Sulla democrazia deliberativa - Dipartimento studi Sociali e Politici
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Sulla democrazia deliberativa - Dipartimento studi Sociali e Politici
Note sulla democrazia deliberativa: giochi, preferenze, consenso Luigi Curini Dipartimento di Studi sociali e politici Università degli Studi di Milano [email protected] Articolo pubblicato su: Quaderni di Scienza Politica, n.3/2004 (dicembre), pp.521-552 “I vincoli delle parole sono troppo deboli per frenare l’ambizione, l’avarizia, l’ira e le altre passioni degli uomini”1 Il voto e la deliberazione rappresentano due meccanismi alternativi per affrontare lo stesso problema: come riconciliare preferenze individuali (contrastanti) all’interno di scelte collettive. Ma il modo in cui lo fanno – così come la prospettiva normativa soggiacente – è fondamentalmente differente. Da un punto di vista più generale, il voto e la deliberazione riflettono, infatti, due idee di democrazia. Per la prima, non esiste “un unico e determinato bene pubblico su cui tutte le persone possono accordarsi”2: ogni individuo porta con sé delle preferenze già definite rispetto ad una data questione e voterà la proposta più vicina al proprio punto ideale. L’obbiettivo della democrazia consiste, allora, nell’aggregare tali preferenze individuali in una scelta collettiva nel modo più efficiente ed equo possibile3. L’esito di tale processo, se l’aggregazione funziona in modo adeguato, rifletterà un compromesso ottimale tra interessi dati. Questa è la concezione tipicamente liberale della democrazia. Anche la seconda prospettiva parte dalle premessa che le preferenze politiche sono normalmente divergenti e che lo scopo delle istituzioni democratiche debba essere quello di risolvere tale conflitto. Ma rispetto ad una concezione della democrazia caratterizzata dalla sola “forza dei numeri”, viene sottolineato il ruolo della discussione. L’idea habermasiana di ragione comunicativa suggerisce, infatti, l’immagine di un processo deliberativo comune, in cui le conclusioni sono raggiunte attraverso lo scambio di ragioni 1 HOBBES T., Il Leviatano, Roma, Editori Riuniti, 1651/1976, p.80. SCHUMPETER J.A., Capitalism, Socialism and Democracy, New York, Harper, 1942, p.251. 3 DAHL R., Democracy and its Critics, New Haven, Yale University Press, 1989. 2 1 pro e contro in assenza di coercizione4. In questo senso, se la prospettiva aggregativa sottolinea l’importanza di dare il giusto peso alle differenti preferenze, quella deliberativa riconosce la capacità degli individui di essere convinti da argomentazioni razionali e di abbandonare interessi particolaristici alla luce di un interesse collettivo5. La ricerca di buone ragioni nell’esercizio deliberativo è in grado, in alti termini, di avviare – secondo questo punto di vista - processi di apprendimento, di ristrutturazione dei problemi, di riconoscimento di interessi comuni in questioni apparentemente o originariamente conflittuali. All’interno dell’idea di democrazia deliberativa vi sono, quindi, due aspetti fondamentali. Da un lato, l’assunzione dell’endogeneità delle preferenze politiche. La persuasione razionale presente nella deliberazione rende, infatti, possibile ripensare la propria posizione. In questo senso, viene meno la relazione diretta tra le preferenze iniziali degli attori e le preferenze espresse nel risultato collettivo. Dall’altro lato, e come conseguenza, “la deliberazione si pone come obbiettivo di arrivare ad un consenso motivato razionalmente – di trovare delle ragione persuasive per tutti”6. Come interagiscono questi due aspetti – preferenze/consenso – rappresenta, tuttavia, una questione da analizzare con attenzione. Cosa intendere, infatti, per preferenze individuali? In che modo possono cambiare? Cosa significa “consenso frutto della deliberazione”? La deliberazione, in questo lavoro, è intesa come una discussione pubblica dove un gruppo di individui - prima di prendere una decisione collettiva - parla e ascolta in sequenza impegnandosi in uno scambio non vincolato di argomenti e di ragioni. Una deliberazione è politica quando conduce ad una decisione finale vincolante per una comunità. Infine, una deliberazione politica è anche democratica quando la discussione conduce ad una decisione attraverso un voto da parte di tutti coloro che sono toccati dalla decisione in questione (o almeno dei loro rappresentati): in presenza di 4 HABERMAS J., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Milano, Guerini & Associati, 1996. 5 FERRARA A., Democrazia e società complesse: l’approccio deliberativo, in S.MAFFETTONE E S.VECA (a cura di), Manuale di filosofia politica, Donzelli Editore, 1996. 6 COHEN J., Deliberation and Democratic Legitimacy, in A.HAMLIN E P.PETTIT (a cura di), The Good Polity, Oxford, Basil Blackwell, 1989, p.23. Da osservare che l’obbiettivo del consenso non è considerato una necessità da tutti gli autori: YOUNG I.M., Difference as a Resource for Democratic Communication, in BOHMAN J. E W.REHG (a cura di), Deliberative Democracy, Cambridge Mass., The MIT Press, 1997, pp.383-406 2 unanimità, il voto ratifica semplicemente una situazione di fatto, ma non risulta comunque superfluo7. Se infatti un dittatore ascolta una discussione e poi prende una decisione, la deliberazione è politica ma non democratica (pur se tutti in linea teorica partecipano alla discussione e sono d’accordo sulla decisione da prendere). Nella deliberazione, al contrario, decide chi delibera. Il pregio di una simile definizione è che fa proprio il minimo comune denominatore dei vari approcci presenti in materia, evitando tuttavia un investimento eccessivo in significati normativi. E’ necessario, infatti, tenere ben distinti quelle argomentazioni che spiegano perché la deliberazione sarebbe una buona cosa, da quelle che la definiscono in modo tale da coinvolgere direttamente delle conseguenze positive. Presupporre, in altri termini, che la deliberazione sia normativamente e fattualmente superiore alla aggregazione, perché coinvolge – o per lo meno dovrebbe – una discussione ragionata, fallisce nello specificare adeguatamente i meccanismi al lavoro quando le parti impegnate in una deliberazione cercano di persuadersi a vicenda, e quindi i modi per - eventualmente - migliorarla8. In effetti, pur riconoscendo come le questioni empiriche non siano le sole ad essere rilevanti, rimane il fatto che scegliere tra procedure decisionali in un mondo imperfetto deve coinvolgere una qualche valutazione delle probabili conseguenze delle alternative. La deliberazione è, allora, in ultima istanza, difendibile da un punto di vista generale, soltanto se migliora il processo di scelta collettiva finale, in particolare in relazione al raggiungimento di fini comuni9. 7 In questo scritto si considererà spesso l’impatto della deliberazione all’interno di un comitato, con particolare attenzione al contesto legislativo. Il Parlamento rappresenta, infatti, una importante istituzione deliberativa - forse il luogo idealmente più vicino ad una arena deliberativa strutturata. D’altra parte, la deliberazione, data la nostra definizione, deve essere politica, e per esserlo deve produrre delle decisioni vincolanti per una collettività. In questo senso, gli esempi di deliberative polling (FISHKIN J.S., The Voice of the People – public opinion and democracy, New Haven, Yale University Press, 1997) in cui si riuniscono un insieme di cittadini per discutere su un dato argomento, rappresentano un processo deliberativo, ma non coinvolgono né un momento politico (dato che non viene presa alcuna decisione vincolante), né uno democratico (dato che alla fine non si vota). 8 Detto questo, anche una definizione ideale riveste un importante ruolo a scopo valutativo: in particolare, permette di avere un termine di paragone per osservare quanto la realtà si distanzia da una situazione teorica. 9 ELSTER J., The Market and the Forum, in J.ELSTER E A.AANUND (a cura di), The Foundations of Social Choice Theory, Cambridge Mass. CUP, 1986, pp. 103-132. ELSTER J., Deliberation and Constitution Making, in J.ELSTER (a cura di), Deliberative Democracy, Cambridge, CUP, 1998, pp.97-122. Gli standard per valutare delle 3 Il presente lavoro è organizzato in quattro parti. Nella prima ci si concentrerà sulla nozione di preferenze individuali, distinguendo, in particolare, tra preferenze primitive e preferenze indotte. Nella seconda si avanzeranno alcuni spunti per una teoria endogena delle preferenze legata ad un processo deliberativo. La terza parte sarà, invece, dedicata a presentare una tipologia di possibili scenari deliberativi. Si sottolineerà, in particolare come la deliberazione possa essere applicata a due classi di problemi: raggiungere un consenso sui valori e raggiungere delle conclusioni effettive su come meglio raggiungere certi valori. L’ultima parte, infine, sarà dedicata a come rafforzare l’efficacia della deliberazione. Il ruolo della struttura istituzionale - e quindi delle necessità procedurali di una corretta deliberazione – ricopre un ruolo fondamentale a questo riguardo. Tuttavia, proprio la necessità di pensare la deliberazione in una prospettiva istituzionale, fa emergere un delicato trade-off tra due aspetti che determinano congiuntamente la qualità complessiva di un processo di deliberazione democratica: una qualità in termini di processo (“equità procedurale”) e una qualità in termini di risultato (“efficienza epistemica”). 