo affermare che un simile approccio sia stato adottato con la massima naturalezza, peculiarità del cromosoma di due
esploratori che detestano arrestarsi alle apparenze (quasi un diritto, in un
paese culturalmente degradato come l’Italia degli ultimi due decenni) prima
di formulare giudizi.
Vorremmo, sì, e lo affermiamo. Perché, tutto sommato, è così. Ma solo
in parte.
Una buona metà della questione risiede nel cromosoma opethiano: qualunque opera discografica da loro concepita e partorita ha connaturata in
sé la capacità di stimolare gli ascoltatori, di adularli, tale da far emergere lo
spirito di indagine che si addice ai detective impegnati nella caccia al tesoro.
Se tali sentori non vengono percepiti, è assai probabile che nello sfortunato uditore si evinca la cosiddetta “emotività sorda”, e pertanto non si
meriti cotanta bellezza.
Avanzando di ascolto in ascolto - pragmatico, emotivo, approfondito e
con cuffie poggiate sui padiglioni auricolari - il quadro generale presentava
tinte maggiormente definite, nuance e silhouette più marcate, dettagli e piccolezze che soltanto un’estrema cura, una equivalente razione di indulgenza
e soprattutto moltissima serietà nel lavoro di “fruizione” possono garantire.
Non certo il pugno che ti sfonda il torace, che tanto dolore procura in
un lampo e poco meno rapidamente si defila, lasciandoti col ricordo di una
scarica di adrenalina che il tempo appannerà.
Non certo un amplesso fonografico da una notte e via!
Quello che il timoniere Mikael Åkerfeldt e i suoi vari partner in organico hanno proposto sino al 2000 - ed oggi seguitano a offrire con pentecostale passione - è un brivido modulato e costante, che si deposita nelle viscere,
nell’ipotalamo, fino a calcificarsi.
Pronto a rinnovarsi ad ogni inserimento di un loro disco nel vano che
accoglie il CD.
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Anno dopo anno abbiamo assistito a decine di concerti degli Opeth,
sparsi in mezza Europa, in qualità di supporter come di headliner, in cornici
individuali e festivaliere, in guisa elettrica e anche deliziosamente acustica.
Siamo diventati dei volti conosciuti per le pupille dell’eternamente disponibile Åkerfeldt, che con non mancava mai, incombenze permettendo,
di salutarci e scambiare aneddoti e storielle.
Eugenio, vulcano di progetti ed energie, in piena era di espansione internettiana decise di tuffarsi nell’ormai anacronistico quanto magico mondo
delle fanzine. Redigere, occuparsi dell’apparato iconografico, della stampa e
dell’impaginazione senza alcun aiuto esterno sembra un lavoraccio; eppure
il risultato, Advent ’Zine - di cui vi racconterà lui stesso nell’immediato sprizza competenza anche nella scelta della carta e delle graffette utilizzate.
Io, invece, stanco del giornalismo scialbo e pilotato che ha tenuto a battesimo il mio ingresso nell’informazione cartacea su larga scala, accantonai
la cronaca multicolore dei quotidiani in favore della critica musicale, decisamente più libera e creativa, sdoganata da qualsiasi forma di qualunquismo
imperante altrove.
Da semplice comprimario a normale redattore, da vice a caporedattore.
Otto anni di appassionata cronistoria hard‘n’heavy presso lo storico magazine Metal Hammer non si cancelleranno mai.
Ma al pari di molte testate che lo hanno preceduto e di altre che lo seguiranno, Metal Hammer ha esalato il respiro definitivo alle porte del 2013,
vittima incolpevole di una crisi economica e di valori che sotto le Alpi pare
inarrestabile. Il taglio secco è preferibile alla lenta agonia.
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Filippo Pagani (in alto) ed Eugenio Crippa (sotto),
il 17 febbraio 2003 al Transilvania Live di Milano in
compagnia di Martin Lopez.
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ADVENT ’ZINE &
OTHER STORIES
di Eugenio Crippa
R
EGOLE NON SCRITTE SOSTENGONO CHE SIA VIETATO L’USO DELLA PRIMA PERSONA
in un qualsivoglia articolo. Ogni derivato dell’espressione basica “ritengo che” è bandito: questo è quanto mi insegnarono la prima volta che scrissi
la recensione di un disco, per una delle tante webzine scomparse poi nel nulla; si trattava di Heavy Metal Portal, in seguito denominata con l’acronimo
HMP. Passato pochi mesi dopo a kronic.it - chiusa sul finire del 2009 ma
ancora consultabile in ogni suo articolo - la solfa non cambiò, anzi le regole
si fecero ancor più rigide, e tali dovrebbero restare per il ben più nobile
supporto cartaceo.
Ma non c’è regola senza dovute eccezioni. E non sarebbe possibile parlare in altro modo di una piccola rivista autoprodotta in formato A5, denominata Advent ’Zine, che sopravvisse per cinque uscite stampate in proprio
in poco meno di tre anni.
L’idea nacque grazie alla spinta di un amico abruzzese, tale Fabio
D’Amico, che era in principio intenzionato a fondare un fan club vero e
proprio dedicato alla band di Mikael Åkerfeldt. Scelse lui l’appellativo Advent, che io poi affibbiai al magazine. L’ispirazione veniva direttamente da
un’altra fanzine del medesimo formato, Carbon Nation, dedicata ai Porcupine Tree e a tutto ciò che ruotava intorno al mondo di Steven Wilson.
Interno in bianco e nero e copertina a colori.
Nel 2005 gestivo un blog sulla piattaforma splinder dedicato, guarda
caso, agli Opeth. Grazie ai suggerimenti di Fabio e a quel blog recuperai
due backstage pass per il Wacken Open Air di quell’estate, dove, tra gli altri,
erano attesi su uno dei due palchi principali i Bloodbath: primo concerto di
sempre, immortalato sul CD/DVD ‘The Wacken Carnage’, con un Martin
Axenrot alla batteria che pochi giorni dopo avrebbe suonato il suo primo
concerto con gli Opeth allo Sziget Festival (Budapest, Ungheria) e Dan
Swanö in qualità di chitarrista. In fila per la signing session, chiesi a Mikael se
sarebbe stato possibile incontrarlo più tardi nel backstage; ma il pomeriggio
e la sera trascorsero senza che Åkerfeldt si fosse fatto vivo in alcun modo.
Il mio compagno di viaggio era furente, mentre cercavo di tranquillizzarlo
spiegandogli che in fondo nessun musicista era tenuto a palesarsi su nostra
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richiesta. Alle due di notte
circa, terminati i concerti della
giornata, tornammo nell’area
backstage e - sorpresa! - i Bloodbath erano tutti lì, davanti a
noi, alcuni già ubriachi, Mikael compreso, mentre sorreggeva un boccale di birra da due
litri pieno a metà. C’era anche
Nathalie Lorichs in veste di
accompagnatrice del fidanzato Axe.
Misi immediatamente in
funzione il registratore tascabile che mi ero appositamente portato appresso, e fu registrata così un’intervista che sarebbe poi finita sul primo numero
di Advent ’Zine. Fu quella la prima volta che sentii parlare di un progetto
che avrebbe coinvolto, insieme al mastermind degli Opeth, anche Steven
Wilson, Mike Portnoy, Devin Townsend e Tony Levin! A conclusione della
chiacchierata, chiesi a Mikael a quale indirizzo avrei potuto spedire il prodotto finito, al ché lui rispose scrivendo personalmente il suo indirizzo di
casa sul mio bloc-notes, previa promessa che non l’avrei divulgato a nessuno.
