Economia dei Sistemi finanziari
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Economia dei Sistemi finanziari
Economia dei Sistemi finanziari Materiali per il Corso III Crisi finanziarie sistemiche - La crisi del debito estero degli anni ‘80 - La crisi dei paesi del Sud Est Asiatico del 1997 Università di Siena Laurea Magistrale in EGIF A.A. 2015-16 Mario Tonveronachi La crisi del debito estero degli anni ‘80 La crisi petrolifera del 1973-74 si sostanziò in un improvviso e notevole aumento del prezzo del petrolio (fig. 1). Ciò produsse un forte avanzo delle partite correnti dei paesi produttori di petrolio e un commisurato disavanzo per i paesi consumatori, disavanzo che fu particolarmente pesante per molti paesi a più basso grado di sviluppo (low development countries, LDC). I paesi produttori di petrolio impiegarono parte del surplus valutario acquisendo passività di breve termine delle maggiori banche internazionali. Nel cercare impieghi redditizi per questa enorme iniezione di liquidità, quelle banche diressero flussi di prestiti verso i paesi con deficit di bilancia dei pagamenti, in particolare verso i LDC. Figura 1 – Prezzo medio del petrolio USD per barile 40 35 30 25 20 15 10 5 1983 1982 1981 1980 1979 1978 1977 1976 1975 1974 1973 1972 1971 1970 0 Fonte dati: IMF, Database International Financial Statistics. La seconda metà degli anni ’70 fu caratterizzata da una forte e, in gran parte, non prevista accentuazione dell’inflazione a livello mondiale, mentre la maggior parte dei prestiti furono erogati, almeno fino al 1978, a tasso fisso, con ciò favorendo la richiesta di fondi. La seconda crisi petrolifera del 1978-79 (fig. 1) ebbe conseguenze di maggior rilievo. Il peggioramento che produsse nei conti correnti della BdP dei LDC si inserì in una situazione già deteriorata di quei conti e con un consistente stock di debito estero accumulato. Quantitativamente, gli effetti furono particolarmente pesanti per i paesi dell’America Latina. La situazione che venne maturando a tutto il 1982 per gli LDC è illustrata nella tabella 1, ripresa dal Dornbush e Fisher, “The third world debt”, Science 1986. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 2 Mario Tonveronachi Tabella 1 Nel periodo in esame questi paesi accumularono consistenti deficit delle partite correnti, finanziati in misura predominante da prestiti internazionali che condussero ad una pesante crescita del debito estero. A peggiorare la situazione creata dagli shock petroliferi, le economie sviluppate adottarono a fine anni ’70 stringenti politiche anti-inflazionistiche che produssero una prolungata recessione (con crescita negativa nel 1982), una caduta nella crescita del commercio mondiale, una riduzione dei prezzi delle materie prime (tutti elementi a sfavore di un riequilibrio della bilancia commerciale dei LDC) e un considerevole aumento dei tassi d’interesse, il cui valore reale ex post divenne, da negativo, fortemente positivo. Bilancia dei pagamenti e debito estero Riprendendo quanto visto nella prima parte del Corso a proposito della bilancia dei pagamenti, ricordiamo che il deficit o surplus finanziario della bilancia dei pagamenti (NFI) è pari alla somma del saldo del conto corrente (CAB) e del flusso netto in conto capitale e finanziario (NKT). Il fabbisogno in valuta è quindi pari a : NKT - NFI = - CAB La variazione netta del debito estero (D) è quindi: Dt – Dt-1 = NKT - NFI = - CAB Dato che NKT è il flusso netto del conto capitale e finanziario, le rate annuali per l’ammortamento del debito sono comprese in esso. Se, come molti sostengono, gli investimenti esteri diretti (FDI) non costituiscono debito dovremmo sottrarre il loro flusso annuale alla variazione dell’indebitamento. Volendo seguire questa impostazione basta sottrarre nelle espressioni il valore del flusso annuale di FDI. Un deficit di CAB produce un uguale aumento dell’indebitamento estero rispetto all’anno precedente, e viceversa. Da un punto di vista contabile un deficit della CAB implica che la valuta in entrata nel conto capitale e finanziario non può essere completamente tesoreggiata sotto forma di un aumento delle riserve. Un debito netto costante richiederebbe infatti che la valuta derivante dagli afflussi di capitale fosse interamente tesoreggiata sotto forma di riserve. Per il conto corrente della bilancia dei pagamenti distinguiamo per convenienza la parte riguardante il pagamento verso l’estero degli interessi sul debito dalla parte restante (NICAB), di cui la bilancia commerciale è la parte più significativa. Si può quindi scrivere: Dt – Dt-1 = rD Dt-1 - NICAB dove rD è il tasso d’interesse medio sul debito estero. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 3 Mario Tonveronachi Questa espressione mostra che la crescita del debito estero dipende dalla differenza tra gli interessi sul debito e il guadagno di valuta derivante dalla restante parte del conto corrente, in particolare dal commercio estero. Così, a parità degli altri termini, un aumento del tasso d’interesse aumenta la crescita del debito; un miglioramento della competitività nel commercio internazionale la diminuisce. Dall’equazione precedente si ricava il tasso di crescita del debito (D/D): D NICAB rD Dt 1 D L’equazione può anche essere letta in termini del tasso di crescita dei flussi di capitale in entrata che è necessario per colmare il deficit dovuto al servizio del debito, dato un saldo della bilancia commerciale. Nell’ottica, che discuteremo più avanti, che i paesi meno sviluppati possono accrescere il loro tasso di crescita importando capitali (indebitandosi), il secondo termine di destra della precedente equazione può essere letto come il contributo del debito accumulato nel passato a produrre un avanzo della bilancia commerciale. In quest’ottica i due fattori che si confrontano nel determinare la dinamica del debito sono, in termini percentuali, il costo medio del debito e il suo rendimento medio in termini di valuta estera. L’esistenza di debito estero pone il Paese come minimo in una posizione minskiana di tipo speculativa. Inoltre: - se CAB > 0, le entrate in valuta delle partite correnti sono più che sufficienti per pagare gli interessi sul debito, si ha pertanto un’aggiunta netta nelle consistenze attive verso l’estero, quindi una diminuzione del debito netto. Il Paese sta percorrendo un cammino verso l’annullamento del debito estero e quindi verso una posizione coperta . - se CAB = 0, le entrate in valuta delle partite correnti sono appena sufficienti a pagare gli interessi sul debito estero. Eventuali rate in scadenza devono essere interamente rifinanziate, per cui il debito netto resta costante. Resta intatto il grado di fragilità finanziaria del Paese nei confronti dell’estero - se CAB < 0, il deficit del conto corrente richiede un uguale finanziamento derivante dal conto capitale e finanziario per cui il debito netto aumenta. Almeno parte degli interessi è capitalizzata. Siamo in una tipica situazione Ponzi, con le conseguenti difficoltà nel continuare a rifinanziare un debito in aumento; un fenomeno che si autoalimenta in quanto una maggiore crescita del debito estero aumenta il rischio paese e quindi lo spread applicato al tasso d’interesse sul debito. L’effetto cumulativo dell’aumento del prezzo del petrolio, della recessione mondiale e dell’aumento dei tassi d’interesse sul debito estero degli LDC non produttori di petrolio è così descritta da William Cline: From 1973 to 1982, external debt of non-oil developing countries rose by $500 billion. Of this amount approximately $260 billion may be attributed to the exceptional rise in oil prices. Global recession in 1981-82 added another $100 billion through declines in the terms of trade and reduced export volume; and the excess of real interest rates in this period over historic averages cost them another $40 billion. External shocks thus accounted for a major portion of the debt crisis. Domestic factors also contributed, especially overvalued exchange rates and inadequate domestic interest rates that caused capital flight (Mexico, Venezuela, and Argentina). (W. Cline, “International debt: from crisis to recovery?”, The American Economic Review, May 1985) I cambiamenti nelle condizioni del commercio estero, che come abbiamo visto sono cruciali nel determinare il saldo delle partite correnti e quindi per la dinamica del debito estero, sono riportati per alcuni paesi dell’America Latina nella tabella 2, tratta dal lavoro di Diaz-Alejandro, “Latin American Debt” Brookings Papers on Economic Activity, 1984. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 4 Mario Tonveronachi Tabella 2 Si noti in particolare il crollo delle ragioni di scambio (terms of trade), cumulativamente evitato solo dai paesi produttori di petrolio (Venezuela e Messico). Le ragioni di scambio sono definite come il rapporto tra l’indice dei prezzi in dollari delle esportazioni e l’indice dei prezzi in dollari delle importazioni. La variazione delle ragioni di scambio può essere dovuta sia ad una variazione del tasso di cambio, sia ad una variazione dei prezzi internazionali di merci e servizi. Una loro caduta significa che a parità di quantità esportate e importate si produce un peggioramento della bilancia commerciale. Il netto peggioramento delle partite correnti (dato dal calo delle esportazioni e dall’aumento vertiginoso dei pagamenti per interessi sul debito) avrebbe richiesto un aumento del flusso in entrata di capitali, in particolare dei prestiti da parte delle banche internazionali. Come si deriva dalla tabella 3, sempre ripresa dal citato lavoro di Diaz-Alejandro, quel flusso invece si contrasse, giungendo in alcuni casi ad un flusso netto in uscita. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 5 Mario Tonveronachi Tabella 3 A partire dal 1982 alcuni LDC dell’America Latina si trovarono nell’impossibilità di servire il debito estero. Tra questi, il primo paese a sospendere il servizio del debito fu il Messico nell’agosto 1982, data l’impossibilità di ottenere fondi per il rinnovo dei debiti in scadenza. Occorre considerare che, seppure inizialmente una quota importante del debito estero fosse di natura privata, sovente garantito da intermediari finanziari locali, l’adozione di normali procedure di bancarotta per una quota importante del settore privato avrebbe comportato danni ulteriori per l’occupazione, la Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 6 Mario Tonveronachi cessione di imprese nazionali al capitale estero, un possibile panico per il sistema finanziario locale e con molta probabilità il passaggio di molte banche locali in mani straniere. Di conseguenza, tramite la nazionalizzazione del sistema bancario (come fece il Messico nel 1982), o convertendo in vari modi il debito estero privato in debito pubblico, il risultato fu che il servizio del debito estero ricadde nella sfera pubblica della gran parte dei paesi latino-americani. La strada prescelta da parte degli LDC in maggiori difficoltà non fu quella di ripudiare formalmente il debito, ma di trovare una soluzione concordata con il Fondo Monetario Internazionale, le banche creditrici e il Tesoro degli Stati Uniti. L’interesse del Tesoro USA e del FMI è ben spiegato dagli effetti che il ripudio del debito avrebbe avuto sulla solvibilità di molte delle banche creditrici e sul sistema finanziario internazionale. In mid-1982, the nine largest U.S. banks had loans outstanding to developing countries and Eastern Europe amounting to 280 percent of their capital, and most had over 100 percent of capital in loans to just Brazil and Mexico. Large losses on LDC debt could cause technical insolvency in these banks. Attempts to bail out the banks could prove inflationary, while sharp cutbacks in bank capital would mean contractionary pressure as they cut back lending to maintain capital asset ratios. … policymakers responded to the debt crisis with emergency financial packages composed of: 1) a country adjustment program under IMF auspices; 2) continued new lending by banks; and 3) financial support from the IMF, central banks, and multilateral lending institutions. (W. Cline, op. cit.) Come risulta dalla tabella precedente, le banche creditrici non contribuirono significativamente al programma con nuovi prestiti. A sua volta il supporto finanziario, comunque limitato, del FMI fu condizionato all’adozione delle cosiddette politiche di aggiustamento, che in pratica consistettero in svalutazioni del cambio reale (particolarmente pesanti in Argentina, Brasile, Cile e Messico) e in politiche monetarie e fiscali restrittive, quest’ultime necessarie per aggiustare in breve tempo la bilancia commerciale inducendo una netta diminuzione delle importazioni. Tassi di cambio reale e competitività internazionale Il livello del tasso di cambio nominale incide sulla competitività internazionale delle merci prodotte in un paese in quanto determina il prezzo in valuta locale delle merci importate e il prezzo in valuta estera delle merci esportate (dati i loro prezzi interni). Dal tasso nominale non possiamo però derivare una misura di competitività in quanto esso non considera i prezzi interni ed esteri. A questo fine si può usare come indicatore il tasso di cambio reale (real exchange rate) che è definito come e = E(pe/pi) dove e è il tasso di cambio reale, E il tasso di cambio nominale (valuta interna/valuta estera), pe è l’indice dei prezzi esteri e pi l’indice dei prezzi interni. Un più elevato valore del tasso di cambio reale esprime una maggiore competitività di prezzo del paese nei confronti dell’estero. Una svalutazione (aumento) del tasso nominale conduce ad un aumento del tasso reale a patto che non sia accompagnato da un proporzionale aumento dei prezzi interni. Il calcolo può anche riguardare una singola merce o singoli settori merceologici. Usando indici generali dei prezzi (come l’indice dei prezzi al consumo o l’indice dei prezzi all’ingrosso) si includono anche merci che non sono oggetto di commercio internazionale (i cosiddetti non tradable goods); il tasso reale di cambio che ne risulta non esprime quindi perfettamente la posizione di competitività nel commercio internazionale. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 7 Mario Tonveronachi A partire dal 1983, la ripresa delle esportazioni misurate in quantità mostra uno sforzo da parte di quei paesi di controbilanciare, tramite forti svalutazioni del cambio reale e recessioni dell’attività interna, se non altro gli aumenti degli interessi sul debito estero. Le due tabelle precedenti mostrano però che il peggioramento dei rapporti di scambio impedì che le maggiori quantità esportate si traducessero in sostanziosi aumenti del loro valore. I risultati immediati delle politiche adottate furono di provocare ancor più pesanti recessioni interne (vedi tabella 4), diminuzioni dei salari reali e aumenti della povertà, una notevole emorragia di valuta per la ripresa del servizio del debito (seppur con ritardi e dilazioni), il continuo accumularsi del debito estero e quindi il protrarsi della situazione di crisi per tutti gli anni ’80. Gli effetti sui sistemi bancari nazionali furono estremamente pesanti. Molti di quei paesi avevano negli anni ’70 liberalizzato, assieme ai movimenti dei capitali esteri, i loro sistemi bancari; gli ingenti afflussi di capitali spinsero le banche locali a indebitarsi in valuta estera con le banche internazionali, o a garantire l’indebitamento verso quelle stesse banche delle imprese nazionali non finanziarie, e a perseguire politiche di forte espansione del credito, molto spesso sulla base di un’insufficiente valutazione dei rischi connessi. Agli effetti delle svalutazioni si venne quindi a sommare la forte crescita dei crediti inesigibili, rafforzata dalle politiche restrittive interne. Le autorità locali affrontarono queste crisi bancarie con misure che finirono per trasformare i debiti del settore privato in debito pubblico; quelle misure furono a volte molto drastiche, come la nazionalizzazione in Messico di 58 delle 60 banche esistenti. Inoltre, la caduta che si produsse nel livello degli investimenti (tabella 4) costituì una premessa assai negativa per una futura ripresa della crescita in condizioni di competitività. Tabella 4 - Crescita e investimenti nei maggiori paesi dell’America Latina, 1980-85 GDP = gross domestic product Country Brazil Mexico Argentina Venezuela Chile Change in per capita GDP (%) 1980- 85 -3.0 -2.7 -17.7 -20.8 -9.1 Investment/GDP (%) 1980 22.5 24.8 22.4 25.2 16.6 1984 15.7 16.3 16.6 14.3 12.0 Le soluzioni adottate non furono neppure idonee a risolvere il problema del debito estero. Utilizzando alcuni indici sul peso del debito estero, la tabella 5 mostra come il problema del debito si sia trascinato per tutti gli anni ’80 senza comunque ricondurne il valore a livelli inferiori a quelli di partenza. Si noti che ancora nel 1989 i mercati erano ben consapevoli di questa situazione, tanto Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 8 Mario Tonveronachi che per molti di quei paesi il prezzo del debito nei mercati secondari era trattato con forti sconti sul valore nominale. Tabella 5 - Twenty representative debtors Debt-to-export ratio Debt-to-GDP ratio Secondary market price 1989 1980 1982 1989 1980 1982 1989 Total debt, 1989 billion US dollars Argentina 242.4 447.3 537.0 48.4 83.8 129.7 64.7 0.18 Brazil 304.8 395.4 301.6 30.6 36.1 24.1 11.3 0.28 Mexico 259.2 311.5 262.9 30.3 52.5 51.2 95.6 0.41 Venezuela 131.9 159.8 211.5 42.1 41.4 79.9 33.1 0.40 Colombia 117.1 204.3 220.8 20.9 26.9 45.8 16.9 0.63 Chile 192.5 335.9 187.7 45.2 76.7 78.3 18.2 0.61 Ecuador 201.6 281.3 392.3 53.8 66.9 112.9 11.3 0.16 Peru Da: D. Cohen, “The Debt Crisis: A Postmortem”, NBER Macroeconomics Annual, 1992 207.7 294.0 