1. Quali preferenze? I problemi di scelta possono essere esaustivamente rappresentati utilizzando tre componenti: azioni, stati del mondo ed esiti. Tutte e tre sono eventi. La differenza tra questi aspetti è che l’azione di un agente è un evento sotto il suo controllo, laddove non lo è lo stato del mondo. In date circostanze, un individuo ottiene il risultato desiderato attraverso il semplice atto della scelta: i risultati dipendono cioè, entro ampi margini, solo dalla sua volontà, e nessun evento esterno incontrollabile si frappone alla realizzazione dei suoi obbiettivi. In queste condizioni, scegliere equivale a ottenere10. In generale, tuttavia, tra la scelta di un individuo e il risultato conseguito si frappongono circostanze ignote: l’individuo dovrà, allora, effettuare delle ipotesi sullo stato del mondo (vale a dire sulle condizioni ambientali) e, sulla base di queste, selezionare istituzioni non sono infatti gli stessi di quelli impiegati per valutare delle politiche. Nel primo caso, gli aspetti strumentali rivestono una importanza maggiore (HARDIN R., Deliberation: Method, Not Theory, in MACEDO S. (a cura di), Deliberative Politics: Essays on Democracy and Disagreement, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp.70-87). 10 MARTELLI P., Elezioni e democrazia rappresentativa, Roma-Bari, Laterza, 1999. 4 l’azione più appropriata11. La scelta, a differenza della situazione precedente, avviene, quindi, in condizioni di incertezza. Per esempio, supponiamo che un legislatore debba decidere se votare a favore o contro un dato progetto di legge. In questo caso, ha due azioni tra cui scegliere: A=[votare a favore, votare contro]. Per semplicità, si suppongano anche due soli stati del mondo: S=[circostanze che rendono il progetto di legge favorevole alla sua constituency, circostanze sfavorevoli alla sua constituency], e quindi due possibili esiti: E=[il legislatore è rieletto, il legislatore non è rieletto]. C’è quindi una diretta connessione tra l’azione che il legislatore sceglie, lo stato che si applica e l’esito che ottiene. Tabella 1 qui Definire, in questa situazione, quello che intendiamo per “preferenze dell’attore” non è scontato. E’ infatti comune nella teoria delle decisioni distinguere tra preferenze primitive e preferenze indotte12. Le preferenze primitive sono definite rispetto agli esiti della scelta; le preferenze indotte rispetto alle azioni. Il legislatore arriverà, in altri termini, di fronte alla scelta da compiere con delle pre-esistenti preferenze primitive (supponiamo, il voler essere rieletto) e con un insieme di ipotesi sulla relazione mezzi-fini (che, a sua volta, determinano le sue preferenze indotte). Se infatti il legislatore deve scegliere che tipo di comportamento adottare nei confronti di un dato progetto di legge, deve necessariamente avere delle ipotesi sulle conseguenze della sua scelta rispetto agli esiti a cui tiene. Le preferenze primitive del legislatore, nell’esempio, sono allora rappresentate dai valori numerici nelle celle della tabella. Le preferenze indotte sulle possibili azioni dipendono, invece, dalle ipotesi del legislatore riguardo la probabilità che effettivamente si verifichino quegli stati del mondo che rendono il progetto di legge favorevole per la propria constituency (chiamiamo tale probabilità “p”). Se è sicuro che si verificheranno (p=1), preferirà votare a favore. Se è invece sicuro che non si verificheranno (p=0), voterà contro. In generale, tuttavia, potrebbe non essere certo rispetto a nessuno delle due 11 Vale a dire, formulerà delle ipotesi probabilistiche fondate sull’esperienza personale, su opinioni, su quanto sentito, ecc.: a sua volta la raccolta di nuove informazioni permette di modificare le probabilità soggettive iniziali. 12 VANBERG V. E J.BUCHANAN, Interests and theories in constitutional choice, “Journal of Theoretical Politics”, Vol.1, 1989, pp.49-62. FEREJOHN J., Must preferences be respected in a democracy?, in D.COPP, J.HAMPTON E J.ROMER (a cura di), The Idea of Democracy, Cambridge, CUP, 1993, pp.231-241. 5 opzioni. In questo caso, ci può essere un valore p* (nel nostro caso p*=1/213) tale che se p<p* preferisce votare contro; se p>p*, votare a favore. 2. Alcuni spunti per una teoria endogena delle preferenze 2.1 Come cambiano le preferenze indotte La deliberazione può trasformare le preferenze indotte tenute dai singoli attori grazie al suo essere una attività informativa, in cui la discussione si focalizza sulle conseguenze di prendere determinate azioni a scapito di altre, prima che una decisione venga effettuata. Vista in quest’ottica, la deliberazione non incide, dunque, sulle preferenze primitive, bensì cambia il modo in cui i partecipanti considerano alcune questioni alla luce di queste preferenze ultime. In altri termini, la deliberazione può indurre i cittadini ad esprimere delle posizioni che sono maggiormente in linea con le rispettive credenze e valori. Gli attori trasmettono informazioni in due possibili modi: in primo luogo, chi parla può rivelare delle informazioni tecniche sulle conseguenze di perseguire certi corsi di azione. Ritornando all’esempio precedente, ricevere delle informazioni addizionali sul progetto di legge in discussione potrebbe spostare la stima di p del legislatore al di sopra o al di sotto del valore di p*, e quindi variare le sue preferenze (indotte) sul tipo di azione da perseguire. In secondo luogo, si possono rivelare informazioni su delle intenzioni di comportamento. In questo caso, l’informazione non altera la valutazione del progetto di legge in questione, ma può influenzare la valutazione degli attori su come meglio agire nel processo decisionale e su quale strada percorrere per coordinare le proprie azione con quelle altrui. In entrambe le situazioni, le argomentazioni offerte nel corso di un processo deliberativo rimangono essenzialmente informative e non normative: sono argomentazioni sulla cui base un corso di azione è meglio di un altro per raggiungere dati fini, indipendentemente se tali fini sono essi stessi il risultato di una deliberazione pubblica. Questo non significa che non ci possa essere una attività informativa che coinvolga anche una argomentazione basata su principi morali. Una affermazione del tipo: “dato che il tuo sistema morale è “α” e dato che il vero stato del mondo è “s”, non dovresti razionalmente scegliere l’azione “c” perché sarebbe contraria a quanto credi”, rimane, infatti, una argomentazione puramente informativa, sebbene la forza della informazione 13 Supponiamo che la probabilità soggettiva relativa a s1 sia uguale a p; di conseguenza, quella di s2 sarà (1-p). Il legislatore voterà a favore della legge se e solo se: EU (vota sì) > EU (vota no). Vale a dire (4) (p)+ (-1) (1-p) > (0) (p) + (3) (1-p), da cui si ricava: p > ½. 6 “il vero stato del mondo è s ” - è fornita appellandosi al sistema morale “α” dell’individuo in questione14. Affinché le argomentazioni siano efficaci, vale a dire capaci di persuadere chi ascolta a modificare le proprie decisioni, sono necessari almeno tre requisiti. In primo luogo, chi ascolta deve credere che chi parla detenga delle informazioni che sono sia private (vale a dire non possedute da chi ascolta o comunque non accertabili senza costi), che rilevanti (nel senso che l’ottimalità delle decisioni dei partecipanti è funzione di tali informazioni). In secondo luogo, chi ascolta non deve essere dogmatico, vale a dire, di fronte a nuove – e convincenti - informazioni, è disposto a cambiare le proprie decisioni15. Infine, la comunicazione deve essere credibile: un aspetto tutt’altro che scontato una volta ammessa la possibilità di una divergenza di preferenze primitive tra gli attori. L’insieme di questi aspetti, assieme al ruolo del disegno istituzionale come strumento per rafforzare la trasmissione credibile di informazioni, verrà affrontato nel paragrafo 3.2 e seguenti. 2.2 Come cambiano le preferenze primitive Un processo deliberativo può condurre anche ad una trasformazione nelle preferenze primitive degli individui, in un modo fondamentalmente distinto rispetto al cambiamento delle loro preferenze indotte. Sono tre, in particolare, le spiegazioni che si possono avanzare a riguardo. L’aspetto che le accomuna è la constatazione che le preferenze (primitive) di un attore non dipendono soltanto da una matrice di payoff in astratto, ma anche dal contesto in cui queste stesse preferenze sono espresse. In particolare, il luogo della deliberazione (il “forum pubblico”) può condurre gli attori a riformulare una data decisione nei termini di un interesse imparziale o collettivo piuttosto che di interessi privati. In questo senso, occorre catturare la distinzione esistente tra l’espressione di preferenze isolate e l’attività pubblica e aperta della politica16. Queste tre (possibili) spiegazioni possono essere graduate lungo una scala per quanto riguarda il grado di affidamento che fanno sulla forza persuasiva della deliberazione: da un grado minimo (spiegazione a1), ad uno medio (spiegazione a2), ad uno massimo (spiegazione a3). 14 AUSTEN-SMITH D., Modelling Deliberative Democracy, Notes written for the Workshop on Deliberative Democracy, University of Chicago, April 28-30, 1995. 15 Il dogmatismo implica, infatti, un impegno ad un particolare sistema di credenze che rende un agente insensibile ai cambiamenti delle sue circostanze epistemiche. 16 Tra il razionale della vita privata e il ragionevole della vita pubblica. Si veda il par. 3.1 sull’idea di ragionevolezza. 