Sette Gessi

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Sette Gessi
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Sette Gessi
Con un’introduzione di
Simona Bartolena
Pages:
Fabio Eracle Dartizio
271 – 281
[email protected]
Introduzione
A cura di Simona Bartolenaa
Fabio Eracle Dartizio, anni 23, parla di sé come di un bambino col capriccio
di fare l’artista. È così, senza dubbio. Del bambino Fabio ha la purezza dello
sguardo, l’incantevole innocenza, l’inguaribile ottimismo, le molte paure ma anche il feroce e innato sarcasmo e la spudorata cattiveria che si esprime libera dal
freno delle sovrastrutture e senza la meschinità dei pregiudizi.
Il suo incontro con l’arte avviene in ambito extra accademico: nasce come
writer, poi scopre la tela e l’acetato, e lavora su entrambi i supporti con pennellate istintive, tracciando segni dalla gestualità forte ed esibita, incrostando materia
sulla superficie. Intanto tiene diari personali, fatti di parole e disegni, nei quali riflessioni private e concetti universali si intrecciano a momenti grafici di sorprendente efficacia. Ed è proprio in questi taccuini che Fabio Eracle Dartizio trova
la sua strada, cominciando un percorso che sposa la parola all’immagine, la sfera
individuale a quella pubblica: opere in bilico tra pamphlet filosofici, libri d’artista,
esternazioni interiori ed elucubrazioni ideologiche. Nei taccuini di Fabio troviamo una scrittura che è essa stessa segno artistico, che si specchia, aprendo dialoghi molto suggestivi, con i disegni che l’accompagnano e che la completano
senza mai subordinarsi ad essa nel ruolo di comprimari.
a
Storica dell’arte. Heart. Pulsazioni culturali. [email protected]
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Senza vincoli, senza premeditazioni, probabilmente anche senza grandi sogni di
gloria, Fabio va incontro alla vita trasformandola passo dopo passo in espressione
artistica. Ogni singolo pensiero, ogni singola bevuta con gli amici e in solitudine,
ogni singola notte bianca. . . ogni momento della sua quotidiana esistenza, anche
il più banale, viene filtrato dalla sua mente vulcanica, mai pacificata, sempre in
cerca di risposte. In una società che si appiattisce tra piccolo schermo e corridoi
di un centro commerciale, una personalità del genere finisce con il sorprendere
e, soprattutto, con l’accendere riflessioni sul potere dell’arte e sul suo ruolo. Lui
per primo ironico (e critico) nei confronti di questa immagine da artista maudit
che pare portarsi addosso fin da ragazzino, Fabio non è altro che una superficie
sensibile che assorbe, filtra e rielabora il bene e il male del mondo. Condannato
a pensare, pensa ed esprime opinioni, parla con se stesso prima che con gli altri e,
fortunatamente per noi, riesce a esternare il proprio pensiero per mezzo dell’arte.
Gli studi condotti negli ultimi anni non gli hanno rubato purezza e istinto
creativo. Non hanno imbrigliato la fantasia che gli permette di riempire i suoi
taccuini, ma anche di progettare installazioni coinvolgenti e intense e di esprimersi
liberamente, senza limiti, nelle tecniche più diverse.
Questo bambino inquieto deve dunque ringraziare il suo straordinario talento
naturale per il disegno e il segno grafico, la sua intelligenza sottile e acutissima e la
sua capacità critica: tutte doti che forse gli rendono la vita molto più complicata di
quanto in effetti non sia, ma che certamente gli hanno aperto le porte dell’Arte.
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di Fabio Eracle Dartizio
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Gesso numero uno
La voce
“Gli occhi friggono da dentro e sudano la fronte,
come vele di carne, la gente naviga.”
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Gesso numero due
Forma mentis
Il mio cervello è cresciuto in mezzo ai campi, fra i
paninari lungo le provinciali, nei boschi chimici delle
zone industriali, con le nike in terza media e i capelli
cementati nel gel azzurro da 10 euro al kilo. Il mio
cervello s’è fatto grasso in un corpo molliccio e poco
atletico, carico di paranoie adolescenziali. Ora ha
ventitré anni ed è bello, mi piace, pieno di grovigli,
sono incroci di città disegnati dal divorzio di un
urbanista ubriaco con due figli a carico, maschio e
femmina ammattiti che litigano sempre.