Rispettai i patti, e l’autunno successivo fu trascorso a scrivere e impaginare le sessanta pagine della ’zine, metà delle quali occupate dalla minuziosa
analisi dei testi di ‘Ghost Reveries’ e dalle traduzioni dei session diary e delle
note biografiche estrapolate dal sito ufficiale.
Ma nessuna copia della fanzine fu mai spedita al domicilio svedese di
Åkerfeldt, poiché le occasioni d’incontro non mancarono. Il tredici dicembre 2005, infatti, gli Opeth suonarono al Rolling Stone (R.I.P.) di Milano
coi Burst di supporto. L’aprile successivo li vidi sul palco del Close-Up Festival, a Stoccolma, ma il secondo numero della fanzine uscì solo il mese
dopo: non c’era un disco nuovo di cui parlare, perciò ripartii dalle origini
con ‘Orchid’, infarcendo le pagine di recensioni - col prezioso contributo di
Matthias Scheller, autorità nel campo del rock progressivo italiano, e non
solo - e col racconto della trasferta tedesca al seguito del tour Porcupine
Tree/Anathema.
Nel dicembre 2006 la terza uscita della fanzine fu preparata per il ritorno
degli Opeth in Italia. Si gelava, quel quindici dicembre di fronte alla vecchia
incarnazione del Live Club di Trezzo Sull’Adda, un capannone industriale di fronte all’autostrada Milano-Bergamo. Seguii Filippo nel backstage,
dove lui intervistò Mikael per un successivo numero di Metal Hammer. Di
fronte a me Peter Lindgren dialogava con la fidanzata al computer: nessuno
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immaginava che quella sarebbe stata l’ultima occasione in cui lo si sarebbe
visto in seno alla band.
La copia della ‘zine che consegnai a Mikael quella sera proseguiva
cronologicamente con l’analisi di ‘Morningrise’, con un’intervista via mail
strappata ad Anders Nordin, storico batterista intercettato tramite il forum
ufficiale della band, ed un’altra conversazione che Filippo aveva appuntato il
primo giugno precedente, quando gli Opeth suonarono all’Idroscalo meneghino nella cornice del Gods of Metal.
Pur con gli Opeth in temporaneo stand-by (Lindgren avrebbe annunciato la sua dipartita dal gruppo pochi mesi dopo), l’occasione non mancò
per incontrare nuovamente Micke quale semplice ospite del primo Melloboat, un festival che si teneva a bordo di una nave da crociera sul Mar Baltico. Concerti di un’ora ciascuno, dalle venti di sabato alle quattro di domenica
mattina, più una coda conclusiva il successivo pomeriggio, poco prima del
rientro a Stoccolma. Intervista di rito, a cui si aggiunse una seconda conversazione con Mr. David Isberg in persona, contattato tramite MySpace e
incontrato la sera antecedente il festival in un pub nel centro della capitale
svedese. Questo materiale confluì nelle pagine della quarta release fanzinara,
incentrata sul concept-album ‘My Arms, Your Hearse’, con condimento di
recensioni, retrospettiva sui leggendari Mefisto ed una speciale analisi del
libro fresco di stampa ‘Swedish Death Metal’, consegnatomi brevi manu dal
suo autore, anch’egli presente sulla nave.
La prima metà del 2008 fu intensa come poche. Nel mese di marzo si
tenne la seconda edizione del Melloboat, stavolta con gli Opeth protagonisti insieme a Katatonia, Comus, Anekdoten, Trettioåriga Kriget e altri, e
con Steven Wilson e Lee Dorrian (proprio lui, il Cathedral-man!) ospiti
d’eccezione. Allo scambio di opinioni tenutosi durante l’evento si aggiunse
quello del primo aprile presso il Rock‘n’Roll di Milano. ‘Watershed’ era già
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***
Advent ’Zine fu un prodotto che volli fortemente imbastire poiché ritenevo adatto all’attento ascoltatore degli Opeth, cercando di distoglierlo
dalle disattenzioni della Rete. Ebbe un suo piccolo successo all’inizio, grazie
anche ad un sito, adventzine.it, tramite il quale alcuni fedeli lettori ordinavano la propria copia non appena se ne dava notizia.
Non solo Internet, ma anche gli impegni personali presero poi il sopravvento. Diedi però al progetto un’ultima chance quando, grazie all’invito di
Filippo, insieme ad un altro nostro amico comune volammo nuovamente
in Svezia a fine maggio 2011 per varcare, il primo giugno, le soglie degli
Atlantis Studios. Accolti come amici di vecchia data, ascoltammo in anteprima assoluta ‘Heritage’, con quasi quattro mesi di anticipo sulla data di
pubblicazione, in compagnia di altri selezionati giornalisti e fotografi della
stampa internazionale. Una giornata quasi surreale, di cui ricordo perfettamente l’espressione di Filippo durante il secondo ascolto di ‘Häxprocess’, a
sottintendere una specie di ‘accidenti che classe!’.
Non mancava nessuno: Chris Dick in persona, conoscenza di vecchia
data di Mikael e oggi ‘penna digitale’ della rivista Decibel, aveva affrontato
un volo transoceanico per poter presenziare. E c’erano anche i due manager
della situazione, Andy Farrow ed il giovane olandese Jasper Schuurmans.
Non appena chiesi a Mike se Travis Smith si sarebbe nuovamente occupato dell’artwork, qualcuno - presumibilmente la moglie dello stesso Åkerfeldt - rese nota l’illustrazione di copertina di ‘Heritage’ tramite facebook.
Ma le domande si fermarono sostanzialmente lì: ogni intervista era rigorosamente schedulata, e né in quel frangente, né quando a novembre gli
Opeth suonarono coi Pain of Salvation un’unica data italiana all’Alcatraz
di Milano, vi fu occasione di approfondire alcun discorso faccia a faccia con
l’indiscusso leader del gruppo. Discorso diverso per Filippo, che in qualità di
esponente della carta stampata a divulgazione nazionale, ebbe la possibilità
di discutere parecchie questioni rimaste in sospeso.
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argomento di discussione quel giorno, insieme all’amato progressive rock
nostrano a cui la rivista Metal Hammer dedicò un apposito speciale redatto,
guarda caso, da Filippo. Con due interviste e un esteso report della Melloexperience realizzai infine il quinto e ultimo numero di Advent ’Zine, incentrato sull’allora nuovo di zecca ‘Watershed’, e la consegna personale di
quell’ennesimo parto avvenne nel mese di luglio, di nuovo presso l’Idroscalo,
dove si tenne un’edizione di due giorni dell’Evolution Festival, ricordata
ancor oggi per la violentissima grandinata che costrinse gli headliner In
Flames ad annullare il concerto.
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Advent ’Zine, pur costituendo un capitolo ormai chiuso - e indubbiamente custodito gelosamente in qualche cassetto dagli appassionati che se
ne procurarono una copia all’epoca - fu in conclusione fondamentale anche
per la realizzazione di questo libro. Tra i regolari acquirenti, nonché attuali
amicizie, vi fu infatti anche Stefania Renzetti, traduttrice per Tsunami Edizioni. Anche lei diresse una fanzine negli anni ’90, Savage Garden, quando
quell’affascinante formato ancora spopolava in mezzo mondo; non è un caso
quindi che nella primavera dello scorso anno (2013), quando la Tsunami
decise di avviare l’operazione Opeth, la scelta sia ricaduta sul sottoscritto e,
nell’immediato, sul mio compagno d’avventura Filippo Pagani.
Nella fremente attesa di una nuova observation da parte dei cinque svedesi, queste pagine pongono un ideale sigillo su anni costellati di viaggi,
concerti, amicizie e sfrenate ricerche discografiche, all’insegna dell’unica ossessione ‘buona’ che esista, quella ravvivata costantemente dall’amore per la
musica.