7 a1) La virtù dell’ipocrisia La prima spiegazione parte dalla constatazione che le preferenze meramente autointeressate tendono ad essere eliminate nel corso di un processo deliberativo, proprio perché, non costituendo una “vera ragione”, diventano irrilevanti. La “forza civilizzatrice dell’ipocrisia”17 indotta dal processo deliberativo agisce, infatti, come una sorta di filtro, sostituendo il linguaggio dell’interesse con il linguaggio della ragione. In effetti, le argomentazioni in un dibattito pubblico sono scelte per persuadere gli altri a convergere sulla propria posizione, e questo implica presentare delle considerazioni che rinviino più o meno esplicitamente ad aspetti che sono riconosciuti come rilevanti da tutti i partecipanti. Questo processo, di per sé, non presuppone alcun cambiamento dal punto di vista motivazionale da parte dei partecipanti. Anche degli attori completamente auto-interessati hanno, infatti, incentivi ad invocare ragioni, enunciare principi e valori, per non apparire sostenitori di meri interessi parziali. Il fatto che una invocazione di interessi imparziali possa risultare soltanto la razionalizzazione di interessi egoistici non toglie tuttavia forza alla sua efficacia. Tale dinamica può infatti spostare il dibattito verso una dimensione pubblica differente, proprio perché modella la formulazione delle alternative. In particolare, nessuno potrà avere la possibilità di votare su una opzione chiaramente autointeressata, e, in questo senso, il risultato finale non può essere compreso nei termini di una semplice aggregazione di preferenze private. Risse18, a questo riguardo, parla di un processo di “autointrappolamento retorico”. Una volta che chi parla ha adottato una argomentazione imparziale in pubblico, perché corrisponde al suo interesse, sarà infatti visto come un opportunista se devia da quest’ultima quando cessa di servire i suoi bisogni19. Questo punto, ironicamente, non dipende dal fatto che le persone non sono autointeressate, ma dal fatto che lo sono e dal loro desiderio di non apparire tali. Rimane invece valida la distinzione (per lo meno in senso ideale) tra l’argomentare e il negoziare. In una argomentazione, infatti, gli attori si 17 ELSTER J. (1998), op.cit., p.111. RISSE T., “Let’s Argue”: Communicative Action in World Politics, “International Organization”, 51, 1, 2000, p.32. 19 BRENNAN G. E P.PETTIT, Unveiling the Vote, “British journal of Political Science”, n.20, 1992, pp.311-333. Questo fatto può tuttavia creare una certa (e paradossale) inerzia in un processo deliberativo. Infatti, una volta che ci si è impegnati pubblicamente su una posizione, un cambiamento di opinione – alla luce, ad esempio, di nuove e migliori argomentazioni venute alla luce successivamente – può venire scoraggiato dal rischio di “perdere la faccia”. 18 8 impegnano - anche solo per ragioni strategiche - in uno scambio di ragioni imparziali con lo scopo di persuadersi. Le parti in un negoziato si curano per contro meno di questo aspetto, avanzando proposte esplicitamente basate sulla asserzione di interessi di parte. In questi caso, gli strumenti per coordinarsi sono le minacce di punizioni e la promessa di ricompense20. a2) Effetti moralizzanti E’ una cosa dire che l’appello al proprio interesse non è persuasivo e che quindi tale appello non entrerà in una discussione pubblica. E’ un’altra cosa dire che la scoperta che io non posso offrire una ragione persuasiva a sostegno della mia proposta, trasforma le preferenze soggiacenti alla proposta stessa. Nel primo caso, abbiamo, infatti, delle preferenze primitive individuali mascherate da pubbliche; nel secondo caso le preferenze primitive diventano realmente pubbliche. Quando, e se, questo accade, il processo deliberativo cambia il "self" da cui le questioni sono considerate: da un sé atomistico ad uno morale. Una prima possibile spiegazione di questo “impegno alla giustificazione deliberativa” rinvia alla presenza di un particolare meccanismo di pressione psicologica21. Il dibattito pubblico può infatti generare una “auto-censura” nei confronti delle posizioni parziali. All’inizio, come visto, tale censura non è basata su un genuino convincimento, ma sull’anticipazione della disapprovazione altrui. Tuttavia, nel tempo, le persone hanno una tendenza a far combaciare quello che dicono con quello che fanno per ridurre eventuali dissonanze cognitive. In altri termini, esiste una difficoltà psicologica nell’esprimere delle preferenze rivolte agli altri senza in ultima istanza venire ad acquisirle: le ragioni date servono ad “attenuare – ed eventualmente a far scomparire - il pregiudizio e l’egoismo”22. Una seconda possibile spiegazione è invece offerta da Habermas23: in questo caso, non si parla di pressione psicologica, quanto di una pressione concettuale inerente alla struttura del linguaggio. Per Habermas, infatti, una persona impegnata in una azione comunicativa si dichiara implicitamente pronta a riscattare tre pretese di validità: 1) una pretesa alla verità dell’argomentazione; 2) una pretesa alla sua giustezza normativa; 3) una pretesa alla sincerità della comunicazione. Riscattare discorsivamente le pretese di 20 JOERGES C. E J.NEYER, Transforming strategic interaction into deliberative problem-solving: European comitology in the foodstuffs sector, “Journal of European Public Policy”, Vol.4, n.4, 1997, pp.609-625. 21 ELSTER J. (1986), op.cit. 22 MILLER D., Deliberative Democracy and Social Choice, “Political Studies”, XL, Special Issue, 1992, p.61. 23 HABERMAS (1996), op.cit. 9 validità implica che chi parla è preparato ad offrire delle ragioni a supporto di quanto dice nel caso gli fosse chiesto di farlo. Queste garanzie rappresentano il “telos della reciproca comprensione” inerente nella comunicazione umana, e vengono, per questa via, a stabilire il presupposto pragmatico non evitabile del linguaggio che impone dei vincoli sulla abilità dei giocatori a fare affermazioni che esprimono solamente degli interessi non generalizzabili24. Il problema con questo ultimo punto è che rischia di essere meramente descrittivo25. Identifica, infatti, una certa tipologia di scambio comunicativo (in cui i partecipanti si impegnano a raggiungere una comprensione reciproca astenendosi da azioni strategiche), ma non ci dice nulla se - ed eventualmente sotto quali condizioni - possiamo attenderci delle azioni comunicative nel mondo reale. In effetti, “cercare di disegnare un unico reame politico per tali azioni - trascendente rispetto alle virtù e alle patologie delle esistenze individuali - appare controintuitivo”26. Su questo aspetto si tornerà in seguito. a3) L’ideale deliberativo L’ultima spiegazione è anche quella che fa maggiore affidamento sulla capacità persuasiva di un processo deliberativo. In questo caso, infatti, si presume non solo che gli attori, grazie alla deliberazione, presentino ex-post delle preferenze primitive realmente pubbliche (spiegazione a2), ma si ipotizza anche la capacità della deliberazione di variare le preferenze così formate al fine di raggiungere un consenso. In poche parole, di passare da una pluralità di preferenze pubbliche ad una loro unicità. Il paragrafo 3.1 sarà diretto ad offrire alcune ragioni a sostegno di tali posizioni (nonché alcuni spunti critici a riguardo). 3. Possibili scenari deliberativi Quando due o più attori si accingono a dare il via ad un processo deliberativo, possiamo identificare, sulla base di quanto discusso finora, quattro possibili scenari: Tabella 2 qui 24 JOHNSON J., Habermas on strategic and communicative action, “Political Theory”, Vol.19, n.2, 1991, pp.181-201. 25 VANBERG V., Democracy, Discourse and Constitutional Economics, mimeo, 2002. 26 SCHAUER F., Discourse and its Discontents, “Notre Dame Law Review”, Vol.72, n.5, 1997, pp.1309-1334. 10 Nello scenario (I) la deliberazione è del tutto superflua, dato che esiste già in partenza, tra i vari partecipanti, un consenso di fondo sia nelle preferenze indotte che in quelle primitive. Il pluralismo nelle opinioni – delle idee e delle informazioni – rappresenta, in questo senso, la dinamica dietro qualunque processo deliberativo, una sua assunzione imprescindibile. Nello scenario (II) la deliberazione appare, invece, come non problematica. In questo caso, infatti, un processo deliberativo assume una forma molto semplice: data l’esistenza di identità nelle preferenze primitive, ognuno ha un incentivo a rivelare sinceramente le proprie conoscenze private al fine di arrivare ad una decisione finale corretta. La deliberazione produce, in altre parole, sempre unanimità nelle decisioni finali. I rimanenti due scenari – (III) e (IV) – sono quelli più interessanti, proprio perché meno scontati sia nelle premesse che negli esiti. A questo riguardo, è peraltro utile tracciare una distinzione tra tre potenziali forme di consenso: un consenso in senso forte, un consenso di medio raggio, e un consenso in senso debole. Il primo richiede di raggiungere un consenso sulle preferenze primitive di tutti gli individui coinvolti in un processo deliberativo. Un consenso di “medio raggio” coinvolge, invece, un accordo sulle questioni rilevanti di volta in volta in gioco, ma non su quali risposte dovrebbero esserci. Infine, un consenso in senso debole richiede di raggiungere un consenso soltanto sulle conseguenze attese di ogni scelta. La parte restante di questo lavoro sarà dedicata a studiare proprio questi due ultimi scenari deliberativi. 3.1 Scenario (III): da un consenso forte ad un consenso di medio raggio Anche ammettendo che tutti i partecipanti siano in grado di accordarsi sulle rispettive ipotesi fattuali (e quindi ci sia consenso sulle preferenze indotte), e che il processo deliberativo vincoli effettivamente i partecipanti a presentare le loro proposte in relazione all’interesse comune, la formazione di un consenso (forte) non risulta affatto scontata. Il principale ostacolo, in questo caso, non è, infatti, più rappresentato dalla competizione tra interessi privati, ma dalla pluralità delle concezioni normative del bene presenti in una data comunità politica. La deliberazione può allora “fare differenza” solamente assumendo come effettivamente plausibile l’ideale deliberativo (vale a dire la spiegazione a3). Una prima strada a questo riguardo – che possiamo identificare come “rawlsiana” – parte dalla nozione di ragionevolezza implicita nel dovere di cittadinanza27. Il dovere di cittadinanza è il dovere di adottare una certa forma di discorso pubblico. Quello che la ragione pubblica richiede ai cittadini è 27 RAWLS J., Political Liberalism, New York, Columbia University Press, 1993. 