Il mio cervello non si è mai presentato e non
stringe la mano, è nato ch’era muto e quando ha
iniziato a parlarmi non aveva nome, significato,
identità. Mi è caduto in testa dal cielo, in uno schianto
di gioia.
Per tutto, ho dovuto pensarci.
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Gesso numero tre
La crepa
Mia madre ieri piangeva, ad ogni parola piangeva o le
veniva da piangere, strozzava le lacrime nelle guance
gonfie per il cortisone. Fra un letto d’ospedale e un
divano rosso da soggiorno, stava seduta a bordo della
sua sedia a rotelle. In vent’anni non le ho mai visto
parcheggiare una macchina, su due ruote se la cava
meglio. Frenate, curve, retro in cucina. Ieri piangeva,
stringendo forte i pugni nell’umido degli occhi verdi.
Sono contento, è insopportabile vedere un malato
di cancro con più gioia di vivere di te.
Mentre mi baciava le mani, mentre se la prendeva
con la sua ragione rincoglionita dai farmaci, anche
mentre mi guardava soffocando negli occhi gonfi le
lacrime verdi, stavo guardando la donna più forte del
mondo e mi è sembrata umana, non un miracolo.
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Gesso numero quattro
I comandi
Tra il pensiero e l’azione ci si mette il caso.
Mi sveglio, mi sono detto a Modena ci vado in bici.
Ho seguito l’Adda scorrere fino a Cassano, poi
Treviglio, a Caravaggio mi tuffo nell’oro del granturco e mi
perdo.
Spadino a ruota un trattore, alla guida un vecchio, con
le rughe vive m’ha detto: “Se fai questa stradina arrivi fino a
Crema”.
Alla stazione di Crema conosco un negro, mi dice
bellabici, gli rispondo bellapelle. Ci stringiamo la mano,
racconta del Senegal e di Rimini “Sto andando al mare senza
biglietto”, m’innamoro come un fulmine della libertà dei
poveri. Crema è bella, una perla, Cremona una perla più
grande.
Refrigerio ad una fontanella, due parole con uno
spazzino, gli chiedo come mai ci siano così tanti artigiani
liutai, lui colma la mia ignoranza su Antonio Stradivari in
una lezione da chi spazza a terra l’inciviltà. Compro un
violino di legno calamitato con su scritto Cremona in
smalto nero, costa cinque, ma dietro al banchetto c’è una
signora, le racconto del grano e del trattore, lei ride e ne
pago solo 3. Se la felicità sta nelle piccole cose, a furia di
voler fare le cose in grande finisci col diventare una persona
triste.
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Alla stazione di Cremona c’è folla intorno a un pullman
bianco gigante, lampeggia sostituivo Fidenza. Colgo l’affare
e mi lamento anche io come un italiano sotto al sole. Carico
la bici, non pago niente e arrivo a destinazione.
Scendo dal pullman, l’autista interrogato mi risponde
Parma? Parma sempre diritto su quella strada lì in fondo a
sinistra della pizzeria che vedi lì in fondo, lì in fondo a
sinistra. Penso in fondo è un autista e l’italiano non gli
serve. Per 20 km respiro camion poi mi ritrovo all’imbocco
della tangenziale, maledetto autista. Prima uscita San
Pancrazio, svolto, fantastico su come sarebbe il paese dei
punk e arrivo a Parma. Anche Parma è bella, non mi ha
convinto la casa della musica, nessuna melodia nell’aria,
solo marocchini annoiati sdraiati sul prato e sul cemento.
Attraverso un ponte, entro in un parco, sfido a morra
cinese un bimbo per bere alla fontana, vinco io ma lo faccio
bere per primo.
Poi Reggio Emilia, Modena, una casa, un souvenir in
dono da Cremona e come un animale una grande scopata.
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Gesso numero cinque
Il segreto
D’estate andavo al mare, ad Agosto, era Luglio. Festeggiavo il
compleanno con mio nonno, non con i miei amici. Quando mio
nonno morì non provai dolore. Mio fratello disse, bisogna essere
forti.