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Capitolo 2
LE ORIGINI
DEGLI OPETH
AMICI D’INFANZIA E UNA VECCHIA SIGNORA
S
TOCCOLMA, CAPITALE SVEDESE, NEI PRIMI ANNI ’80 È MOLTO DIFFERENTE NON
nell’aspetto, ma nell’anima, dalla città odierna, meta perenne di visitatori da ogni angolo del globo grazie al fenomeno del turismo low-cost.
Ma al di là dei consueti punti di attrazione offerti dalla città e concentrati
nell’isolotto centrale di Gamla Stan, un agglomerato di vicoli stretti e pittoreschi in cui oggi pullulano pub e negozietti pieni fino all’orlo di souvenir, Stoccolma si estende per centinaia di chilometri quadrati in sobborghi,
nuclei abitativi sempre più immersi nel verde man mano che ci si distanzia
dal centro città.
Queste aree oggi, rispetto a qualche decennio fa, nonostante siano relativamente vicine al fulcro metropolitano e raggiungibili in pochi minuti
tramite l’efficiente rete di mezzi pubblici dell’ergonomica metropoli, hanno
risentito in minima parte della “globalizzazione”, e tutt’ora nella loro essenzialità paiono quasi un mondo a sé stante rispetto alla vicina e caotica vita
del nocciolo cittadino. Provare per credere.
In tale contesto di agglomerati condominiali eretti a fianco di piccoli
laghi e sontuose foreste - queste ultime attraversate da linee autostradali e
tramviarie di cui si avvertono costantemente i rumori in sottofondo - tante
semplici realtà familiari convivono e si frequentano sconfinando di rado dai
contorni del quartiere di appartenenza e di una vita semplice e di routine,
divisa tra il lavoro ed il puro sostentamento dei propri pargoli.
In dette circostanze crescono e si conoscono i giovanissimi Mikael Åkerfeldt, svedese purosangue, e Anders Nordin, di origini brasiliane e
adottato da una famiglia locale. Due vicini di casa che nel corso degli anni
scopriranno di condividere una passione tanto banale quanto fondamentale:
la musica.
Il loro sobborgo, denominato Huddinge, è uno degli ultimi a sud-ovest
di Stoccolma, e confina con un’estesa foresta tramite una minuscola area urbana; a questi luoghi pregni di memorie l’adulto Åkerfeldt resterà legato per
sempre; lo sarà, in particolare, nei confronti di una piccola area immacolata il
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cui nome i più stretti appassionati degli Opeth hanno già incontrato nel loro
percorso di esplorazione musicale: Sörskogen. Questo toponimo verrà infatti
utilizzato da Mikael per un estemporaneo progetto solista, di cui esiste un
unico brano realizzato con la complicità di Dan Swanö - personaggio unico,
indubbiamente noto ai più e di cui presto parleremo - e che non ha mai avuto
alcun seguito. È, inoltre, sui ripidi pendii delle colline di Sörskogen che si
alterneranno diverse sessioni fotografiche degli Opeth, in primis l’istantanea
che ritrae le sagome dell’allora quartetto disposto di fronte ad un tramonto
violaceo, utilizzata nel ’95 sul retro-copertina dell’esordio, ‘Orchid’.
Cresciuto in una famiglia i cui interessi musicali rispondevano principalmente ai nomi di Elvis Presley, Tommy Steele e Cliff Richard & The
Shadows, il giovanissimo Åkerfeldt riceve in dono la sua prima chitarra
classica non dai genitori, come spesso capita, ma dalla nonna. È lei la più
propositiva nei confronti del beneamato nipote: lo sostiene tanto da suonare insieme a lui, registrando i loro primi duetti alla sei corde e facendoli
ascoltare orgogliosa al resto del parentado. Per questo motivo Mikael sarà
sempre grato alla persona che, con tale insistenza, lo spinse precocemente
a dedicarsi alla musica. Pur giovanissimo - sette/otto anni - gradisce invece
poco il doversi accontentare inizialmente dei suoni acustici della sua Levin,
al punto da disegnare sulla cassa del legnaceo strumento le manopole del
volume e dei toni tipiche di una consorella elettrica. Neanche a farlo apposta, tra i primissimi riff appresi e memorizzati c’è quello immortale, quanto
immediato e semplicissimo, di ‘Smoke on the Water’ dei Deep Purple destinati a divenire col tempo una delle principali influenze di Mikael - e
‘House of the Rising Sun’ degli Animals.
In pratica: tutto ciò che si era in grado di assimilare tramite canzonieri,
radio e televisione.
Nel 1982 esce il classico dell’hard‘n’heavy ‘The Number of the Beast’,
terzo platter siglato Iron Maiden.
“Avevo otto o nove anni quando entrai per la prima volta in un negozio di
dischi. Mio padre voleva comprarmi un LP. Io scelsi ‘The Number of the Beast’,
che era appena stato pubblicato. Tutti i miei amici a scuola ascoltavano heavy
metal. Non appena mi esposi al genere, vi rimasi incollato. Mi piaceva in ogni
suo aspetto: il vigore della musica, il look dei musicisti e l’immaginario orrorifico.
Come Eddie, la mascotte degli Iron Maiden. I film horror mi angosciavano, preferivo volgere il mio sguardo verso l’artwork dei vinili”.
Il 1987 è l’anno di un’ulteriore svolta, l’arrivo del primo rudimentale
armamentario musicale elettrico, costituito da una sei-corde da discount e
da un mini-amplificatore Marshall da 12 Watt. A questa conquista si aggiunge il primo gruppo musicale: gli Eruption, fondati insieme all’amico
d’infanzia Anders Nordin, che disponeva di un modesto drum-kit montato
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nel garage di casa; gli altri due componenti, rispettivamente alla chitarra e
al basso, sono Nick Döring e Jocke Horney, quest’ultimo subito sostituito
da Stephan Claesberg.
L’esperienza degli Eruption prosegue per circa tre anni, durante i quali i
quattro novelli teenager si limiteranno a suonare insieme senza alcun vincolo o proposito, né aspettativa. È puro istinto e rabbia adolescenziale quello
che li spinge, sostanzialmente, a rumoreggiare furiosamente tra le quattro
ristrette mura di isolati scantinati a sud di Stoccolma. Venom e Bathory, coloro che negli anni ’80 cesellarono in note e spirito la vera essenza del black
metal, unitamente a Death, Possessed e Morbid Angel, che troviamo in
cima alla definizione di death metal, vengono ripresi a man bassa e suonati
finché l’imbrunire e le capacità tecniche lo consentono.
Tra il marasma sonoro che rimbomba nei seminterrati periferici della
capitale spuntano così i primi germogli originali, puntualmente registrati
su cassetta in presa diretta con i più grossolani tape-recorder che si possano
immaginare; i titoli sono, come si suol dire, tutto un programma: ‘Abandon
Life’, ‘Walls of Dwell’, ‘Obedient Souls’, ‘Condemned to Hell’, ‘Procreation
of Maledictions’, ‘Sarcastic Reign’.
DAVID ISBERG E IL CONCEPIMENTO ‘ESOTICO’ DEGLI OPETH
N
EL FRATTEMPO, IN UN’AREA A NORD DELL’AGGLOMERATO URBANO DENOMINA-
ta Täby, il giovane David Isberg, classe 1975, segue sostanzialmente
il medesimo percorso musicale, sui passi del thrash/death metal. Come il
futuro presto decreterà, al contrario di Mikael, Isberg rimarrà decisamente
poco ricettivo nei confronti di quel rock progressivo che invece aprirà occhi,
orecchie e prospettive al suo prossimo compagno d’avventure.
