WACQUANT, IL SOCIOLOGO PUGILE di

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WACQUANT, IL SOCIOLOGO PUGILE di
WACQUANT, IL SOCIOLOGO PUGILE
di Massimiliano Panarari
Avreste mai immaginato che, alla fine degli anni ottanta, un sofisticato, e ora assai famoso,
intellettuale francese potesse spingersi sino al punto di diventare un pugile semiprofessionistico con
l'obiettivo di applicare al meglio al suo argomento di studio (l’emarginazione degli abitanti
afroamericani del ghetto di South Side a Chicago) la propria metodologia di ricerca sociale?
È, invece, proprio quello che ci racconta nel suggestivo Anima e corpo. La fabbrica dei pugili nel
ghetto nero americano (appena uscito per i tipi di DeriveApprodi) Loïc Wacquant, uno degli allievi
prediletti del grande Pierre Bourdieu da poco scomparso, docente all’università di Berkeley (il più
radical degli atenei Usa), nonché ricercatore presso il Centro europeo di sociologia del Collège de
France. Al tempo stesso diario etnografico, romanzo di formazione ed iniziazione, opera narrativa e
reportage sulla devianza dei neri e la dominazione dei bianchi, questo splendido libro si propone,
nelle intenzioni del suo autore, di offrire un esempio di “sociologia carnale” che trasforma il corpo
del pugile in un oggetto autentico di ricerca e conoscenza.
Il "sociologo pugilatore" (ma, soprattutto, attento analista dello "Stato penale" che, in epoca
neoliberista, si sta sostituendo a quello sociale) si trova impegnato in questi giorni in un tour
europeo di presentazione di Anima e corpo, che lo vedrà oggi a Roma. Alle ore 18 di questa sera,
infatti, all’interno dell’allettante e decisamente originale cornice della Palestra popolare S. Lorenzo,
in via dei Volsci n. 94, Wacquant parlerà del volume (e di un secondo appena uscito, Simbiosi
mortale, edito da Ombre Corte) insieme a Claudio D’Aguanno, Alessandro De Giorgi e Filippo La
Porta.
Gli abbiamo rivolto alcune domande in occasione di questa sua tappa romana.
Professor Wacquant, perché un libro dedicato alla boxe e ai blacks nei ghetti statunitensi?
Questo libro nasce da una esperienza imprevista, la quale ha fatto sì che, giovane sociologo in fase
di apprendistato, divenissi boxeur nel giro di tre anni, con mia stessa sorpresa, all'interno del ghetto
nero di Chicago. Cominciavo allora una ricerca sulla trasformazione dei rapporti tra Stato, classi e
divisione razziale in America in collaborazione con il celebre sociologo afroamericano William
Julius Wilson e cercavo un punto di osservazione per comprendere in loco la vita quotidiana dentro
il ghetto. Sono finito, per caso e per fortuna, in questa palestra di pugilato situata in un angolo
devastato del ghetto di South Side. Mi sono iscritto e sono stato iniziato ai rudimenti della "Nobile
arte", perché rappresentava il modo migliore per fare conoscenza con i giovani del quartiere. Non
avevo certo previsto il fatto che sarei stato risucchiato nelle fortissime relazioni di cameratismo che
si sviluppano tra i boxeurs, al punto di finire "sedotto" da questo mestiere e di considerare
seriamente la prospettiva dell'abbandono della carriera accademica per entrare tra i professionisti! Il
libro racconta la mia personale odissea nel mondo della lotta, del come e perché si diventa pugili e
di ciò che fa la croce e la delizia di questa professione del corpo senza eguali. Seguendo il filo della
narrazione emerge il ritratto ed un'analisi dell'esistenza e delle aspirazioni degli abitanti del ghetto
nero, questa sorta di "negativo" vivente dell'ideologia americana dell'opulenza e delle opportunità
per tutti...
É davvero possibile considerare questo sport una forma di liberazione e, per così dire, di
promozione sociale per la popolazione di colore americana?
É uno dei paradossi della boxe: si tratta di un mestiere sottoproletario, praticato quasi
esclusivamente da giovani uomini provenienti da un ambiente povero e da gruppi etnici
stigmatizzati; nel caso degli Stati Uniti, gli ebrei e gli irlandesi negli anni '30, gli italiani negli anni
'40 e '50, i neri ed i latini in seguito. Ma viene vissuto da coloro che vi si dedicano come un mezzo
di auto-appropriazione, alla stregua di un trampolino che permette di "costruirsi" e di prendere in
mano il proprio destino. Occorre prendere sul serio questi sentimenti e riconoscere il fatto che il
pugile, sottomettendosi ad una serie di regole di vita estremamente rigide ed impegnative, ad un
apprendistato ascetico ed esigente, lavorando con il corpo e sul corpo, vede aprirsi le porte di un
universo sensuale, estetico e morale "sui generis" che lo eleva al di sopra del suo mondo quotidiano
ed ordinario. Ma ciò non vuol dire che il boxeur si innalzi anche nella gerarchia sociale e si
sottragga alla miseria: in questo caso siamo di fronte ad un vero e proprio mito, perché la
grandissima maggioranza dei pugili non guadagna nulla e non riesce a cambiare ambiente.
Quanto del "metodo Bourdieu" e del pensiero del maestro che ha denunciato con tanta forza i
meccanismi di oppressione del neoliberismo si può ritrovare nel suo libro?
Corpo e anima è un po' come "portare Bourdieu sul ring": attraverso l'analisi dell'"habitus
pugilistico", cerco di mostrare il processo di fabbricazione del boxeur e, in particolare, il modo in
cui "apprende attraverso il corpo". Ma si tratta anche di un libro in cui Bourdieu è presente perché,
senza il suo sostegno intellettuale e affettivo, non avrei potuto proseguire in tale prova. "Capirà di
più sul ghetto nero americano mediante una palestra di pugilato che attraverso tutte le indagini
statistiche del mondo": così mi incoraggiava, fino al momento in cui ho deciso di salire sul ring per
un vero combattimento, disobbedendogli perché aveva paura mi accadesse qualcosa e si sentiva
responsabile. E il libro mostra anche perché ho potuto e, anzi, dovuto disobbedirgli, e perché
successivamente mi ha perdonato: la passione del ring è più forte di quella intellettuale.