Giulia Di Giacinto Le mie non sono conclusioni, perchè i ricordi e la

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Giulia Di Giacinto Le mie non sono conclusioni, perchè i ricordi e la
 Giulia Di Giacinto Le mie non sono conclusioni, perchè i ricordi e la vita delle persone che si amano non ne hanno mai. Sono piuttosto saluti, ringraziamenti e pensieri che sento di voler condividere. Sono una persona riservata e non amo parlare apertamente della mia sfera più intima ma voglio salutare mio Papà ricordando quello che per me è l'insegnamento di vita più prezioso e allo stesso tempo il tratto comune nei ricordi di tante persone con cui ho parlato in questi giorni. Mio padre mi ha insegnato a sorridere, con gli occhi che ridono come ha detto qualcuno. Lo sguardo attento, vivo, di chi ascolta e ha voglia di farlo veramente. L'ironia e quel sarcasmo che mi hanno fatto fare le migliori risate della mia vita. L'ottimismo non si insegna, al massimo si trasmette. La solarità, la voglia di fare, disfare, creare e distruggere, la voglia di vivere sono caratteristiche straordinarie e permettetemi rare. Sono stati due anni di lotta senza mai un pizzico di rabbia. Nè in lui, nè in noi. Perchè mio padre ha combattuto con tenacia e grinta senza mai avercela con la vita. Si è goduto ogni giorno prendendo la vita a morsi e dicendo a noi, agli amici o semplicemente a chi gli chiedeva come stava "Oh, guardate che io mica voglio morire!" Nessuno ha mai avuto dubbi Papà. Vivere la vita felici di ciò che si è, di ciò che si fa è quanto di più sano mi potessi trasmettere. Ventinove anni insieme sono pochi ma il tuo esempio non ha vacillato neanche di fronte alla parola più temuta del nostro tempo: cancro. Grazie per avermi insegnato a sorridere ma anche a guardare sempre fisso negli occhi, per l'autoironia e quel pizzico di cinismo romano che a me fa tanto ridere. Grazie per avermi spiegato che il tempo è un valore relativo: i tuoi e i miei ritardi continui ne sono una prova e che l'unica cosa per cui vale la pena sbrigarsi è cercare la serenità. Grazie per l'onestà intellettuale e la semplicità, per avermi mostrato come si può fare qualunque cosa evitando inutile formalità e linguaggi poco autentici propri di chi non ha poi in fondo molto da dire. E ancora grazie per avermi fatto capire che mirare un obiettivo, perseguirlo e non mollare non deve diventare un'ossessione e una forma di chiusura ma soprattutto un'occasione di crescita, anche a prescindere dal risultato nel breve periodo. Mio Papà sapeva essere preciso, quasi chirurgico, nell'arrivare dove voleva e poteva ma non perdeva mai la dolcezza verso di noi e verso chiunque. Per dirla con un aforisma di un grande uomo nato il suo stesso giorno: "Bisogna essere duri senza perdere mai la tenerezza". Io sono fortunata perchè tutti gli altri ringraziamenti, quelli tra me e lui, li ho fatti nel tempo crescendo tra un giovedì sera e l'altro, un viaggio ad Amatrice che speravo fosse qualche chilometro più lontana da Roma o che ci fosse traffico che ci obbligasse a parlare ancora e ancora di qualunque cosa. Nei caffettini la mattina al bar sotto casa sua anche se già in ritardo sulla tabella di Marcia di 5 minuti lui e di 10 io. Quello che più mi mancherà è il tuo punto di vista, mai scontato e per me da sempre fondamentale. So che mi risponderesti che basta impegnarsi, cercare dentro di me e avrei la risposta ma Papà il tuo vocione è insuperabile. Lo stesso vocione che ora ci direbbe di essere contento di questo saluto tutti insieme anche e proprio perchè autogestito. Dovremmo ringraziare tutti, uno ad uno del calore e dell'affetto dimostrato non solo a lui ma anche a noi. Studenti, amici e colleghi, famiglia allargata e il personale medico dell'Hospice che ci ha aiutato in un momento così delicato per la sua e la nostra vita. Ciao Papone. Flavio Di Giacinto Volevo semplicemente condividere con voi uno degli infiniti ricordi che ho della mia vita con papà. Ciò che sto per raccontare potrebbe essere successo due settimane fa così come venti anni prima quando ero soltanto una piccola spugnetta che come tale cercava di assorbire ogni tua singola parola, ogni tuo