leggi la scheda del film - Lo Spettacolo del Veneto

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leggi la scheda del film - Lo Spettacolo del Veneto
Federazione
[email protected]
Italiana
Cinema
d’Essai
INTERPRETI: Ringo
Starr, Paul McCartney,
John Lennon, George
Harrison
MUSICHE: The Beatles
DISTRIBUZIONE:
Lucky Red
NAZIONALITÀ: Usa,
2016
DURATA: 138 min.
[email protected]
wwww.spettacoloveneto.it
Associazione
Generale
Italiana
dello Spettacolo
di Ron Howard
PRESENTAZIONE E CRITICA
Un film evento sui quattro ragazzi di Liverpool che hanno conquistato
il mondo. Il racconto delle imprese live della band dai primi giorni ai concerti
che hanno fatto la storia della musica, dai tempi del Cavern Club di Liverpool
fino allo storico Candlestick Park di San Francisco. La storia di come John
Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr si sono uniti
diventando quel fenomeno straordinario che tutti conosciamo come "I
Beatles." Un racconto costituito da preziosi filmati rari e inediti, che esplora il
dietro le quinte della band, il modo in cui prendevano le decisioni, creavano la loro musica e costruivano
insieme la loro carriera e mostra l'incredibile personalità e lo straordinario dono musicale che
caratterizzavano ciascuno di loro (…).
(www.comingsoon.it)
(…) Il film racconta con dovizia di particolari, con immagini già note e altre inedite, l’euforia dei primi
anni, di quella meravigliosa e irripetibile “epidemia” (come la chiamavano, preoccupati, i ben pensanti) che
aveva contagiato l’intero universo giovanile. Ci ricorda e descrive le incredibili, vertiginose proporzioni del
fenomeno, spiega perché la meteora non svanì nello spazio di una stagione e la spiegazione è allo stesso
tempo semplice e struggente. I Beatles ce l’hanno fatta perché erano brave persone, intelligenti ed
empatiche, perché non si sono mai accontentati di quello che avevano appena realizzato, perché sono stati
capaci di voltare pagina decine di volte, nel giro di pochissimi anni, perché erano uniti e si sostenevano l’uno
con l’altro. Facile, potremmo dire, fare un bel film avendo a disposizione quello scintillante materiale, che
sappiamo bene essere irresistibile, da qualsiasi angolazione lo si prenda, materiale ottenuto col benestare
degli stessi Beatles: ovvero dei due sopravvissuti, Ringo e Paul, e delle vedove Harrison e Lennon, anzi
prodotto dalla Apple, con autostrade aperte a ogni indagine storica. Ma Howard ci mette passione, è onesto
almeno quanto la storia che vuole raccontare, e in un certo senso mette ordine in quella aggrovigliata ma
tassa che ha deciso il destino della cultura pop dei nostri tempi. E lo fa seguendo una sorta di diario di bordo
delle esibizioni dal vivo, tra urla, pericoli, estasi collettive e il progressivo estraniamento dei quattro da quella
abnorme e insostenibile pressione. Belle le interviste aggiuntive, soprattutto quelle a Whoopi Goldberg e alla
storica Kitty Oliver che mettono in luce un aspetto meno analizzato della vicenda, ovvero il ruolo del gruppo
nei conflitti razziali che stavano devastando l’America nel 1964. Erano giovanissimi working class della
periferia inglese eppure quando seppero che in un loro concerto nel sud degli Stati Uniti, a Jacksonville,
sarebbe stato adottato un sistema segregazionista, dichiararono che questo non sarebbe mai avvenuto a un
loro concerto. E l’ebbero vinta. I neri entrarono liberamente, e per alcuni di loro fu il primo contatto con i
bianchi in pubblico. Una canzone dopo l’altra, un concerto dopo l’altro, la storia cresce e sembra disegnare
la conquista di un territorio nuovo. Lo spiega Lennon, in un’intervista del 1975 citata nel film: «La sensazione
è che ci fosse una nave alla scoperta del Nuovo Mondo e che sull’albero maestro ci fossero i Beatles e
dicevano: terra!».