432.2 51.0 49.7 70.8 19.9 0.05 Analizzando l’esperienza della crisi del debito estero degli anni ’80 anche per mezzo della teoria minskiana si possono sinteticamente fare alcune annotazioni sulle cause della crisi e sulle politiche Ripetuti deficit delle partite correnti della bilancia dei pagamenti pongono un Paese in condizioni di illiquidità, obbligandolo ad accedere a nuovi finanziamenti in valuta e ad accrescere la sua posizione debitoria verso l’estero. Se ci si attende che tale situazione sia solo transitoria, il Paese si trova in una situazione speculativa. Un aumento dei tassi d’interesse e un peggioramento della bilancia commerciale trasformano velocemente la posizione esterna del Paese da speculativa in Ponzi, con una crescita esponenziale del debito estero (cfr. il riquadro precedente su Bilancia e dei pagamenti e debito estero). Ciò risulta in misura tanto maggiore quanto più accentuata è la posizione speculativa, come quando una parte consistente del debito è a breve termine. Per tornare velocemente in condizioni più sostenibili del debito, si adottano misure restrittive che provocano una crisi economica interna. Situazioni d’illiquidità e di crisi del debito estero possono derivare dalle posizioni in valuta assunte dal settore pubblico e da quello privato. Dato che nel decidere di indebitarsi sull’estero il settore privato non è in grado di tener conto dei vincoli complessivi di BdP, ne possono derivare prestiti esteri per attività nazionali che non conducono nel tempo a introiti in valuta estera in grado di servire il debito così creato. Queste posizioni private potrebbero anche coprirsi dal rischio di cambio, ma porrebbero comunque il Paese in posizione speculativa rispetto al debito in valuta, a meno di traslarlo su agenti esteri per mezzo, ad esempio, di contratti swap. Né l’esperienza mostra che, dal lato dell’offerta di fondi, si possa fare affidamento su di un giudizio tempestivo, sistemico e cauto da parte dei mercati finanziari internazionali. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 9 Mario Tonveronachi Si ricordi anche che contabilmente la somma dei saldi totali è nulla. Se il settore privato (famiglie e imprese) produce un deficit finanziario, l’assenza di un surplus compensativo da parte dello Stato conduce necessariamente a un deficit nei confronti dell’estero. Il settore pubblico ha quindi l’onere di rendere nel tempo i flussi totali coerenti con una posizione sostenibile del Paese nei confronti dell’estero. Nell’esperienza dei paesi latino-americani degli anni ’70 ciò non è successo. Al contrario, spesso la spesa pubblica venne utilizzata in modi che né direttamente, né indirettamente avrebbero promosso nel futuro la capacità dell’economia di migliorare il suo saldo valutario nei confronti dell’estero (come fu per la spesa in armamenti). In un’economia aperta, la posizione minskiana sul ruolo del big government va quindi qualificata: una forte spesa pubblica è un elemento stabilizzante a meno che sia associata a deficit di bilancio che risultino incompatibili con la sostenibilità nel tempo dell’indebitamento con l’estero. Nei casi d’illiquidità internazionale, le autorità monetarie nazionali non hanno la possibilità di agire come prestatici di ultima istanza. Questo ruolo dovrebbe essere svolto dal Fondo Monetario Internazionale. In quanto il Fondo agisca in un’ottica di breve termine, erogando prestiti ma condizionandoli alle politiche di aggiustamento prima delineate, di fatto la sua azione non è quella tipica di un prestatore di ultima istanza. Il Fondo interviene in casi che non sono di illiquidità solo temporanea (altrimenti i mercati sarebbero pronti a finanziarli), ma che lo dovrebbero diventare in seguito alle politiche di aggiustamento che sono condizionali all’ottenimento del suo finanziamento. Mentre un prestatore di ultima istanza fornisce liquidità per dar tempo al sistema di ritrovare i suoi equilibri senza dover essere sottoposto a forti scosse, la liquidità fornita dal Fondo è al contrario soggetta a politiche di rigore che, tramite aumenti dei tassi d’interesse e riduzioni della domanda interna, provocano una recessione. Non è qui in discussione che, quando necessario, il riaggiustamento debba essere perseguito, ma l’ottica temporale di breve termine che obbliga a forti politiche restrittive. Infine, un breve cenno sul ruolo dei finanziamenti esteri per favorire la crescita dei paesi in via di sviluppo o sottosviluppati. Si afferma che se i risparmi privati interni non sono sufficienti a finanziare il livello desiderato degli investimenti, l’ingresso di capitali esteri rimuove quel vincolo e rende possibili tassi di crescita superiori. Questa affermazione va qualificata. In primo luogo, la forma più idonea a ottenere quei risultati è tramite l’ingresso di investimenti esteri diretti (FDI, che contabilmente non creano debito) e non per mezzo di prestiti bancari o di portafoglio. In secondo luogo, quegli investimenti devono riguardare il settore dei beni esportabili, in modo da produrre quella valuta che è necessaria per servire il debito estero così contratto. In terzo luogo, gli effetti sui maggiori guadagni futuri in valuta non devono essere traslati troppo avanti nel tempo; in caso contrario il grado di fragilità finanziaria aumenta con l’accrescersi del debito e aumenta inoltre il pericolo che quei guadagni potranno non rivelarsi sufficienti per riequilibrare un conto corrente Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 10 Mario Tonveronachi della bilancia dei pagamenti ancor più sbilanciato. L’ingresso di capitali di breve termine ed estremamente mobili volti a sfruttare posizioni di rendita finanziaria e investimenti nel settore non tradable, quello immobiliare in particolare, sono al contrario l’anticamera al verificarsi di crisi da debito e finanziarie, come vedremo nel descrivere la crisi asiatica. Anche gli FDI possono però essere prontamente smobilizzati in termini finanziari. Di fatto il sentiero di un Paese che intende utilizzare risparmi esteri per accelerare il suo ritmo di crescita è piuttosto stretto. Nelle fasi iniziali la crescita del suo debito non deve raggiungere tassi che allarmino i suoi creditori e le esportazioni nette devono prontamente crescere anche per contrastare gli effetti negativi dei crescenti pagamenti di interessi sul saldo delle partite correnti. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 11 Mario Tonveronachi La crisi nel Sud-Est asiatico del 1997-98 G. Bird e R. Rajan (2001) così descrivono lo svolgersi della crisi: The regionwide contagion in East Asia may be broadly divided into four sub-periods. The devaluation of the Thai baht was the first period (July 1997). The second period was when the contagion spread to the other Southeast Asian countries (Indonesia, Malaysia and the Philippines specifically) between July and mid October 1997. The third period was when the crisis engulfed the larger East Asian region (Hong Kong, Singapore, South Korea and Taiwan) following the preemptive devaluation of the New Taiwan dollar in October 1997. Once the South Korean won was devalued in November 1997, this then reverberated back to Southeast Asia and eventually emerging economies in general. This was the fourth period. Dopo aver difeso il cambio a costo di una netta diminuzione delle riserve valutarie, il 2 luglio 1997 la Banca Centrale della Tailandia annunciò il passaggio a un regime di cambi flessibili. La svalutazione che ne derivò indusse nei mesi successivi l’adozione di misure simili in altri paesi dell’Area del Sud Est Asiatico, risultando in svalutazioni del peso filippino, del ringgit malese e della rupia indonesiana (fig. 1). Le quattro valute erano state in precedenza gestite per seguire l’andamento del dollaro USA entro una banda stretta (peg) e quindi, implicitamente, con cambi sostanzialmente fissi anche tra di loro. Dato che nei mesi precedenti il dollaro si era nettamente rivalutato rispetto alle principali valute internazionali (fig. 2), inizialmente si pensò di essere in presenza di un aggiustamento una tantum. Fig. 1 – Tassi di cambio nominali (dollaro/valuta nazionale) 6 gennaio 1997– 29 maggio 1998( 6 gennaio 1997 = 100) Fig. 2 - Tassi di cambio del dollaro USA 1, 2 Il tasso di cambio nominale effettivo di un paese è un tasso multilaterale, con ciascun tasso pesato in proporzione al commercio del relativo partner. Il tasso di cambio reale effettivo è il tasso effettivo nominale corretto per le variazioni nei costi del lavoro (ULC) o dei prezzi al consumo (CPI) del paese in relazione ai singoli partner. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 12 Mario Tonveronachi 2 Costruito usando i pesi del commercio estero del periodo 1989–91. Fonte delle figure: FMI, World Economic Outlook, vari anni. Nei mesi successivi le svalutazioni proseguirono però con rinnovata forza, toccando punte elevate all’inizio del 1998, e, come risulta dalla cronologia degli eventi riportata nel quadro successivo, fu ben presto evidente che questi paesi stavano sviluppando una crisi gemella, valutaria e dei mercati finanziari. Box 2.12. Chronology of Major Events in the Asian Crisis and Its Spillover 1997 May 15 Thailand, after a week of selling pressure and massive intervention in the forward markets, announces wide-ranging capital controls, splitting the onshore and the offshore markets. June 27 The Bank of Thailand suspends the operations of 16 troubled finance companies and orders them to submit merger or consolidation plans. July 2 Bank of Thailand announces a managed float of the baht. The baht devalues by 15 percent in onshore markets, and by 20 percent in offshore markets. July 11 The Central Bank of the Philippines, announces that it will allow the peso to float in a wider range, abandoning the de facto peg.. July 14 Bank Indonesia widens the rupiah trading band from 8 percent to 12 percent July 28 Bank Negara Malaysia is reported as abandoning the defense of the ringgit. August 5 The government of Thailand requests IMF assistance. Thailand suspends a further 42 troubled finance companies. August 14 Indonesia abandons the rupiah trading band. The rupiah depreciates by 4 percent. August 20 Thailand and the IMF agree on a $17 billion financial stabilization package. August 27 Malaysia imposes trading restrictions on the stock market including an effective ban on short selling. August 29 Bank Indonesia introduces selective credit controls on rupiah trading. October 8 Indonesia announces it will seek IMF assistance October 17 Malaysia announces an austerity budget. October 20 The New Taiwan dollar depreciates by 3 percent. October 20–23 The Hong Kong dollar is perceived as vulnerable. The Hong Kong SAR stock market loses 23 percent of its value over four days of selling pressure. Overnight interest rates rise from 7 percent to around 250 percent. Korea and Thailand’s sovereign ratings are downgraded by S&P. October 27 The Dow Jones Industrial Average loses 554 points, following the crash in Hong Kong SAR, the biggest point drop in history. Equity markets in Brazil, Argentina, and Mexico see their biggest single day losses as the crisis November 1 Indonesia closes 16 troubled private banks. Leads to depositor run on others. November 17 Korea abandons defense of the won. November 18 Korean Authorities announce a reform package. November 21 Korea requests IMF assistance. December 3 Korea and the IMF agree on a $57 billion financial assistance package. December 8 Thai authorities close 56 of the suspended finance companies. December 23 Rating agencies downgrade Korea’s sovereign rating to speculative grade. The won falls to nearly 2,000 per U.S. dollar. December 24 IMF and other lenders announce speeding up of disbursement of financial assistance and that international commercial banks would roll over short-term debts owed by Korean financial institutions. December 30 Foreign banks agree to roll over Korean debt. 1998 January 2 Indonesia announces plans to merge four out of seven state-owned banks. Malaysia announces plans for mergers of finance companies January 13 Thailand amends law for foreign investors in banks to be reclassified as domestic companies, allowing them to hold property. January 15 Indonesia and the IMF announce agreement on revised economic program aimed at strengthening and reinforcing the ongoing IMF-supported program. January 16 International lenders officially agree to roll over Korean short-term bank debt. January 20 Thailand allows full foreign ownership of securities firms. January 27 Indonesia guarantees commercial bank obligations, allows overseas investments in local banks, and announces a freeze on debt payments, formalizing the effective moratorium January 30 Thailand lifts currency restrictions reunifying the spot market. April 10 Indonesia signs new letter of intent on economic program with IMF. May 26 The Korean stock market index falls to an 11year low. June 1 The Thai stock market index, continuing its slide from early March, falls to a10-year low. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 13 Mario Tonveronachi ripples across the globe. October 31 IMF and Indonesia agree on $23 billion financial support package. Fonte: FMI Dato che nel decennio precedente Filippine, Indonesia, Malesia e Tailandia (ASEAN-4) avevano sperimentato elevati tassi di crescita e un notevole aumento del reddito reale pro capite, tanto da meritarsi l’appellativo di “tigri asiatiche”, occorre comprendere se le cause di questa crisi, che giunse inaspettata alla maggior parte degli osservatori e delle istituzioni internazionali (rara eccezione fu l’UNCTAD), affondassero le loro radici in squilibri maturati nel periodo precedente. Ciò che dobbiamo ricercare nel periodo precedente è quindi l’accumularsi di squilibri, valutarne la rilevanza e individuare la miccia che ha fatto deflagrare la crisi. La pronta trasmissione della crisi a molte delle economie del sud-est asiatico fa pensare che quelle fragilità caratterizzassero la maggior parte di quei sistemi economici. La tipologia della crisi induce inoltre a concentrare l’attenzione sul settore estero e su quello finanziario. Iniziamo col visualizzare gli aspetti positivi delle economie dell’area negli anni precedenti la crisi (1990-1996), in primo luogo la forte crescita in termini di PIL (si pensi che la crescita media delle maggiori economie sviluppate si attestava nel periodo poco sopra il 2%) e l’impatto devastante della crisi negli anni successivi. Si noti che la crisi si estese velocemente anche a Hong Kong e Corea, mentre la Cina e Taiwan ne furono solo marginalmente interessate (fig. 3). Figura 3 – Tassi di crescita annuali del PIL a prezzi costanti, % 20 15 10 5 0 -5 -10 -15 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 China Indonesia M alaysia Taiwan Province of China Hong Kong SAR Korea Philippines Thailand La concomitante elevata crescita delle economie dell’Area fu in gran parte conseguenza di un’integrazione tra quelle economie che è stata descritta come ‘volo delle anatre’. La logica di Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 14 Mario Tonveronachi questo modello consiste in una divisione del lavoro entro la regione che prevede la specializzazione in tecnologie man mano meno sofisticate andando dai paesi più avanzati, come il Giappone, a quelli di nuova industrializzazione (come Taiwan, Corea e Hong Kong) e a quelli di più recente sviluppo (come gli ASEN-4); di pari passo si sviluppa un commercio infraregionale teso a coprire le diverse fasi del complessivo ciclo di produzione fino alla definitiva esportazione verso i mercati finali, principalmente USA e EU (figura 4). Dato che ai fini del funzionamento di questo modello integrato è cruciale la stabilità dei costi e dei prezzi relativi, si comprende la razionalità delle politiche di peg dei cambi prima discusse. Figura 4 – Commercio estero Intraregional exports in East Asia have risen to about one-half of all exports, while the United States and European Union continue to be important export markets. Source: IMF, Direction of Trade Statistics. 1Data for exports from Hong Kong SAR and China include China’s exports to Hong Kong SAR, which are re-exported to other destinations. 2 Data start in 1978. Quel processo di crescita risultava anche giustificato da un elevato livello degli investimenti, quasi interamente finanziato da risparmi interni (tabelle 1 e 2) Tabella 1 – Investimenti in % del PIL Corea Indonesia Malesia Filippine Tailandia Hong Kong 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 36.93 38.90 36.58 35.08 36.05 37.05 38.42 34.97 36.15 31.34 24.16 41.08 27.44 35.50 37.25 20.22 42.84 27.20 35.87 33.45 21.34 39.97 28.50 29.48 37.81 23.98 39.94 27.54 31.06 40.42 24.06 40.27 31.85 31.93 43.50 22.22 41.61 34.91 30.80 41.54 24.02 41.73 32.38 31.60 42.84 24.84 34.99 35.08 Tabella 2 - Risparmi interni in % del PIL Corea Indonesia Malesia 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 35.69 35.74 34.88 34.91 34.60 35.14 33.60 33.06 31.75 29.07 31.10 23.24 33.41 30.06 28.66 27.70 29.52 33.81 27.65 34.65 27.50 37.81 27.98 39.34 Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 15 Mario Tonveronachi 17.85 17.76 18.16 17.29 20.32 17.16 Filippine 32.33 34.83 33.73 34.26 33.89 33.25 Tailandia 35.85 33.78 33.76 35.67 33.83 31.94 Hong Kong Le tabelle sono tratte da Corsetti, Pesenti e Roubini, “What caused Discussione, Banca d’Italia, n. 343, 1998. 