semplice gesto ogni tuo insegnamento volontario o involontario. Volontario. Probabilmente invece questa giornata è stata vissuta 7 o 8 anni fa, in agosto, il mese in cui insieme passavamo almeno una settimana o dieci giorni nella nostra casa ad Amatrice, nella casa di nonna e nonno, con Giulia, gli zii, i cugini, quei giorni stupendi che spero un giorno riuscirò a rivivere in un altro ruolo e che non sai già quanto mi manchino. Ci svegliamo presto, ma non troppo, perché mattinieri e puntuali non lo siamo mai stati. La preparazione è meticolosa, come sempre quando si va in montagna, e io per il mio ruolo devo far finta di prendermela quando ti scopro a controllare scrupoloso il mio zaino e la presenza di ogni singola cosa tu mi avessi indicato come indispensabile. Non sai in realtà quanta sicurezza mi desse tutto ciò. Saliti in macchina partiamo verso la meta, con Nonna che ci saluta un po’ preoccupata e un po’ arrabbiata, perché certe cose in fondo “proprio non le capisco” e nonno che ci guarda con quegli occhi e quello sguardo ironico da cui son sicuro, non hai potuto che imparare anche te, che insegnante in fondo lo sei sempre stato. Sui nostri viaggi in macchina potrei parlare per ore e ore, e qualcuno di voi presenti probabilmente lo scoprirà con le proprie orecchie e una buona dose di pazienza nei prossimi giorni. Comunque arriviamo alla fine della strada, alle pendici della montagna, parcheggiamo ed iniziamo a camminare. La salita vista l’ora e il caldo è comunque impegnativa, nonostante la sua relativa semplicità. Eppure parliamo di continuo, come sempre di qualsiasi argomento, senza nessun tabù, senza nessun particolare calcolo o freno che il ruolo padre-­‐figlio potrebbe magari determinare. Ciò che mi colpì maggiormente, in quel giorno così come in ogni altro giorno simile passato insieme, fu la tua capacità di narratore, la tua bravura nel raccontare delle storie e la tua abilità innata nel comunicare a chi ti sta intorno ciò che ti passava per la testa. Così mi portavi a spasso per ore nei tuoi ragionamenti cercando di mostrarmi ciò che ci circondava attraverso il tuo occhio curioso e il tuo punto di vista mai banale. Questa credo sia la più grande capacità che hai provato a trasmettermi, il tuo più grande dono, che spero veramente di essere riuscito ad acquisire almeno in parte. Così ogni vetta intorno a noi si colora con un qualche tuo ricordo o aneddoto, ed ogni stazzo, ogni ruscello, ogni pascolo o gregge di pecore diventano lo spunto per delle domande, banali o esistenziali, o più semplicemente per una battuta che ci fa sorridere e divertire. E così facendo pian piano la cima del Gorzano si avvicina. Arrivati in vetta il forte vento ci permette di rilassarci solo in parte. Mangiamo e ci riposiamo un po’, godendoci, questa volta quasi in silenzio lo spettacolo che ci circonda. Entrambi sappiamo, io perché non fai che ripetermelo fin da quando son bambino, che la cima della montagna non è che una parte del tragitto, del nostro viaggio, non è né l’obiettivo iniziale né la meta finale, ma solo una parte bellissima di un percorso che bisogna imparare a godersi nella sua totalità. Questa trovo sia la parte più importante del tuo insegnamento, della tua filosofia di vita, ciò che ti ha permesso di essere fondamentalmente una persona felice. Spero potrò riuscirci anch’io. La discesa purtroppo è lunga e dolorosa a causa di un problema al piede. Ti vedo soffrire e provo ad aiutarti come posso senza riuscire ad alleviarti granché la sofferenza. Eppure anche in questa fase riesci ad essere positivo, a prenderti in giro e a scherzare, sollevandomi da ogni preoccupazione e salvando , anzi dando ulteriore valore, allo splendido ricordo che ho di quella giornata. Arrivati alla macchina, non so perché, ricordo di aver avuto la netta sensazione che forse non saremmo più tornati insieme lassù. Eppure dopo quella prima volta sono salito sulla stessa montagna in parecchie altre occasioni, con i miei amici, con Giulia, con Laura. Credo di aver provato a farlo con lo stesso spirito che tu mi avevi insegnato, rubacchiando magari qualche aneddoto o qualche storia e continuando a ragionare sulle domande