DALLA TERRA DEI MIRACOLI Inaugurazione

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DALLA TERRA DEI MIRACOLI Inaugurazione
DALLA TERRA DEI MIRACOLI
Inaugurazione della mostra fotografica di Wendy Sue Lamm
Con Wendy Sue Lamm
Presentazione di Andrea Jacchia e Giancarlo Pauletto
Può una terra contesa tra due popoli, martoriata, divisa dall’odio, essere ancora chiamata “terra dei
miracoli”?
Le foto dell’americana Wendy Sue Lamm, cresciuta alla scuola del fotogiornalismo della France
Press, con la rapidità dello scatto e l’immediatezza che deve essere il requisito per la comprensione
giornalistica, tentano di fornire una risposta attenta e sincera a questa angosciante domanda.
Lo sguardo della fotografa raccoglie frammenti di immagini, momenti duri e sanguinari e li giustappone
ad altri delicati e teneri a volte anacronistici, per raccontare quanto sia assurda, astratta, ma purtroppo
reale la quotidianità di israeliani e palestinesi.
Una quotidianità fatta di paura e di morte, ma anche di ritorsioni e guerriglie, a volte impresse nella
pellicola in maniera delicatamente ironica per descrivere una terra dove il vero miracolo è la
convivenza pacifica, è il riuscire a svegliarsi tutte le mattine, è provare a vivere normalmente.
La mostra, curata da Giancarlo Pauletto, è promossa e organizzata dal Comune di Pordenone
nell’ambito del festival Dedica in collaborazione con l’Associazione Thesis e l’Agenzia Contrasto.
Leggi Il tempo incarnato di Wendy Sue Lamm di Giancarlo Pauletto, I successori di Andrea Jacchia
Wendy Sue Lamm, fotografa, nata a Los Angeles nel 1964. Laureata nel 1988 all’Università di Berkeley in California, dal
1998 è entrata a far parte dell’agenzia Contrasto. Le sue foto sono esposte nei più importanti musei del mondo e vengono
regolarmente pubblicate su prestigiose riviste quali il “New York Times Magazine”, “Newsweek”, “Geo”, “Der Spiegel”,
“Elle”. Per la sua attività ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti quali il World Press Photo Award, importante premio di
fotogiornalismo internazionale e il Premio Pulitzer Spot News Reporting nel 1996 per le sue fotografie del terremoto di
Northridge.
Giancarlo Pauletto, critico e storico dell’arte, è impegnato nelle attività d’arti visive del Centro di Iniziative Culturali di
Pordenone. Ha curato per il Museo Civico della città, per la Provincia di Pordenone e per altri enti pubblici e privati,
mostre, cataloghi e monografie.
Andrea Jacchia, giornalista, fine intellettuale e attento viaggiatore oltre che esperto d’arte, cura la pagina di Diario.
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quanto previsto dalla legge sul copyright, è vietato riutilizzare il contenuto in assenza previo consenso di Thesis Associazione Culturale.
E’ vietato utilizzare detto materiale su altri siti Web o in altri ambienti informatici di rete. Sito web: www.dedicafestival.it.
IL TEMPO INCARNATO DI WENDY SUE LAMM
Dalla terra dei miracoli di Giancarlo Pauletto
Quel che giornali, televisioni, e anche i personali tentativi di comprensione dei fatti, perseguiti
leggendo articoli di riviste e libri, ci permettono di cogliere della situazione attuale della Palestina, non
possono che confermare la giustezza e la bellezza del titolo di questa mostra fotografica di Wendy
Sue Lamm: Dalla Terra Dei Miracoli, una mostra che accompagna come meglio non si potrebbe la
presenza di Amos Oz a Pordenone.
Giustezza del titolo, perché la Palestina è terra dei miracoli anzitutto - e ovviamente si potrebbe dire in rapporto alle tre grandi religioni che su di essa insistono, quella ebraica, quella cristiana e quella
musulmana, presenti nella mostra in alcune immagini caratterizzate dalla loro riconoscibile socialità e
ritualità.
