La letteratura come vita, la vita come letteratura
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La letteratura come vita, la vita come letteratura
UNIVERSITA’ dell’ETA’ LIBERA Anno Accademico 2007-2008 Corso di Letteratura Italiana LA LETTERATURA COME VITA, LA VITA COME LETTERATURA A cura di Giuseppe Vella Il calendario dell'A.A. 2008-2009 della Università della Libera Età, si arricchisce, in appendice, per la seconda volta, dopo la prima, relativa all'A.A. 2005-2006 e curata dalla prof.ssa Iolanda Raspollini, della produzione scritta dei discenti-corsisti, i quali, sollecitati ed invitati dal sottoscritto, che in verità già da tempo provava a convincere dell'opportunità di mettere 'nero su bianco', hanno risposto dapprima timidamente, poi entusiasticamente, commentando brillantemente brani di scritti letti in aula, indicando l'approccio personale alla disabilità, dando voce, infine, a ricordi e sensazioni tenuti gelosamente custoditi nelle profondità dell'io. Il coordinatore (G. V.) PRESENTAZIONE In questo Anno Accademico 2007-2008, ormai trascorso, i miei affettuosi ed attenti corsisti, anche se talvolta un po' 'chiacchieroncelli', si sono davvero impegnati a vario titolo. Abbiamo letto e commentato in classe molti brani di vari autori, talvolta molto impegnativi, a cui sono seguite pagine scritte, dalle quali emergono acume, interesse, volontà strenua di imparare, ripassare, rievocare, insomma un amore per il sapere che non può non riempirti di gioia. Un breve racconto, che riporterò in questa sede, sarà seguito dai rispettivi commenti: il lettore saprà riconoscere come il binomio letteratura-vita e vita-letteratura si intersechino inestricabilmente. In successione saranno trascritti episodi di vita vissuta, in cui appaiono le diverse sensibilità in relazione alla disabilità, chiuderanno il tutto ricordi intensi, onirici, di esistenza vissuta, tribolata, in cui l'amore, però, ha rimarginato profonde ferite, facendo risorgere gioiosamente al quotidiano, poi un ricordo orgoglioso ed incancellabile, quindi un ringraziamento che vale più di un tesoro ed infine un raccontino che esalta l'amicizia e l'avventura. Un grazie sincero e commosso per l'assiduità nella frequenza, per l'attenzione dimostrata in tutti gli incontri (a dispetto dei 'brusii'!), per il vivace impegno dimostrato sia negli interventi orali che in quelli scritti, ma anche per le risate omeriche che, di quando in quando esplodendo letteralmente tra tutti per qualche meravigliosa ed indimenticabile battuta, ci riportano alla vita giornaliera, facendoci riappacificare con tutto e con tutti! Giuseppe Vella Da 'Frammenti di memoria', antologia di racconti a cura di Paola Zannoner, il racconto “TRA LA VITA E IL DOVERE” di Alberto Agostini. Sul treno per Pescara, Costante si guardava intorno. Nel corridoio non passava anima viva, nei vagoni si sonnecchiava, si fumava, si leggeva. Entrò in uno scompartimento e prese posto sul sedile. Davanti a lui, ma più spostati verso il finestrino, due uomini sulla sessantina stavano confabulando. Chiuse gli occhi e finse di dormire per meglio concentrarsi sul colloquio. Un gioco che amava fin da bambino, quando ascoltava i discorsi degli adulti provando a indovinare il senso delle loro conversazioni. -Sentito le nuove notizie? Gli Americani stanno per sbarcare in Sicilia- disse uno dei due. Costante drizzò le orecchie: erano le prime informazioni che riceveva da quando era fuggito. L'altro, un signore con i baffi scuri e una camicia bianca di lino, rispose con un filo di voce: -Ho sentito, ho sentito. Chissà che fine faremo! “Bastano pochi morti per sedersi al tavolo di pace” ricordi? Invece in Nord Africa ci hanno respinto e addirittura stiamo perdendo le posizioni conquistate da un pezzo. L'attacco lampo in Grecia si è trasformato in un'offensiva ellenica. Le truppe sono allo sbando! -Hai ragione.. ricordi i francesi con la loro simpatia? Misero quel cartello: “Greco fermati, confine francese”. Costante smise di ascoltare. Era la prima volta che sentiva fare questi discorsi dai civili. Ricordava anche lui la dichiarazione di guerra in diretta radiofonica. L'avevano ascoltata tutti e quattro, lui, sua moglie, suo fratello che era in licenza e suo padre. Tutto faceva pensare al meglio. La Germania stava dilagando, raccoglieva successi ovunque. La Francia, la più forte potenza terrestre del mondo, era stata spazzata via come se nemmeno fosse esistita. Poi il giro della sorte, da Stalingrado in poi. E ora, dopo la Grecia, l'Italia cedeva anche in Nord Africa. L'ultima lettera di suo fratello era di due mesi prima. Era il primogenito, per tradizione considerato il migliore rampollo. L'altro figlio era amato, sì, gli volevano bene, per carità, ma il primo… beh, era quasi un predestinato e per lui si facevano grandi sacrifici in famiglia: il seminario a cinque chilometri da casa, gli studi classici, gli anni di accademia e la laurea in ingegneria. Fare il soldato di carriera non rendeva male, e lui era molto intelligente e preparato, avrebbe fatto fortuna. Veniva ogni tanto con la “coriera”, come si diceva nella valle, ed era gran festa: i genitori erano fuori di sé in quelle occasioni. Invece lui, Costante, a scuola al mattino e ad aiutare i genitori il pomeriggio: le pecore al pascolo,la mungitura, le castagne. Un' abitudine consolidata dal tempo nel ciclo annuale seguito da chi vive della terra, dei suoi frutti. Poi arrivò la lettera di richiamo: doveva partire. Come Beppe, il cugino di suo padre, come Gino di Campeda e così via in un elenco destinato a crescere. Era arrivato anche il suo momento. Era partito da casa di buon mattino, chiudendo dietro di sé la porta verde. Non aveva fatto la guerra degli eroi ricordati. Era dislocato a sud con la sua divisione di cavalleria in Calabria, a Strongoli, con la prima “o” spalancata. Poi era arrivato il momento dell'invasione angloamericana. Gli apparecchi con il cerchio bianco rosso e blu bombardavano le postazioni. Così tutt'ad un tratto una sera si era risolto a partire. Anzi, a fuggire. L'inferiorità dei mezzi italiani era lampante per tutti anche per chi, come lui, si intendeva poco di armi. E quello era il momento migliore. Con tutta quella confusione tra le linee si sarebbero accorti della sua assenza troppo tardi, quando ormai era già a nord. Fuggire per tornare a casa e avere una possibilità in più di restare vivo. Tanto combatteva per chi? Il Re era un ometto basso che aveva visto una volta su un giornale. La Patria, una parola con cui molti si riempivano la bocca, lui non la sentiva sua. Aveva i suoi monti e la sua Lina, gli bastava. Una volta a casa, voleva darsi alla macchia e aspettare che tutto finisse, protetto dalle cime rassicuranti coperte di verde. Il mare di Strongoli lo aveva angosciato. Tutto quel blu, a perdita d'occhio. Per trovare un punto di riferimento doveva girarsi e guardare all'ultima punta dell'Appennino, alle vette cugine delle sue. Pensando a casa sua, si addormentò sul sedile del treno. Il convoglio si fermò a Pescara che era già mattina. Il diretto per Rimini partiva alle 11. Costante accese una sigaretta che si era arrotolata in treno. Nemmeno il tempo del terzo tiro, che le sirene dell'allarme aereo cominciarono il loro lamento. Non sapendo dove trovare riparo, s'infilò sotto la cisterna dell'acqua della stazione, non c'era tempo per chiedere dove fossero i rifugi. I palazzi intorno si svuotarono. Donne con bambini in braccio e per mano, uomini con due valigie ciascuno,vecchi col bastone, tutti correvano al riparo. Arrivarono gli apparecchi alleati. Le bombe esplosero intorno. Chi aveva ritardato, tentava di gettarsi a terra sotto un porticato o dove poteva. Così Costante vide morire una madre con suo figlio. La bomba non accetta ritardi. Crollò un palazzo colpito da tre esplosioni, si sentirono le urla e poi il silenzio. Gli apparecchi erano scomparsi, inghiottiti dal blu del cielo. Dopo mezz'ora le persone tornarono in casa, qualcuno raccolse i corpi rimasti a terra. Costante prese il treno per Rimini, da lì a Firenze, Pistoia. Nell'ultimo tratto era come essere già