19.35 33.22 29.95 18.77 32.64 31.33 the Asian currency and financial crisis?”, Temi di A differenza di molti paesi in via di sviluppo, i paesi in esame presentavano nel periodo anche una solida situazione dei conti pubblici, con surplus di bilancio specie negli anni più vicini alla crisi (tabella 3). Tabella 3 - Bilancio pubblico in % del PIL 1990 1991 1992 1993 1994 -0.68 -1.63 -0.50 0.64 Corea 0.43 0.45 -0.44 0.64 Indonesia -3.10 -2.10 -0.89 0.23 Malesia -3.47 -2.10 -1.16 -1.46 Filippine 4.59 4.79 2.90 2.13 Tailandia 2.5 2.3 Hong Kong da Corsetti, Pesenti e Roubini, 1998, op. cit. 0.32 1.03 2.44 1.04 1.89 1.3 1995 1996 1997 0.30 0.46 0.25 2.44 0.89 0.57 2.94 –0.3 1.26 0.76 0.28 0.97 2.2 0.00 2.52 0.06 -0.32 6.6 Infine, tassi di crescita così elevati non erano accompagnati da processi inflazionistici preoccupanti (tabella 4). Tabella 4 - Prezzi al consumo (variazione % annua) Media 1980–89 9.6 Indonesia 3.6 Malesia 14.1 Filippine 5.7 Tailandia Fonte: FMI, FSI 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 7.8 2.8 12.7 6.0 9.4 2.6 18.7 5.7 7.5 4.7 8.9 4.1 9.7 3.5 7.6 3.4 8.5 3.7 9.1 5.1 9.4 3.4 8.1 5.8 7.9 3.5 8.4 5.9 1997 6.6 2.7 6.0 5.6 Veniamo quindi ai possibili elementi di fragilità rinvenibili nel periodo pre-crisi (1990-96). Un primo problema avrebbe potuto derivare da perdite di competitività risultanti dal mantenere ‘agganci’ dei cambi nominali col dollaro per un periodo così prolungato. Secondo il FMI la sopravvalutazione del cambio è tra i principali fattori di crisi. I grafici della figura 5 mostrano l’andamento dei tassi di cambio reali effettivi dei paesi in esame, misurati sia in termini della variazione dei prezzi al consumo (CPI), sia dei costi unitari del lavoro (ULC). Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 16 Mario Tonveronachi Figura 5 - Tassi di cambio effettivi (valute estere/valuta nazionale) (1990=100; scala logaritmica) Fonte: A. Turner, S. Golub, “Towards a system of multilateral unit labor cost-based competitiveness indicators for advanced, developing and transition countries”, IMF WP 151, 1997. Per il periodo 1990-95, non risulta dai grafici precedenti una perdita di competitività per la maggior parte dei paesi, a parte il caso di Hong Kong e delle Filippine - che non furono comunque il focolaio iniziale della crisi. Occorre comunque considerare che, dato il permanere della politica di Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 17 Mario Tonveronachi peg, la rivalutazione del dollaro ha sicuramente poi peggiorato la competitività di quei paesi verso le aree di esportazione diverse dagli USA, specie dopo il 1996 quando è essa divenuta particolarmente accentuata (fig. 2). Va però precisato che l’andamento del tasso di cambio reale effettivo misura correttamente l’evoluzione della competitività solo per ipotetiche economie che commerciano significativamente con tutte le altre, in modo che ogni tasso di cambio sia pesato in relazione alla proporzione del commercio internazionale con ogni singolo partner. Poniamo di avere tre blocchi ipotetici, dove quello USA-EU costituisce il maggior mercato di sbocco per gli altri due, Cina e SEAsia che non commerciano tra di loro. Un cambio effettivo reale costante SEAsia, che è solo verso USA-EU, non misura una sua eventuale perdita di competitività derivante da una svalutazione del cambio reale effettivo della Cina verso USA-EU. Questo schema riflette significativamente quanto successo a seguito della crescente presenza della Cina nel mercato internazionale a partire dagli anni ‘80. Nella fase iniziale, ma ancor oggi, la Cina si è affermata sui mercati internazionali con merci a basso contenuto tecnologico, i cui prezzi erano quindi fortemente dipendenti dal costo del lavoro; con tecnologia simile e con costi del lavoro inferiori, essa si è quindi posta in netta concorrenza con le produzioni dei paesi del Sud Est Asiatico di più giovane industrializzazione, per l’appunto Tailandia, Malesia, Indonesia e Filippine. Per mantenere la competitività rispetto alla Cina quei paesi avrebbero dovuto svalutare rispetto al dollaro e non mantenersi legati ad esso. L’effetto di tutto ciò sulle esportazioni degli ASEAN-4 può comunque essere rimasto limitato nel periodo in esame a causa della presenza di barriere quantitative contro le importazioni cinesi nei mercati di sbocco dei paesi avanzati. Dati i limiti degli indicatori di cambio reale nella situazione prospettata, può essere di aiuto per una valutazione complessiva dell’andamento della competitività osservare la dinamica della bilancia commerciale. La crescita delle esportazioni, di cui alla figura 6, appare nel periodo continuare a ritmi sostenuti, con un rallentamento visibile a partire dal 1996, che è però causata da un rallentamento nella crescita delle importazioni totali da parte dei paesi avanzati (che passa dal 19% nel 1995 al 3,9% del 1996). Figura 6 – Esportazioni in miliardi di dollari USA a prezzi correnti Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 18 Mario Tonveronachi 200 180 160 Hong Kong 140 Taiwan 120 Korea 100 Indonesia M alaysia 80 Philippines 60 Thailand 40 20 0 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 Fonte dati: UNCTAD, database. Il saldo della bilancia commerciale (fig. 7), in genere moderatamente negativo, presenta per gli ASEAN-4 solo una leggera tendenza al peggioramento, che in alcuni casi sembrava attenuarsi nel 1996. Figura 7 – Saldo della bilancia commerciale in % del PIL 6 4 2 Corea 0 Indonesia -2 M alesia Filippine -4 Tailandia -6 Taiwan -8 -10 -12 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 Fonte dati: Corsetti, Pesenti e Roubini, 1998, op. cit. Nella sostanza, mentre non si rinvengono indizi di una perdita significativa di competitività nel commercio estero degli ASEAN-4, se ne rileva la sensibilità alla crescita del commercio globale. Per comprendere quanto la crisi valutaria potesse derivare da elementi diversi dal commercio internazionale, iniziamo con il saldo del conto corrente della BdP in % del PIL (fig. 8). I deficit degli ASEAN-4 oscillano in media attorno al livello di attenzione, considerato in genere il 5%; per alcuni paesi si osserva comunque una tendenza al miglioramento. Da notare il caso della Tailandia, il Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 19 Mario Tonveronachi paese dove origina la crisi, che presenta nel 1996 il deficit maggiore dell’area, superiore al livello di guardia. Di nuovo, i dati suggeriscono che persistono nel periodo alcuni fattori di squilibrio, ma non danno conto del perché la crisi sia scoppiata nel 1997 e non, ad esempio, negli anni precedenti e perché si sia prontamente estesa a tutta l’area. Figura 8 – Saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti in % del PIL 10 5 Corea 0 Indonesia M alesia Filippine -5 Tailandia Hong Kong -10 Taiwan -15 -20 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 Fonte dati: differenza tra S/PIL e I/PIL dalle tabelle 1 e 2. Dobbiamo quindi indirizzare l’attenzione verso le variabili finanziarie della bilancia dei pagamenti per il periodo pre-crisi (1990-96). Le tabelle successive riportano per gli ASEAN-4 i conti riassuntivi della bilancia dei pagamenti e le componenti dei flussi di capitale in entrata. Per tutto il periodo fino alla crisi del 1997, in Tailandia l’ingresso netto di fondi (comprensivo di errori e omissioni) supera largamente il deficit delle partite correnti (tabella 5), producendo un significativo accumulo di riserve valutarie. La tabella 6 mostra le componenti dei flussi netti in entrata. Tabella 5 - Tailandia (milioni di dollari USA) Current Account Capital Account Financial Account Net Errors and Omissions 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 -7281 -1 9098 1419 -7571 0 11759 431 -6303 0 9475 -142 -6364 0 10500 -230 -8085 0 12167 87 -13582 0 21909 -1168 -14692 0 19486 -2627 -3021 0 -12056 -3173 Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 20 Mario Tonveronachi Overall Balance Reserves and Related Items Reserve Assets Use of Fund Credit and Loans Exceptional Financing 3235 -3235 -2961 -274 0 4618 -4618 -4618 -1 0 3029 -3029 -3029 0 0 3907 -3907 -3907 0 0 4169 -4169 -4169 0 0 1994 1995 7159 -7159 -7159 0 0 2167 -2167 -2167 0 0 -18250 18250 9900 2437 5913 Tabella 6 – Tailandia (milioni di dollari USA) 1990 Financial Account Direct Investment net Portfolio Investment net Equity securities net Debt securities net Financial Derivatives net Other Investment net Monetary Authorities General Government Banks Other Sectors 1996 1997 9475 10500 12167 21909 19486 1966 1571 873 1182 1405 924 5455 2482 4081 3544 455 2679 -393 2122 1123 469 2776 2875 1960 2421 6584 3474 8812 16645 14537 0 0 0 0 0 -611 -464 -705 46 -58 1862 3324 13269 10482 5650 5333 614 -3751 6117 8945 -12056 3315 4527 3868 659 -19898 -5262 737 -5653 -9720 1991 1992 9098 11759 2303 1847 -38 -81 440 37 -478 -118 6833 9993 0 0 -1220 255 1027 213 7025 9525 1993 I fondi provenienti da prestiti bancari, dagli altri settori e dagli investimenti di portafoglio superano di gran lunga gli investimenti diretti, il cui ammontare non sarebbe stato comunque in grado di finanziare il disavanzo delle partite correnti. Le tabelle successive mostrano un quadro analogo per il resto delle ASEAN-4. La