che ci eravamo posti insieme, ovviamente a modo mio. Tornerò ancora lassù, un po’ più solo forse, ma portandomi dentro tutto ciò che sei riuscito a darmi. Grazie ancora Papà. Marcello Onofri La personalità di un uomo è fatta di mille facce, ed ognuno di noi ne esalta alcune più di altre. E’ così che Maurizio ed io eravamo profondamente diversi ma gli aspetti più capaci di uno si andavano ad integrare proprio con i lati deboli dell’altro. Di Maurizio non si poteva non ammirare la sua impressionante razionalità: lui era il metodo scientifico applicato ad ogni problema. Avere la sua approvazione era per me la garanzia di correttezza di un’azione. Da parte sua c’era invece un’attrazione verso la mia attitudine ad inventare progetti sempre nuovi e buttarmi a corpo morto nella loro soluzione. E non fu difficile scoprirci… Una delle prime volte che ci incontrammo da studenti fu in un contesto certo irrituale. Era un tempo ribelle e per organizzare la difesa della nostra facoltà occupata, stavamo camminando lungo i tetti dell’edificio di S. Pietro in Vincoli. Ad un tratto decidemmo di aggirare una zona interrotta da lavori percorrendo un breve tratto lungo il cornicione della facciata su via Eudossiana. Era un po’ da pazzi ma si poteva fare… Ero quasi dall’altro lato quando mi sentii però tirare per la camicia: ”Marcello abbiamo un problema…” c ’era infatti un nostro compagno in preda alle vertigini, impietrito a metà del passaggio sul cornicione. Non sapevo che fare e fu lì che conobbi un Maurizio non solo dotato di grande metodo razionale, ma anche di una capacità di comunicazione non normale, con cui intervenne e ci tirò fuori dal problema. Era un tempo dove l’esercizio quotidiano era di contestare quel piccolo gruppo di baroni-­‐
padroni legati alla figura anacronistica dell’ingegnere professionista, che cercava di resistere all’affermarsi dell’ingegneria basata sulla ricerca scientifica. La nostra cifra era l’irriverenza, e a Maurizio piaceva giocarci con la sua faccia ironica e la battuta chirurgica. Ci trovammo così schierati con giovani docenti emergenti che si chiamavano Piva, Sabetta, Di Carlo, Cenedese, Strani, De Grassi, che sarebbero poi diventati la generazione guida dell’ateneo. Ma poi, laureatici, entrarono nel nostro orizzonte due grandi e maturi irriverenti: Carlo Buongiorno e Gino Moretti. La prima scommessa diventò quella di costruire anche proprio in termini fisici l’Istituto di Propulsione, a partire dai locali abbandonati che erano stati di Gino Crocco. Maurizio si trasformò in progettista e direttore dei lavori. Riuscì ad imporre l’uso di materiali di alta qualità e il lavoro fu così perfetto che per anni le ditte coinvolte rimpiansero di aver vinto quell’appalto dai guadagni così limitati …. Per un certo periodo le nostre strade si separarono: Maurizio aveva deciso con Fiorella di avere dei figli, mentre io ero affascinato dal viaggiare, dallo scoprire nuovi mondi, conoscere ed imparare negli USA. La mia scommessa fu quella di seguire Gino Moretti nella sua impresa di introdurre il metodo dello shock fitting come solutore numerico gasdinamico in campi ad alti numeri di Mach. Rimanemmo però in contatto continuo interrogandoci e parlandoci stavolta per lettera. Vi riporto alcune righe che ieri ho ritrovato di quei dialoghi tra un Sagittario di NY e gli altri segni zodiacali a Roma… “Sarà forse perché vivere da soli rende più sensibili, ma dopo la telefonata in cui mi dici della nascita di Giulia mi sento un po’ scombussolato dentro e con qualche lacrimone fuori. E scrivere aiuta in questi casi. Beh, deve essere proprio meraviglioso avere una figlia! Potrei solo impazzirne!! L’idea che dopo aver fatto tanta strada insieme stiamo facendo due esperienze così diverse, ma che tutti e due vorremmo fare, mi ti fa sentire molto vicino, fino a vivere le sensazioni di pelle che credo tu stia vivendo. Non so se lo stesso è per te, fatto sta che questi mesi futuri ce li ricorderemo a lungo e quando ci vedremo di cose da raccontare penso ne avremo proprio tante. Io continuo a vivermi intensamente il mio resetting in questa città da favola, ormai stabilizzato nei ritmi di lavoro e con Moretti