LA SUPERVISIONE NELLE ARTI TERAPIE

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LA SUPERVISIONE NELLE ARTI TERAPIE
LA SUPERVISIONE NELLE ARTI TERAPIE
Marisa Sartirana
“Gli specchi dovrebbero riflettere un momentino prima di riflettere le immagini”
Prologo
J. Cocteau
Questo capitolo è diviso in due parti e ripercorre volutamente il metodo della supervisione nelle arti terapie che è, appunto, composta da una parte di riflessione e da
una d’espressione. Pertanto vi è un’introduzione che espone i concetti chiave della
supervisione: è una parte in cui si cerca di esprimere in modo più diretto i pensieri e
le emozioni del mio modo di fare supervisione. La citazione ci ricorda che, se la supervisione è una riflessione, anche lo specchio deve fermarsi e pensare.
Al centro: la supervisione
Come vorresti introdurre il discorso della supervisione nelle arti terapie?
SE “supervisione è l’attività che sovrintende alla realizzazione di un’opera” qual è
l’opera che s’intende realizzare con la supervisione di un’attività di arte e terapia?
Prima di entrare nel valore aggiunto di quel arte, si può dire che l’obiettivo della supervisione è di ampliare la conoscenza, per cui è anche un momento di apprendimento e di crescita personale dell’operatore. Tale processo può avvenire solo in un
contesto di relazione, perché è attraverso l’incontro con l’altro che ci si può dimenticare della tecnica e dei propri modelli teorici per formare nuove idee e diventare
consapevoli di esse. “ Per noi le idee sono modi di considerare le cose, prospettive.
Le idee ci danno occhi, ci fanno vedere.” (Hillman 1997).
È proprio l’ampliamento del campo delle idee a consentire un mutamento della pratica terapeutica, poiché il vedere in un modo diverso consente di agire in modo diverso “non c’è nulla di più pratico che formare le idee e diventare consapevoli di esse.”
(Hillman 1996).
Come può essere intesa la supervisione nelle arti terapie?
La supervisione nelle arti terapie può essere intesa come un momento in cui viene
svelato il cammino spesso inconsapevole attraverso cui si raggiunge l’oggetto del lavoro - che è il processo terapeutico - oppure come la lettura - attraverso un codice
prevalentemente verbale, diverso da quello della produzione d’immagini - di quanto
accade nella terapia. Il fine è comunque indagare non tanto su di un caso o su di un
prodotto, ma sulla relazione che si crea tra i diversi attori della terapia: terapeuta e
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paziente o, meglio ancora, tra il mondo interno e la storia del terapeuta e il corrispettivo del paziente. Il rischio dell’analisi verbale applicata alle arti terapie è di ridurre il
potere evocativo delle immagini (figurative, corporee, musicali...) nel tentativo di inserirle in un sistema linguistico che è anche una teoria della psiche o delle relazioni,
nato con altri obiettivi. Il punto non è la scelta di un modello teorico rispetto a un altro, psicoanalitico, cognitivo, gestaltico, o quant’altro ancora, ma il rapporto tra produzione d’immagini e di riflessioni sulle stesse. In un certo senso l’analogia è con la
critica d’arte che, per quanto raffinata e colta, si confronta eternamente con
l’impossibilità di raggiungere il vero significato di ciò che descrive.
Nella mia attività di artista che pratica l’arte terapia ho sempre provato verso la supervisione un senso di disagio, di fastidio sensibile, cioè: toccante i miei sensi... molto simile al disagio che mi coglie nei confronti di certa critica d’arte. Nel tempo sono
venuta a comprendere come tutto ciò fosse provocato dal fatto che la supervisione
toglieva alle immagini non solo la sostanza emotiva, di più... toglieva quella ricchezza
che le veniva richiesto di esprimere, nel tentativo di costruire con le parole una sorta
di mappa cognitiva che riconducesse entro conoscibili - forse - ma non comprensivi
significati. Lavoro necessario, certo, ma che non corrispondeva al complesso sistema di relazioni entro cui l’immagine era stata prodotta. Si tratta di un sistema di relazioni che ha come parte portante l’utilizzo degli strumenti con i quali si costruiscono
le immagini di arte terapia.