Malesia si differenzia per volumi d’investimenti diretti netti che sarebbero stati sufficienti a finanziare i deficit delle partite correnti. Tabella 7 – Filippine (milioni di dollari USA) Current Account Capital Account Financial Account Net Errors and Omissions Overall Balance Reserves and Related Items Reserve Assets Use of Fund Credit and Loans Exceptional Financing 1990 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 -2695 -1034 -1000 -3016 -2950 -1980 -3953 0 0 1 0 0 0 0 2057 2927 3208 3267 5120 5309 11277 593 -138 -520 85 157 -2094 -2986 -45 1755 1689 336 2327 1235 4338 45 -1755 -1689 -336 -2327 -1235 -4338 388 -1937 -1746 -447 -2107 -873 -4037 -343 182 58 111 -220 -362 -301 0 0 0 0 0 0 0 -4351 0 6498 -5241 -3094 3094 2610 485 0 Tabella 8 – Filippine (milioni di dollari USA) 1990 1991 1992 Financial Account Direct Investment net Portfolio Investment net Equity Securities Debt Securities Financial Derivatives net Other Investment net Monetary Authorities General Government Banks Other Sectors 1993 1994 1997 1995 1996 2057 2927 3208 3267 5120 5309 11277 530 544 228 864 1289 1079 1335 -50 110 40 -52 269 1190 5317 0 0 0 0 0 0 2122 -50 110 40 -52 269 1190 3195 1577 2273 2940 2455 3562 3040 4625 0 0 0 0 0 0 199 875 375 2731 1065 -1121 -408 -808 307 473 1921 -229 1694 1648 3291 395 1425 -1712 1619 2989 1800 1943 6498 1086 591 -376 967 4821 -98 -218 2093 3044 Tabella 9 – Malesia (milioni di dollari USA) 1990 Current Account Capital Account Financial Account -870 -48 1784 1991 1992 1993 1994 1995 1996 1997 -4183 -51 5621 -2167 -40 8746 -2991 -88 10805 -4520 -82 1288 -8644 0 7643 -4462 0 9477 -5935 0 2198 Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 21 Mario Tonveronachi Net Errors and Omissions Overall Balance Reserves and Related Items Reserve Assets Use of Fund Credit and Loans Exceptional Financing 1085 -151 79 3624 154 1951 1236 6618 11350 -3160 -1951 -1236 -6618 -11350 3160 -1951 -1236 -6618 -11350 3160 0 0 0 0 0 - -762 -1763 1763 1763 0 -2502 2513 -2513 -2513 0 - -137 -3875 3875 3875 0 - Tabella 10 – Malesia (milioni di dollari USA) 1990 Financial Account Direct Investment net Portfolio Investment net Equity Securities Debt Securities Financial Derivatives net Other Investment net Monetary Authorities General Government Banks Other Sectors 1991 1784 2332 -255 0 -255 - 1992 5621 3998 170 0 170 - -294 -1 -32 847 -1107 1993 1994 1995 1997 1996 8746 10805 1288 7643 9477 5183 5006 4342 4178 5078 -1122 -709 -1649 -436 -268 0 0 0 0 0 -1122 -709 -1649 -436 -268 4685 6508 -1405 3900 4667 3 7 -3 0 0 -164 -573 -215 -212 -564 3631 4225 -5070 28 3339 1216 2849 3885 4084 1892 1453 -1 -145 1312 287 2198 5137 -248 0 -248 -2691 0 -364 -979 -1348 Tabella 11 – Indonesia (milioni di dollari USA) 1990 Current Account Capital Account Financial Account Net Errors and Omissions Overall Balance Reserves and Related Items Reserve Assets Use of Fund Credit and Loans Exceptional Financing 1991 -2988 0 4495 744 2251 -2251 -2088 -163 - 1992 -4260 0 5697 91 1528 -1528 -1210 -319 - 1993 -2780 0 6129 -1279 2070 -2070 -1909 -161 - 1994 -2106 0 5632 -2932 594 -594 -594 0 - 1995 -2792 0 3839 -263 784 -784 -784 0 - 1996 -6431 0 10259 -2255 1573 -1573 -1573 0 - -7663 0 10847 1319 4503 -4503 -4503 0 - 1997 -4889 0 -603 -2645 -8137 8137 5113 3025 - Tabella 12 – Indonesia (milioni di dollari USA) Financial Account Direct Investment net Portfolio Investment net Financial Derivatives net Other Investment net Monetary Authorities General Government Banks Other Sectors Fonte dati: IMF, IFS 1990 1991 4495 1093 -93 5697 1482 -12 - 3495 0 474 0 3021 1992 4227 0 1299 0 2928 1993 6129 1777 -88 3839 1500 3877 2179 0 552 1357 270 -1538 0 137 527 -2202 4440 0 858 0 3582 1994 5632 1648 1805 1995 1996 10259 10847 3743 5594 4100 5005 2416 248 0 0 6 -663 1953 -758 457 1669 1997 -603 4499 -2632 -2470 0 -265 -276 -1929 Per tutti i paesi in esame la liberalizzazione dei movimenti di capitale, fortemente consigliata in quegli anni dal FMI, permette un ingresso di fondi in eccesso rispetto a quanto necessario per finanziare i deficit in conto corrente; l’accumulo di riserve ne è la conseguenza. Questo eccesso di fondi pone però un interrogativo e alcuni problemi. Il quesito riguarda le cause che hanno prodotto una così accentuata attrazione di fondi finanziari. Il massiccio afflusso di fondi sembra spiegato dai movimenti speculativi che abbiamo visto nella prima parte del Corso nel riquadro sul carry trade. Con cambi fissi sul dollaro che ex ante erano ritenuti credibili, e con la tendenza dello Yen giapponese a indebolirsi rispetto al dollaro, investitori esteri ottennero per lungo tempo rendimenti elevati indebitandosi in dollari, ma specialmente in Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 22 Mario Tonveronachi Yen, a bassi tassi d’interesse e investendo nei mercati dei paesi ASEAN-4 che offrivano rendimenti più elevati (vedi anche tab. 13). Tra l’altro fu questo un periodo in cui le banche internazionali d’investimento spinsero su quel tipo di operazioni, confezionando ogni sorta di prodotti derivati che promettevano agli investitori dei paesi avanzati migliori rapporti rendimento/rischio di quelli disponibili entro i loro confini. Il problema era che mentre esse guadagnavano forti ricavi da servizi, i rischi di cambio venivano sottostimati e restavano a carico degli investitori o dei debitori, dato che la stragrande maggioranza delle posizioni non era coperta dal rischio di cambio. Tabella 13 – Tassi d’interesse nominali Short-term interest rate United States Japan Euro area Newly industrialized Asian economies Long-term interest rate United States Japan Euro area Newly industrialized Asian economies Fonte dati: FMI 1992 1993 1994 1995 1996 3.4 4.1 11.1 3.0 2.7 8.6 4.2 1.9 6.3 5.5 1.0 6.1 5.0 0.3 4.6 9.8 8.5 8.9 9.1 8.8 7.0 5.1 9.8 5.9 4.0 8.1 7.1 4.2 8.2 6.6 3.3 8.5 6.4 3.0 7.1 13.7 10.9 11.2 11.0 9.7 Il primo problema riguarda la politica di peg cambiario perseguita. Si evidenzia nei casi in esame l’incoerenza tra i cambi fissi e la liberalizzazione del conto capitale. Se i cambi fossero stati lasciati liberi di fluttuare, investimenti di tipo carry trade avrebbero prodotto un apprezzamento di quelle valute, limitando così l’afflusso di fondi. Un apprezzamento delle valute avrebbe però messo a rischio la competitività internazionale, già minacciata dalla crescente presenza della Cina, con effetti negativi sulla bilancia commerciale e sulla crescita del PIL. Con il peg le autorità di quei paesi scelsero di privilegiare la crescita reale pur cedendo alle pressioni di liberalizzazione dei flussi di capitale. Il secondo problema è dato dal fatto che, in assenza di politiche monetarie di sterilizzazione e con bilanci del settore pubblico in avanzo, era di fatto il settore estero a determinare la dinamica della liquidità interna. Il terzo problema, collegato al precedente, risiede nell’aumento della fragilità del sistema finanziario locale sottoposto a convertire quei forti aumenti di liquidità in maggiori prestiti; questo, in genere, abbassa la severità nel valutare il rischio di credito. Inoltre, per sollecitare una maggiore Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 23 Mario Tonveronachi domanda di credito, a richiedenti di fondi con entrate in moneta locale le banche prestavano in valuta estera a tassi minori di quelli denominati in valuta locale, spostando in questo modo il rischio di cambio sui debitori, ma così accrescendo il proprio rischio di credito. Molti di quei prestiti si diressero infatti verso settori non manifatturieri, come quello dei servizi finanziari e delle costruzioni. Inoltre le banche locali erano spinte dalle politiche di peg a operare anche mismatch tra passivi in valuta estera e attivi denominati in moneta locale. Il tutto in una situazione nella quale il settore bancario di quei paesi aveva mostrato negli anni precedenti preoccupanti segnali di debolezza, come è illustrato nella tabella 14. Tabella 14 - Selected East Asian Economies: Banking Sector Problems Economy Dates Extent of Financial Distress Government Measures/Estimated Losses Indonesia 1992–96 A large private bank failed, causing runs on smaller banks. Nonperforming loans peaked at over 25 percent of total lending. The government recapitalized five state banks at a cost of about 2 percent of GDP. One bank was liquidated. 1985–88 At peak, nonperforming loans were over 30 percent of total loans. Sporadic runs on financial institutions. Several finance companies failed or were merged. Overall, the authorities intervened in 3 banks, 4 finance houses, 14 insurance companies, and 24 other deposit-taking institutions. 