Ma terra dei miracoli anche perché, in mezzo a tante tensioni, stragi, disperazioni, terrori la vita
continua, la quotidianità in qualche modo vince e, accanto ai soldati in assetto di guerra, la gente va
alla spiaggia, prende i bagni nel Mar Morto, fa la spesa al mercato, mentre i bambini giocano, un
giardiniere annaffia il prato, alcuni pellegrini russo-ortodossi si bagnano nel fiume Giordano e qualcuno
pensa a mettere nuove piante in un nuovo giardino.
La cifra estetica fondamentale della mostra è la presa diretta, il primo piano, la messa in evidenza di
un tempo presente che si incarna immediatamente nei tagli prospettici, nelle figure, nei colori delle
immagini.
Non necessariamente doveva essere così. Esistono dei reportage dalla Palestina - anch’essi assai
toccanti - nei quali il punto di vista non è quello del quotidiano, ma piuttosto quello religioso
dell’eternità e quella terra, così significativa per la storia di tanti uomini, viene fermata in visioni di luce
e ombra che la fanno diventare il sospeso teatro dell’epifania divina.
Al contrario il punto di vista di Wendy Sue Lamm è caratterizzato da una profonda adesione alle cose,
ai corpi, ai volti, si potrebbe dire agli odori, e il suo obiettivo non inquadra, non mette in scena, ma sta
in mezzo, chiama dentro, costringe a partecipare.
Esempi se ne possono fare molti. A Hebron, in Cisgiordania, “un lanciatore di pietre palestinese viene
ucciso da alcuni militari israeliani durante uno scontro”. Così recita la didascalia di una drammatica
immagine che è resa in tutta la sua immediata carica di violenza, nella posizione piegata dei militari
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con le armi spianate, nel gesto del lanciatore fermato un attimo prima di accasciarsi, nella desolata
materialità dei sassi dispersi sul marciapiede.
Qui è una volontà di testimonianza che non vuole a nessun costo sottrarsi all’immediatezza
dell’evento. Così come nell’altra terribile immagine, scattata a Gerusalemme, mentre “una squadra di
soccorso porta via in tutta fretta la vittima israeliana di un duplice attacco suicida nella zona pedonale
del centro cittadino”.
Anche qui il taglio geniale della foto sottolinea la volontà dell’operatrice di metterci subito dentro
l’evento, evitando di centrare l’immagine sul corpo della donna uccisa, lasciando invece che il nostro
sguardo indaghi sul contesto, gli occhi per così dire “passanti” degli spettatori, la figura quasi
estraniata della ragazza in nero, le insegne e le scritte della strada nella quale è avvenuto il fatto.
Identica l’intenzione ravvisabile nella foto successiva, la cui didascalia recita “Gerusalemme, un
manifesto attaccato in memoria delle vittime del terrorismo nel centralissimo mercato di Mahane
Yehuda”. Lo sguardo passa dall’alto e si colloca al centro della scena, le figure piegate in primo piano
sono lo scivolo che permette l’entrata dello spettatore nel mezzo dello spazio tematizzato.
E’ sempre così, dunque si tratta di una scelta ogni volta concretamente ravvisabile, così come è
concretamente ravvisabile la volontà di rafforzare questo “stare in mezzo”, questo “partecipare”,
mediante la sottolineatura della materialità delle cose, e mediante i primi piani di particolari, mani, volti,
segni: la carne rossa, ribaltata in avanti, della pecora appena macellata, la colomba bianca in vendita,
messa al centro della fotografia, i coloratissimi pomodori al mercato, la mano appoggiata sul muro del
pianto e quella in primo piano che copre il volto dell’arrestato.
Non manca tuttavia anche qualche scena più formalizzata, pur se mai priva del gusto
dell’immediatezza; qualche immagine più contemplata, dunque più adatta a farsi almeno un po’
costruire: i due adolescenti che si scambiano tenerezze durante la festa, incastonati dentro un grande
e vaporoso velo rosa, quasi una cortina nuziale, i Gesù Bambino venduti in un negozio nei pressi della
Chiesa della Natività, l’immagine dei ragazzi di Tel Aviv, perfettamente scandita negli spazi compatti
dell’inquadratura, le due scene impresse nel quartiere ultraortodosso di Mea Shearim, dove è lo scuro
dei vestiti e dei cappelli, e il chiaro rispettivamente dei volantini lanciati in aria, e della pavimentazione
in basso, a rendere inevitabile una lettura della fotografia più centrata sul piano della costruzione.