a casa. L'olivo lasciava il posto al castagno, il sottobosco si apriva, non era più macchia, e più in alto le faggete lasciavano vedere dritto per decine di metri. Un tunnel dietro l'altro fino a Molino. Costante era giovane, Lina anche di più. Si erano conosciuti tramite il fratello di lei, Aldo. Aldo e Costante erano diventati amici durante un ritrovo di pastori, su alla Faggiona. Una sigaretta, quattro chiacchiere, , e un'amicizia che nasceva. Aldo era più vecchio e pensava a maritare la sorella: Costante gli parve un buon partito, non era troppo riccoda far pensare ad accordi col fascio, ma neanche troppo povero. Era un lavoratore, aveva un buon branco. Così erano cominciate le lettere, poi era arrivato il matrimonio. Era arrivata anche la guerra. Una parentesi che lui ora voleva chiudere. Dal treno Costante vide la stazione dopo la curva. Era sera e molti dormivano. Dentro lo scompartimento ormai era solo. Ricordò la radura dopo la stazione. Il treno non si fermava, andava diretto a Porretta Terme. Aprì il finestrino. Il rumore del fiume lo incoraggiò, l'acqua che scorreva sulle rocce gli dette forza. Aprì la porta e saltò giù. L'erba si avvicinava. Appena poggiò i piedi in terra, rotolò per qualche metro su se stesso. Si alzò e provò a muovere gli arti: era tutto intero e non gli sembrava di sentire dolore. La luna, nascosta dietro le montagne, non illuminava la strada. Il commissariato si trovava un po' più a monte, doveva evitarlo. Passò attraverso il vicolo stretto tra le case di pietra e si immise sulla mulattiera che portava in alto. Evitò di seguire il sentiero e tagliò i tornanti passando perpendicolare alla via che si inerpicava. Il profumo dolciastro dei fiori di castagno impregnava l'aria e gli metteva in corpo una grande euforia. Un anno prima si era sposato con Lina. Riconobbe la prima casa, con la facciata di pietra e gli scuri color legno. Si avvicinò e bussò alla finestra, dove credeva potesse dormire Nino. -Nino, Nino, son Co', apri!- disse con la voce strozzata. Qualcuno si alzò dal letto imprecando e aprì: era Nino che per poco non svenne. Davanti a lui c'era una faccia scura, un uomo in uniforme, ben piazzato, alto e robusto. Poteva somigliare molto al suo amico Costante. Solo quando lo salutò, Nino fece per gridare di gioia, ma l'altro lo trattenne. -Ho disertato, Nino. Torno ora dalla Calabria, giù sta succedendo un putiferio! Gli Americani stanno preparando l'invasione. Se mi beccano è finita! Piuttosto, che sai dei miei?-Ho incontrato tuo padre dalle parti del casolare di Renzo, la Lina è su a casa. Stanno tutti bene.- -Bene allora vado. Hai dell'acqua?Nino scostò la tenda, e con la mano che tremava prese la bottiglia di vetro e la porse all'amico. Era agitatissimo e disse: -Ma in che situazione ti sei messo? Ti beccano di sicuro! Devi stare attento. Le squadracce di Molino pattugliano la zona, non sei il primo. Stai all'occhio e prendi i miei vestiti. I tuoi li brucio domattina.Costante uscì dalla casa con mille ringraziamenti e stupito dalla risolutezza dell'amico. Si inoltrò ancora più in su, decise di fare il giro largo, evitando la strada ed i sentieri. Arrivò a casa poche ore prima dell'alba. Qualcuno era già sveglio dietro la parete di sasso. Scelse di non bussare alla porta che dava sulla strada perché qualche passante poteva vederlo. Entrò da una finestra laterale, scavalcando il muro, come faceva da bambino per evitare le sgridate di sua madre. Sorprese in cucina suo padre mentre stava mangiando pane nero e latte a tavola con Lina. Lei saltò in piedi con le lacrime che già le scendevano sulle guance, piena di stupore, felicità, sollievo, commozione. Lo abbracciò stretto, poi si staccò per rimirarlo, lo abbracciò ancora. Pianse anche Costante, tenendola stretta a sé davanti al camino. Poi si avvicinò a suo padre. L'uomo stava in piedi e lo fissava con espressione preoccupata. -Come hai fatto a venire? Come stai?Costante disse tutto d'un fiato: -Ho disertato, babbo. Sono scappato tre giorni fa, di notte. Laggiù gli Americani non danno tregua, radiofante dice che stanno preparando l'invasione. Di Bruno che sapete?Il padre gli mise una mano sulla spalla: -Siedi, figliolo, mangia.Lina gli porse un piatto e lui si gettò sul cibo come un animale. Erano due giorni che non riusciva a rubare niente. Aveva colto qualche pesca in una casa vicino alla stazione di Rimini, poi null'altro. Il pallidissimo grigio dell'alba fece capolino dalle finestre. Costante si accorse che suo padre stava piangendo. -Di Bruno non sappiamo nulla. Non sappiamo neanche cosa pensare. Piuttosto dimmi che farai- disse il vecchio. -Mi darò alla macchia, aspetterò che tutto finisca.L'uomo annuì. -Porta con te le bestie- disse. Costante fissò il padre: -Le pecore?Lui fece un breve cenno col capo e si alzarono da tavola, andarono nella stalla. Il padre entrò e munsero insieme le bestie per la prima volta dopo tanto tempo, come quando non c'era la guerra. Dopo i gesti ritmati della mungitura raccolsero il piccolo gregge. Ruggero posò la mano sul capo del figlio e Costante si avviò, scomparendo poco più in alto dietro il fitto degli alberi. Le valli dell'Appennino erano ancora sicure. Costante faceva pascolare il gregge di giorno in luoghi riparati. A sera si rifugiava in uno dei casolari sparsi per le montagne. Piccoli edifici realizzati in sasso, muri a secco frutto della scienza esatta dei saggi ignoranti di montagna. Doveva usare qualche precauzione, come togliere i sonagli, evitare i sentieri, tendere l'orecchio al minimo rumore. Era l'agosto del 1943. Una sera, verso la fine del mese, i carabinieri passarono dal paese, facendo domande alla gente circa Costante Nanni, soldato del reggimento di cavalleria, scappato da Strongoli il giorno tale, all'ora tale. Ma nessuno in paese sapeva del suo ritorno. Il segnale però era chiaro: non poteva più nemmeno tentare di tornare a casa, perché i gendarmi non si sarebbero dati per vinti. Il tenente Bruno Nanni, ufficiale di tiro del Regio Esercito Italiano, era stato fatto prigioniero dagli Inglesi il 10 maggio 1943. I primi due mesi furono difficilissimi. I sudditi di re Giorgio ci tenevano a rendere la vita agli Italiani che avevano dato filo da torcere. Tunisi, Bona e poi in una nave carboniera, in condizioni disumane fino in Algeria. Insieme ai suoi uomini, Bruno fu trasportato da un campo di prigionia all'altro, finché non passò in mano agli Americani. Era il luglio del 1943. Rimase con i soldati d'oltreoceano che qualche volta si avvicinavano ai prigionieri e, in un italiano stentato, ricordavano il luogo di provenienza di genitori, zii e parenti. Poi gli Italiani furono caricati su una nave cargo statunitense diretta in patria il 6 settembre 1943. A questo pensava il tenente Bruno Nanni sotto coperta sulla sua branda. E ripensava anche alla guerra, e con una nostalgia infinita pensava a casa, a suo padre e a suo fratello. Chissà dove era finito dopo l'invasione, Costante? Passarono due giorni sulla nave, con l'incertezza e l'angoscia di chi non sa se e quando tornerà. Sotto di lui, fremente d'agitazione, il caporale Renzi non faceva che ripetere: -Tenente Nanni, dove ci portano?Il tenente rispondeva con rassegnazione: -In America, Renzi, in America.-Ma tenente, l'America è lontana, dall'altra parte del mare, come faremo a tornare a casa… come faremo? Ho famiglia, io…-Lo so, Renzi, lo so. Così è, Renzi, quando finirà torneremo a casa.Ci credeva poco anche Nanni, ma una frase di circostanza era l'unica cosa che poteva dire. Il tenente non aveva più parole per quell'uomo grande e grosso, carrista della divisione. Uno dal coraggio sconfinato, quasi pazzo. Ora eccolo lì a piangere come un bambino. Mentre continuava a sentirsi porre domande sul futuro, sentì gridare sul ponte. Gli Italiani si guardarono l'un l'altro, allibiti e sorpresi. Ad un certo punto, un soldato afroamericano si precipitò giù per la scala metallica urlando: -Italy quiet! Italy quiet! You gonna stay here, not in America!Il tenente Nanni tradusse nella mente le parole dell'americano e contemporaneamente le urlò con tutta la voce che aveva in corpo: -L'Italia si è arresa, si è arresa! Non ci portano più in America!I soldati si abbracciarono l'un l'altro piangendo di gioia. Centinaia di chilometri a nord est la notizia dell'armistizio arrivò anche nelle piccole borgate. La gente correva per strada gridando festosa, abbracciandosi, sparando colpi in aria con i fucili da caccia. L'unico che rimase in casa, preso dal terrore, fu Ruggero Nanni. Rimase con il cucchiaio della minestra a metà tra il piatto e la bocca. “Ancora una volta”. Gli tornarono in mente le voci dei Tedeschi e degli Austriaci che meno di trent'anni prima attaccavano le trincee italiane al grido di “Traditori!”