11 infatti di essere in grado di spiegare la propria posizione in termini di un (ragionevole) bilanciamento di valori politici pubblici. Su questa base, i cittadini onorano un dovere di cittadinanza quando accettano il fatto dell’inevitabilità del pluralismo, e provano a scoprire i principi che possono essere accettati da individui legati ad un ampio spettro di differenti modi di vita28. I partecipanti ad un processo deliberativo dovrebbero, allora, praticare una economia del disaccordo morale, cercando delle considerazioni a favore delle proprie posizioni che minimizzano, al tempo stesso, il rifiuto delle posizioni che non condividono 29. La reciprocità, per questa via, è al cuore morale della democrazia deliberativa, e al tempo stesso ciò che permette di arrivare ad un consenso forte sulle questioni oggetto di una prassi deliberativa comune. Nella prospettiva rawlsiana si parla, infatti, di consenso per intersezione (“overlapping consensus”)30. In particolare, all’interno di questo esito, ciascuna preferenza individuale esce modificata (nel senso che nessuna preferenza è rispecchiata, nella sua interezza, nella posizione conclusiva), anche se soltanto parzialmente (nel senso che la decisione finale non è completamente aliena ad ogni singola posizione) 31. Vale la pena notare che in quest’ottica la promessa (e la possibilità) del consenso (anche se per intersezione) è associata ad una pratica di esclusione: i partecipanti dei processi deliberativi difendono le proprie tesi soltanto attraverso il ricorso a valori politici e a ragioni che si può ragionevolmente aspettare ciascuno condivida. Si viola, così, quello che nella teoria della scelta sociale è chiamato il criterio del dominio di scelta individuale non ristretto32, vale a dire la richiesta (questa sì ragionevole) di eliminare ogni precedente vincolo sul contenuto delle preferenze che una procedura di decisione collettiva dovrebbe accomodare. La precedente spiegazione domanda, al contrario, un qualche criterio normativo sottoscritto dalle parti della deliberazione, che in 28 Sono ragionevole in definitiva “quando so tracciare la differenza tra i rapporti che io ho con i miei valori e gli altri hanno con i miei valori; e quando so riconoscere la somiglianza tra il rapporto che io ho con i miei valori e gli altri con i loro” (BESUSSI A., La filosofia politica come fede ragionevole, “Filosofia e questioni pubbliche”, n.1, 1995, p.39). 29 GUTTMAN A. E D. THOMPSON, Democracy and Disagreement, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1996. 30 RAWLS (1993) , op.cit. 31 RAWLS (1993) , op.cit., parla di consenso per intersezione riferendosi ad aspetti di natura costituzionale. La letteratura sulla deliberazione estende, tuttavia, tale ambito di applicabilità a qualunque questione di interesse pubblico. 32 MARTELLI P., La logica della scelta collettiva, Milano, Il Saggiatore, 1983. 12 questo modo diventano capaci di riconoscere come ragionevoli soltanto alcune posizioni (le uniche da trattare con rispetto, e non meramente da tollerare). Questo, ad ogni modo, lascia malamente definito il criterio da utilizzare nel determinare quello che costituisce una posizione ragionevole, da quella che non lo è. Ogni insieme di criteri sostantivi per distinguere il ragionevole dal non ragionevole solleva, infatti, un rischio di arbitrarietà33. Ciò che costituisce una accettazione ragionevole di una posizione differente è soggetta anch’essa alla controversia; in altri termini, gli irriducibili “oneri del giudizio”34 alla base di un disaccordo ragionevole minano, allo stesso modo, la possibilità di un accordo su ciò che sia da ritenere ragionevole o meno35. In questo senso, una posizione à la Habermas, in cui si evita di porre una qualche condizione di entrata sulle argomentazioni ammissibili nella sfera pubblica, ma in cui, al contrario, si incoraggia i cittadini a proporre e difendere discorsivamente qualsiasi concezione che essi ritengano rilevante, appare più coerente. L’approccio habermasiano è infatti marcatamente procedurale rispetto a quello rawlsiano, di carattere maggiormente sostanziale36. Per il filosofo tedesco è la forza della migliore argomentazione a determinare gli esiti finali. Per Rawls, invece, “political discourse is principle-interpreting rather than principle-generating; it is primarily a medium of the application of the general principles of justice”37. In altri termini, per Rawls la ragione pubblica non è un processo che genera un accordo normativo attraverso la trasformazione delle preferenze individuali, ma una idea che impone un vincolo su quei principi politici pubblicamente accettabili. La discussione pubblica è allora essenzialmente un processo monologico in cui i cittadini devono capire se i principi politici che sostengono sono ragionevoli, nel senso di essere in grado di essere ragionevolmente accettati da tutti. Habermas riesce, invece, a rendere conto del fatto che il terreno comune a partire dal quale può emergere un consenso per intersezione non è qualcosa che è dato e che può essere difeso mediante una limitazione della discussione 33 KNIGHT J. E J.JOHNSON, What Sort of Political Equality Does Deliberative Democracy Require?, in J.BOHMAN E W.REHG, op.cit., pp. 279-320. 34 RAWLS (1993) , op.cit. 35 Inoltre, il richiamo al bene comune e al ragionevole può restringere eccessivamente la possibile agenda di decisioni, fallendo nel riconoscere l’importanza del conflitto e del disaccordo, vale a dire le condizioni normali della politica: SANDERS L.M., Against Deliberation, “Political Theory”, Vol.25, n.2, 1997, pp.347-376. 36 COOKE M., Five Arguments for Deliberative Democracy, “Political Studies”, Vol.48, 2000, pp.947-969. 37 RAWLS J., Reply to Habermas, “Journal of Philosophy”, n.92, 1995, p.151. 13 pubblica, ma è qualcosa che con lo scorrere del tempo e il mutare dei contesti può anche conoscere una riduzione o persino scomparire38. Le norme valide o legittime sono, infatti, quelle norme che meritano di essere riconosciute in modo intersoggettivo perché incorporano un qualche interesse che è percepito, in quel momento, come comune da tutte le parti coinvolte. C’è, in altri termini, la convinzione per cui le pretese morali, come le pretese di verità, possano essere razionalmente giudicate39. Questo comporta una riformulazione procedurale dell’imperativo categorico: da quello che ciascuno può volere senza contraddizione, a quello che tutti possono accettare in un discorso razionale40. Assumere una tale prospettiva, tuttavia, non fa che rendere più complicata la possibilità di arrivare ad un consenso (forte) grazie alla deliberazione: in effetti, quanto Rawls è definito nelle procedure e negli esiti (l’idea dell’overlapping consensus), pur all’interno di un quadro sostanzialmente statico (la nozione di dovere di cittadinanza), tanto Habermas offre un quadro dinamico, ma a costo di essere indefinito sulla possibilità del risultato finale. In effetti, date condizioni di pluralismo nei valori e in presenza di ineludibili vincoli di tempo, anche un discorso idealmente razionale non è necessariamente destinato a produrre un qualche consenso; anzi, può risultare vero il contrario. La deliberazione, facendo conoscere (meglio) le preferenze altrui, può infatti portare le differenze in superficie, allargando, e non restringendo, le divisioni41. In questo senso, in presenza di un potere di deliberare egualmente distribuito tra preferenze individuali contrastanti, non c’è nessuna reale garanzia di uscire da un mero impasse decisionale. Parafrasando Oscar Wilde, la deliberazione potrebbe allora fallire perché: “it will take up too many evenings”. L’esito di un processo deliberativo non può quindi che sfociare in una aggregazione di opinioni individuali post-deliberative. D’altra parte, il confronto tra deliberazione e aggregazione, una volta che si passa da una situazione ideale ad una concreta, è in larga misura artificiale, dato che, per 38 MCCARTHY T., Kantian Constructivism and Reconstructivism: Rawls and Habermas in Dialogue, “Ethics”, n.105, 1994, pp.44-63. 39 Ibidem. 40 HABERMAS (1996), op.cit. 41 SHAPIRO I., Optimal Deliberation, “Journal of Political Philosophy”, n.10, 2002, pp.196-212. 14 definizione, una democrazia silenziosa non esiste42. Diventa, allora, interessante considerare come il processo deliberativo interagisca con le procedure di decisione non deliberative (a partire dal voto), e come – e se – la deliberazione abbia un impatto sull’esito collettivo finale. Il rapporto tra teoria della scelta sociale e teoria della democrazia deliberativa appare, da questo punto di vista, particolarmente utile. In effetti, le teorie deliberative studiano come i processi di comunicazione possono cambiare le preferenze degli attori in gioco in un processo di decisione collettiva. La teoria della scelta sociale, invece, ci informa sulla relazione tra ciò che entra (preferenze individuali) e ciò che esce (scelta finale) in una decisione collettiva. A questo riguardo, una delle principali conclusioni cui perviene la teoria della scelta sociale – il noto teorema generale di impossibilità43 - è che non esiste alcuna regola di decisione collettiva in grado di soddisfare un requisito di coerenza logica (vale a dire di generare un ordinamento di preferenze di gruppo completo e transitivo) e al tempo stesso rispettare alcuni criteri normativi minimi (il già summenzionato dominio di scelta individuale non ristretto; la condizione debole di pareto; l’indipendenza dalle alternative irrilevanti; il principio di non dittatorialità). In questo senso, data una procedura equa (in quanto capace di rispettare suddetti criteri normativi), non c’è modo di conoscere se il voto a maggioranza rappresenti accuratamente la volontà popolare44. A partire dal lavoro di Black45, sappiamo, tuttavia, che la questione della ciclicità del voto a maggioranza è da attribuirsi ad una mancanza di struttura nel profilo delle preferenze individuali, vale a dire alla mancanza di un allineamento sistematico delle opinioni individuali lungo una qualche dimensione. In presenza, infatti, di una descrizione condivisa dell’insieme di scelta e della sua struttura, il paradosso della ciclicità può essere risolto46. Un processo deliberativo può giocare un ruolo cruciale proprio a questo riguardo. In effetti, deliberare in una arena pubblica rappresenta una delle vie principali per favorire la genesi di una comune disposizione ad escludere preventivamente certe opinioni da quelle a priori possibili e quindi, più in generale, per ridurre le differenze tra le persone. Abbiamo già evidenziato come 42 Sembra chiaro che la pratica del voto sia una parte integrale della teoria discorsiva di Habermas: VAN MILL D., The Possibility of Rational Outcomes from Democratic Discourse and Procedures, “Journal of Politics”, Vol.58, n.3, 1996, pp.734-752. 