Per aver una supervisione bisogna cambiare punto di vista: affrontare una prospettiva differente ...
Quello che fino allora avevo conosciuto nei gruppi di supervisione di arte terapia era
la prospettiva data dalla parola che decodifica il disegno, l’emozione, la relazione.
Quello che costantemente veniva escluso dal setting era lo spazio tattile: la materializzazione di quello spazio che ha una valenza fondamentale nel lavoro con l’arte...
Spazio interiore, ma - allo stesso tempo - il luogo fisico del laboratorio, in cui il lavoro
terapeutico viene svolto, non è uno spazio qualsiasi. Il laboratorio si costituisce come
un paesaggio archetipico dove i materiali corrispondono alla nostra possibilità- capacità di organizzare e agire visivamente il cambiamento.
La supervisione verbale nelle arti terapie crea una mappa dell’isola sconosciuta - assimilabile all’evento del fare - che può spiegare le cose sensibili ma non può spiegare quell’intervallo particolare in cui si crea l’immagine. Si tratta di uno spazio- tempo
dove risalta la filigrana delle immagini. È come guardarle in controluce e vederne la
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trama, per scoprire che a volte emerge dall’ordito un’ulteriore figura, che può essere
il profilo dell’autore.
Nel lavoro di supervisione, questo significa guardare le immagini prodotte con un altro atteggiamento, osservando in particolare il processo grazie al quale sono state
realizzate, l’idea originaria, i materiali scelti, l’influenza degli altri partecipanti
all’incontro. “A volte questo visibile invisibile è indicato come lo spirito del luogo, la
qualità di una cosa, l’atmosfera di una scena, lo stile di un’opera d’arte. Noi vorremmo afferrarlo e allora lo spieghiamo come contesto, struttura formale o come una
Gestalt aperta che ci attira dentro di sé. Né i nostri concetti né l’occhio che guarda
attraverso di essi hanno fatto un sufficiente tirocinio nell’arte dell’immaginazione,
nell’arte percettiva della lettura delle immagini” (Hillman 1996).
Nella supervisione sarà necessario ricreare allora quello spazio per poterlo rilevare e
scoprirne il senso e il significato, grazie alla possibilità di “essere con l’altro” dentro
un processo di costruzione dell’immagine.
Questa era l’idea. Ma come metterla in pratica? Vedevo chiaramente che l’unico
modo era nel proporre una supervisione che passasse attraverso lo stesso medium
artistico. Iniziò in tal senso un momento per operatori - tutti conduttori di atelier di arte terapia - agito nello spazio del laboratorio. Fu in occasione del primo incontro che
ebbi il logo del nuovo modo di supervedere. Uno dei partecipanti - lo Psichiatra - diede l’immagine di partenza tracciando, come per gioco, un occhio tenuto aperto da
due mani. Aggiunse le parole “supervisione allargata”. La sensazione - dell’Artista era di un occhio che, più che svelare, si sforzava di osservare dall’alto, dominando il
processo. Ma era come cieco. Del resto l’occhio è una metafora del rapporto occidentale con l’arte che presuppone una radicale differenza tra autore e spettatore:
questi fruisce del prodotto dall’esterno senza entrare nel processo creativo e gode
dell’opera d’arte con gusto estetico, dove l’esteta è colui che vive dell’occhio e il gusto è la logica visibile degli oggetti (Paglia 1993).
La mia risposta istintiva fu quella di inserire quel disegno in una pancia, per ribadire
come l’espressione artistica è un sentire più che un osservare, spiegare, catalogare.
Ben intese questa mia sensazione un’infermiera che era la più concreta del gruppo,
non legata a schemi artistici o psicologici. Lei aggiunse un’ultima parte a
quest’occhio aperto e disegnò un bambino sulle onde del mare, certificando la nascita di un modo diverso di vedere le immagini e introducendo un fluido che collegava i
vari aspetti.