. Non si sarebbero fatti girare le spalle un'altra volta, non avrebbero perdonato l'alleanza con gli anglosassoni. Un brivido gli corse su per la schiena facendolo sudare freddo. Era la paura, quella che gela le ossa, blocca le gambe. Il terrore. Guardò fuori dalla finestra, oltre i tetti di cotto e di ardesia. La luna rischiarava il dolce profilo dei monti. Ripensava al Carso, ad un'altra guerra. Trincee, assalti alla baionetta, mitragliatrici. Scosse veloce la testa, come per scrollarsi di dosso due anni di granate, mine, fili spinati e morti. Si risolse di andare da suo figlio. Si fece dare il paniere da sua nuora, mise gli scarponi e uscì di casa. Non gli fu difficile trovarlo, gli aveva insegnato lui ogni anfratto della montagna. Trovò Costante seduto sotto una roccia sporgente, a scrutare il buio. -Costante, l'Italia ha firmato l'armistizio con gli Inglesi. Ma non ti fidare. In paese sono tutti felici, ma io non sono d'accordo. Questa volta i Tedeschi non perdoneranno. Qui loro sono tanti, per non parlare di quelli a Bologna ed a Pistoia. Siamo in una morsa, ci occuperanno. Lo invitò a fidarsi meno di tutti e soprattutto a badare agli aerei alleati. Quella notte Ruggero non dormì, la paura non lo abbandonava, e per di più c'era quel figlio che non tornava. Morto? Disperso? Fatto prigioniero? Al distretto sapevano solo che la divisione Ariete si era arresa a maggio dalle parti di Tunisi, niente più. Nei campi di prigionia americani non si stava proprio malissimo. Si poteva giocare a bridge e si organizzavano spettacoli teatrali. La guerra degli Italiani era finita, erano prigionieri degli Americani, contro cui non avevano combattuto. Non ci poteva essere odio. Un giorno entrò nel campo un ufficiale circondato da altri uomini. Comunicò che dovevano recarsi a Casablanca, in Marocco, per prendere servizio come guardie ai magazzini americani. I Berberi stavano facendo continue razzie e occorreva porre un freno alle loro scorribande. Gli Americani intendevano impiegare i prigionieri di guerra, d'un tratto diventati alleati. Un dollaro al giorno era la paga. Il tenente Nanni fu messo a capo di una compagnia di 60 uomini. Il lavoro però era noioso, le pallottole a sale non impensierivano i predoni. Nanni, impaziente di mettere a frutto l'addestramento ricevuto in accademia e la lezione all'università, chiese di poter essere spostato ad un'altra occupazione. Sfruttarono le sue conoscenze in campo ingegneristico per la costruzione di aeroporti, magazzini, e tutto ciò che poteva servire alle truppe americane dislocate in Nord Africa. Il tenente Nanni passava le giornate al lavoro, ignaro di quel che succedeva nel suo paese natale. Una notte d'ottobre, dopo l'armistizio, Costante si trovava di là dal fiume Reno, al confine tra la Toscana e l'Emilia. Era in provincia di Pistoia, abbastanza in alto da vedere benissimo il paese dei suoi sulla catena dirimpetto. Aspettava Lina che doveva portargli delle uova e delle castagne cotte. Dal casolare dove si trovava con una dozzina di animali sentì un crepitio di foglie e voci che sussurravano. Ebbe paura che l'avessero trovato, maledisse se stesso per l'imprudenza di aver camminato su una mulattiera. Era sicuro che qualcuno l'avesse seguito e denunciato ai repubblichini. Tremava di paura per sé e per Lina che doveva arrivare a momenti. L'avrebbero fucilato sul posto insieme a lei. Mani legate dietro la schiena, faccia contro la montagna e una raffica. Mentre questi pensieri gli irrigidivano i muscoli e la bocca recitava il terzo 'pater' consecutivo, sentì la voce di Lina che lo chiamava. Pensò ad una trappola. “La usano come esca, mi vogliono far uscire”. Sempre più terrorizzato guardò fuori da una feritoia lasciata da un sasso staccatosi dal muro. Alla luce debole della luna distinse quattro figure. Una era Lina, le altre tre sembravano di una donna e due uomini. Non vide luccicare armi alla luce della luna e cominciò a sperare, a calmarsi. Raggiunse la porta del casolare, la aprì, sperando di non essersi sbagliato e che intorno non ci fossero i carabinieri, nascosti dietro i castagni. -Costante, questi signori sono ebrei, sono scappati dal campo di Pisa. Non sanno dove andare.Uno dei due uomini prese la parola: -Signor Nanni, siamo disperati, vi prego, aiutateci! Non mangiamo da tre giorni. Siamo sfuggiti ai treni per la Germania, vi ricompenseremo largamente quando tutto questo terrore sarà finito.Costante guardò l'uomo, stranamente magro per la sua altezza. Indagò a fondo per non rischiare, ma alla fine scelse di fidarsi. Portò i tre di là dal fiume, poi verso nord, verso la provincia di Modena. Li lasciò in una grotta naturale, ben riparata da un bosco di castagni e noccioli. Lina portò loro il latte una volta ogni tre giorni, finché Costante si risolse a far oltrepassare loro la Linea Gotica, che passava sui crinali dei monti dietro la casa di Costante. Ruggero, intanto, vedeva giorno per giorno realizzarsi le sue peggiori previsioni. Il rapporto con le truppe dell'aquila peggiorava sempre più. Andare da Costante diventava giorno dopo giorno sempre più difficile. Col passare del tempo, molti si univano alle formazioni partigiane, createsi proprio in ottobre. Ogni attacco a danno dei Tedeschi e dei fascisti comportava una rappresaglia sulla popolazione. Cresceva il numero degli sfollati e Costante doveva fare sempre più attenzione ad evitarli, perché qualcuno poteva salvarsi, denunciandolo. Una volta evitò per pochissimo una pattuglia di repubblichini. Camminava poco a valle di un sentiero, il vento forte gli soffiava alle spalle, scuotendo le cime delle piante e impedendogli di sentire i rumori davanti a sé. Curvò, seguendo la linea della dorsale, e si ritrovò proprio sotto il sentiero. Sei fascisti che camminavano in fila indiana, a pochi metri da lui. Si sdraiò dietro una madricina di faggio, un albero che era stato lasciato durante l'ultima tagliata per far ricrescere il bosco. I sei sfilarono uno dopo l'altro, guardandosi intorno con gli Sten spianati, per istanti interminabili. Il rischio di un incontro del genere era da mettere in conto, per chi, come lui ed i partigiani, viveva nel bosco. Più volte gli chiesero di entrare a far parte delle brigate di resistenza, ma rifiutò sempre. Come aveva rifiutato di combattere con l'esercito, così rifiutava di combattere con la Resistenza. Non gli interessava né l'onore né la gloria. Passando incontrava spesso cadaveri, dell'una e dell'altra parte. Non sopportava la guerra. Bruno si svegliava spesso. Il minimo rumore nella notte lo distoglieva dal sonno. Il corpo si era abituato a sussultare all'arrivo degli apparecchi, al tuono dei cannoni. La guerra lo aveva segnato. Ormai ne era fuori, ma quando allentava l'attenzione, i ricordi prendevano il sopravvento, soprattutto di notte. Una volta sveglio non si riaddormentava. Ritornava con la mente ai mesi di guerra. Aveva visto tanti ragazzi spavaldi. Si sentivano indistruttibili come tutti i ventenni. Anche quando le sorti della guerra erano cambiate non si erano lasciati prendere dalla ritrosia, dalla vigliaccheria. La sicurezza di vincere aveva lasciato il posto al senso del dovere. “Morire per morire, combattiamo”. L'aveva sentito dire da tanti, ma da pochi più di una volta. Il suo professore dell'accademia diceva: “Nasce con l'uomo e morirà con lui”. La guerra, ovviamente. Ricordava i discorsi con i commilitoni: si combatteva per ordini superiori, senza odio. La strenua resistenza