La sua primigenia creatura si chiama Procreation, ma gode di un’esistenza decisamente breve. Fondati nel 1989 da Isberg con lo pseudonimo
di Unholy Emperor e da un’ancora acerbo ed ovviamente giovanissimo
Christopher Johansson - a.k.a. Necro, futuro chitarrista e leader dei Therion - lasciano ai posteri due demotape, ‘Procreation of the Antichrist’ (1990) ed ‘Enter the Land of the Dark Forgotten Souls of Eternity’
(1991), ed altrettanti concerti, il secondo dei quali si terrà in occasione
del sedicesimo compleanno di Isberg (il ventirè febbraio 1991), a supporto degli appena sorti Therion. E sono proprio vari musicisti del combo
capeggiato da Johansson a rendere possibile sul palco la gig dei Procreation, la cui line-up, sostanzialmente formata da un duo, era perennemente impossibilitata ad esibirsi dal vivo se non in occasioni speciali come
quest’ultima.
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David Isberg: voce, arrangiamenti, guida concettuale e spirituale;
Richard Nilsson: batteria;
Dan Nilsson: chitarra;
Micke Bargstörm: chitarra solista.
David traccia anche il logo del gruppo, costruito sulla base di antichi
caratteri gotici e con una croce rovesciata in corrispondenza della lettera “p”.
Esso diventerà il primo trademark della band, arrivando a figurare su alcuni
flyer e su una manciata di t-shirt oggi pressoché introvabili.
Nell’autunno 1990 la Mark I dei neonati Opeth, dopo alcuni mesi di
attività altalenante, è ancora alla ricerca di un bassista. Coincidenza vuole
che Åkerfeldt abbia nel frattempo sciolto gli Eruption. Sarà l’ingrediente
musicale a unire i due in una solida amicizia, dopo che per diverso tempo si
erano osservati a distanza. Conosciutisi circa quattro anni prima sul campo
di calcio della selezione ‘pulcini’ della Sörskogen IF, non ci misero molto a
riconoscersi anche come appassionati di skateboard e compagni di scuola.
I gusti di Isberg puntano verso le sonorità estreme - e talvolta innovative, per l’epoca - di Mercyful Fate, Possessed, Celtic Frost, Mayhem ed affini,
ed in qualche modo andranno ad influenzare un Mikael che aveva appena
scoperto i più classici (ed orecchiabili, se paragonati ai precedenti nomi)
Iron Maiden, Kiss e Judas Priest.
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Nella primavera del 1990, David accompagna i genitori in viaggio di
nozze in Thailandia, presso la rinomata isola di Phuket. In quel contesto
esotico, immerso nella lettura del libro ‘L’Uccello del Sole’ di Wilbur Smith,
si imbatterà in Opet, la Città della Luna, villaggio sperduto fondato in Sudafrica da una civiltà fenicia ed al centro delle indagini di un archeologo,
protagonista del romanzo.
Potrà indubbiamente sembrare strano che in un ambiente per certi versi
‘magico’ ed affascinante quale quello thailandese prendano forma sia l’idea
di creare un collettivo dedito al metal poco ortodosso, che il relativo nome.
Tuttavia, ad un’indagine approfondita, non lo è affatto. A tal riguardo, lo
stesso Isberg affermerà diversi anni dopo che “la Thailandia è un ottimo posto
per dei comportamenti malvagi. Dato che la nazione adotta una religione in cui
non sono ben definiti i confini del bene e del male, è il luogo perfetto per profanare! Circondati da peccatori quali prostitute e giocatori d’azzardo, è inevitabile
trarne ispirazione”.
La decisione è dunque presa: il nome della futura band più malvagia al
mondo sarà Opeth. Una volta rientrato in Svezia, Isberg non perde tempo
nel radunare a sé i restanti membri della primissima formazione, che risulta
quindi, per stessa dichiarazione del fondatore, essere la seguente:
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I due si vedono quindi in un bar nel centro
di Stoccolma durante un’uggiosa giornata di
ottobre e Mikael, alla richiesta del suo interlocutore di entrare a far parte della sua band,
seppur in veste di bassista e non di chitarrista,
accetta di buon grado, sugli unici presupposti dati dalla perfetta commistione tra nome
e logo del gruppo. Ma l’imprevisto è dietro
l’angolo: gli altri membri della band si presentano in sala prove con un nuovo bassista per
gli Opeth! Un imbarazzatissimo Mikael non
osa pronunciarsi né muovere dito, mentre assiste immobile alla furente lite che si scatena
tra David e gli altri: al termine della giornata,
il verdetto decreta i soli Mikael e David proseguire l’avventura a nome Opeth, abbandonando ad un lento ed inesorabile oblio il resto
della line-up, che si rinnova sotto il moniker Crowley e realizza nel febbraio
1991 un demo su cassetta intitolato ‘The Gate’. Non è sufficiente, però, avvalersi delle rinomate strutture dei Sunlight Studios di Tomas Skogsberg
per farsi un nome, in una scena death svedese già straripante di gruppi.
I Crowley, difatti, spariscono immediatamente nel nulla senza pubblicare
niente di vagamente ascoltabile o decente, mentre i due superstiti sotto il
vessillo degli Opeth non si perdono d’animo: il loro unico desiderio è scrivere canzoni e suonare, ispirandosi ai loro idoli.
BUT LIFE GOES ON
V
A TENUTO PRESENTE CHE I PROTAGONISTI DI QUESTE VICENDE SONO DEI RAGAZ-
zini ancora minorenni, per i quali la musica era perlopiù uno sfogo o un passatempo con cui ingannare dei tediosi e, per la maggior parte
dell’anno, gelidi pomeriggi. Nulla per il momento ha mai avuto il sapore di
qualcosa di realmente tangibile, che potesse anche solo dare la sensazione di
superare il mero piacere di ritrovarsi ad imbracciare uno strumento musicale. Distrazioni chiamate videogiochi, smartphone o internet non esistevano
affatto, come non vi era quasi occasione per uscire dai confini del sobborgo
in cui si viveva; ogni sera era necessario rincasare ed addormentarsi presto,
per poi tornare a scuola la mattina seguente, specialmente durante i subpolari inverni scandinavi che notoriamente offrono pochissime ore di luce
ogni giorno.
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ALLA RICERCA DI UN’IDENTITÀ
M
ENTRE UNA LUNGA LISTA DI GRUPPI ASSUME SEMPRE PIÙ UNA CONFORMAZIO-
ne ed un atteggiamento serio e professionale, i neonati Opeth ancora faticano a trovare un’identità ed la giusta strada per emergere dall’ano-
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È David il più delle volte a partire dalla periferia nord di Stoccolma per
raggiungere Mikael a Sörskogen, dall’altra parte della città: nello stanzino di
un piccolo appartamento di Taggsvampsvägen, i due si scambiano idee, condividono ascolti e suonano con quel poco che hanno a disposizione, percuotendo dei cuscini disposti sul letto come fossero i pezzi di un’ipotetica batteria.
“Ai tempi, io ero più o meno influenzato dall’occulto - ricorda Mikael - anche se
non in maniera troppo seria. Musicalmente mi ero buttato nello scrivere riff che
suonassero il più possibile contorti, oscuri e malvagi. I testi scritti da me e da David
erano puri inni satanici! I primi due brani scritti furono ‘Requiem of Lost Souls’ e
‘Mystique of the Baphomet’ (in seguito ribattezzati rispettivamente ‘Mark of the
Damned’ e ‘Forest of October’). Necessitavamo comunque di completare la line-up.