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Hai trovato nella tua esperienza un altro modo di definire la supervisione?
La mia è una cultura e una formazione artistica, per cui è con le parole di un’artista,
Braque, che mi sento di esprimere in un altro modo questi concetti: “La prospettiva
tradizionale non mi soddisfaceva. Meccanizzata com’è tale prospettiva non consente
mai il pieno possesso delle cose. Parte da un certo punto di vista e non ne esce. Ora, il punto di vista è qualcosa di molto limitato. È come se uno disegnasse tutta la
vita profili e volesse far credere che l’uomo ha un occhio solo... Quando si arrivò a
pensare così, cambiò tutto, non hai idea fino a che punto... Quello che mi attraeva
molto - e che fu la direzione fondamentale del cubismo - era la materializzazione di
questo spazio nuovo che sentivo. Allora ho cominciato a fare soprattutto nature morte, perché sulla natura morta c’è uno spazio tattile, direi quasi manuale. L’ho scritto
del resto: “quando una natura morta non è più alla portata della mano, cessa di essere una natura morta.”... Per me era una risposta al desiderio che ho sempre avuto
di toccare le cose e non solo di vederle. Era quello spazio ad attrarmi molto, e proprio in questo consisteva la prima pittura cubista, nella ricerca dello spazio. Il colore
aveva un ruolo secondario. Del colore ci interessava solo l’aspetto luce. La luce e lo
spazio sono due cose che si toccano, no? E noi le trattavamo insieme. E dicevano
che eravamo astratti!
Dall’esterno, l’esplorazione al di là della superficie percettibile sembrava astratta,
mentre dall’interno assumeva una forma sempre più concreta e con questo arretrare
verso l’interno il soggetto aneddoto si trasformò ben presto in oggetto pittura: Il soggetto è come la nebbia che si solleva lasciando apparire gli oggetti. Naturalmente
l’oggetto non può apparire che nella misura in cui la pittura lo permette. E la pittura
ha le sue esigenze... Non si tratta di partire dall’oggetto: si va verso l’oggetto. È il
cammino che si prende per andare verso l’oggetto che ci interessa.” (dall’intervista di
D. Vallier a Braque, 1954).
La ricerca di Braque di concretizzare l’oggetto, di cercare la materia nel quadro, è in
fondo la stessa ricerca di una nuova prospettiva nel lavoro e nella supervisione che
reintroducesse immagine, forma, movimento, spazio, in un mondo in cui soprattutto
domina la parola, Una parola... pesante e troppo pensante ha come effetto lo
schiacciamento dell’immagine che per sua natura è sempre molto più ricca e più
complessa del concetto.
Esiste per te una differenza sostanziale tra supervisione e terapia?
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Ovviamente sì. Ma la differenza non è tanto nel processo, quanto nell’oggetto. Il paziente porta sé, l’operatore porta il suo movimento, la sua azione integrata nel contesto del gruppo, il suo sguardo che nel corso della supervisione dovrà cambiare prospettiva. Raggiungere una distanza che farà cogliere quel che non è possibile a distanza ravvicinata. Tuttavia, la compartecipazione al progetto creativo è per me un
aspetto essenziale sia che si tratti di terapia, sia che si parli di supervisione. Nei fatti,
mi ha sempre sorpresa come per qualsiasi psicoterapia la supervisione avvenisse attraverso la stessa tecnica di base. Gli psicoanalisti con una supervisione analitica, gli
psicodrammatisti con lo psicodramma di supervisione, i terapeuti della famiglia con
sedute di simulazione, mentre le arti terapie devono ricorrere allo strumento linguistico che mette tra parentesi proprio l’oggetto stesso dell’osservazione: la relazione tra
terapeuta, paziente e immagine, nel suo farsi e svelarsi continuo. Mi chiedevo: perché in altre situazioni la supervisione si attua seguendo lo stile dell’evento terapeutico? La risposta mi sembrava dovesse riferirsi al timore che l’arte - il mondo/modo artistico - potesse generare confusione a livello cognitivo razionale proprio là dove le
veniva attribuita invece la possibilità di essere e divenire un mezzo di comunicazione. Non si tratta di togliere alla parola ciò che è della parola...tutt’altro, piuttosto di lasciare all’immagine la sua complessità ricorrendo alle immagini stesse come contenitori.