della divisione Folgore nell'ultima battaglia di El Alamein cos'era? Coraggio? Senso del dovere? Una divisione di paracadutisti, adatta ad attacchi improvvisi, rapidi, costretta a fare una guerra logorante. Solo mezzo litro di acqua al giorno per la Folgore, una delle punte di diamante dell'esercito. Eppure resistevano, sacrificati, ma resistevano. Scambiavano acqua con le sigarette. Ci si arrangiava. Il quattro di novembre aveva rischiato anche lui di rimanere chiuso nell'accerchiamento, insieme ai paracadutisti. Si era salvato perché un ufficiale era tornato indietro a prendere dei cifrari che aveva dimenticato. Lo aveva caricato e lui aveva visto sparire tutti quegli uomini dietro la scia di polvere della vettura, là nella polvere di quel maledetto deserto. Per sempre. La primavera portò con sé gli Americani di Anzio. I Tedeschi sui monti crescevano di numero come funghi velenosi alla prima pioggia settembrina. Erano ovunque. Ruggero osservava l'odio che cresceva per la valle del Reno, una gramigna difficile da estirpare. Si scopriva a piangere in solitudine, pensando a quanto si diceva in paese. Si parlava di stragi terribili, intere famiglie uccise. Adesso tutti erano contro tutti. Borgata contro borgata, vicini contro vicini. La guerra civile imperversava e divideva. Costante si muoveva solo di notte, ormai era un fantasma. Altre decine di sfollati si erano riversati dalle città e dai centri più importanti verso le montagne. Molti si perdevano e finivano a chilometri dalla destinazione. Nel frattempo repubblichini e Tedeschi pattugliavano i sentieri, catturando chiunque trovassero. A valle i treni per Carpi aspettavano i rastrellati. E da lì la Germania. Nessuno poteva sentirsi al sicuro. Il vecchio, in paese, continuava a pensare a Bruno. Sperava che suo figlio fosse fuggito alla morte in terra straniera, ma il suo carattere razionale gli impediva di farsi illudere per più di qualche minuto. “Prigioniero o morto pensava . Non può essere stato diverso da così il destino di Bruno. Se l'hanno preso chissà dove sarà stato portato, chissà se lo rivedrò”. Ma il tempo passava, arrivarono le fragole ed i mirtilli nei boschi ed i partigiani cominciavano ad avere davvero la meglio. Sbocciavano una dietro l'altra le loro Repubbliche, già si respirava aria di liberazione. Così avvenne. Fu davvero una liberazione. Cappelli che volavano per aria, gente urlante. Ma Costante, Lina e Ruggero pensavano a Bruno. La liberazione si faceva sempre più vicina anche per il tenente e gli altri. Gli Inglesi e gli Americani stavano sconfiggendo i Tedeschi. Arrivò il giorno in cui li rimpatriarono. Dopo un viaggio per nave interminabile arrivarono a Napoli. Le ferrovie erano state distrutte dalle bombe. Bruno arrivò a Pistoia pagando il passaggio ad un avvocato che faceva il tassista per gli ufficiali. Erano in quattro. Li portò fino a Pistoia. Da lì il treno partiva per Molino. Lo stesso che aveva preso suo fratello, due anni prima. La ferrovia era interrotta e spesso il treno doveva fermarsi. Arrivò anche lui, nell'aria gelida di novembre. Per prima cosa si fece registrare alla stazione di polizia ed ottenne un mese di licenza. Era un militare di carriera, anche dopo tre anni di guerra e prigionia, doveva rispettare la legge. Prese la corriera fino a casa. Per la strada, case distrutte dai bombardamenti, e gente senza tetto. L'avvocato Anselmo, quello che lo aveva portato a Pistoia, aveva parlato della guerra civile, ma il tenente aveva sperato che il suo piccolo borgo, arroccato tra i castagni, fosse rimasto incolume. Invece non riconosceva la sua montagna. Sui muri di pietra delle piccole borgate si vedevano i segni dei proiettili ed il bosco era spesso sfregiato da macchie nere o da radure mai viste prima. Arrivò alla porta di casa, un po' spaesato. Ripensò all'ultima volta che vi era entrato. Era gennaio del '42, prima di andare in Africa. Erano trascorsi tre anni. Bussò esitante alla porta. Sentì dei passi pesanti, poi qualcuno dall'altra parte aprì il chiavistello e girò la chiave. Apparve un uomo anziano con il cappello in testa, la giubba di velluto e gli scarponi ai piedi. -Babbo!- disse a mezza voce, con un magone crescente che gli serrava la gola. Ruggero rimase impietrito sull'uscio di casa, con la mano sinistra sull'anta. Bruno lo abbracciò con forza, e l'uomo barcollò. Si aggrappò a quel figlio creduto morto e scoppiò in un pianto felice e disperato. I due uomini arrivarono al pozzo dal sentiero che scendeva sotto la casa. Costante appena li vide prese a correre incredulo. Anche Lina voltò lo sguardo e vedendo Bruno corse anche lei con il piccolo Renato in braccio incontro al cognato. -Bruno! Bruno!- Costante non riusciva a parlare, non gli veniva in mente nessuna frase. La paura di averlo perso per sempre lo aveva rincorso per mesi su e giù per i monti. -Costante…- anche il fratello maggiore non aveva parole. Era stato tre anni senza notizie della sua famiglia, senza sapere che fine avesse fatto Costante in Calabria e con la preoccupazione per il padre anziano. Dopo che i due fratelli si furono salutati ed abbracciati, Lina si fece avanti porgendo suo figlio allo zio che lo prese in braccio e lo alzò sopra la testa. -Ciao, Renato. Io sono lo zio. Zio Bruno.- disse strizzandogli le guance floride tra l'indice ed il medio. Il bambino guardò un po' spaesato quel signore grande, che tutti abbracciavano e che ora lo teneva tra le braccia. -Bruno- disse il piccolo con la voce esitante. Furono abbracci, urla, pianti, domande e poi ancora pianti. Per primo prese la parola Bruno tra i quattro riuniti intorno al tavolo. -Costante raccontami, come hai fatto a tornare? Ti hanno rimandato indietro gli Americani? -Bruno, io… io sono tornato perché ho disertato.La felicità abbandonò improvvisamente il viso squadrato del tenente Nanni. Un'ombra passò sugli occhi scuri. Subito provò un senso di vergogna enorme. -Scherzi vero? Come… come hai potuto Costante? Hai abbandonato i tuoi compagni sul campo. Hai salvato la vita, ma hai disonorato la tua famiglia. Babbo, non ti vergogni? Io ho fatto tutta la campagna d'Africa dal '42 al '43. Ci siamo arresi solo per ordine del Duce in persona. Ho visto con i miei occhi morire i ragazzi come te. Hanno combattuto fino alla morte, pur sapendo che il loro destino era segnato. Non… non… non mi sarei mai aspettato un comportamento così!Bruno si alzò di scatto e scappò fuori. Non si fermò fino al suo alloggio in caserma a Bologna. Le parole di Costante gli bruciavano come una ferita, un'offesa incancellabile. Sentiva tradito tutto il coraggio dimostrato dagli altri ragazzi nella sabbia del deserto, in mezzo alle mine, sotto le bombe ed i cannoneggiamenti. Non gli perdonò mai quel gesto di fuga e per molto tempo non volle più vederlo. Bruno scriveva per Natale e per Pasqua e non dimenticava il nipote. Le lettere erano destinate tutte a Lina Bellini e non c'erano mai i saluti per il fratello. In paese, all'osteria, tra i vecchi che giocano a scopone e briscola, si dice che il vecchio dei Nanni morì per il dispiacere di vedere i due figli divisi tra la vita ed il dovere, dopo la sofferenza per la paura di non rivederli. Morì d'infarto, solo, sulla soglia di casa, con il bastone accanto. Solo allora, davanti alla sua bara, i due fratelli si tesero la mano. Seguono cinque commenti, al brano precedentemente trascritto, di altrettanti corsisti, che dimostrano, se fosse necessario, con quanta attenzione, cura, acume, intelligenza ed emozione seguono le varie discipline e le letture via via proposte. Il primo è di Milva Banti, la quale ha letto attentamente il brano proposto che, nella sua argomentazione, diventa la base per un ragionamento semplice e, allo stesso tempo, complesso, lucido ed acuto, da cui sale alto e possente un grido quasi disperato contro l'assurdità di tutte le guerre e l'idiozia dei cosiddetti potenti, che non esitano a scatenarle per motivi spesso vergognosi ed indicibili e sempre per accontentare il proprio smisurato “ego”. Alberto si propone con le due possibilità che si presentano oggi di fronte alla guerra, i pro ed i