(Gino Castaldo - La Repubblica)
La full immersion nei live dei Fab Four dal Cavern Club nel 1963 a Saville Road nel gennaio del
‘69, cattura sudore, urla e significato di un fenomeno culturale pop che ha fatto la storia. Uno sguardo gentile
sull’umanità del quartetto, su quell’essere corpi/voce/evento perenne, quel diventare puntini piccoli piccoli in
mezzo ad una folla immensa, brulicante, sbracciante e feroce di fan. I live, ossatura drammaturgica del
documentario, sono la testimonianza di Ron Howard su coloro che sfondarono le mura dei teatri e aprirono
la strada al live negli stadi per decine di migliaia di spettatori. Un continuo rilancio con l’apertura di interi
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di Ron Howard
brani, stralci, o anche soltanto ritornelli suonati e cantati dal vivo, recuperati grazie ad un’attività di raccolta
ed archivio - One Voice, One world – che vede momenti buffi e concitati, travolgenti e inquietanti, dal palco
delle Filippine a quello, ultimo, del 1966 a Candlestick Park di San Francisco, donato da una signora allora
bambina seduta in prima fila che con un Super8 riprese anche la discesa finale dal palco di Lennon,
McCartney, Starr ed Harrison. Tutto in un Dolby Stereo che travolge, singole piste ripulite digitalmente dove
le chitarre di George e John finalmente vivono di vita completamente propria, e dove Ringo esalta tamburi e
soprattutto piatti dal suo storico trespolo batteria. La direzione che prende Howard non è però quella della
memorabilia tout court (che c’è, e quando c’è fa lucidare gli occhi), ma di una storia che attraverso gli exploit
mediatici, l’attenzione mondiale e i fari puntati addosso 24/24 (un singolo ogni tre mesi, un album ogni sei, e
tour a go-go), fa emergere l’alchimia naturale dei ragazzi di Liverpool, il loro normalissimo, e allo stesso
tempo codificabile dalle masse, approccio alla musica come “divertimento”. L’essere se stessi, battuta pronta
e spontanea, magari irriverente ma sincera, quando poi i decenni a venire ci avrebbero mostrato eccessi
provocatori artificiosi. Apice che si tocca quando i quattro interpretano con insana leggiadria il film di Richard
Lester, A Hard Days Night (1964), gioco, impostura, e mise en abyme, del fenomeno Beatles, quasi ci fosse
bisogno di parodiare popolarità, ossessione, e quell’inquadratura in controcampo del primo piano di una
ragazzina qualunque che si urla e si tira i capelli al sentire/vedere un ciuffo di Fab Four. Ascesa e poi declino
attraverso il cinema, paradosso bizzarro quando oggi è mezzo che non serve quasi più a nulla, che arriva
l’anno dopo con Help! (1965), manifesto creativo della forzatura produttiva, della parossistica e tarda
consumazione di un’eterna epifania. Intanto Lennon, McCartney, Harrison e Starr hanno conquistato le
masse con la freschezza di accordi e testi immediati, e ora si apprestano alla gloria eterna. BEATLES:
EIGHT DAYS A WEEK è punteggiato di copertine di lp che ripercorrono carriera e vendite dei Fab Four.
Così come Rubber Soul spiazza fan e critica, l’ottavo album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band
consacra il mito e sancisce la definitiva ricerca solista dei quattro. Howard sta lontano da gossip e
polemiche, mostra la pazienza di Brian Epstein e George Martin di fronte alla frattura e ai cambiamenti
sonori del gruppo, non cita mai la signorina Yoko Ono, allunga il percorso con la polemica rintuzzata da
Lennon (una battuta sui Beatles più grandi di Gesù) che fa andare a rotoli l’ultimo tour americano. Perché al
regista premio Oscar interessa molto di più il lato A della vicenda Beatles (c’è l’ok di eredi sparsi su royalty e
immagini), la magia degli accordi di Love me do o Ticket to ride, o di quando al Gator Bowl di Jacksonville
l’11 settembre 1964 si misero lì tutti e quattro di fronte alle telecamere, come fosse un consesso pellerossa,
affermando che “la segregazione razziale non esiste nei nostri concerti”, così neri e bianchi si mescolarono
in una memorabile serata che altrimenti li avrebbe visti separati in sezioni apposite come sui bus e al
ristorante. Del resto Howard lo ha spiegato più volte in questi mesi di lavorazione: “questo documentario è
dedicato soprattutto a coloro che non c’erano”. Scarto temporale, sinfonia visiva, BEATLES – EIGHT DAYS
A WEEK disegna già un suo simbolico “the end” ben prima delle note di Don’t let me down sul tetto
londinese con John impellicciato, George in pantaloni verdi, Ringo in impermeabile rosso e Paul barbuto in
nero, quando Lennon, pressappoco nel ’64, ancora sorridente e scanzonato, vive con spensieratezza
l’esposizione planetaria e dichiara: “Quando finirà il successo? Beh, ci faremo una risata”.
(Davide Turrini - Il Fatto Quotidiano)
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