È come se all’immagine a cui viene dato un potere terapeutico, venisse contemporaneamente tolta la possibilità di avere un potere cognitivo. In un altro senso è come
se la pericolosità delle immagini venisse ribadita dal rischio di introdurre il caos che
solo la parola e la teoria possono organizzare. Al contrario, io credo che l’operatore
della psiche possa attuare un percorso formativo solo riconoscendo i limiti del proprio sapere e attraverso una disposizione alla riflessione non guidata dal controllo
della volontà, immergersi nel modo dell’immaginazione. Le immagini, proprio per le
loro qualità intrinseche di “fenomeno inesauribile” - che va colto come un tutto intraducibile in un unico significato - consentono di ampliare il campo della conoscenza.
Nell’attività immaginativa è, infatti, insita una particolare forma di conoscenza che
trascende l’Io. Le immagini non sono ciò che vediamo, bensì il modo in cui vediamo
e il loro significato non va cercato nei testi che illustrano teorie. Il loro fondamento va
cercato nell’interiorità di che le ha prodotte.
Inoltre la supervisione dovrebbe anche essere considerata come una sorta di formazione permanente in cui si sperimentano nuove possibilità di esprimersi, di conosce5
re e utilizzare i materiali in modo diverso, di trovare nuove soluzioni a vecchi problemi nella gestione pratica del laboratorio. Anche perché sovente gli operatori che lavorano in queste attività non sono esperti del settore (pittori, danzatori, ecc.), per cui
devono essere inseriti in un continuo creativo contatto con la tecnica.
Come ho già detto, la specificità delle attività espressive è che la relazione, oggetto
primo della supervisione, è sempre triadica: terapeuta, paziente, ma anche strumento, materiale, carta, colori, creta, strumenti musicali, il corpo. Non si può pertanto escludere uno di questi elementi dal lavoro. Il terapeuta è presente, il paziente anche,
attraverso la sua rappresentazione emotiva o quando è possibile attraverso i suoi
prodotti concreti filmati, registrati, ma: i materiali, gli strumenti? Spesso riconosciuti
nei convegni, sono dimenticati nella stanza di supervisione. In fondo, il discorso implicito è che le immagini prodotte sono in ultima analisi degli agiti emotivi. La vera
conoscenza, il vero cambiamento passa attraverso la riflessione verbale, il distanziamento.
L’uso di immagini per la supervisione secondo te è legata all’arte terapia o può essere estesa ad altre situazioni?
La supervisione in un certo senso è nata con la psicoterapia, però con un altro nome, ad esempio “gruppo di aggiornamento per insegnanti”, svolge la stessa funzione. Sovente nella scuola si chiama “formazione” quella che per insegnanti attenti alle
dinamiche interne è una supervisione. Questa nasce come possibilità di utilizzare le
immagini nella dinamica di un discorso per vedere le cose e i rapporti da un punto di
vista diverso. In fondo è adatta a qualsiasi gruppo che intende entrare nella proprie
dinamiche attraverso un medium diverso dalla parola. In Francia e in Svizzera viene
utilizzata anche con i manager aziendali col nome di “tecnica di sviluppo del pensiero
creativo”. Qui in Italia è più difficile, perché l’approccio è troppo psicologico. La supervisione viene spesso collegata al contesto di una équipe in difficoltà. La supervisione con le arti terapie inizia ad essere usata in situazioni in cui è necessaria una
riflessione che abbia come effetto di smuovere le dinamiche di gruppo senza però
usare la parola che potrebbe attivare effetti indesiderati. Nella scuola, gli insegnanti
delle elementari e delle materne hanno più dimestichezza con l’uso delle immagini,
gli altri sono come dei critici d’arte.