contro, e con il suo racconto spinge alla riflessione sulle due posizioni. Non so quanto la condizione sociale e culturale di ieri lo permettevano; oggi con le varie posizioni espresse dai media, le letture e le conoscenze, si può. Attualmente la scelta per noi è solo quella di imparare a fare la guerra (nei fatti il servizio militare non è più obbligatorio!), ma oggi come ieri i cittadini non decidono se dichiarare guerra. I governi, i regimi confessionali e non, i poteri economici da sempre agiscono nel proprio interesse, indipendentemente dalla volontà della gente: questa è la mia opinione. “L'obbedienza non è più una virtù”, recita il titolo di un libro scritto nel lontano 1965 da Don Milani, anche contro la propria chiesa, in difesa degli obbiettori di coscienza. Ma è possibile ribellarsi sempre? Onore a chi, anche a scapito della propria vita, sceglie il rifiuto, e con esso la morte o la prigione, come spesso avvenne in Italia durante la seconda guerra mondiale ed anche dopo. Io credo che uccidere per difesa si può, ma per conquistare terre e potere, no e no, anche se te lo ordinano. Ma si può essere tutti eroi? Io spesso mi domando: “Che cosa farei di fronte ad una scelta reale e non ipotetica? Per salvare i miei figli, che cosa sarei disposta a fare? La compromissione con la guerra ed il sottostare ai ricatti, è 'scelta di vita' per i figli o per se stessi? Anche oggi si plaude alla guerra che, necessaria per alcuni, può essere ingiusta per altri, infatti il dissenso viene criminalizzato e la reazione dei popoli aggrediti è definito terrorismo. Da alcuni anni (soprattutto dopo la terribile tragedia del Vietnam!) è proibito dai vari governi la trasmissione televisiva dei luoghi di guerra: erano così tante le inconcepibili immagini, le morti di civili, le orrende devastazioni che, di fronte alle reazioni degli spettatori di tutto il mondo, si è deciso di non far vedere più niente. Con la tecnologia bellica di oggi che misura tempo e spazio al milionesimo, è possibile credere che un missile od altro ordigno sbagli bersaglio, colpendo la popolazione ignara? Oggi nelle azioni belliche ci sono molti più morti civili che militari. Si ha l'impressione che siano sempre più le popolazioni le vittime 'calcolate' per la vittoria, non la conquista di territori, con poco rispetto anche per i prigionieri ( vedi Abu Ghraib, Guantanamo ecc..). La nostra Costituzione ripudia la guerra, ma poco si può vedere e sapere riguardo alle motivazioni che spingono alla guerra; notizie ed immagini sono filtrate, non sappiamo mai quali veri interessi politici ed economici esistono in quei territori, negando di fatto le vere conoscenze che potrebbero consentire giudizi più corretti. Spesso ci viene negata la verità, che, però, qualche volta viene fuori e la nostra delusione allora è più cocente. Queste cose scritte sono riflessioni caotiche nella loro descrizione, perché la rabbia che ti soffoca, quando vedi i risultati della guerra, il dolore e la sofferenza inaudita provocata, spesso mi fa dire: “Ma che razza di cretini governano questo mondo!” Lessi alcuni anni fa, ma non ricordo, ad onor del vero, dove, che degli psicologi e psichiatri, esaminando tutte le notizie possedute, i modi di fare o del dire, le cose eseguite dai potenti, che hanno fatto la guerra (più che altro fatta fare!), erano arrivati alla conclusione che questi cosiddetti potenti sono alquanto bizzarri, insomma dei cretini, superbi, arroganti, che esercitano il potere con la violenza con l'obiettivo di sentirsi onnipotenti. Ho l'impressione che oggi accada lo stesso, se la democrazia non è partecipata, ma soltanto delegata. P.S. L'arroganza del potere è… immonda, quando è esercitata per far fare la guerra, per questo, se lo potessi fare, per dare riscontro alla nostra lettura, metterei questi potenti in ogni girone dell'inferno a ripetizione su, giù, su, giù, su, giù…. per l'eternità. Il secondo commento, di Giuseppina Cassigoli, pur nella sua brevità dice tutto: imputa al destino ciò che è accaduto e sposta la sua valutazione sull'autore, Alberto, che, bravo e determinato com'è, sa, proprio alla stessa maniera di Bruno, ciò che vuole dalla vita. Interessante, comunque, lo spunto relativo alla mancanza di ordini, che aggraverà la disfatta. Per i tempi che erano e per la mentalità del padre il destino dei fratelli Nanni era già stato segnato, loro malgrado. Bruno, il primogenito, intelligente e con un radicato senso del dovere, vuole portare fino in fondo tutti i compiti che gli sono stati assegnati. Costante, al contrario, non sa prendere decisioni importanti, tanto è vero che nel momento dello smarrimento della disfatta, non avendo nessuno da cui prendere ordini, si dà alla latitanza. Alberto, nonostante la sua giovane età, sa già cosa vuol fare nella vita. Infatti studia con profitto, ha mille interessi e soprattutto si diletta a scrivere e direi con successo, visto che cosa è capace di scrivere. Per il suo carattere determinato, per voler portare fino in fondo, quello che si è prefisso di fare, secondo il mio modesto parere, Alberto si ritrova più in Bruno (e con ragione). Nicla Cenerini, nel terzo commento, annota con garbo ed intelligenza come Costante abbia fatto la scelta giusta, forse proprio perché, non avendo studiato, non era stato influenzato dalla propaganda del regime onnipresente nella scuola ed aggiunge anche un commento commosso ed emozionato in relazione ad un altro bel brano, scritto da Elisa Vieri, diciassettenne come Alberto. Il racconto (Tra la vita e il dovere) del giovane Alberto Agostini, mi ha fatto tornare alla memoria mille ricordi, per chi, come me, all'epoca c'era (sia pure poco più che bambina). Mi ricordo molto bene il giorno 8 settembre 1943 e qui, nella nostra zona, la tragedia iniziò proprio da allora. C'era che scappava alla macchia e chi, invece, arrivava in alta uniforme con tanto di camicia nera. Oltre a tutte le paure, ed erano veramente tante, c'era proprio questa divisione politica che terrorizzava e, come si legge, anche nella stessa famiglia ci potevano essere aspri contrasti. Certo Costante, al contrario di Bruno, non aveva studiato, ma forse proprio il non essere stato costretto a certe imposizioni della scuola di allora, lo aveva lasciato libero di vedere al di là del proprio naso e a prendere la decisione (secondo me giusta) che abbiamo visto. Comunque, al di là di tutto, bravo Alberto. A questo punto, però, vorrei spendere due parole anche per Elisa Vieri. Il suo racconto (Come le pagine di un libro) mi ha davvero emozionata: dalle sue parole si capiscono bene le sue sensazioni e anche a noi che leggiamo sembra di vedere gli oggetti e di sentire quei rumori quasi soffocati. E' veramente molto bello che tutto ciò venga descritto e provato da una ragazzina di soli diciassette anni. Magari ce ne fossero molti di ragazzi così. Quindi grazie a voi e bravi, bravi davvero! Un bel commento, quello di Olga Palandri, ed anche molto articolato, che sottolinea opportunamente l'azione educatrice del padre Ruggero, cogliendo anche l'aspetto fondamentale della forza dell'amore e della vita, sia nella nascita del piccolo Renato, sia, soprattutto, nella fortemente simbolica stretta di mano finale dei due fratelli finalmente riappacificati. Ho letto con piacere il racconto del giovane Alberto, perché vi ho trovato, uniti ad una trama interessante ed impegnata, riferimenti storici assolutamente esatti, riportati con stile chiaro e gradevole. Il racconto scivola via accattivante e non risalta subito evidente la profonda problematica che esso ci propone. Una problematica coinvolgente e talmente importante da condurre a chiederci e a cercare la spiegazione al quesito che l'autore ci indica. Tutto il racconto è un'altalena di proposte che cercano di accompagnarci ad una interpretazione finale del suo pensiero. Io mi sono lasciata trascinare subito nel “tiro alla fune”, che ci propongono le vicende dei tre protagonisti: Costante, Bruno e Ruggero. Un triangolo familiare con il padre, Ruggero, ed i due figli, Bruno, il primogenito, e Costante, il secondo nato, che mi piace immaginare