43 ARROW K., Social Choice and Individual Values, New York, Wiley, 1951. 44 RIKER W.H., Liberalism against Populism, San Francisco, Freeman, 1982. 45 BLACK D., The Theory of Committees and Elections, Cambridge, Cambridge University Press, 1958. 46 MARTELLI (1999), op.cit. 15 questo processo di riduzione delle opinioni “stonate” possa avere luogo: ad esempio, quando le posizioni risultano basate su ipotesi semplicemente sbagliate; oppure quando sono discorsivamente difficili da sostenere (nel caso di posizioni moralmente ripugnanti o meramente autointeressate). Il risultato di questa dinamica è che la deliberazione può condurre ad una riformulazione – in qualche modo socialmente coordinata - dei problemi di decisione, facilitando l’identificazione di una o più dimensioni pubblicamente rilevanti lungo cui le preferenze delle persone sono strutturate47. Il risultato finale è un “equilibrio indotto dalle preferenze”48. La deliberazione, sotto le condizioni più favorevoli, non condurrebbe, allora, ad un consenso forte, ma si limiterebbe a favorire il raggiungimento di un consenso di medio raggio, vale a dire, come precedentemente sottolineato, un consenso sulla comune dimensione nei cui termini una questione deve essere concettualizzata. Questo assicurerebbe una comprensione condivisa tra i partecipanti della dimensione politica di volta in volta in gioco, pur continuando ad essere in disaccordo tra di loro su come meglio risolvere le singole questioni49. Per questa via, verrebbero facilitati processi di decisione collettiva dotati di senso (vale a dire capaci di generare degli esiti stabili) in ambienti pluralistici, superando la vulnerabilità delle procedure di aggregazione delle preferenze individuali ai problemi di ciclicità. Una argomentazione plausibile per la deliberazione renderebbe, insomma, il pluralismo ragionevole un risultato piuttosto che una pre-condizione della democrazia deliberativa. Il “rilassamento” della condizione di dominio universale non ristretto, vale a dire il fatto che non tutte le preferenze logicamente possibile sono assunte essere altrettanto probabili, non sarebbe, infatti, più assunto esogenamente come in Rawls, ma diventerebbe endogeno allo stesso processo deliberativo. Ovviamente, la questione se la deliberazione induca effettivamente delle preferenze più strutturate, non può essere affrontata soltanto teoricamente. Dopotutto, un processo deliberativo può anche accentuare la complessità di un problema di decisione collettiva, invece di indurre una convergenza su un insieme limitato di dimensioni ben definite (e, possibilmente, su di una unica dimensione). In altri termini, può diventare esso stesso foriero di ciclicità invece che della sua soluzione. La ragione rinvia al fatto che gli attori - in modo 47 LIST C., Two Concepts of Agreement, “The Good Society”, n.11, 2002, pp.72-79. REGONINI G., Capire le politiche pubbliche, Bologna, il Mulino, 2001, p.456. Questo accade sempre che le preferenze dei singoli partecipanti alla deliberazione presentino un ordinamento transitivo e completo. 49 DRYZEK J.S. E C.LIST, Social Choice and Deliberative Democracy: A Reconciliation, “British Journal of Political Science”, Vol.33, n.1, 2003, pp.1-28. 48 16 più o meno volontario - possono immettere nella discussione pubblica qualunque alternativa, aggiungendo continuamente nuove dimensioni allo spazio di policy 50. A questo riguardo, tuttavia, alcuni studi empirici – collegati al Center for Deliberative Polling - sembrano confermare le ipotesi (ottimiste) da cui siamo partiti. In particolare, emerge come i livelli complessivi di preferenze ad un solo massimo post-deliberazione risultano superiori rispetto ai corrispondenti livelli pre-deliberazione.51. 3.2 Scenario (IV): parlando e discutendo (nella teoria dei giochi) Lo scenario (IV), caratterizzato da una divergenza (più o meno accentuata) sia di preferenze indotte che di preferenze primitive, rappresenta la situazione più delicata, ma al tempo stesso anche la più realistica. La doppia divergenza delle preferenze individuali fa infatti emergere, in tutta la sua importanza, il problema della strategicità, e, di conseguenza, della credibilità delle informazioni trasmesse verbalmente. Tale comportamento può, ovviamente, essere escluso in partenza assumendo che, in un processo deliberativo, le persone non agiscano mai strategicamente. Tuttavia, una argomentazione plausibile per la deliberazione non dovrebbe essere utopica, nel senso di fare proprie delle assunzioni eroiche sui partecipanti52. Una simile impostazione non fa altro che descrivere le proprietà desiderabili di un dato stato del mondo che si vorrebbe raggiungere. Non ci dice, invece, nulla su quali cambiamenti dovremmo fare per renderlo possibile. In secondo luogo, ci impedisce di meglio specificare i meccanismi al lavoro quando le parti coinvolte in un processo deliberativo avanzano argomentazioni nella speranza di persuadere gli altri. 50 VAN MILL (1996), op.cit. Focalizzarsi su interessi generalizzabili non risolve necessariamente il problema, dato che gli stessi individui – come visto - possono rimanere in disaccordo su quale sia l’interesse pubblico rilevante su una data questione. Il pregio della deliberazione consiste, tuttavia, nel rendere esplicito agli occhi degli attori coinvolti le dimensioni in gioco. In questo caso, un modo per procedere potrebbe essere quello di suddividere la decisione originaria in tante sotto-decisioni, ognuna delle quali caratterizzata da una singola dimensione di scelta, e aggregare, alla fine, le singole decisioni prese a maggioranza, in una decisione complessiva finale (DRYZECK E LIST, op.cit.). 51 Si veda il materiale raccolto nel sito: http://www.la.utexas.edu/research/delpol. 52 JOHNSON J., Arguing for Deliberation: Some Skeptical Considerations, in J.ELSTER, op.cit. 17 In questo senso, alcuni contributi che provengono dalla teoria dei giochi si dimostrano utili nel capire come – e se - la comunicazione possa ridurre l’incertezza e migliorare il risultato di una decisione collettiva. I giochi ad informazione incompleta consentono, in particolare, di analizzare la comunicazione strategica esistente fra i giocatori. Per fare ciò, consideriamo la comunicazione sotto forma di messaggi che ogni giocatore può inviare agli altri. Inviare un messaggio equivale, infatti, ad effettuare una mossa del gioco. I messaggi, a loro volta, possono portare i giocatori a modificare le loro mosse alterando le ipotesi rispetto all’insieme di azioni possibili che essi avevano precedentemente formulato. Questo, d’altra parte, è un aspetto particolarmente importante una volta che riconosciamo come la maggior parte della discussione pubblica sia relazionata a mezzi, non a fini53. Se le preferenze cambiano nel corso della deliberazione è allora in larga misura l’effetto di un cambiamento di ipotesi sulla relazione causale tra decisioni ed esiti. Ovviamente, affinché vi sia comunicazione, una certa dose di incertezza nel gioco è necessaria. In assenza di incertezza i giocatori non formulano ipotesi e dunque la comunicazione non può modificarle. La presenza di informazione limitata crea, tuttavia, anche la possibilità di inganni, di rappresentazioni poco veritiere, così come di una comunicazione onesta tra i giocatori. I giochi di segnalazione sono un modo standard per analizzare questioni dove questi aspetti sono centrali. Gli attori hanno accesso a due distinte forme di comunicazione per segnalare dell’informazione privata. Il primo tipo consiste in segnali costosi. Ad esempio, degli aspiranti lavoratori possono intraprendere un certo percorso educativo per segnalare la loro produttività ai potenziali datori di lavoro. Se il costo dell’istruzione varia con il tipo di lavoratore, la sua disposizione ad incorrere in questi costi può rivelare il suo tipo54. L’istruzione funziona, cioè, come un segnale credibile perché acquistarla comporta un costo-opportunità, e gli individui maggiormente capaci sono in grado di raggiungere un più elevato livello di istruzione ad uno stesso costo rispetto a quelli meno capaci. La comunicazione rimane, tuttavia, di tipo tacito: un giocatore deve inferire la volontà altrui attraverso lo studio delle azioni di questi ultimi, non prestando attenzione a quello che dicono. In questi casi, sono le azioni ad indicare l’intenzione di chi agisce. Esiste, ovviamente, anche una comunicazione di tipo formale (che utilizza, vale a dire, il linguaggio). Sebbene il linguaggio rivesta un ruolo cruciale nel risolvere molte situazioni reali di conflitto, la teoria dei giochi ne ha 53 PRZEWORSKI A., Deliberation and Ideological Domination, in J.ELSTER, op.cit., pp. 140-160 54 SPENCE A.M., Job Market Signalling, “Quarterly Journal of Economics”, 87 (3), 1973, pp.355-374. 