Qual è il tuo modo di condurre la supervisione?
All’inizio dell’incontro, invece di disegnare, l’accoglimento si fa attraverso il materiale
che porto e metto sul tavolo di lavoro. Si tratta di materiale artistico: immagini, ripro6
duzioni, poesie, frammenti... evocazioni che rispondono a qualcosa che è già avvenuto là e allora. C’è la lettura dell’osservazione con cui ho raccolto il lavoro della seduta precedente. Comincia l’atto del disegnare. Disegno anch’io, mi metto in gioco,
anche perché è un modo per entrare in contatto con quello che stanno facendo gli
altri, per comprendere quello che sta avvenendo, quello che è già avvenuto e i movimenti verso il futuro. Bisogna fare attenzione quando si scelgono le immagini da
portare, però dev’essere una attenzione particolare... giustamente riflessiva. Fatto
sta che con l’immagine viene data una forma visuale a idee pratiche, situazioni,
comportamenti... fissandoli nello spazio e nel tempo per molte occorrenze in maniera
più sintetica e precisa rispetto all’oralità. È chiaro che... “bisognerebbe non confondere l’arcobaleno con la vetrina del droghiere”.
Non è molto diverso dal lavoro con i pazienti...
Sì, però in un gruppo con i pazienti io costruisco l’immagine, ma non seguo il filo della costruzione; lavoro in un contatto più aderente con l’opera che produco. In un
gruppo di supervisione richiedo agli altri e a me stessa di seguire il percorso di costruzione dell’immagine, quello che prima ho chiamato la “filigrana”. Quando costruisci un’immagine dovresti riuscire a non prevedere il risultato ma lasciarti condurre e
permettere che entri in atto qualche altra funzione che non conosci ma c’è. Per dirla
con le parole nate all’interno di uno di questi incontri di supervisione, non si tratta di
addomesticare l’inconscio, quanto piuttosto di lasciarsi addomesticare dall’inconscio
con la stessa consapevolezza della volpe del Piccolo Principe di Saint Exupery.
D’accordo, ma la terapia e tanto più la supervisione richiede per forza un momento di
riflessione, di analisi.
Il discorso avviene ed io prendo gli spunti fondamentali di quell’incontro; le associazioni immediate che, sedimentandosi nella mente trovano il rimando dentro una poesia... un qualcosa dell’arte e della storia dell’arte. La mia interpretazione avviene così. Dentro quelle immagini e quei simboli c’è storia, filosofia, cultura, psicologia, anima. Magari le immagini sono molte... però bisogna fare una scelta e questa avviene
sulla base del gruppo nel suo insieme; scelgo l’immagine più potente rispetto alle
cose che stanno avvenendo nel gruppo. Mi interrogo su quell’immagine, perché mi
ha colpito, qual è la sua funzione nel contesto del gruppo di lavoro? Questo mi serve
per centrare l’argomento più o meno con approssimazione; infine porto
quell’immagine che contiene tutta una serie di possibilità elaborate ma non troppo,
perché non è necessario concettualizzare più di tanto.
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Altrimenti è un rimando, non una supervisione...
Il mio compito è di seguire attentamente, stando come ai margini della conduzione di
un gruppo: sei dentro, stai attento a contenere il tutto, ma non segui solo la costruzione della tua immagine perché il compito è ancora un altro, è quello di tenere il
gruppo affinché venga fuori l’espressione, però la costruzione dell’immagine è quella
del gruppo nel suo insieme. In un lavoro di supervisione c’è bisogno che ognuno rifletta su quello che ha fatto, sui movimenti, sulla lettura di un gesto anziché di un altro.
Io ho sentito che questo metodo permette di manovrare meglio lo strumento
dell’immagine, perché c’è anche la parte di laboratorio, quindi di allenamento pratico.
Io lo chiamo “allenamento senza pazienti”. C’è una fondamentale differenza tra lavorare come paziente e lavorare con la propria espressione in un gruppo di supervisione. Però tu giochi esattamente nello stesso modo.