il “bastone della vecchiaia” per Ruggero. In un momento storico particolare i personaggi sono scolpiti dalla penna di Alberto nei loro ruoli. Ruggero è il padre che pensa molto alla preparazione del primogenito, per tradizione considerato il miglior rampollo, il predestinato, per il quale la famiglia farà grandi sacrifici per avere il figlio colto, laureato e, di conseguenza, coraggioso, con un profondo senso del dovere e sicuro di vincere. Un figlio (Bruno) spavaldo, indistruttibile e innamorato della guerra che “Nasce con l'uomo e morirà con lui”. Costante, invece, il secondo figlio, viene cresciuto per provvedere alla vita e alla sopravvivenza della famiglia: a scuola al mattino e ad aiutare i genitori nel pomeriggio; le pecore al pascolo, la mungitura, le castagne. Il secondogenito è abituato a vivere della terra, dei suoi frutti. Delle sue risorse e queste abitudini si consolidano nel ciclo annuale. Costante è in simbiosi con il suo ambiente, perché esso rappresenta ed è la vita. Ed è proprio quell'ambiente, nel quale è nato e cresciuto, e nel quale ha vissuto, che lo protegge e gli salva la vita, quando, disertore, si nasconde per difendersi nel suo mondo. Saranno proprio i suoi boschi, i suoi campi, il suo gregge e gli itinerari e gli anfratti dei luoghi natii a difendere la sua vita dopo la diserzione. E per lui ci sarà ancora una famiglia e una nuova vita nascerà da lui e dalla moglie Lina: il figlio Renato. A questo l'ha condotto l'educazione che ha ricevuto! Il fratello Bruno, invece, è sovrastato dal senso del dovere, dell'onore, della fatalità del destino segnato, dell'obbedienza e dal fascino della vita militare. Ufficiale di tiro del Regio Esercito italiano vive la guerra in maniera fatalista e ne accetta tutti gli aspetti, compresa la morte e la prigionia. Questo gli è stato destinato! In mezzo a Bruno e a Costante, Ruggero fa il padre affettuoso e premuroso con entrambi. Li ama tutti e due, ma esterna in maniera diversa questo amore paterno. E' ammutolito dall'arrivo di entrambi i figli al loro ritorno a casa dalle loro lontananze. Ma le lacrime escono dai suoi occhi tristi, soltanto quando parla di Bruno e del silenzio della sua lontananza a Costante, che è appena arrivato: ”Di Bruno non sappiamo nulla!” Lo stesso accade anche…… Anche… quando, impietrito dalla gioia del suo ritorno, Ruggero si aggrappa a quel figlio creduto morto e scoppia in un pianto felice e disperato. A Costante, invece, che riappare all' improvviso, dopo un silenzio esterrefatto, il padre lo fa sedere e, dopo avergli dato una pacca sulla spalla, lo invita a mangiare e con lui studia la fuga, dopo avergli affidato il gregge. Anche Costante, insieme al padre, ha sempre pensato a Bruno! Questo non vuol dire che Ruggero non ami entrambi i figli. Nella conclusione del racconto avremo questa certezza! Ma quando Bruno, dopo aver appreso dal fratello che è un disertore, si allontana e va a Bologna in caserma, senza avere più contatti con lui, sembra che il racconto ci voglia proprio lasciare sprofondati nel dubbio del suo enigma: “Cosa scegliere fra la vita e il dovere?” Invece, nella conclusione del lavoro mi è sembrato di aver capito la scelta di Alberto. Ruggero era stato accompagnatore e sostenitore convinto dell' indirizzo educativo dei suoi due figli. Aveva con intento e lavoro, addestrato e fatto addestrare Bruno principalmente al dovere e Costante soprattutto alla vita. Sembrava che così egli avesse inconsapevolmente causato la diversificazione e l'allontanamento dei due fratelli. Egli stesso in prima persona sembra avere subito inevitabilmente le conseguenze di questi due percorsi educativi così diversi. Anche lui è stato vittima di quel momento storico e della mentalità da esso scaturita in quegli anni. Ma Ruggero ritorna ad essere il 'trait d'union' tra i figli e a sciogliere ogni dubbio nel momento del suo commiato definitivo. La sua bara riunisce DOVERE e VITA in un unico, vero, sincero e sicuramente vincente atto di AMORE. Davanti al padre morto cadono: ideologie contrastanti, anni di rabbia e di silenzio forzato… Vince…, a mio avviso, la potenza dell'unica vera forza che fa grande l'essere umano: quella della VITA. Dario Simonatti, infine, nel suo commento breve, conciso, ma essenziale, subito ci confessa che, secondo lui, Alberto, lo scrittore, parteggia per Bruno: infatti nota che la sua fuga dall'accerchiamento di El Alamein è appena sfiorata, così come altri atteggiamenti che non riconducono proprio al coraggio ed al dovere professati così arrogantemente. Insomma lo scrittore, ci fa intendere Dario, dovrebbe librarsi un po' al di sopra di tutti i suoi personaggi. Secondo me lo scrittore parteggia un po' per Bruno. Non lo dice chiaro, ma accenna solo alla fuga dal deserto. Ma come!! Ha lasciato i suoi commilitoni circondati dal nemico e se n'è andato con un altro ufficiale; e che è, se non vigliaccheria?!! E poi, come sta zitto! E si permette di fare la persona retta e cita gli atti eroici dei commilitoni. Ha esultato, quando ha saputo che l'Italia si è arresa, ha collaborato con gli Americani, che prima erano i suoi nemici. Non esita,però, a giudicare il fratello, che sinceramente gli ha detto della sua posizione di disertore; ha fatto soffrire anche il padre, che, già vecchio, avrebbe sicuramente gioito di vedere ancora insieme i suoi due figli. Lo scrittore non le fa pesare queste cose! In quanto Università della Libera Età abbiamo aderito al Forum del Volontariato, che quest'anno proponeva, come tema portante: “La disabilità nella società di oggi: conoscerla per superarla”. Ho registrato solo due risposte scritte, entrambe relative alla cecità, ma così interessanti e coinvolgenti, per l'esperienza diretta che sottendono, che mi è parso sacrosanto farle conoscere al maggior numero possibile di persone. La prima esperienza è di Milva Banti, che, con grande affetto e stima, ricorda un'amica di lavoro, Mara, che le ha 'insegnato' molto ed il cui ricordo riaffiora costantemente nelle situazioni più comuni che capitano ogni giorno. A tutte le Mare del mondo. Mi avvicinai e mi appoggiai al bancone della portineria, una giovane donna mi salutò: “Buon giorno, desidera?” “Sono Milva, oggi è il primo giorno di lavoro, mi devo presentare da Doretta Barsali”“Io sono Mara, vada a destra, la prima porta alla sua sinistra è quella che cerca.” Questo fu il primo incontro con Mara, che ricordo con particolare simpatia. Dopo il lavoro la salutai uscendo, e lei: “Arrivederci, Milva, ci si incontrerà spesso, ciao a domani, arrivederci.” Che c'è di strano? Niente, solo che Mara era cieca, mi aveva sentito per pochi secondi e dopo alcune ore, mi aveva riconosciuto; dalla voce e dai passi, suppongo. Col tempo apprezzai quanto lei era capace. I numeri dei telefoni dei vari reparti ospedalieri e dei servizi interni ed esterni erano tantissimi, ma lei li ricordava tutti. Riconosceva tutte le persone e ricordava ogni cosa, intuiva di che umore eri. “Sei triste? Sei contento? Ti gira male? Sei su di giri? Che ti è successo? Perché corri?” Accompagnava il saluto con qualche frase che dimostrava gentilezza, simpatia ed amicizia. Ero contenta quando potevo parlare e scambiare opinioni con lei. Con Mara non occorreva avere atteggiamenti particolari, vi dirò che una volta fu lei a togliermi dall'imbarazzo, quando le domandai se aveva visto passare una persona. “Scusa, Mara”, poi le dissi e lei, con affetto: “Di niente, è spontaneo domandarmi così.” Era una centralinista eccezionale, di lei ti potevi fidare, aveva la stima di tutto il personale. Era consueto dire: “Se Mara ha detto che Tizio e Caio non ci sono, o che è sì o è no, senz'altro è così, a lei non sfugge niente!” Con questo non dico che ogni disabilità deve essere superata per tutti in modo uguale, anzi, per molti non è possibile, ma ogni persona ha il diritto di vivere nel modo migliore e di esplicare le proprie capacità, che spesso sono migliori di altre ed ottenute con maggiori fatiche ed impegno. Ricordo Mara spesso, ammirando le sue capacità, specialmente quando di notte non accendo la luce, per non disturbare, e