Io non capivo per cosa, io non capivo la morte, io non ne
avevo coscienza. Lessi un fumetto, il protagonista era Archimede
Pitagorico, uno fra i personaggi minori di Topolino. Ho impressa
la vignetta in cui lui aveva il becco mezzo aperto e il dito puntato
al cielo, come gridasse eureka. Lo sfondo era nero. Mio nonno era
morto e io ero in una vignetta di un fumetto, non esistevo al
mondo. Ho dei problemi a gestire gli stati emotivi, il mio cervello
non funziona così razionalmente. Si lascia scuotere da lampi di
luce e catene di lontananza. A tratti smetto di esistere. Il mio
cervello ha delle stranezze, dei nodi tutti suoi, dei diamanti
incastonati come fuoco nel catrame di un vulcano in subbuglio. Il
mio cervello sono io e vorrei non esistesse per un po’, cieco e muto
a comando, privo di sensi.
Una mia cara amica si chiamava Chiara ed era bionda, suonava
la chitarra. Chiara mi riconosceva senza che parlassi, senza che
facessi niente, era cieca e diceva “Fabio!”. Quello ero io, l’unico
Fabio sincero che abbia mai conosciuto. Dovremmo spegnere
l’abat jour e vivere alimentati nell’immobilità del buio, in sarcofagi
di cotone a fare l’amore come una macchia rosa in divenire.
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Gesso numero sei
L’amore
Della mia ex ragazza mi è rimasta una tariffa telefonica.
L’amore esiste nel cervello non nel cuore, milita come un
soldato di ragionamenti in trincea, fra cappotti rosa, colpi di sole,
apparecchi ai denti, eiaculazioni precoci, orgasmi titanici, viaggi in
pullman, sedici ore e sei in Calabria, due ore sei a Bardolino, con
l’aereo vado in Spagna. Mi piacciono gli elenchi, l’amore nel
cervello è un elenco, non una storia, è un listato di emozioni,
punto dopo punto, anche sconnesse, invertite e non importa “c’era
prima questo e poi quello”, nel cervello l’amore è confuso e
viceversa.
Il colpo di fulmine esiste, c’è chi ci è morto. Se persone sono
state tanto sfortunate da calpestare un fulmine, allora io credo
all’amore come un colpo. Succede, a me capita col cibo, con le
donne mai. Sono miope, porto gli occhiali e se parlo a una donna
sono troppo concentrato a pensare che non mi stiano male per
innamorarmi.
Quando mangio li tolgo e infatti: Pasqua 2013, Agnello al
forno con le patate, fall in love in poco meno di un secondo.
Capisci di essere innamorato quando la gioia si moltiplica e il
dolore si divide, solo per due e nessun altro numero, le tariffe non
centrano niente.
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Gesso numero sette
La patria
Dimagrito, sventrato, salato, portato ai pazzi, fatto a pezzi, i ricchi
mangiano, i poveri non esistono, vengono buttati sotto al letto,
come la polvere pulita dai pigri.
Il mio cervello è come il mio paese, ritagliato in stracci di
carta sporchi, urlato con le braccia che gesticolano, ci sono i cani, i
ladri, i porci, è una fattoria di bestie lorde. Tutti abbiamo il
pensiero che galleggia a fatica sull’aria viziata di quest’Italia
ruffiana e scostumata, vestita male, tronfia dei propri successi e
vittima della gola d’una classe politica avida, che affama mentre
guida macchine costose, stringendo mani a destra, stringendo mani
a sinistra, stringendosi a cerchio in stanze gonfie d’arazzi a ballare
la tarantella dei propri successi. Si salvi chi può e i politici si
salvano sempre sbocciando bottiglie sul cadavere di Roma. Cesare
non deve morire, vanno tutti d’accordo, il buono non esiste e il
cattivo è un prestanome dietro cui nascondersi. In questa patria
secca il mio cervello con voce rammaricata mi dice: “Eracle, c’è da
piangere quant’è bella Venezia, Roma e Firenze”.
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