Pensi che questo discorso valga solo per la pittura o anche per le altre arti terapie?
Credo che la differenza principale sia tra una supervisione in cui uno si mette in gioco usando la tecnica del gruppo e una dove sta alla finestra, parlando di ciò che fa
senza agire. Del resto, pensare a un’immagine pittorica in risposta a un problema
portato dal gruppo non è diverso dal pensare o fare un brano musicale. I terapeuti
possono suonare o danzare il loro rapporto con i pazienti se è questo che fanno nel
gruppo di base. Naturalmente questo vale in quelle situazioni dove chi conduce si
coinvolge nella produzione di immagini, perché se uno sta alla finestra con i pazienti
- osservando e dirigendo il gruppo senza esporsi - evidentemente farà poi la stessa
cosa in supervisione.
Vuoi concludere con degli esempi?
Posso darti gli appunti che ho preso sull’elaborazione di un quadro che ho scelto
come risposta in un incontro di supervisione. Credo che renda l’idea e sia un bel
modo di spiegare il mio flusso di pensieri- immagini. Allora - come d’altronde sovente
accade - il problema toccava le regole e la capacità di mantenere il movimento senza irrigidirsi né allentare troppo quella cornice che tiene insieme il quadro (quel che
avviene nel lavoro terapeutico). C’era un dualismo conflittuale tra la libertà espressiva e le regole del setting. Proposi di lavorare con una serie di immagini di Magritte. In
particolare scelsi quelle in cui l’artista ha cercato di definire, all’interno di un singolo
dipinto, l’ambiguità che esiste tra un oggetto reale, una sua immagine mentale, e la
rappresentazione dipinta, di cui il più lucido esempio è la Condizione Umana. Misi sul
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tavolo una serie di fotocopie; ognuno dei partecipanti scelse la più adatta per sé e iniziò il lavoro. Per me scelsi Le bouquet tout fait dove l’immagine della Primavera
botticelliana ha per cornice una sagoma umana vista di spalle. La sagoma ha di fronte degli alberi... ma per quanto sia a loro rivolta dà l’impressione di non vederli.
Smonto e rimonto l’immagine e la mia filigrana di parole dice “tra le varie cornici c’è
bisogno di aria... di qualcosa che le metta insieme... strano che avvenga staccandole. Si creano dei vuoti, delle ombre, dei silenzi. Deve esserci un punto in cui Dentro e
Fuori cessano di essere in contraddizione: è l’incontro ravvicinato. La cornice - il
quadro - di mezzo, è la più scura, volge le spalle. La lascio un poco da sola. Stacco il
passato, levo il futuro. Resta un vuoto e l’ombra del passato viene via. Scende giù,
più giù. Forse al centro, forse è spostato di venti centimetri. Lì c’è un vaso. È del
Graal o di Pandora?”
Non voglio spiegare il senso di questo discorso, perché funziona se è evocativo; le
risposte le deve dare chi legge o partecipa; però bisogna fare molta attenzione nello
scegliere le parole con cui descrivere queste immagini. Non possiamo usare il nostro
comodo linguaggio che sostanzializza. Possiamo parlare di ciò che sembrano, per
come appaiono, per ciò a cui sono paragonabili... COME SE.
Insomma, il tuo lavoro è caratterizzato da una fede cieca nel potere delle immagini?
Direi di sì. E mi sento in buona compagnia.
Epilogo
Non è un caso che tra le tante possibilità per esemplificare il tema che ho trattato mi
sia venuta in mente questa della cornice e del quadro. Anche la supervisione potrebbe essere intesa come una cornice al quadro del là e allora dell’evento terapeutico. Per me, trattarlo con le parole come sembra essere indispensabile in un libro di
parole, è stato come sentirmi in una cornice troppo stretta. Mi provocava quel dualismo conflittuale che si è sciolto con le parole di Braque che ho riportato. Si è creato
così quell’incontro arioso che mi ha riavvicinata in modo più evocativo al problema
della supervisione nelle arti terapie.
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