sbatacchio in tutti i posti, e poi non ricordo mai i nomi delle persone! Che dire dei numeri telefonici: se non avessi l'agendina, non telefonerei neanche a me stessa! Il pensionamento col tempo ci ha diviso, diverse furono le strade, ma io la ricordo come una persona positiva. Ciao Mara e ciao a tutte le Mare del mondo. Nella seconda esperienza Dario Simonatti riesce a farci vedere, con garbo e semplicità, ma anche con intelligente sagacia, come i cosiddetti 'normali', cioè la maggior parte di noi, siano spesso, anche non volendo, prigionieri di pregiudizi ed abbiano molto da imparare da chi è stato meno fortunato, se non altro nell'apprezzare ed amare molto di più tutto quello che la natura ci ha più generosamente elargito. Conoscere la disabilità per superarla. Il nostro corpo è fatto veramente bene; è una macchina complicatissima e perfetta e inizia a formarsi quasi sempre da un bell'incontro a due. Miliardi di cellule lavorano ininterrottamente ed in sincronismo tra loro, crescono e si moltiplicano, quando hanno esaurito il loro compito, muoiono e vengono rimpiazzate da altre nuove, che continuano la loro missione; insomma in ogni persona c'è un immenso laboratorio chimico che trasforma ciò che si mangia in calore ed energia, ma soprattutto da' origine al pensiero che poi da' senso alla vita. Se qualche reparto di questo immenso laboratorio comincia a funzionare male, e purtroppo può accadere per tanti motivi, vedi incidenti sul lavoro, incidenti di macchine, giochi pericolosi o, purtroppo, anche per molte malattie o addirittura malattie genetiche, la persona colpita perde una o più funzioni e rimane disabile. Poi c'è la disabilità delle persone anziane, che sono sempre più numerose, dato che la vita tende ad aumentare, e le conseguenze sono di solito irreversibili e l'assistenza per questi pazienti è necessariamente totale fino alla fine. Nel nostro paese ci sono purtroppo molti casi di disabili anche gravi; le strutture della nostra società qualche aiuto alle famiglie lo danno sotto forma di aiuti infermieristici e materiali di tipo ospedaliero, ma sono i familiari che devono sopportare il carico di situazioni quasi sempre molto dolorose, con rinunce al lavoro ed a qualsiasi libertà. Purtroppo c'è molta indifferenza verso chi è stato duramente colpito dalla vita, e delle volte una persona disabile è guardata con un'aria di disgusto da chi si sente normale; incontrando sul marciapiede un disabile, si vedono persone lasciare un po' di spazio, ma sembra per non farsi nemmeno sfiorare, è veramente molto triste. Non sono molti i volontari che dedicano il loro tempo a chi ha bisogno, ma ci sono e anche qui da noi sono organizzati per coordinare meglio il lavoro, distribuire al meglio le poche forze a disposizione e dare aiuti concreti. Ricordo che qualche anno fa furono organizzati dei giochi a livello nazionale per non vedenti proprio a Follonica: si trattava di giocare una partita a pallone, di corse a piedi sui cento metri e corse in tandem in bicicletta. La partita fu emozionante e commovente: giocavano con un pallone che aveva al suo interno un campanello che, suonando, dava la sua posizione, le porte erano segnalate con un suono continuo. I ragazzi correvano con entusiasmo ed un impegno incredibile: si piantarono anche qualche calcione negli stinchi e come protestavano!!! Non mancò nemmeno qualche insulto all'arbitro!! Nel pomeriggio corse in tandem e corse sui cento metri ed anche qui grande entusiasmo di atleti e pubblico. La serata finì con un concerto della corale 'Cimarosa', di cui faccio parte; avevano preparato pezzi da operette e canzoni italiane che furono apprezzate e cantate dai ragazzi. Alla fine ne accompagnai quattro all'albergo; appena partii, uno dei ragazzi indovinò che macchina avevo, mi disse che dovevo cambiare la marmitta e far revisionare il motore, perché sembrava un trattore e mi avrebbe presto lasciato a piedi; in effetti dopo un po' cambiai la macchina. Quando fummo vicini all'albergo, uno dei ragazzi mi disse: ”Ci porti a VEDERE il mare?” Mi sentii scorrere un brivido per tutto il corpo, eravamo vicino alla colonia, entrai e mi fermai vicino alla spiaggia. Era buio pesto di febbraio e senza luna. Scendemmo tutti e mi scappò di dire: “Ragazzi, attenti a dove mettete i piedi!”“Perché è buio? Ma noi siamo allenati, comunque staremo attenti, dai, portaci vicino all'acqua, che se ne sente già il profumo!!!” Respirammo tutti a pieni polmoni. Bella figura avevo fatto! Ma subito dopo ne feci un'altra. Dopo aver respirato quell'aria fresca e piena di iodio, uno dei ragazzi mi disse: “Dovresti vedere bene tante stelle ed ORIONE, se guardi verso Sud-Est”. Di stelle ne vedevo tantissime, ma non sapevo qual era Orione. Con le spiegazioni di un ragazzo non vedente riuscii ad individuare le tre stelle allineate che rappresentano l'elsa della spada e le tre stelle che delimitano la spada di Orione. Incredibile, non l'ho più dimenticato. Secondo me le persone giovani colpite da una qualsiasi malattia, che fa loro perdere un senso, trovano la forza di vivere con una volontà ed un'attenzione maggiore per tutte le cose che può ancora offrire loro la vita, riescono a mettere tanto entusiasmo nello sport che possono praticare, riescono ad ottenere buoni risultati negli studi e per conquistarsi un posto nella società devono proprio essere migliori di chi si sente normale. Di Milva Banti eccovi una briosa favoletta per grandi e piccini sulla curiosità, sull'amicizia e sul senso dell'avventura. La ranocchietta bianca, rossa, verde e gialla. C'era una volta una ranocchietta bianca, rossa, verde e gialla. Viveva nella Gora, cantava 'cra, cra', e saltava da una riva all'altra. Un giorno stava giocando nell'acqua, quando vide qualche cosa di strano che si muoveva. “Chi sei?” domandò la ranocchietta bianca, r., v. e g. “Non lo sai?, io sono un pesce e mi chiamo muggine, in qualche altro posto cefalo”-“Come sei buffo e da dove vieni? Non ti ho mai visto”-“Io vengo dal mare”-“E cosa è il mare?” domandò la ranocchietta b., r., v., g. incuriosita. “Un posto grande, pieno di acqua, ma così grande che non si vede la fine” rispose il muggine. “Oh, come mi piacerebbe vedere questo mare” disse la ranocchietta b., r., v., g. sospirando, “se non fosse così lontano, come dici e sapessi dove è, ci potrei arrivare”-“Ti ci porto io”, rispose il muggine baldanzoso, “saltami in groppa, che si parte!” La ranocchietta b., r., v., g. saltò sul dorso del muggine, si attaccò alle pinne e via. Le sembrava di volare nell'acqua; ad un tratto vide una cosa stupenda, acqua a non finire, brillante di luce, “Ecco, scendi”, disse il pesce trionfante e la ranocchietta b.,r., v., g. si gettò in acqua felice, ma dopo pochi attimi un colpo di tosse quasi la soffocava. “Ma cosa ha questa acqua?”, gridò spaventata, “è salata!”-“Ma certo”, disse il pesce muggine con aria sapiente, “non è sciapa come quella del tuo fiume”. La ranocchietta b., r., v., g. era mortificata, non voleva apparire scortese e con aria mesta, disse: “Ti prego, signor muggine, il tuo mare è bello, ma forse per me va bene il fiume, riportami a casa”. Così, in groppa al pesce, la ranocchietta b., r., v., g. tornò nella Gora; salutò e ringraziò il muggine, ma felicemente si tuffò nella sua sciapa acqua e la sua casa le sembrò bellissima, con tanti sassi, erbetta affiorante e foglie galleggianti. “Ma dove sei stata?”, gridarono le sue amiche ranocchiette, “raccontaci, ti abbiamo visto che arrivavi volando sul pelo dell'acqua”. La ranocchietta b., r., v., g. sospirò e raccontò la sua avventura, suscitando curiosità e desiderio, nascondendo il fatto che l'acqua del mare salata le aveva procurato tanta paura. Ora vive felice, orgogliosa della sua avventura, che spesso ripete alle giovani ranocchiette, aspettando le visite del suo nuovo amico muggine, che spesso torna a salutarla. In questi ringraziamenti, in cui si possono riconoscere tutti i corsisti, tutti i docenti e lo spirito con cui ci si avvicina all'Università della Libera Età, la signora Gina Bernardini in Coppola dice, tra l'altro, “… Non vedo l'ora che