18 trascurato il ruolo per lungo tempo. Recentemente, tuttavia, si sono succeduti i tentativi di formalizzare il ruolo della comunicazione verbale in situazioni strategiche55. L’approccio razionale tratta i discorsi come dei segnali allo stesso modo in cui l’istruzione segnala l’abilità individuale. La differenza fondamentale tra queste due forme di comunicazione è che acquistare un dato livello di istruzione è costoso per il singolo attore, mentre il parlare generalmente non lo è (da qui il termine cheap talk e cheap talk games: “giochi senza costi di comunicazione”56). In altri termini, il cheap talk consiste in messaggi privi di costo (nel senso che il costo per un giocatore di inviare un dato messaggio piuttosto che un secondo è pari a zero), non vincolanti, non verificabili57, che possono influenzare le ipotesi di chi ascolta. Formalmente, una affermazione è dunque cheap talk se non esercita alcun impatto diretto sulla utilità dei giocatore: ovviamente, può influenzare i payoff attraverso le azioni (possibilmente) differenti indotte dai messaggi. Ma in questo caso l’influenza sarebbe indiretta, non diretta. Sono due i punti che vincolano l’efficacia del cheap talk nella capacità di persuadere chi ascolta a modificare le sue credenze, scelte o atteggiamenti: l’intelligibilità e la credibilità58. In primo luogo, se i giocatori devono fare affidamento sul cheap talk per coordinare le loro aspettative, ognuno deve essere in grado di formulare dei messaggi che gli altri possono comprendere. Di conseguenza, quando si incorpora il linguaggio nei modelli, si attribuisce tacitamente una competenza linguistica ad ogni attore. In altri termini, si assume che i giocatori siano in grado di inviare delle frasi comprensibili dato che condividono un linguaggio naturale ricco59: il cheap talk può così essere 55 CRAWFORD V. E SOBEL J., Strategic information trasmission, “Econometrica”, n.50, 1982, pp.1431-1451; FARRELL J. E M.RABIN, Cheap Talk, “Journal of Economic Perspectives”, Vol.10, n.3, 1996, pp.103-118. 56 GIBBONS R., Teoria dei giochi, Bologna, il Mulino, p. 213. 57 Se fosse infatti realmente senza costi verificare ogni volta la verità di quanto affermato nel corso di un dibattito, allora, presumibilmente, sarebbe egualmente senza costi per qualunque giocatore ottenere tutte le informazioni di cui necessita, e quindi non ci sarebbe nessuna ragione per l’esistenza di asimmetrie nelle informazioni private. 58 JOHNSON J., Is Talk Really Cheap? Prompting Conversation between Critical Theory and Rational Choice, in “American Political Science Review”, Vol.87, 1993, pp.74-86. 59 Un “linguaggio naturale ricco” consiste di 1) un vocabolario dotato di senso e 2) della volontà condivisa da parte degli attori di interpretare le affermazioni in accordo con il loro significato letterale. In questo senso, lo studio del cheap talk è basato su come le persone interpretano in modo scettico, ma convenzionale, il linguaggio. 19 bloccato dall’incredulità, ma non dalla incomprensione. Utilizzando il linguaggio habermasiano, possiamo allora dire che anche nella teoria dei giochi la perlocuzione (“il parlante produce determinati effetti presso l’uditore attraverso il parlare”) implica l’illocuzione (“il parlante compie un’azione dicendo qualcosa”). In secondo luogo, se fare delle affermazioni non costa nulla, un agente può essere sempre portato a farle a proprio vantaggio, al limite mentendo. Il grado in cui il parlare ha successo nel cambiare le preferenze (indotte) di chi ascolta, dipende, perciò, da come esattamente gli individui assimilano e interpretano le informazioni che chi parla offre volontariamente. Ad un estremo, l’audience può sempre credere a tutto quello che gli viene detto: ma questo sarebbe naif. All’altro estremo, gli individui ignorano tutto ciò che viene detto; ma in questo caso è difficile spiegare perché i dibattiti siano una costante nello scenario pubblico. La questione centrale è quindi identificare le circostanze in cui l’informazione offerta nel dibattito può essere credibile; e descrivere quali risultati sono raggiungibili quando il parlare gioca un ruolo rispetto a quando è assente. In questo senso, una condizione necessaria, ma non sufficiente, affinché il parlare influenzi i processi decisionali, è che chi parla e chi ascolta abbiano almeno un qualche interesse comune. Per illustrare questo punto, si consideri la situazione opposta, vale a dire la presenza di preferenze primitive divergenti. Ritorniamo ancora una volta alla situazione vista in precedenza. Si immagini, cioè, che ci sia un legislatore disinformato che deve decidere se votare a favore, contro o astenersi rispetto ad un progetto di legge60. Il legislatore non sa se tale progetto è buono o cattivo per la maggior parte dei suoi elettori; si assuma che assegni il 50% di probabilità ad ognuna delle due possibilità. Si ipotizzi, inoltre, che esista un lobbista (o un altro legislatore) che invece sa per certo se il progetto di legge è buono o cattivo per la constituency del legislatore. I payoff a tale riguardo sono espressi nella tabella 3. Il primo numero in ogni cella è il payoff per il lobbista; il secondo per il legislatore. Tabella 3 qui Assumere che i giocatori condividano un linguaggio naturale ricco, permette di introdurre un raffinamento negli equilibri possibili del gioco: FARRELL J. (1993), Meaning and credibility in cheap-talk games, “Games and Economic Behavior”, 5(4):514-31. 60 Esempio tratto da AUSTEN-SMITH D., Strategic Models of Talk in Political Decision Making, “International Political Science Review”, Vol.13, n.1, 1992, pp.45-58. Per una situazione in cui sono due i giocatori che parlano e in cui l’obbiettivo è quello di coordinare le rispettive strategie, si veda Curini (2002). 20 Se il lobbista non offre nessuna informazione, la migliore decisione per il legislatore è di astenersi (si garantisce così un payoff di 2 che è superiore rispetto a quello atteso del votare a favore o contro). Ad ogni modo, il legislatore voterebbe a favore (contro) il progetto di legge se sapesse con certezza che è positivo (negativo) per la sua constituency. Il lobbista preferisce invece strettamente che il legislatore voti per il progetto di legge in entrambe le circostanze. Si supponga che il lobbista possa fare un discorso al legislatore prima della decisione di voto. Il solo contenuto rilevante di tale discorso per il legislatore è se il progetto di legge avvantaggi o meno la sua constituency. Data la struttura delle preferenze espressa nella tabella 3, il legislatore non crederà tuttavia mai al lobbista quando quest’ultimo gli comunica che il progetto di legge è favorevole61. Se infatti il lobbista è incentivato a dire la verità quando è vero che il progetto di legge è favorevole, allo stesso modo ha tutti gli incentivi a mentire quando è vero l’opposto. Dunque, il discorso non contiene nessuna informazione su cui il legislatore possa fare affidamento, e quindi la sua migliore decisione consiste nell’ignorare il lobbista, e astenersi. Questo, vale la pena sottolineare, nonostante l’esistenza di un interesse comune tra i giocatori di votare per il progetto di legge quando è vero che quest’ultimo è favorevole62. Invertendo i payoff che il lobbista ottiene quando è vero che il progetto di legge è sfavorevole, si ottiene una situazione in cui aumenta il grado in cui le preferenze di chi parla e di chi ascolta coincidono63. In questo nuovo caso, l’informazione può essere credibilmente trasmessa. Il lobbista è infatti incentivato a dire la verità tutte le volte, e il legislatore riconosce questo punto. Dunque, ogni discorso è pienamente credibile e conduce sempre il legislatore a fare la scelta corretta: si ritorna allo scenario (II) della tabella 2 vista in precedenza. In altri termini, più vicine sono le preferenze tra i partecipanti di un dibattito, più il discorso può influenzare il processo decisionale. La conseguenza è che il dibattito tra due parti divise e lontane probabilmente non avrà nessun impatto sulle scelte individuali; l’opposto accade quando le 61 Sentire la frase: “il progetto di legge è favorevole”, ha un significato letterale chiaro; ma alla luce degli incentivi strategici il legislatore non interpreta il discorso letteralmente. 62 Quando le preferenze dei giocatori sono sufficientemente differenti, il solo equilibrio possibile è il cosiddetto “babbling equilibrium”, in cui tutti i messaggi inviati sono privi di senso ed ignorati da chi li riceve. Da notare che in tutti i giochi che coinvolgono del cheap talk, esiste sempre un simile equilibrio: GIBBONS, op. cit. 63 Ad esempio, si supponga adesso che votare a favore quando il progetto di legge è sfavorevole determini un payoff pari a (-1,0); votare contro un payoff pari a (3,3). 21 preferenze primitive sono simili: in questo caso le preferenze (indotte) possono mutare dato che si trasmette (credibilmente) dell’informazione nel dibattito64. 