1981–87 Banks accounting for almost 2 percent of total assets failed in 1981. Through the mid-1980s, 3 private commercial banks, 128 rural banks, and 32 thrift institutions failed. Nonperforming loans were almost 20 percent of total loans at peak. 1983–87 Runs on financial institutions caused over 20 finance companies to fail. More than 25 percent of financial system assets were impaired. Malaysia Philippines Thailand The reported losses were equivalent to about 5 percent of GDP. The shareholders of some institutions were required to inject new capital, with supplements from the central bank. Loans to some banks were provided at concessional rates. The supervisory and regulatory framework was strengthened, and a secondary mortgage market to aid bank liquidity was established. The central bank provided substantial liquidity, amounting to 3 percent of GDP at peak. Several insolvent institutions were closed or were taken over, and depositors were paid off (depositor losses were equivalent to over 5 percent of total deposits). The government took over several banks and established an agency to administer, recover, and dispose of nonperforming loans. The authorities intervened to assist over 50 finance companies and banks: 25 were closed and another 9 were merged; 20 other institutions received government subsidies. The total cost to the government was about 1 percent of GDP. Depositors of finance companies bore about 50 percent of losses. Fonte: FMI, World Economic Outlook, October 1998. Corse agli sportelli (Bank runs) Nella tabella 14 si fa riferimento alle corse agli sportelli. Dato che i depositi bancari hanno un valore di realizzo pari al loro valore nominale, il diffondersi di timori sulla solvibilità di una banca spinge i depositanti a presentarsi ai suoi sportelli per ritirare precipitosamente i loro soldi. Si formano così lunghe code agli sportelli bancari, come si è visto recentemente per l’inglese Northern Rock. A fronte dei depositi le banche detengono però riserve solo frazionarie in liquidità primaria, il loro attivo liquido è limitato (in quanto meno redditizio) e il resto degli impieghi non ha in genere un mercato secondario. Ne risulta che quando la banca ha esaurito le scorte di liquidità primaria, è costretta a chiudere i propri sportelli (di fatto divenendo insolvente rispetto ai propri Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 24 Mario Tonveronachi depositanti) a meno che non trovi altri accessi alla liquidità tramite il mercato interbancario (assai problematico in situazioni di crisi) o ricorrendo alla funzione di prestatore di ultima istanza della banca centrale. In via di principio quest’ultima opzione dovrebbe essere aperta solo a istituzioni con problemi temporanei di liquidità e non in situazione di insolvenza. Questa differenziazione dovrebbe avvenire per mezzo della valutazione delle garanzie che una banca può offrire alla banca centrale per accedere al suo finanziamento. In pratica, non è sempre agevole per le autorità monetarie distinguere situazioni di illiquidità da quelle di insolvenza; succede anche che, per evitare un possibile estendersi della crisi, la banca centrale abbassi la qualità delle garanzie richieste per l’accesso allo sportello di rifinanziamento. Ciononostante, sempre su pressione del FMI e di altri organismi internazionali, i paesi in esame liberalizzarono il mercato finanziario interno e adottarono una regolamentazione di tipo prudenziale sul modello dell’Accordo di Basilea, basato sulla patrimonializzazione e sull’adozione di best practices per la gestione dei rischi. 1 Se all’apparenza le banche locali ottemperavano a quelle regole e prassi, sono in molti a ritenere che quel modello sottostimasse o non considerasse una serie di rischi, primo tra tutti quello di cambio, e che inoltre l’attività di vigilanza delle autorità sul rispetto di quelle regole fosse piuttosto lasca (forbearance).2 Il quarto problema risiede nella mobilità dei fondi esteri, che aumenta la fragilità di un paese dato che gli effetti di una massiccia entrata e di una frettolosa uscita di capitali non produce un gioco a somma zero. Forti iniezioni di liquidità producono bolle speculative, tipicamente nel mercato dei capitali e nel settore delle costruzioni, quindi una allocazione inefficiente di quei fondi (cfr. figura 9). Figura 9 - Real Estate and Stock Prices in Selected Asian Countries1 (Indices, March 1992 = 100) 1 Per liberalizzazione del sistema finanziario s’intende il passaggio da un sistema di regolamentazione sostanzialmente basato su restrizioni all’attività bancaria tese a limitare i rischi assumibili dalle banche, ad un sistema basato sulla libertà di assunzione di rischi a patto che questi siano coperti da un certo grado di patrimonializzazione. Su questi argomenti torneremo più diffusamente nella parte finale del Corso. 2 Come vedremo nell’ultima parte del Corso dedicata alla regolamentazione bancaria, l’attività di Vigilanza è cruciale per rendere effettiva ed efficace la regolamentazione. Ciò richiede che essa possa disporre di sufficienti dotazioni di fondi, di personale con elevata formazione e che sia sufficientemente schermata da pressioni politiche. Si tratta di requisiti che molti paesi, specie quelli meno sviluppati, faticano a soddisfare. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 25 Mario Tonveronachi Quando quei fondi vengono ritirati, come nel 1997, le bolle scoppiano con andamenti che, come nella fase ascendente, danno luogo a fenomeni di overshooting. Veniamo quindi alla scintilla che ha fatto deflagrare quell’accumularsi di squilibri e fragilità. Secondo Kregel (“Asia is not Mexico”, Levy Economics Institute, WP 235, May 1998) la crisi iniziò nel punto più debole di quelle economie asiatiche, ovvero nel sistema bancario da poco liberalizzato e deregolamentato. A partire dal 1996 la banca centrale di Tailandia usa e abusa della politica di forbearance prestando in valuta estera a banche in difficoltà nella speranza di evitarne il fallimento e senza darne avviso al pubblico per evitare panico nei mercati. Nella primavera del 1997 si assiste però all’insuccesso dei tentativi della banca centrale tailandese di organizzare il salvataggio della maggiore compagnia finanziaria del paese, Finance One. Nel mese di giugno 16 istituzioni finanziarie sono obbligate a sospendere l’attività. Questi eventi iniziarono a focalizzare l’attenzione degli investitori internazionali, specie per quelli che avevano concesso prestiti in valuta agli intermediari finanziari tailandesi. Questo segna l’inizio del ritiro dei fondi internazionali privati a breve termine e quindi l’inizio di pressioni crescenti sul cambio e sulle riserve in valuta. L’uscita di fondi fu anche favorita da aspettative, poi rivelatesi infondate, di una forte ripresa dell’economia giapponese che avrebbe indotto un aumento dei tassi d’interesse in quel paese; aumento che inizialmente si verificò producendo anche una rivalutazione dello Yen, favorita peraltro da un rimpatrio dei fondi precedentemente investiti anche negli ASEAN-4. Come si è detto all’inizio, dopo una strenua difesa del cambio, inizialmente perseguita dalla banca centrale tailandese operando sui mercati futures dei cambi, si giunse a deciderne la fluttuazione. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 26 Mario Tonveronachi Le perdite indotte dalla svalutazione del baht su chi aveva scommesso sulla sua stabilità portarono alla seconda fase della crisi: le aspettative ribassiste si allargarono agli altri paesi dell’area che condividevano con la Tailandia elementi di fragilità finanziaria e valutaria. La terza fase, che non può qui essere descritta in dettaglio, vide l’estendersi delle tensioni cambiarie sui paesi più industrializzati del Sud Est Asiatico (Taiwan, Corea, Hong Kong e Singapore): tra l’ottobre e il novembre 1997 svalutano anche il dollaro di Taiwan e il won coreano. Ciò produsse la quarta fase, consistente in un ulteriore riallineamento verso il basso delle valute degli ASEAN-4 (fig. 1). L’effetto di questa crisi che si stava allargando a tutta l’area si fece sentire anche nelle economie sviluppate, timorose per un avvio di svalutazioni competitive e per i possibili effetti sulle loro esportazioni nell’area. Il 27 ottobre 1997 la borsa di New York subì una forte caduta, presto seguita dai mercati finanziari degli altri paesi sviluppati. Si assiste per la prima volta agli effetti in negativo della globalizzazione economica e finanziaria, della quale le economie del Sud Est Asiatico erano state parte di rilievo. I dati per il 1997 sulla crescita, sull’uscita dei capitali, sul cambio e sulla caduta dei valori delle attività finanziarie (si vedano tabelle e grafici precedenti) sono testimonianza degli effetti asimmetrici prodotti dalle bolle speculative e della forza dei fenomeni di overshooting. Si è anche visto come nel frangente le banche internazionali abbiano partecipato alla cecità generale, non prevedendo per tempo quanto stava per succedere e quindi continuando a incanalare fondi fino al momento della crisi. Anche le agenzie internazionali di rating non hanno certo brillato per