Chiedemmo ad Anders (Nordin) di unirsi a noi e lo fece immediatamente, e a Nick
(Döring) di diventare il nostro bassista. Infine Andreas Dimeo fu reclutato come
secondo chitarrista. Non molto tempo dopo David ci procurò una data ad una delle
molte serate death metal che a quei tempi imperversavano a Stoccolma. Le nostre
prove si tenevano in una scuola elementare, e ci si avvaleva unicamente di una
strumentazione Anni ’60 che si trovava lì. Il concerto si tenne nel febbraio 1991 con tutta probabilità presso il The Cage di Sundbyberg, una manciata di chilometri
a nord della capitale - insieme a Therion, Excruciate e Authorise. Avevamo provato
tre canzoni, ma ne suonammo solo due. A conti fatti, si trattò indiscutibilmente della peggior performance a cui uno potesse assistere. Eravamo così fottutamente nervosi che non desideravamo altro se non annullare la nostra esibizione e rincasare”.
I Therion, seppur anch’essi giovanissimi, hanno già alle spalle la pubblicazione di ben tre demo - se si escludono i veri e propri esordi a nome
Blitzkrieg e Mega­therion - prodotti nel biennio 1989-90. Il loro esordio
discografico, ‘Of Darkness...’, raccoglie principalmente brani già editi nei
demotape diffusi pochi mesi prima, ed esce in un periodo cruciale nella
storia del metal estremo, seppur in ritardo di alcune settimane rispetto a
‘Dark Recollections’ dei Carnage di Michael Amott e John Liiva (futuri
Arch Enemy), ‘Left Hand Path’ degli Entombed e ‘Sumerian Cry’ dei Tiamat, rientra di diritto tra i dischi simbolo dello swedish death metal sulfureo
e brutale della ‘costa est’, contrapposto a quello melodico e più tecnico della
‘scena ovest’ di Göteborg, città rivolta verso il Mare del Nord e che dista
circa cinquecento chilometri da Stoccolma.
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nimato; se qualcuno li conosceva nell’ambiente underground, era più per il
passaparola che per l’aver effettivamente ascoltato i loro brani, registrati in
maniera del tutto primitiva su dei rehearsal tapes talvolta consegnati nelle
mani degli amici più stretti o di compagni di scuola.
Tra il febbraio e l’aprile 1991 gli Opeth sono un trio, composto da David Isberg, Mikael Åkerfeldt e Anders Nordin, che di lì a poco hanno nuovamente necessità di rinfoltire la formazione. Il pretesto lo fornisce David:
sfruttando le sue amicizie tra le fila dei Therion, è riuscito a procurare agli
Opeth una seconda data, questa volta presso il Blå Fågeln a Göteborg. E
un organico a tre, orfano per giunta di due strumentisti, è troppo risicato
per adempiere un compito simile! È più l’istinto che la ragione a spingere
Isberg a dire immediatamente sì ad una proposta che, sul momento, giudica
tanto allettante quanto imperdibile; pertanto, a soli venti giorni dal death
gala - come riportato in cima alla locandina dell’evento - che li attende, il
terzetto è costretto a recuperare un bassista ed un secondo chitarrista. Tre
giorni prima del fatidico ventisette aprile, data prevista per il concerto, il
forfait è quasi sicuro: nessun musicista è stato ancora trovato, la line-up non
è cresciuta. Ma la fortuna, si sa, aiuta gli audaci, e decide che quando i ragazzi dei Crimson Cat, la band con cui gli Opeth condividono la sala prove,
chiedono di rispettare i turni e di lasciargli il posto, il chitarrista Kim Petterson ed il bassista Johan DeFarfalla dimostrino un particolare interesse per la
musica dei loro colleghi. E quando gli Opeth chiedono di avere più tempo
a disposizione per poter provare i pezzi da presentare in concerto, la curiosità si trasforma in qualcosa di più concreto. Kim e Johan vengono infatti
immediatamente reclutati come ospiti per l’imminente show di Göteborg, e
seppur tecnicamente molto più preparati del trio Isberg-Nordin-Åkerfeldt,
incontrano non poche difficoltà nell’imparare a suonare le partiture dei loro
‘compagni di studio’.
PICCOLE LEGGENDE CRESCONO
I
DUE BRANI PREVISTI IN SCALETTA, CON L’AGGIUNTA DELLA COVER DI ‘SWEET LEAF’
dei Black Sabbath, vengono assimilati dalle due new-entry nel giro delle
successive quarantotto ore. Nell’unico automunito tra i quattro, Johan DeFarfalla, gli Opeth trovano non solo un bassista d’eccezione, vero conoscitore
della teoria musicale e dotato di una tecnica straripante, ma anche un nocchiero disposto a scarrozzarli da una costa all’altra della Svezia. Raggiunta la
destinazione, il gruppo, un manipolo di sconosciuti in trasferta, è il primo a
presentarsi sul palco. Salgono intorno alle diciannove, seguiti, nell’ordine, da
Desecrator, Mega Slaughter, At The Gates e dai già citati Therion.
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Vale la pena soffermarsi una manciata di righe sul bill offerto dall’evento: tra quei ragazzini ancora acerbi per i quali il termine ‘musica’ era ancora
lontano - ma non troppo - dal far rima con ‘business’, già i soli Desecrator
meriterebbero menzione a sé. Tra le loro fila militano nientemeno che delle
future star dell’olimpo metallico svedese: Markus Nordberg (batterista, in
seguito nei Cemetary), Anders Iwers (chitarrista e futuro bassista, in particolare dei Tiamat), Oscar Dronjak (cantante e chitarrista, fondatore nel
1993 dei celeberrimi Hammerfall) e Jesper Strömblad (qui al basso, chitarrista fondatore degli In Flames ed allo stesso tempo batterista fondatore
degli Hammerfall.
Dei Mega Slaughter, che nel 1991 pubblicano il rarissimo full-length
‘Calls from the Beyond’, con copertina in bianco e nero ad opera di Joe
Petagno, si segnala unicamente la presenza del batterista Patrik Räfling, destinato a sedere dietro le pelli degli Hammerfall tra il 1998 ed il 2002.
In quella primavera del 1991 i Therion sono già forti di un debutto discografico ufficiale su lunga distanza, ragion per cui, seppur fuori casa, li ritroviamo qui come headliner; gli At The Gates invece possono contare solo
sul modesto promo-tape ‘Gardens of Grief ’, che reca in copertina il solo logo
bianco della band su sfondo nero; il mese successivo sarà compito dell’etichetta Dolores Recordings riproporlo in vinile 12”, rivestendolo di un evocativo
artwork raffigurante un monaco incappucciato di fronte alle rovine di un antico edificio e di alcune magre colonne circondate alla base da incolti rovi.
Di fronte a una sala gremita di poche centinaia di persone, gli Opeth sono
dei perfetti sconosciuti. Non possono altro che suonare a testa bassa, concentrati sui propri strumenti, mentre un esaltato Isberg, cantante e frontman,
cerca i favori del pubblico. Alla fine del primo brano, dopo alcuni secondi di
surreale silenzio, si rompe il ghiaccio: la folla acclama. Per il giovane screamer
è la più grande gratificazione possibile. “Mi dimenticai anche di cantare una
strofa di ‘Sweet Leaf ’, dato che per la prima volta mi sentii adorato”, ricorda infatti
Isberg in alcune sue recenti memorie sulle origini degli Opeth.
A fine serata, mentre DeFarfalla preferirà tornare immediatamente a
casa tra le amorevoli braccia della sua fidanzata, il resto della band pernotta
a Göteborg, ospite del batterista Adrian Erlandsson degli At The Gates.