Ma non è, questo, un limite, non è un di meno e non è un di più: è una delle tante facce di quella
realtà, colta allora in un momento meno esasperato e drammatico.
Giustezza del titolo, si diceva.
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Ma anche bellezza, perché se un titolo è giusto, se rende con precisione la natura del tema, in questo
caso la natura dello sguardo sulla Palestina di Wendy Sue Lamm, allora è un titolo anche bello,
proprio, un titolo che non si potrebbe cambiare.
Così come non ci sentiremmo di cambiare le due immagini che, rispettivamente, aprono e chiudono la
mostra.
Nella prima dei ragazzi fanno il bagno nel mar Mediterraneo, nella zona della Striscia di Gaza, e uno di
loro gioca - o sembra - con una bottiglia di plastica dentro la quale appaiono rinchiusi due pesci:
un’immagine surreale, fantastica, quasi una scena di prestidigitazione, insomma la giusta copertina
delle situazioni e dei “miracoli” cui si assiste dentro la mostra, che è straordinaria testimonianza di una
tragedia storica, ma anche di una inarrestabile voglia di vita, un teatro destinato ad essere la vera
cartina di tornasole a proposito della sincerità di tante posizioni culturali e politiche.
Nell’ultima una figura avanza faticosamente nel il fango della riva del Mar Morto, ed è una figura che
per forza attira la nostra attenzione, perché è una figura umana, ma la gran parte dello spazio
fotografico è occupato dal fango: scuro, denso, che sembra dover imprigionare per sempre tutto ciò
che cade dentro la sua melmosità.
Difficile non leggere questa immagine - davvero assai potente - come una formidabile metafora delle
forze negative che tenacemente impediscono di trovare la strada verso la pace, una pace che sarebbe
grande segno non solo per la terra di Palestina, ma per tutto il mondo.
I SUCCESSORI
Andrea Jacchia
Una volta ho fatto un sogno, quando già stavamo qui a Londra. All’improvviso dalla
porta sono entrate delle persone dicendo che dovevamo andarcene. Duemila anni prima
abitavano lì dei loro antenati. La casa quindi era loro. Devo riconoscere che, alla luce
degli indicibili orrori di cui siamo stati testimoni, non c’era o sembrava non esserci
alternativa. E sono grato per ognuno di quelli che si sono salvati recandovisi.
Ernst H. Gombrich, Dal mio tempo.
Questo gruppo di foto di Wendy Sue Lamm ne presuppongono una relativamente invisibile: quella di
Wendy Sue Lamm che fotografava lì, in Israele-Palestina. Si potrebbe provare a vederla e a guardarla
così: Wendy Sue Lamm ha attraversato lo scontro più lungo e più impantanato del nostro tempo; poi è
passata attraverso la vita di quella guerra e il movimento sinistro di un odio costante. Il risultato ha
avuto diverse forme: ritratti, schizzi, profili, o improvvisi quadri d’insieme. O addirittura un grande
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quadro generale, in cui ognuno (palestinesi, israeliani, osservatori esterni) può centrare la propria
attenzione o le proprie passioni sul particolare che più lo impressiona: pensate a Guernica, a come ci
si ferma sul particolare della lampadina o del muso cubista del toro; o guardatevi di fronte alla
Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, quando fissate la mischia dei cavalli o delle lance. Ma
queste foto hanno un carattere quasi introvabile nelle moltissime altre immagini che hanno ritratto
l’odio contiguo fra israeliani e palestinesi: ci si chiede, attraverso l’attenzione o l’arte di Wendy Sue
Lamm, che cosa succederà dopo o chi verrà dopo una di quelle immagini, o che cosa la cronaca
potrebbe produrre subito dopo uno scontro, un funerale, un attimo di vita in un mercato, una riunione
di bambini in riva al mare, un rito religioso. In altri termini, non succede spesso di chiedersi, di fronte a
una foto, quale vita potrebbero avere i successori di quell’immagine. Si potrebbe istantaneamente
osservare che a Wendy interessano più le persone che i popoli; oppure che, senza esserne
consapevole (come succede spesso agli artisti), abbia ritratto una sorta di conquista in fieri della realtà
in una situazione costantemente irreale.