4. Rafforzare la credibilità: il ruolo delle istituzioni L’introduzione – come visto - di una divergenza negli interessi individuali, fornisce ai giocatori incentivi per ingannarsi a vicenda. Questo fatto, a sua volta, li rende incapaci di giungere a qualsiasi conclusione a proposito del prevalente stato della natura sulla base delle comunicazioni verbali ricevute. In queste situazioni, cos’altro, oltre al contenuto semantico della comunicazione, è necessario affinché le argomentazioni possano influenzare le preferenze? Riscattare, infatti, la pretesa di sincerità di quanto affermato soltanto attraverso delle argomentazioni verbali, risulta spesso impossibile, proprio perché ogni argomentazione, in una comunicazione reale e non ideale, può essere sospettata di essere una rappresentazione strategica. Per provare le sue motivazioni, chi parla deve allora muoversi oltre il discorso e sottolineare la sua prassi passata e presente (vale a dire, deve rendere in qualche modo costoso il suo messaggio verbale)65. Questo, a sua volta, facilita la capacità da parte di chi ascolta di distinguere tra messaggi credibili e non credibili. A questo riguardo, la lezione principale che proviene dal neoistituzionalismo è che la struttura istituzionale, e gli incentivi in essa contenuti, conta nell’influenzare le interazioni tra attori66. Emerge, in questo senso, la necessità di incorporare anche i processi deliberativi all’interno di una più compiuta prospettiva istituzionale. D’altra parte, le arene deliberative non sono (e non possono essere) istanze di tipo assembleare: in caso contrario, il rischio è 64 CALVERT R., The Value of Biased Information: A Rational Choice Model of Political Advice, “Journal of Politics”, n.47, 1985, pp.530-555, mostra, in modo simile, come la migliore fonte informativa è quella che condivide il pregiudizio di chi ascolta. Solamente queste fonti possono infatti produrre della evidenza che ci convincerà a cambiare le nostre posizioni su una certa opzione. 65 Un modo per farlo potrebbe consistere nell’auto-imporsi dei costi personali per poter comunicare credibilmente un messaggio. In CURINI L., Sulla democrazia deliberativa: giochi, preferenze e consenso, Working Papers del Dipartimento di Studi Sociali e Politici, Università degli studi di Milano, n.7, 2002., questa strategia è chiamata “la razionalità dell’autolesionismo”. Si veda anche: AUSTEN-SMITH D., Cheap Talk and Burned Money, “Journal of Economic Theory”, n.91, 2000, pp.1-16. 66 NORTH D., Istituzioni, cambiamento istituzionale, evoluzione dell'economia, Bologna, Il Mulino, 1994. 22 di favorire una discussione che protraendosi all’infinito degenera in una generale frustrazione67. L’attenzione teorica, e non soltanto descrittiva, sui dettagli istituzionali, ossia sull’insieme delle regole che struttura le arene deliberative, è tuttavia un fatto relativamente recente nella letteratura sulla democrazia deliberativa. Si è così sottolineato, tra gli altri aspetti, il ruolo della legge elettorale68 e della regola di voto da privilegiare a seguito di un processo deliberativo69. A livello più generale, ci si è soffermati sulla distinzione tra democrazia maggioritaria e consociativa70, nonché sull’importanza di un assetto istituzionale capace di accrescere l’incertezza nei confronti degli esiti distributivi finali di scelte politiche differenti71. Qui di seguito ci si concentrerà su due aspetti che appaiono particolarmente interessanti. La deliberazione richiede, infatti, un ambiente che induca i partecipanti ad essere ragionevoli - una volta che, con sguardo disincantato, ammettiamo la possibilità per gli attori di non esserlo - e, in un senso più modesto, a rivelare credibilmente le informazioni private che possiedono. Solo date queste condizioni, la “forza” della migliore argomentazione può davvero rivestire un ruolo effettivo. In questo senso, considerare la deliberazione in una prospettiva istituzionale riprende la lezione madisoniana: occorre, cioè, riconoscere la possibilità dell’esistenza di attori strategici (che quindi possono utilizzare gli scambi verbali per perseguire i loro scopi privati) e pensare, di conseguenza, ad istituzioni compatibili con gli incentivi, in cui l'interesse dell'individuo sia “portato” a coincidere con l'interesse del gruppo. Al di là della eventuale presenza di una comunanza di interessi tra chi è coinvolto in un processo 67 BOBBIO L., Le arene deliberative, paper presentato al panel su “La democrazia discorsiva”, Convegno Annuale SISP, Genova, 18-20 settembre 2002. 68 SUNSTEIN C., Democracy and shifting preferences, in D.COPP, J.HAMPTON E J.ROEMER (a cura di), op.cit., pp. 196-230. 69 AUSTEN-SMITH D. E T.FEDDERSEN, Deliberation and voting rules, Northwesten U., CMS-EMS DP#1359, 2002. 70 STEINER J., A.BACHTIGER E M.SPORNDLI, The Real World of Deliberation: Favorable Conditions and Substantive Outcomes, paper presentato alla ECPR General Conference, Canterbury, 6-8 settembre 2001. 71 BUCHANAN E VANBERG (1989), op.cit. In presenza di una simile incertezza, i giocatori tendono, infatti, ad ignorare le loro preferenze (proprio perché meno certi delle stesse), percependosi come parte di una comunità più ampia. Quando i giocatori sono, invece, relativamente certi degli esiti distributivi delle possibili scelte, la deliberazione sembra lasciare il posto alla mera negoziazione tra le parti: POLLACK M.A., Control Mechanism or Deliberative Democracy? Two Images of Comitology, “Comparative Political Studies”, Vol.36, n.1/2, 2003, pp.125-155. 23 deliberativo, è allora necessario prestare particolare attenzione all’esistenza di fattori esogeni che possano influenzare quello che le persone scelgono di dire, così come quello che decidono di credere. Questi fattori rappresentano, per questa via, dei meccanismi alternativi per valutare la credibilità dei discorsi fatti72. Il primo modo per rendere costoso il cheap talk rinvia alla presenza di una (eventuale) penalità a cui l’attore che sceglie consapevolmente di mentire può andare incontro. Ammettere la possibilità di una ripetizione nelle interazioni tra chi invia e chi riceve messaggi verbali risulta, a questo riguardo, particolarmente fruttuoso. Gli incentivi ad essere onesti creati da una interazione ricorrente rispecchiano, infatti, gli incentivi per la cooperazione in un dilemma del prigioniero iterato73. La ripetizione, di per sé, fornisce la possibilità per ritorsioni e per la formazione di reputazione, e quindi diventa un meccanismo di enforcement automatico che rende oneroso, per chi parla, mentire in modo sistematico (dato che, in caso contrario, non verrebbe più creduto). Il fatto, allora, che le interazioni tra gli attori nell’arena pubblica siano normalmente ricorrenti, aumenta la probabilità della effettuazione di una comunicazione credibile e dotata di senso all’interno della arena stessa74. L’effetto benefico introdotto dalla ripetizione dell’interazione è, tuttavia, catturabile soltanto laddove è effettivamente possibile verificare nel tempo la correttezza o meno della comunicazione fatta. In questo senso, l’efficienza di un contesto istituzionale (intesa come facilità con cui le azioni e le comunicazioni verbali effettuate possono essere controllate dalle parti interessate) diventa un fattore cruciale per spingere gli individui a coltivare e a mantenere la propria reputazione, e, per questa via, rafforza le proprietà informative mostrate dall’equilibrio finale. Ad esempio, prevedere la presenza all’interno dell’arena legislativa di una molteplicità di fonti di argomentazioni (e quindi di informazioni) alternative, provenienti da attori con interessi conflittuali, rappresenta una strada che rende fattibile e meno costoso il controllo della qualità delle informazioni trasmesse nel corso di un dibattito pubblico. In particolare, il principale (vale a dire chi ascolta) può organizzare le modalità di discussione in modo da massimizzare i propri guadagni informativi. Questo avviene, ad esempio, quando la sequenza dei discorsi è tale per cui a parlare in pubblico per primo è l’agente che presenta le preferenze primitive più 72 LUPIA A. E M.D. MCCUBBINS, The Democratic Dilemma: Can Citizens Learn What They Need To Know?, New York, Cambridge University Press, 1998. 73 AXELROD R., The Emergence of Cooperation among Egoists, “American Political Science Review”, n.75, 1981, pp.306-318. 74 MACKIE G., All Men Are Liars: Is Democracy Meaningless?, in J.ELSTER, op.cit., 1998, pp. 69-96. 24 distanti di chi ascolta, seguito dall’agente con le preferenze primitive più vicine75. Una simile dinamica, vale la pena di sottolineare, non esclude di per sé la possibilità di una qualche manipolazione. Torniamo, ancora una volta, all’esempio del legislatore e del lobbista. Se infatti il legislatore controllasse sempre tutti i discorsi fatti, il lobbista non avrebbe nessun interesse a raccogliere informazioni (una attività costosa), perché sarebbe costretto a dire sempre la verità. Sapendo, tuttavia, che ogni discorso è sincero, allora il legislatore non avrebbe incentivi a controllare; nel qual caso, il lobbista mentirebbe qualora fosse nel suo interesse farlo. In altre parole, gli incentivi del legislatore e del lobbista non possono condurre ad un comportamento consistente a meno che il legislatore non decida di controllare in modo casuale. Facendo così, incentiva il lobbista ad offrire almeno qualche informazione credibile e perciò a risultare influente: e dato che i discorsi possono essere influenti, il lobbista ha un incentivo a raccogliere delle informazioni costose. In equilibrio, il legislatore prende delle decisioni relativamente più informate che in assenza del lobbista, anche se in alcune occasioni quest’ultimo riesce a mentire con successo (quando il legislatore non controlla e l’informazione è sbagliata). Come sottolineato da sottolineato da Austen-Smith76, chi ascolta deve cioè essere disposto alcune volte a farsi imbrogliare (per indurre chi parla ad acquisire le informazioni necessarie). Un secondo aspetto del contesto istituzionale – oltre alla facilità di verificare l’esito di quanto detto in una interazione ripetuta - rinvia alle regole procedurali con cui viene strutturato il processo deliberativo77. Il lavoro di Gilligan e Krehbiel78 sul sistema delle commissioni del Congresso americano è a questo riguardo illuminante, dato che mostra come particolari scelte istituzionali siano in grado di influenzare le fondamenta informative su cui le preferenze degli attori si basano79. I due autori considerano le istituzioni parlamentari come modalità decisionali atte a far crescere tra i rappresentanti le capacità di valutare le 75 A.SMITH (1995), op.cit. A.SMITH (1992), op.cit. 77 LASCHER JR. E.L., Assessing Legislative Deliberation: A Preface to Empirical Analysis, “Legislative Studies Quarterly”, XXI, 4, 1996, pp.501-519. 