Johan, quasi di soppiatto, esce temporaneamente di scena per parecchi mesi:
lo ritroveremo solo tre anni dopo, all’alba del 1994, nuovamente reclutato
alla vigilia delle registrazioni di ‘Orchid’. Kim Petterson, dal canto suo, non
abbandona gli Opeth fino al successivo concerto, la cui istantanea è giunta
oggi a noi per via di un misterioso bootleg, riaffiorato insieme a diverse altre
registrazioni solo dieci anni dopo.
Il Träff di Åkalla, sobborgo residenziale a quindici chilometri circa a
nord di Stoccolma, ospita il trenta novembre il terzo concerto di sempre de-
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gli Opeth, nonché il primo a fianco
di Mikael per il suo nuovo amico Peter Lindgren, conosciuto poco tempo prima tramite le rispettive fidanzate. Chitarrista in una band chiamata Sylt I Krysset (letteralmente
‘Marmellata in croce’), si offre quella
sera di ricoprire il ruolo di bassista
lasciato vacante da DeFarfalla.
In cima al bill, Desultory ed Asphyx. I primi, classica formazione di
death scandinavo, all’epoca avevano
all’attivo ben tre demotape; attivi
ancora oggi, a dispetto del nome non
sono mai riusciti ad assestare una
scossa decisiva alla scena, restando
impantanati nella cerchia delle band
di culto, destinati come altre entità
alla riscoperta da parte di accaniti “completisti” del filone. Ben altro
discorso invece riguarda gli olandesi
Asphyx, che nell’aprile 1991 esordirono con il brutale ‘The Rack’, un macigno di quaranta minuti scarsi in cui risplendono i sulfurei nove minuti della
title-track, posta in chiusura al disco.
A fianco della trascurabile ‘Death Metal’ dei Possessed, nel breve set
degli Opeth trovano spazio due tracce originali, ‘Requiem of Lost Souls’ e
‘Poise Into Celeano’, l’ultima delle quali scritta da Mikael durante l’estate
precedente: composizioni di medio-lunga durata, veicoli ideali per collezionare riff, arpeggi e assoli (quello finale di ‘Requiem...’ sarà poi ripreso in toto
nell’epica conclusione di ‘Forest of October’), successivamente recuperati
nell’opera di ‘collage sonoro’ che porterà alla costruzione, frammento per
frammento, del loro esordio su scala europea. Porzioni di ‘Poise into Celeano’ sopravvivranno ancora più a lungo, figurando nella traccia di apertura del
secondo album della band, ‘Morningrise’, pubblicato nel 1996.
PIZZA CONNECTION
S
E IN UN DISASTRATO PAESE COME QUELLO ITALIANO UNA DELLE RARE PREROGATI-
ve di cui andare orgogliosi è l’inarrivabile qualità del cibo, per un fan
tricolore degli Opeth sarebbe più che legittimo aggiungere il fatto che è
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stata l’Italia in primis a dedicare un articolo su una rivista cartacea - non
che nel 1992 fosse in alcun modo possibile farlo via Internet - a Mikael e
soci. I primi responsabili di questa sorta di primato rispondono ai nomi di
Stefano Longhi e Roberto Mammarella: questi due allora imberbi figuri,
poco più un ventennio addietro, contribuivano allo straripante e caotico
cosmo delle fanzine con la loro personalissima creatura, Thanathography.
Insieme a loro, in veste di traduttore dei testi in inglese e di compagno di
scorribande nordeuropee dei primi ’90, c’è Mauro Berchi. Neppure lui restò immune al fascino delle riviste self-made: lo ritroveremo infatti anche
nella redazione della fanzine Necrotomy, autore di un’intervista a Mikael
Åkerfeldt e Anders Nordin nella primavera del ’95, poco prima dell’entrata in studio degli Opeth per la registrazione del loro debutto sulla lunga
distanza.
Il solo fatto di aver citato il termine
“fanzine”, forma contratta dell’espressione fan magazine, richiederebbe ben più
di un capitolo a parte. Spinti dalla pura
passione, in moltissimi si cimentavano
nell’arte del giornalismo musicale, vissuto e realizzato con mezzi amatoriali ma
non scevro di sporadiche perle lessicali.
Si trattava di un espediente per avere un
contatto diretto coi propri idoli, immergersi in un asfissiante giro di scambio di
cassette - il cosiddetto tape trading -, EP
in formato 7”, LP, i primi compact disc
e le stesse fanzine, a loro volta recensite in un’apposita sezione. Era perciò un
meccanismo che si auto-alimentava, ad
una velocità ridotta ma costante. Qui,
improvvisati quanto fortunati redattori
che avevano appena ricevuto una copia
di una demo-release, si impegnavano a
compilare una serie di domande e a spedirle in una busta direttamente all’intervistato, il cui indirizzo di casa era
spesso riportato tra le pieghe della copertina (il fenomeno sopravvisse anche all’avvento del CD, tanto che in fondo ai crediti di ‘Orchid’, nella
prima stampa del disco, si legge: OPETH c/o Åkerfeldt, Vedevågsligan
34, 12474 Bandhagen, SWEDEN). Non c’erano intermediari, fossero essi
promoter o manager di etichetta discografica, né c’era musicista che si sottraeva al dovere di rispondere: quelle rozze pagine, talvolta illeggibili per
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colpa di caratteri piccolissimi o per la ridotta qualità delle fotocopie, erano
praticamente l’unico traino promozionale a disposizione, indispensabile
per assicurarsi un minimo di notorietà fuori dai propri confini geografici.
L’Italia non è estranea a tutto questo, e Longhi e Mammarella, oltre che curatori di Tanathography, sono anche alle prese con una neonata
etichetta discografica, la Obscure Plasma Records. Il fascino delle nuove
sonorità provenienti dal profondo nord europeo li conduce, nell’estate ’91,
negli uffici dell’etichetta/distributore House of Kicks, con l’obiettivo dichiarato di imbattersi in nuove realtà a cui sottoporre un contratto discografico. David Isberg, che in quelle stanze è di casa quanto tra le mura del
suo pub preferito, li attende al varco. Consegna loro un rehearsal tape intitolato ‘Dark Phantasia’, contenente due soli pezzi, ‘Mark of the Damned’
e ‘Requiem of Lost Souls’, accompagnati da una fotografia degli Opeth in
concerto.
È Stefano Longhi a restare fortemente impressionato dal quartetto, ed
elabora un articolo di elogio totale nei confronti della “più oscura creatura proveniente dalla Svezia”, in cui accenna alla possibilità di pubblicare
qualcosa di loro su Obscure Plasma. Roberto Mammarella, che grazie ai
suoi Monumentum era già sotto i riflettori della scena underground anche in qualità di musicista, mantiene però un certo distacco, rifiutandosi
di “sprecare soldi con degli AIK fans”, in riferimento alla passione calcistica
di Isberg.
Più avanti, recensendo ‘My Arms, Your Hearse’ (1998) sulla sua rivista
Grind Zone, Stefano Longhi inserirà una lunga introduzione a ricordo di
quei tempi: “Li ho visti nascere gli Opeth... Ero in contatto anni fa con Mike
e con il loro vecchio cantante, tale Dave Isberg, un personaggio assolutamente
fuori di testa, fanatico dell’AIK Stoccolma [...] che mi ospitò dalle sue parti in
uno dei miei trascorsi svedesi. Parlai con Mike a lungo, discutemmo dell’ipotesi
di poter lavorare insieme sul suo progetto musicale, cercavano la possibilità di
stampare un 7” ep, ed io all’epoca (1992) perdevo tempo in una neonata entità
discografica. Non se ne fece nulla, c’era un certo ‘Live in Leipzig’ di mezzo...