Questo gruppo di immagini, di quadri, è stato chiamato “Dalla terra dei miracoli” e Wendy Sue Lamm,
nel presentarlo, conclude con questa frase: “Non si può smettere di amare”. L’invito è di un’ovvia
grandezza, ma, ripeto, sembra più indirizzato ai discendenti, piuttosto che ai presenti. Quanto al
miracolo o ai miracoli, il più immediato di queste fotografie sembra avere a che fare con una certa idea
del tempo. Gli schizzi, i ritratti, i profili degli uomini e delle donne di Wendy Sue Lamm sembrano
soprattutto testimoniare la loro storia passata e un loro avvenire insondabile. Contro ogni evidenza
(scontri, funerali, sassaiole, maneggio d’armi, morti, vite normali ma in sospeso), non appartengono al
presente, o almeno sembrano condizionarlo a quello che è già successo o all’incertezza di quello che
potrebbe accadere. Molto in sintesi, la forza della ricerca di Wendy Sue Lamm, e anche del suo spirito
di osservazione, e anche della sua capacità di compassione, potrebbe riassumersi in un altro titolo di
apparente ironia: “Alla ricerca del tempo sprecato” (o che si sta ogni giorno sprecando).
Ci si potrebbe a questo punto domandare quanto queste fotografie descrivano la realtà, quanto
abbiano la capacità di crearla (come succede ai linguaggi), o addirittura quanto ognuna di esse
contenga più codici, più didascalie possibili. Immaginatevi, allora, mentre le guardate, come fareste
visitando in pace una galleria d’arte o un museo.
In un bar di Gerusalemme, definito “alla moda”, una coppia israeliana si abbraccia riflessa in uno
specchio: nella tenerezza della scena, nel suo erotismo e anche nel sottile squallore del posto, c’è un
colpo di solitudine diffusa.
A Ramallah, in Cisgiordania, un lanciatore di pietre palestinese, che si nasconde dietro un muro
imbrattato da una svastica, può sembrare immediatamente un giovane ebreo ortodosso che sta per
indossare i filatteri della preghiera.
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Una Gerusalemme di sfondo, sotto un cielo grigio, con in primo piano un monaco benedettino vestito
di bianco sembra l’immagine di una Firenze polverizzata.
I cappelli neri e le sagome degli ebrei ortodossi del quartiere di Mea Sharim, a Gerusalemme, sono
fotografati dall’alto: siccome nella realtà sono degli autoreclusi, la fotografa ha scelto di farli vedere
rispettando la loro distanza e forse il loro essere guardati a vista esclusivamente dal Signore.
Un carro armato in disuso dà l’idea della vicinanza fisica e costante della guerra, più come un
monumento permanente che come un resto bellico arrugginito.
Lo strazio di una pecora, che aspetta il suo turno per la macellazione rituale, può ricordare
l’espressione fisica della “capra dal volto semita” della celebre poesia di Umberto Saba.
Pochi esempi, pochi quadri, ognuno ne potrà scegliere altri. In generale, un paesaggio di primi piani, di
profili, di figure tagliate, di particolari del corpo, di luoghi spesso non identificabili, di immagini
pubblicitarie. Alla fine, un insieme di segni scelti ad arte e con un inconscio molto sveglio.
Siccome tutte queste immagini riguardano due parti in causa, bisognerebbe prima vederle e poi
guardarle nelle due prospettive di quelle stesse parti. I palestinesi potrebbero usare complessivamente
per gli israeliani, a mo’ di didascalia, un’espressione non molto conosciuta con cui lo storico dell’arte
Ernst H. Gombrich ha definito la minoranza ebraica immersa in un mondo di non ebrei: “Una nicchia
ecologica in rapporto agli altri”. D’altro canto, gli israeliani potrebbero indirizzare ai loro vicinissimi
avversari una didascalia di questo tipo: “Degli assenti che si sono fatti progressivamente vivi”.
Per certi aspetti, potremmo dire che un terzo osservatore, cioè il mondo apparentemente esterno, in
questo caso Wendy Sue Lamm, ha fatto la foto di sè stessa in mezzo a loro. Nella didascalia bianca di
questa immagine sta forse la chiave di un futuro diverso per i successori.
Milano, 22 febbraio 2007
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