78 GILLIGAN T. E K.KREHBIEL, Collective Decision-Making and Standing Committees: An Informational Rationale For Restrictive Amendment Procedures, “Journal of Law, Economics, and Organization”, n.3, 1987, pp.287-335; Organization of Informal Committees by a Rational Legislature, “American Journal of Political Science”, n.34, 1990, pp.531-564. 79 Si veda anche: LUPIA E MCCUBBINS, op.cit. 76 25 conseguenze politiche delle scelte. Sembra infatti inevitabile che determinate politiche siano adottate in presenza di una incertezza sostanziale. Tale incertezza è particolarmente acuta quando si devono affrontare delle questioni complesse: in queste situazioni, i legislatori sanno quale esito è desiderato dai loro elettori, ma non quale legislazione produrrà tale esito. C’è quindi una sostanziale differenza tra le politiche, che sono l’oggetto della scelta dei legislatori, e gli esiti, che sono i risultati finali dall’implementazione di date politiche. Gilligan e Krehbiel esprimono questa situazione con la formula: x = p + ω , dove p è la legge approvata dalla assemblea legislativa; x sono le conseguenze prodotte da tale legge; e ω è una variabile che misura il grado di incertezza. I membri della legislatura avranno, di conseguenza, delle preferenze (primitive) relative ad x, così come delle preferenze (indotte) riguardo a quale politica (a quale p) adottare. In particolare, queste ultime preferenze possono mutare nel momento in cui si apprende qualcosa in più sul fattore esogeno che influenza gli esiti che la politica produce. In questo senso, una ragione organizzativa primaria per la creazione di un sistema di commissioni parlamentari è quella di rendere la specializzazione legislativa possibile. Una data commissione rappresenta, per questa via, l’agente del principale (l’assemblea legislativa): la sua specializzazione riduce i costi necessari per produrre leggi adeguate (o “buone” leggi), ma se la commissione è in grado di usare strategicamente questa risorsa, può trattenere per sé questo vantaggio. Il problema è quello di arrivare ad un disegno istituzionale che da un lato massimizzi i guadagni informativi – fornendo sufficienti incentivi ai membri della commissione per specializzarsi e per comunicare tale informazioni - e dall’altro minimizzi le perdite distributive (vale a dire i guadagni che la commissione potrebbe ottenere a spese della assemblea nel suo complesso). A questo proposito, la distinzione tra regola aperta (in base alla quale l’assemblea può emendare a suo piacimento i progetti di legge presentati da una commissione) e regola chiusa (in cui la scelta è limitata tra l’approvazione del progetto di legge della commissione e lo status quo) riveste un ruolo cruciale. Da un lato, infatti, la presenza di una regola aperta mina gli incentivi per la commissione a specializzarsi, dato che le conoscenze (costose) acquisite dalla stessa commissione hanno un impatto minimo sulla adozione delle politiche. In questo senso, la regola aperta rafforza l’abilità della assemblea di disciplinare i progetti di leggi che la commissione avanza, ma al costo di ridurre gli incentivi della commissione a rivelare quello che sa. Diverso è il discorso nel caso dell’adozione di una regola chiusa. In questo caso - grazie al fatto di conferire ad una data commissione il controllo dell’agenda - la proposta di un progetto di legge diventa costosa, nel senso che 26 ogni proposta può essere ultimamente adottata80. Questo fatto, a sua volta, motiva la commissione a cercare le informazioni necessarie in aree incerte (e a comunicarle). La regola chiusa può allora essere una risposta razionale alla presenza di informazioni asimmetriche nel processo decisionale che beneficia l’assemblea nel suo complesso, grazie al fatto di evitare di scegliere delle politiche con conseguenze inattese. Fino a che le preferenze della commissione e dell’assemblea non sono troppo distanti, e i costi della specializzazione non proibitivi, l’assemblea ottiene un guadagno quando limita la sua abilità di emendare le proposte della commissione. Questo esempio illustra come i dettagli istituzionali contano e (spesso) fanno la differenza. Ma se questo è vero, emerge in modo evidente un trade-off tra equità (procedurale) ed efficienza (epistemica) di un processo deliberativo: tra l’eguaglianza formale richiesta dai teorici delle deliberazione (nel senso che le regole che determinano la deliberazione non devono discriminare alcun individuo) e l’esigenza di arrivare ad un esito virtuoso (inteso come rivelazione credibile di informazioni sulle ipotesi fattuali). Nel modello appena visto, infatti, qualcuno deve essere “più eguale” degli altri. In caso contrario, non avrebbe incentivi a raccogliere quelle informazioni (costose) necessarie e i discorsi sarebbero soltanto “cheap”, con tutti i problemi considerati in precedenza81. Il trade-off tra equità ed efficienza insito in un processo di decisione collettiva, è stato da tempo riconosciuto dai teorici della scelta sociale82. Allo stesso modo, i teorici della deliberazione sono ora chiamati a specificare delle regole che assicurino i guadagni informativi della deliberazione, senza minare in modo fondamentale la libertà e l’eguaglianza necessaria per la legittimità delle decisioni finali. Ci sono, ovviamente, altre ragioni per sostenere un processo deliberativo, al di là dei suoi effetti sulla qualità di una decisione collettiva. Ad esempio, si può sottolineare come serva a rafforzare le virtù civiche dei partecipanti, inducendo all’ascolto, alla tolleranza, al confronto e alla fiducia reciproca. Non c’è nulla di sbagliato in ciò. Una procedura decisionale che è più partecipativa, più inclusiva e più ugualitaria può servire degli obbiettivi moralmente desiderabili, anche se produce degli esiti peggiori rispetto a decisioni prese con altre procedure. Ma se questo è vero, allora l’adozione della 80 BANKS, Signaling Games in Political Science, Chur.Switzerland, Harwood Acad., 1991. 81 In definitiva, le istituzioni sono necessarie per catturare l’aspetto epistemico della deliberazione, ma per farlo, a volte, devono violare l’eguaglianza (procedurale). 82 COLEMAN J. E J.A. FEREJOHN, Democracy and Social Choice, “Ethics”, Vol.97, n.1, 1986, pp.6-25. 27 deliberazione come meccanismo decisionale non è più priva di controindicazioni: non ci sono solo benefici senza costi; occorre, al contrario, rapportare gli uni agli altri (una questione che difficilmente presenta una risposta universale o a-contestuale). La tensione tra efficienza ed equità di un processo deliberativo sottolinea proprio questo dilemma. Sono in questo senso molte le domande a cui dare risposta: occorre confinare il ruolo della deliberazione democratica al miglioramento dell’equità delle procedure democratiche? Oppure si devono fornire spiegazioni di come la deliberazione contribuisca in modo costruttivo alla qualità epistemica degli esiti democratici? E ancora, la restrizione sulla libertà di comunicare produrrà sempre, in aggregato, degli esiti peggiori (o migliori), che l’assoluta mancanza di vincoli? E’ in questo senso che appare ancor più pressante l’esigenza di arrivare ad una adeguata analisi empirica dei processi deliberativi, un aspetto che, purtroppo, rimane ancora parzialmente lacunoso. Conclusioni Elster83, in più di una occasione, ha avuto modo di sottolineare come la deliberazione debba essere difesa innanzitutto per le sue proprietà in quanto procedura per raggiungere delle decisioni: la deliberazione, infatti, ha il ruolo di aiutare a comprendere gli interessi degli altri così come di facilitare la scoperta delle strade migliori per raggiungere dati fini. E’ quindi soprattutto un meccanismo pragmatico, sebbene il suo uso possa determinare anche altre conseguenze. In questo lavoro ci si è soffermati proprio su questo punto, osservando due strade attraverso cui la deliberazione - in quanto metodo di decisione collettiva – può incidere sulla qualità delle decisioni collettive finali. In entrambe le situazioni, tuttavia, il consenso che emerge da un processo deliberativo è lungi dall’essere forte: in un caso è limitato alla definizione dello spazio politico (consenso di medio raggio); nell’altro è debole. Secondariamente, anche in una simile – e limitata - interpretazione, l’impatto della deliberazione non è affatto scontato. In particolare, una volta introdotta la possibilità di un comportamento strategico da parte dei partecipanti, il ruolo della struttura istituzionale diventa centrale per capire se, in ultima istanza, la deliberazione può fare la differenza. In queste situazioni, tuttavia, può emergere un trade-off tra aspetti di equità e di efficienza che di volta in volta è opportuno analizzare con attenzione. 83 ELSTER (1986; 1998) , op.cit. 28 Tabelle Tabella 1: scelte, stati del mondo, risultati incerti Stati del mondo s1 (favorevole) s2 (sfavorevole) a1 (Votare a favore) r11 (4) r12 (-1) a2 (Votare contro) r21 (0) r22 (3) Azioni possibili Tabella 2: una tipologia di scenari deliberativi simili Preferenze indotte dissimili Preferenze primitive simili dissimili (III): deliberazione verso (I): deliberazione un consenso di “medio superflua raggio” (II): deliberazione non (IV): deliberazione verso problematica un consenso debole Tabella 3: conseguenze di una comunicazione strategica Decisione del legislatore A favore Contro Astensione Vero stato del mondo Progetto di legge favorevole Progetto di legge sfavorevole 3,3 -1,0 0,2 3,0 -1,3 0,2 29