Peccato”.
Non se ne fece nulla, infatti. Mentre il death svedese conquistava il
mondo grazie alle ricettive antenne di label denominate Earache (per gli
Entombed), Nuclear Blast (casa dei Dismember) e Century Media (contratti con i Grave e i Tiamat), nella vicina Norvegia serpeggiavano le prime avvisaglie di true norwegian black metal, la cui crescita e diffusione fu
talmente rapida ed esponenziale da godere presto, presso i cugini svedesi,
della fama di “fottuto trend”.
ISBERG FUORI DAI GIOCHI
A
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FINE ANNO IL CHITARRISTA KIM PETTERSON INTERROMPE IL SUO PERCORSO CON
gli Opeth, consentendo il ritorno di Lindgren alla chitarra, ma è
all’inizio del 1992 che avviene una nuova, fondamentale svolta: di ritorno
da una gita sulla neve in Austria, seduto al fianco di Mikael a bordo dell’autobus che li stava riportando in patria, David Isberg comunica ufficialmente
la sua decisione di abbandonare gli Opeth in sede definitiva.
Inaspettata, col senno di poi quella notizia si è rivelata un mezzo sollievo
(e un desiderio quasi totale divenuto realtà) per il resto del gruppo, in particolare per Mikael e Peter, che dal loro incontro si erano subito trovati in sintonia,
trovando l’uno nell’altro il partner perfetto per scrivere nuove canzoni. Kim
Petterson d’altro canto non aveva mai preso sul serio l’Opeth affaire, e David
a detta di molti era ciò che si potrebbe amichevolmente definire un attaccabrighe, dotato di una personalità di difficile gestione. Ricorda Lindgren che “in sostanza innervosiva le
persone intorno a lui. Credevamo che sarebbe riuscito a
rovinare il nostro sogno di diventare ‘qualcuno’, ma non
potevamo cacciare David dalla sua stessa band. Avevamo quindi pensato di uscirne noi, e di fondare un nuovo
gruppo. Ma quando lui e Mike andarono in Austria a
sciare insieme, David disse all’amico: ‘Lascio la band’. E
Mikael sospirò: ‘Finalmente!’”.
L’ultimo lascito targato Isberg lo si ritrova, curiosamente, nella mini-recensione di un rehearsal
tape che, in qualche modo, atterra addirittura oltreoceano, più precisamente ad un responsabile della fanzine Chamber of
Sorrow. La recensione recita: “Gli Opeth vengono dalla Svezia, ed il rehearsal
tape in mio possesso evidenzia come un altro mostro sia nato! Questa band è molto
oscura e doomy, ma essendo questa una registrazione da sala prove è molto difficile
sentire tutto distintamente. Le canzoni sul nastro sono ‘Soul Torture’, ‘Ornament’
e ‘Poise Into Celeano’. A quanto pare uno studio demo verrà presto rilasciato, perciò non esitate a contattarli!”.
Dallo spontaneo abbandono di David Isberg prende quota una stagione
di intensivo songwriting, ad esclusiva opera del duo Åkerfeldt-Lindgren,
ormai svincolati da qualsiasi compromesso sul piano personale e stilistico.
Si opta per conservare il nome del gruppo, che, seppur in minima parte, ha
cominciato a destare un certo interesse a livello underground. Di contro, lo
spirito degli Opeth inizia a smarrire quell’aura satanica che ne aveva contraddistinto le prime avvisaglie, anche in contrapposizione ad una tendenza
già fin troppo diffusa. A conferma di questa rotta da intraprendere, Mikael
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I CUGINI KATATONIA:
INTRODUZIONE A STORIE DI COMPLICITÀ
N
EL 1992 I SOLI JONAS RENKSE E ANDERS NYSTRÖM SCRIVONO E REGISTRANO UN
seminale demotape, ‘Jhva Elohim Meth’, dall’inequivocabile traduzione ‘God Is Dead’. Il demo, più avanti ristampato in CD dall’olandese
VIC Records sull’onda della popolarità del gruppo, si distingue per il fatto
di avere una copertina a colori, cosa che non tutti potevano permettersi - o
forse, per adeguarsi allo standard dell’epoca, non volevano concedersi.
Contrariamente a decine di altre band della scena, i Katatonia scelgono
come sede di incisione per la summenzionata pubblicazione gli studi Unisound - alternativamente denominati Gorysound - proprietà di un personaggio chiave, da molti riconosciuto quale genio di livello internazionale,
all’epoca nemmeno ventenne: Dan Swanö, già fresco mastermind dei criptici Edge Of Sanity. Anders e Jonas sono ospiti nella cittadina di Finspång
dal tre al cinque luglio: tre soli giorni, davvero pochi quanto davvero fondamentali nell’infondere nuova linfa vitale in un ambiente ormai saturo. Non
sarebbe stato però lo stesso, se Swanö non avesse deciso di metterci del suo:
“Possiamo discuterne quanto si vuole, ma se i Katatonia avessero proseguito per
la loro strada, infilando un blast-beat in ‘Without God’ senza che io li fermassi,
non credo che sarebbero andati molto oltre il loro primo demo. Non sai mai cosa
può riservare il destino; li ho davvero presi sotto la mia supervisione, forse perché
erano fan degli Edge of Sanity e questo mi inorgogliva. Ho fatto in modo che il
loro primo demo ‘spaccasse’, aggiungendoci anche le tastiere, ed in poche settimane
o mesi ottennero un contratto”.
Crediti e ringraziamenti sono riportati in un unico carattere gotico, a
tratti illeggibile: lo stesso Fette Fraktur di cui, ad esempio, i norvegesi Ulver
avrebbero fatto largo uso nei primi scampoli di carriera. In quei testi non
vi è ancora alcun riferimento agli Opeth, né a Mikael Åkerfeldt. È invero probabile che l’amicizia tra quest’ultimo e Renkse sia nata poco dopo,
nell’autunno del 1992. Plasmato presso gli Unisound tra il cinque e il nove
aprile 1993, il primo full-length dei Katatonia, ‘Dance of December Souls’,
reca infatti ‘Micke of Opeth’ citato tra i meritevoli di gratitudine. È l’inizio
di un legame che negli anni si manterrà saldo e indissolubile.
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contorna un nuovo logo, molto semplice, scevro degli orpelli e barocchismi
tipici della scena death/black scandinava: questo nuovo identificativo a cinque lettere durerà lo spazio del solo ‘Orchid’, anche se verrà riutilizzato nel
1998 su piccoli adesivi circolari incollati sul jewel-case del terzo lavoro degli
Opeth, ‘My Arms, Your Hearse’.
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In quegli stessi giorni di aprile all’Huset di Huddinge, sempre nei dintorni della capitale, si registrano due apparizioni dal vivo degli Opeth a
breve distanza l’una dall’altra: una delle quali, il terzo del mese, vede la band
dedicarsi al ruolo di spalla a Dismember, At The Gates, Therion e Ceremonial Oath.
UN LUME DI CANDELA RIACCENDE LE SPERANZE
I
L NUCLEO DEGLI OPETH È NEL FRATTEMPO IMPEGNATO A COSTRUIRE E RIFINIRE I
brani fino all’ultima nota, arrivando a suonare al gran completo per sei
giorni alla settimana. A cotanta frenetica attività corrisponde però una sterilità produttiva, tradotta in un semplice dato di fatto: zero demo, zero incisioni su nastro, ingredienti senza i quali ottenere un contratto discografico
è pressoché impossibile. La spiegazione è individuabile nei portafogli dei
ragazzi: gli Opeth sono al verde, e non possono permettersi di pagare, anche solo per una manciata di giorni, uno studio di registrazione. Ma c’è di
più nelle righe seguenti, che riassumono ottimamente l’Åkerfeldt-pensiero.