preveggenza dato che dovrebbe essere il loro mestiere anticipare significativamente lo scoppio della crisi; esse mantennero sostanzialmente inalterati i rating fino all’ultimo minuto per poi abbassarli bruscamente (figura 10), dando forti indicazioni di un loro comportamento pro-ciclico. Figura 10 - Ratings Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 27 Mario Tonveronachi Sempre in relazione agli effetti della crisi, la figura 11 mostra il notevole aumento degli spread di rischio paese, che tendono più a seguire gli eventi che ad anticiparli, assumendo inoltre tipici caratteri di overshooting. Figura 11 - Yield Spreads for U.S. Dollar-Denominated Eurobonds for the Asian area (In basis points) Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 28 Mario Tonveronachi La successiva figura 12 mostra gli effetti sui tassi d’interesse di politiche monetarie restrittive tese a contenere svalutazioni del cambio che nella seconda fase della crisi stavano assumendo dimensioni eccessive. Figura 12 – Tassi d’interesse di breve termine, % Politiche restrittive vennero comunque a far parte delle misure che accompagnarono gli interventi di sostegno finanziario del FMI. Come nel caso della crisi da debito estero degli anni ’80, politiche interne recessive furono ‘consigliate’ per produrre velocemente avanzi delle partite correnti per mezzo di forti cadute del reddito e delle importazioni (fig. 13). Figura 13 – Bilancia commerciale Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 29 Mario Tonveronachi La Malesia fu l’unico paese a non chiedere assistenza al FMI e si ritenne quindi libera di adottare un diverso mix di politiche economiche, alcune non ‘ortodosse’, come l’introduzione di vincoli all’operatività sul mercato dei capitali. Non per questo l’esperienza della Malesia nel post-crisi fu peggiore delle altre ASEAN-4. In parte ciò può essere derivato dalle sue migliori condizioni strutturali, specie della bilancia dei pagamenti. Alcuni commentatori hanno argomentato che la minore severità macroeconomica di quegli interventi permise alla Malesia di uscire prima e con minori danni sociali dalla crisi del 1997. Cerchiamo di riassumere i caratteri principali di questa crisi seguendo le linee della teoria di Minsky. Da molti anni gli ASEAN-4 stavano sperimentando una dinamica che a prima vista sembrava assolutamente virtuosa, specie quando confrontata con quella di altri paesi in via di sviluppo: una crescita elevata e piuttosto stabile, consistenti investimenti e risparmi, avanzamenti tecnologici anche sospinti dagli investimenti esteri diretti, surplus dei conti pubblici e quindi basso indebitamento dello Stato. In prospettiva anche i deficit della bilancia commerciale e del conto corrente della bilancia dei pagamenti apparivano sostenibili, in quanto giustificati dall’elevata crescita e dati i livelli relativamente modesti dell’indebitamento estero netto di partenza. Le politiche di peg sul dollaro, i deficit di conto corrente, l’apertura ai movimenti di capitale e la liberalizzazione del settore finanziario interno costituirono però un mix micidiale. Si è già detto che un deficit del conto corrente della BdP pone un paese in posizione Ponzi quando alla capitalizzazione degli interessi sul debito si aggiunge un deficit della bilancia commerciale. Quella posizione sarebbe apparsa sostenibile prevedendo nel medio termine un ribaltamento del Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 30 Mario Tonveronachi saldo della bilancia commerciale, tale da produrre tendenzialmente un surplus rispetto al pagamento degli interessi sul debito e quindi una riduzione della consistenza del debito estero. Investimenti tesi a produrre avanzamenti tecnologici erano un elemento a favore di quel tipo di aspettative. D’altro canto, il volume delle esportazioni dipende anche, e in misura significativa, dall’andamento del commercio mondiale; un ridimensionamento di medio termine della crescita mondiale avrebbe palesato la pericolosità di quella posizione Ponzi. E in realtà questo avvenne a partire dal 1996 (vedi sopra, fig. 6 e commento). Una posizione Ponzi può limitare la sua fragilità finanziaria indebitandosi a medio-lungo termine, cioè con una prospettiva di rinnovo del debito alla data in cui ci si attende che si verificherà l’atteso El Dorado: la convalida della posizione fluidifica il rinnovo del debito in scadenza. Al contrario, l’afflusso di capitali a breve termine impone frequenti valutazioni della posizione in una prospettiva di breve termine, quindi anche più legate al comparire di altre possibilità di arbitraggio capaci di dirottare i fondi in altre direzioni. Ma ciò non è sufficiente; occorre anche che i tassi d’interesse non siano contrattualmente rivisti a intervalli brevi, altrimenti la dinamica del debito può divenire esplosiva. Purtroppo, furono sempre di più i fondi a breve termine o con tassi d’interesse variabili che finanziarono negli ASEAN-4 la parte del deficit non coperto dagli investimenti diretti. Da questo punto di vista, la posizione della Malesia, con investimenti diretti sufficienti a colmare in media il deficit delle partite correnti, si presentava più robusta. Una posizione Ponzi dell’intero sistema verso l’estero riflette la composizione delle diverse posizioni assunte dai settori interni - imprese, intermediari finanziari, famiglie e amministrazione pubblica. Nei casi in esame, le famiglie (con alti tassi di risparmio) e lo stato (con avanzi di bilancio) erano sostanzialmente in posizioni coperte o scarsamente speculative, sia in moneta nazionale che in valuta estera. Erano quindi le imprese e gli intermediari finanziari a porsi in posizione speculativa o Ponzi sull’estero. Vediamo qui agire il meccanismo dell’aumento endogeno della fragilità discusso nel presentare la teoria di Minsky. Una prolungata fase di cambi stabili sul dollaro ingenerò aspettative di bassi o inesistenti rischi di cambio e portò quindi a sottovalutare la necessità di precostituire margini di sicurezza su questo tipo di rischio e di considerarne inoltre la correlazione col rischio d’interesse. Come abbiamo visto, svalutazioni del cambio si associano di norma ad aumenti dei tassi d’interesse interni, tesi in un primo momento a difendere la valuta e poi a impedire svalutazioni eccessive. Inoltre, i conseguenti aumenti del rischio paese aumentano i tassi d’interesse internazionali applicati alle posizioni del paese in questione. Svalutazioni e maggiori tassi d’interesse colpiscono le imprese nella loro posizione finanziaria rendendo più costoso il servizio del debito, specie quando è denominato in valuta estera. Intermediari finanziari con posizioni passive non coperte sui cambi vedono aumentare il costo e il valore del passivo in moneta nazionale; inoltre, la recessione provoca un Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 31 Mario Tonveronachi peggioramento nella qualità dei crediti, tanto più quanto le banche cerchino di traslare il maggior costo del passivo in maggiori interessi per la clientela. Non aver precostituito margini di sicurezza contro quei possibili eventi rappresentò quindi un notevole aumento del grado di fragilità per l’intero sistema. Doveva in più essere palese l’assenza delle difese sistemiche contro il verificarsi di crisi profonde. In primo luogo, la posizione ‘virtuosa’ degli avanzi di bilancio del settore pubblico palesava, in termini minskiani, l’assenza di un costante e significativo contributo della domanda pubblica contro una eccessiva discesa dei profitti e del reddito. In secondo luogo, l’aver permesso il formarsi di posizioni debitorie in valuta estera rendeva limitata alla consistenza delle riserve la funzione di prestatore di ultima istanza delle autorità monetarie nazionali. Una volta che i fondi iniziarono ad uscire, la posizione Ponzi complessiva di quelle economie divenne palese ed i cambi non ressero a quella pressione. Le svalutazioni, tese a riportare in equilibrio i conti esteri, crearono però forti squilibri nelle posizioni speculative interne, aggravati dagli aumenti dei tassi d’interesse. L’ulteriore svalutazione che caratterizzò la terza fase, in parte dovuta al tentativo di imprese e intermediari di ripagare più rapidamente possibile il loro debito estero prima che ulteriori svalutazioni ne rendessero ancor più pesante il carico, impresse un’ulteriore spinta a trasformare molte posizioni interne in Ponzi. Quest’analisi aiuta anche a inquadrare alcune critiche che furono rivolte alle politiche di rigore promosse dal FMI. In quanto quelle politiche si sostanziarono in politiche restrittive, monetarie e fiscali, cui conseguirono ulteriori aumenti dei tassi d’interesse e più accentuate cadute della domanda interna, la loro azione favorì lo spostamento verso posizioni Ponzi e un aumento del tasso di fallimenti, così aggravando la crisi. Materiale per il Corso di Economia dei sistemi finanziari 32