di una disponibilità che non avrei mai immaginato. Dai un bacio affettuosissimo a Giulia da parte mia. Un altro lo vorrei dare a Fiorella. Uno infine lo tengo per me, che ne ho proprio bisogno stasera… Come evoluzione, dopo alcuni mesi Maurizio mi raggiunse a NY. Ne scaturì il famoso codice quasi 1D capace di operare con maniacale precisione, fornendo soluzioni quasi analitiche, e che è stato alla base degli studi che hanno supportato il progetto del Vega. E dopo non molti altri mesi nacquero suo figlio Flavio e mio figlio Marco… Due anni fa cominciò a non sentirsi bene. Quando le analisi cliniche gli rivelarono la gravità della malattia me lo vidi entrare come una furia nell’ufficio dicendo :”ti devo parlare immediatamente”… E così facemmo, esattamente come avevamo fatto tante altre volte nel passato, quando ci raccontavamo dei gruppi di autocoscienza femminista delle nostre compagne, o dei nostri affetti ed innamoramenti, dei nostri sogni o dei nostri viaggi. Parlando ci trovammo a ripercorrere mille episodi della nostra storia comune ed alla fine convincerci che eravamo semplicemente degli uomini fortunati. Avevamo infatti vissuto intensamente esperienze non comuni per altre generazioni. Vissuto un tempo in cui sembrava possibile che la nostra soggettività potesse essere sufficiente a cambiare il mondo, potesse permetterci la scelta -­‐poco popolare nell’Italia di oggi-­‐ di impostare la vita senza mettere il guadagno materiale davanti ai propri interessi culturali e le proprie voglie, assumere il primato dell’onestà contro la corruzione. Rivivemmo i passaggi che ci avevano portato con Carlo Buongiorno a costruire dal nulla un gruppo di propulsione aerospaziale con una grande reputazione internazionale. Ci parlammo dei figli di cui potevamo andare orgogliosi e che forse avevano l’unico difetto di aver troppo assorbito i nostri stessi difetti. Ci dicemmo che la nostra non è stata una vita normale né banale, ma soprattutto è stata una vita bellissima. Ed a un certo punto, anche grazie alla serenità che Giovanna gli dava, ci divenne possibile vedere che anche la morte si può ridimensionare ad un evento inevitabile, ma temporalmente trascurabile rispetto ad una vita così lunga ed intensa. Oggi piangiamo Maurizio che se ne va. I suoi sguardi ironici, il sorriso sornione, le battute taglienti, la sua risata contagiosa … Ma già sappiamo che continueremo quello che lui ha costruito, con lo stesso spirito e la disinteressata onestà con cui lui l’ha fatto. Sappiamo anche che sarà difficile, ma -­‐come il nostro poeta-­‐ impareremo a farlo cercando di mantenere gli occhi asciutti in questa notte scura, per mostrare a tutti che esiste ancora un’Italia viva, fatta di tanti Maurizio che del domani non ha paura. Enzo Scandurra Maurizio Quelle tre o quattro cose che ancora mi legavano all’università, sono scomparse con lui, con Maurizio. Non eravamo amici nel senso stretto della parola; mai ci eravamo incontrati fuori dalla facoltà. La nostra era una di quelle amicizie che non chiede di essere confermata da cene, frequentazioni familiari, incontri. Ci incontravamo al bar. Come per caso. Era contagioso Maurizio: diffondeva serenità, ironia, sarcasmo, un dolce disincanto che lo ha sempre accompagnato. E ha combattuto come un leone: molti di noi pensavano che sarebbe stato il primo uomo del pianeta a sconfiggere quella malattia devastante. Strappava giorno dopo giorno al suo destino segnato. Lo faceva con ironia e con gioia; viveva più di ognuno di noi; forse viveva due volte. Mi dicono che in quella stanza dell’ospedale, ormai provato nella ragione, cercasse un senso alle linee misteriose del soffitto, delle pareti, come se ancora volesse mettere alla prova la sua grande razionalità che lo aveva accompagnato nel suo lavoro. Il cancro, non riuscendo nei suoi tentativi a debellarne il fisico, lo aveva vigliaccamente colpito nella sua parte più vulnerabile e nobile. Ora vedo colleghi e amici più curvi e silenziosi aggirarsi per la facoltà come se continuasse il contagio fattosi adesso però cupo, opaco, minaccioso. Il senso di un’assenza, il cessare di quella voce dal timbro baritonale, sempre allegra e vigile.