“Non conosco molte band che abbiano diffuso il proprio sound attraverso rehearsal
tape tanto quanto noi. Sicuramente saremmo diventati più ‘famosi’ se avessimo
registrato dei demo. Abbiamo deciso di non registrarne prima che fossimo davvero
soddisfatti del nostro operato. Voglio dire, dovevamo prima trovare una nostra
identità. Credo che in troppi registrino in maniera fin troppo frettolosa. Per questo ci sono in giro così tanti gruppi merdosi insieme ai loro demo ancor più merdosi. […] Sono orgoglioso di poter affermare che noi abbiamo trovato un nostro stile e
che gli ascoltatori possano ritenerci un buon gruppo solo sulla base di un rehearsal
tape. […] Credo che siamo una delle band più interessanti sulle scene. Perché non
dovrei pensarlo, quando ci metto tutta la mia fottuta anima in quello che faccio?
La gente potrebbe pensare che io sia una specie di ‘intoccabile’ o ‘testa calda’. Beh,
non è così! Tutto ciò che dico in questi spazi è unicamente la mia opinione. Non
mi aspetto in alcun modo che la mia musica piaccia a tutti. Solo, i nuovi gruppi
black o death oggi non mi impressionano più di tanto. Un tempo subivo molto
di più il fascino della scena death, ma oggi non nutro più sentimenti del genere
verso nessuno. Ovviamente ci sono ottimi gruppi in giro, come At The Gates ed
Emperor, ma non sono affatto miei idoli!”.
Il 1993 è anche l’anno in cui Lee Barrett, poi bassista degli Extreme
Noise Terror e dei prog-metaller To-Mera, fonda l’etichetta discografica
Candlelight Records. La sua ricerca di nuovi artisti da aggiungere al proprio carnet si spinge ben oltre i confini del Regno Unito, e fu presto chiaro
che la Scandinavia, dopo aver ospitato show incendiari di Carcass, Napalm
Death e Morbid Angel, era stata profondamente trasformata nel più oscu-
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ro animo musicale: rappresentava perciò un più che fertile terreno su cui
mandare in esplorazione le proprie sonde, e cercare di scritturare le band
più promettenti.
Da questi presupposti scocca la ricerca di Lee Barrett, che dall’inflazionata Svezia si dirige verso la vicina Norvegia: le sue conquiste presentano Enslaved ed Emperor, due nuove creature destinate a lasciare indelebili
tracce nell’inquieto panorama del black metal dei fiordi. La fenomenologia
black, nel biennio 1992-’93, deflagra anche grazie al tuonante eco di chiese
bruciate, episodi criminali e persino un paio di omicidi; una bomba di tale
levatura sismica da scomodare la stampa nazionale non specializzata, quella
internazionale e persino esperti sociologi. Se gli Enslaved sono legati a tali
eventi dal solo aspetto anagrafico, gli Emperor, guidati dal geniale polistrumentista Ihsahn e dal chitarrista Samoth, forse non sanno, nel momento in
cui danno forma al trittico di opere che li consacreranno alla Storia (il demo
‘Wrath of the Tyrant’, l’omonimo EP d’esordio ed il capolavoro ‘In the
Nightside Eclipse’), di avere nell’oscuro personaggio Bård Faust un violento
assassino. Responsabile nell’agosto 1992 dell’uccisione di un omosessuale
che gli si era approcciato nei dintorni dell’Olympic Park di Lillehammer,
Faust prende comunque parte alle registrazioni del debutto degli Emperor
sulla lunga distanza, per essere poi riconosciuto colpevole del misfatto e
incarcerato solo due anni dopo.
È proprio grazie a Samoth che gli Opeth entrano in contatto con Lee
Barrett, mentre Åkerfeldt prosegue in una infruttuosa campagna di diffusione dei suoi rehearsal tape. “Ero molto attivo nella scena del tape trading underground, cercavo di diffondere il nome degli Opeth ovunque potessi. Spedivo
dalle cinque alle dieci cassette al giorno e mi ero così costruito un database di
‘contatti death metal’ in tutto il mondo. Acquistavo tutte le fanzine che potevo ed
effettuavo spedizioni a chiunque vi lasciasse un annuncio; erano tutte riviste fatte
in casa, non mi ero mai preoccupato delle riviste più affermate”.
Suona quantomeno ironico che, a fronte di un considerevole quanto
vano sforzo, tutto ciò che serve per catturare finalmente l’attenzione di un
discografico sia un frammento di una manciata di secondi di ‘The Apostle
in Triumph’, brano posto al termine di una cassetta inviata a Lee Barrett da
Samoth, contenente composizioni di gruppi ancora privi di contratto. Quei
brevi istanti fulminano letteralmente il boss della Candlelight, se è vero che,
come sostiene Mikael, gli Opeth furono gli unici estratti da quel cilindro su
nastro. “Adoravo quel breve frammento musicale, ma nessuno sembrava sapere
chi fossero gli Opeth o come contattarli, e Samoth non ricordava chi gli avesse consegnato quella cassetta. Perciò cominciai ad includere in tutte le mie missive degli
appositi volantini in cerca di qualcosa di concreto”. Probabilmente è per merito
di Anders Nyström dei Katatonia che il messaggio giunge finalmente al
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giusto destinatario. “Qualche mese dopo - aggiunge Lee - Mike mi chiamò, per
poi spedirmi una cassetta completa”.
Ricevuto il nastro, Barrett non ha più dubbi sulle potenzialità degli svedesi. L’idea iniziale segue una sorta di copione e prevede, così come per i
già scritturati Enslaved ed Emperor, la realizzazione di un EP allo scopo di
tastare il terreno. Ma le intenzioni di Lee cambiano presto. Ricorda Mikael:
“Non avevamo soldi, per noi entrare in studio e registrare un demo aveva la stessa
portata del realizzare un disco. All’epoca vivevo con mia madre. Lavoravo, anche, ma non guadagnavo granché, e nemmeno gli altri ragazzi si potevano considerare ricchi o altro. Non sapevamo neppure dove andare a registrare un demo,
sebbene ci avessimo pensato a lungo. Quindi, dal nulla, ecco che riceviamo un’offerta da Lee per la pubblicazione di un disco. Era parecchio strano: io continuavo
a spedire i nostri rehearsal alle comuni etichette metal, ma non ebbi mai risposta.
Non sono nemmeno sicuro che li abbiano ascoltati. [...] Un giorno, mentre salivo
le scale verso l’appartamento in cui vivevo con mia madre, ecco che scorgo una
lettera appiccicata alla
bacheca che conteneva i
nomi di tutti i residenti
nel condominio. Recitava:
‘agli Opeth...’. Non sapeva
nemmeno come ci chiamassimo di persona! Nella
lettera ci veniva richiesto
di registrare un EP di
tre brani ed io, nel leggere quelle righe, mi sentivo
tipo... ‘Cazzo, sì! Cazzo!!’.
Stentavo a crederci. Salgo
le scale ed entro in casa per
rileggere meglio il contenuto della missiva, ed in
quel momento squilla il
telefono. È lo stesso Lee
Barrett, che dice: ‘Hai ricevuto la mia lettera? L’ho
spedita settimane fa. Dimentica ciò che ho scritto,
voglio pubblicare un vostro full-length’”. E chi se
lo aspettava?
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Mikael Åkerfeldt
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“L’orchidea per me è simbolo di bellezza, di potenza, e in un certo
senso anche di tristezza. Questi elementi sono gli ingredienti
principali del disco. Per questo abbiamo scelto quel titolo”.