venga e io possa venire alla sua prossima lezione per ascoltare…” Egregio prof. Ho preso in mano il fascicolo sul Foscolo, di cui ero digiuna completamente, e che Lei ci ha fatto gentilmente avere; ho letto la vita del poeta, ho guardato le foto belle, specie l'ultima di copertina, che mi ha fatto ricordare le gite mie nella bella Firenze. Grazie. Ho anche letto “svelta” le prime 5 o 6 pagine, ma ci ritornerò certamente sopra spesso; però ho letto con attenzione la pag. 7, che riporta in “bello stile” la DEDICATORIA a BONAPARTE. Mi ci sono soffermata, mi è piaciuta molto, leggendo le note chiarificatrici, l'ho letta 2 volte; riconoscendomi ignorante di tante cose, le assicuro di seguitarne la lettura nei giorni seguenti. Non vedo l'ora che venga e io possa venire alla sua prossima lezione per ascoltare…. Lo ringrazia e lo saluta la vecchia Gina B. in C. P.S. Nessuno mi ha avvisato del cambio fatto, altrimenti sarei venuta a scuola, trascurando anche le mie infermità. Mi scuso per l'assenza. La signora Luciana Fabbri in Bertini ci regala un tenero ricordo di vita pienamente vissuta accanto al marito che era stato 'orgogliosamente' un Bersagliere. Ero un Bersagliere. Lo conobbi l'indomani dell'entrata in paese degli Americani, primo giorno di pace dopo le ultime settimane passate fra cannoneggiamenti, morti uccisi sia dai Tedeschi che dalle cannonate, distruzioni e macerie ovunque. Lui era seduto su uno scalino insieme ai suoi compagni che si erano dati alla macchia dopo il disfacimento dell'esercito, sia per sfuggire alla cattura, sia per partecipare in quel modo a far terminare la guerra e raggiungere così la pace agognata e finire finalmente ciò che per anni era stato l'errore di un potere discusso e discutibile, di deliranti desideri di conquistare l'Europa e assoggettarla ai disegni di Hitler. Così anche per noi giovani, che avevamo conosciuto solo guerra, fame e paure, ricominciò la vita spensierata dell'età. Dopo qualche mese di conoscenza e alcuni anni di fidanzamento ci siamo sposati. Nella sua memoria è impressa la sua grande ammirazione per il corpo dei Bersaglieri, del quale aveva fatto parte per 5 anni della sua giovinezza, di ciò era molto orgoglioso e per questo non mancavamo mai alle dimostrazioni di tale corpo e andavamo ovunque ci fossero le feste, anche nazionali. Io francamente non avevo tutto quell'entusiasmo e ritenevo fuori luogo tutte quelle manifestazioni che mi sembravano un inno al militarismo, che io, dopo la guerra, ho sempre condannato, comunque il suo entusiasmo era sincero e sentito. La vita passava, la famiglia si era creata con soddisfazione per i figli bravi e studiosi, anche la salute per lunghi anni è stata buona. Il suo lavoro di Vigile Urbano tuttofare era stato svolto da lui con grande impegno e competenza. Andati in pensione, ci trasferimmo a Follonica, finché dopo qualche anno la sua salute cominciò a deteriorarsi sempre più, perciò per lunghi anni, fra alti e bassi, ogni tipo di malattia, ricoveri ospedalieri frequenti, cure mirate, ha vissuto più a lungo del previsto, poiché, avendo nostro figlio medico, passava molte volte dalla morte alla vita. Poi ha perso quasi totalmente la vista, non era più in grado di camminare e di gestirsi da solo. E' stato aiutato particolarmente da me, che sono stata moglie e tanto infermiera; lo portavo con la carrozzina ai giardinetti, dove poteva parlare con gli amici, da quali era apprezzato, perché le uniche cose rimastegli erano la memoria e l'intelligenza. Ricordo che negli ultimi giorni della sua vita, pur essendo in rianimazione, pieno di tubi e macchinari, parlando con il medico e dicendosi quasi meravigliato di quanto gli succedeva, a tal punto che non poteva crederci, così affermò al Dottore: “Pensi Dottore, non mi guardi ora, ma prima ero forte e poi ero un Bersagliere!” Nello scritto della signora Nicla Cenerini aleggia, doloroso e disperato, il distacco, su cui, però, una splendida famiglia riesce a riportare la gioia e l'allegria, anche se un po' velate. La mia bella famiglia. Quest'anno uno degli argomenti trattati a scuola (Università della Libera Età) è la famiglia. Quindi, se ci riesco, vorrei parlare della mia. Quando mi sono sposata (1949) avevo diciotto anni, mio marito Junio ventisette. Matrimonio d'amore, naturalmente, perché soldi… zero. Lui era reduce dalla guerra, campo di concentramento in Germania, bruttissima esperienza, meglio sorvolare. Eravamo, come si suol dire, due cuori ed una capanna, comunque felici. Ci sono nati tre meravigliosi figli. Non è che tutto sia stato semplice e facile, i problemi ci sono stati, come in ogni famiglia, credo, ma in casa nostra non è mai mancato il rispetto, non ci sono mai state offese né parolacce. Posso dire di non aver mai visto i miei figli litigare tra loro (salvo le scaramucce di quando erano piccolini!). Eravamo una famiglia allegra, anche se non andavamo alle Maldive, né in settimana bianca. Appena ci potemmo permettere un'auto, la domenica si partiva, comitiva numerosa, tutti equipaggiati e via a Punta Ala (allora non c'erano i VIP), Cala Martina, Cala Violina, ecc.., queste erano le nostre belle giornate. Poi sono arrivati, prima il fidanzatino di Roberta, dopo la fidanzatina di Roberto ed il tavolo di casa si allungava sempre più. Dopo i fidanzamenti anche i matrimoni (due in un anno), quindi i nipoti, tre tutti belli e tutti maschi. Io, è vero, facevo la casalinga, ma, al bisogno, aiutavo anche mio marito nel lavoro. Nel frattempo c'erano da assistere anche suoceri e genitori, non posso proprio dire di essere stata disoccupata e certe volte la sera ero davvero stanca, ma ero serena perché lui era sempre vicino a me, abbiamo affrontato sempre tutto uniti. Poi, all'improvviso, la sua scomparsa e la disperazione di tutti noi, la mia depressione e niente è stato più come prima. Sono ormai trascorsi ventitre anni. Diamine, la ripresa c'è stata, anche mio figlio Giuseppe, il più giovane, si è sposato, sono nati altri due splendidi nipoti (finalmente anche una femmina!), che mi hanno riportato un po' di gioia, ma l'allegria ormai è solo apparenza. Per fortuna i miei figli non sono cambiati, anzi, sono sempre affettuosi e presenti insieme alle loro belle famiglie. Spesso ci ritroviamo tutti riuniti ed è molto bello vederli in armonia, e questo, con i bellissimi ricordi che mi porto nel cuore, mi fa sentire appagata come donna, come mamma e sono anche un tantino orgogliosa. Le testimonianze fin qui trascritte terminano con il breve scritto di Roberta Maestrini, la quale, ribadendo che la famiglia è qualcosa di meravigliosamente insostituibile, lascia poi con il batticuore ed il fiato sospeso il lettore, che intravede in quella “Luce” onirica l'affetto e la protezione che continuano a darci i nostri cari, anche se non sono più con noi. Quella “Luce” non la dimenticherò mai più. La vedevo lassù davanti a me e stavo bene. Che cosa fosse, me ne resi conto quasi subito, perché là in mezzo c'era il mio babbo; Lui che non c'era più da tanti anni. Non mi parlò, ma mi sorrise e scuoteva la testa, lentamente, in senso di diniego. Aveva la sua maglietta verde scura e le mani sui fianchi come era solito fare. Stavo bene, fino a quando una mano mi toccò il viso e mi tolse tutti quei tubi. Perché non mi lasciava in pace? Prima stavo bene! “Signora, si torna in reparto!!!” Non volevo andarci, perché lì c'era la pace e soprattutto c'era il mio babbo. Con lui stavo bene. Tutto finì quando vidi i miei familiari; loro mi aspettavano ormai da qualche giorno. Mi fecero felice, ma ero ancora dentro a quell'immagine del mio babbo, che non mi ha voluto con sé. La mia famiglia, che per fortuna è sempre stata unita, era con me sempre, anche se io l'avevo fatta soffrire tanto. Questo non posso dimenticarlo! I miei mi hanno dato la forza di andare avanti; non credevo di farcela. Non voglio con queste mie parole rattristare nessuno, perché, dopotutto, è finita bene e piano piano abbiamo ripreso ad essere una famiglia serena e ancora più unita. Troppe volte ho scritto famiglia in queste righe; ma cosa c'è di più bello? Ne vale la pena!!!!!!!!